ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In occasione dell’intitolazione dell’aula multimediale di Villa Castel Pulci alla memoria del prof. Valerio Onida, primo Presidente della Scuola Superiore della Magistratura, riteniamo utile offrire alla lettura l’intervento di Ernesto Aghina alla cerimonia del 5 settembre 2025, apertasi con la lettura da parte della Presidente Silvana Sciarra di un messaggio del Presidente della Repubblica Mattarella.
Non posso nascondere la mia emozione per questa cerimonia, che sono certo accomuna tutti i colleghi qui presenti, componenti del primo direttivo della SSM.
Ho visto occhi luccicare oggi qui, e sono sicuri sintomi del forte ricordo per Valerio Onida di chi ha condiviso con lui i primi quattro anni di avvio della Scuola superiore della magistratura.
Abbiamo condiviso con Valerio Onida un’esperienza che ci ha arricchiti e che ci ha legati profondamente al nostro presidente.
Un legame affettivo che è l’origine della nostra richiesta di intitolare a Valerio Onida quest’aula; siamo lieti che la nostra iniziativa sia stata prontamente accolta dalla presidente Sciarra e dal direttivo (che ringraziamo); l’abbiamo fatta anche a nome di Giovanna Ichino, forse la più legata di tutti noi ad Onida, che purtroppo ci ha lasciati di recente.
Qui, in quest’aula che da oggi porterà il suo nome, Valerio Onida ha generosamente messo al servizio dei giovani neo magistrati la sua sapienza giuridica, spiegando con grande umiltà e chiarezza (rifuggendo da tecnicismi superflui) il significato dei principi fondativi della Costituzione.
Quella Costituzione di cui era profondamente innamorato e che per lui non è mai stato “il pezzo di carta che caduto non si muove”, facendo riferimento alla nota citazione di Calamandrei.
Il combustibile di Valerio Onida era l’autentica passione di insegnare ai m.o.t. le tecniche di redazione delle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale.
Quando il C.S.M. scelse la squadra destinata a dirigere il complesso esordio della SSM, l’indicazione del prof. Onida (inevitabile presidente in pectore) ci mise in soggezione.
Il nome del prof. Onida era quello di un gigante del diritto, già presidente della Corte Costituzionale, dell’ Associazione Italiana dei Costituzionalisti, e autore di opere notissime, tra cui la voce “Costituzione” del Digesto (e scusate se è poco..).
Non lo conoscevamo personalmente ma da subito, dopo le prime riunioni del comitato direttivo, si determinò un’empatia trascinante, per cui il prof. Onida divenne subito per noi tutti: Valerio.
Un compagno sorridente di un’avventura, quella del decollo dell’inedita struttura di formazione della magistratura, che ci coinvolse determinando una coralità di azione ed un legame che si è perpetuato anche dopo la fine del mandato.
Ho parlato dell’esordio della Scuola come di un’avventura, e non credo di avere usato un termine enfatico.
Siamo partiti da zero, nel 2012 la SSM era solo una sigla, una scatola vuota (come letteralmente priva di tutto era la maestosa sede di Castel Pulci), e potete credermi se dico che abbiamo affrontato e superato non poche difficoltà.
Di ordine logistico, organizzativo, gestionale, specie sulle modalità di “inventare” un così lungo percorso di formazione iniziale per i m.o.t., non certo agevolati dalla collaborazione di un C.S.M. che si sentiva in qualche modo depauperato di una competenza formativa che gli era sempre stata attribuita fino a quel momento.
Forse è stata proprio la volontà di superare tutti questi ostacoli che ha determinato una non scontata coesione del direttivo, unito con il suo Presidente, che ci ha aiutato con il suo coinvolgimento in una causa che ha sentito subito “sua”, ed al cui servizio ha messo anche la una determinazione “testarda”, derivata dalle sue origine sarde, come più volte ci ricordava divertito.
Ci ha contagiato tutti, componenti del direttivo, segretari generali e personale amministrativo.
Lo ha fatto con l’entusiasmo, il rigore, la sobrietà e l’esempio (impose a tutti di seguire la sua decisione di viaggiare in treno, senza alcuna eccezione, in seconda classe..).
Per quattro anni abbiamo condiviso con Valerio Onida un percorso in qualche modo pioneristico, denso di accadimenti e di ricordi.
Non posso non ricordare la sua cura per la formazione inziale dei m.o.t., cui ha sempre dedicato una particolare attenzione, rispondendo alle loro domande in lunghi confronti anche nei percorsi su tram e pullman da e verso Scandicci.
Debbo altresì menzionare, nonostante non fosse di estrazione penalistica, la sua peculiare dedizione al tema della pena, del carcere, prevedendo per la prima volta in assoluto, nel periodo di tirocinio dei m.o.t., una loro permanenza all’interno delle case circondariali.
Una scelta innovativa e per certi aspetti dirompente, che determinò qualche incomprensione, ripetutasi quando - da precursore- volle affrontare alla Scuola il tema della giustizia riparativa.
Ho iniziato evocando l’emozione, vorrei concludere partecipandovi dell’autentica commozione che mi determina il collegare quest’aula, tradizionalmente destinata alla formazione dei m.o.t., alla persona di Valerio Onida.
Per farlo mi basta ricordare un episodio, indimenticabile, che data ad uno dei primi giorni, trepidamente attesi, dell’inizio dell’attività didattica della S.S.M. per i neo magistrati.
Nell’albergo di Firenze, dove alloggiavamo come comitato direttivo, venni svegliato quasi all’alba da una telefonata di Onida che, con percepibile imbarazzo, mi chiedeva di raggiungerlo nella sua stanza perché vittima di un banale incidente: era scivolato dopo essersi fatto la doccia.
Lo raggiunsi e lo trovai sanguinante, con una vistosa ferita al capo, per cui lo accompagnai al vicino ospedale, sentendolo per tutto il tragitto rammaricato per quanto accaduto e per il disguido determinato al programma dei lavori della mattina, che lo avrebbe visto come relatore.
Sostanzialmente, invece di preoccuparsi delle sue condizioni di salute (per cui nutrivo qualche apprensione) il suo pensiero continuava ad andare ai m.o.t. che lo aspettavano.
L’intervento dei sanitari non fu rapido, fu necessaria una sutura del taglio, per cui arrivammo a Castel Pulci con qualche ora di ritardo.
Ho ancora negli occhi, e conservo gelosamente (come tutti i componenti del direttivo), il ricordo del momento dell’arrivo di Onida con il capo fasciato da un turbante di bende, proprio qui, in questa aula che da oggi porterà il suo nome, in cui i m.o.t., resi edotti dell’accaduto, si alzarono tutti in piedi tributandogli un lunghissimo applauso.
Da allora, scherzando (ma forse non troppo…) gli abbiamo sempre detto che “aveva dato il sangue per la Scuola della magistratura”.
Ognuno di noi ha la ventura di incontrare molte persone nel corso della vita, ma solo alcune, poche, lasciano una traccia profonda e indimenticabile.
Per tutti noi che abbiamo operato qui sotto la sua guida, certamente uno di quei pochi è stato Valerio Onida.
La magistratura italiana, e la Scuola in particolare, hanno un debito di riconoscenza verso Valerio Onida, intitolargli quest’aula, che collega in perpetuo il suo nome alla formazione dei giovani magistrati, è un piccolo, ma significativo, saldo di quanto gli è dovuto…..
Intervento di Alberto Ambrogi (Usigrai) al V Congresso nazionale di Area DG, 10-12 ottobre 2025, Genova
Parto da due parole che ci accomunano e ci sono care. Indipendenza e autonomia. Le chiediamo anche noi come sindacato delle giornaliste e dei giornalisti della Rai per la nostra azienda. Le chiediamo da anni, con l’alternarsi di governi di ogni colore. Chiediamo che la politica stia fuori dalla Rai e non decida nomine e promozioni come avviene oggi. Ora siamo meno soli perché l’8 agosto scorso è entrato in vigore l’European Media Freedom Act che impone ai servizi pubblici degli stati membri, indipendenza dai Governi di turno e certezza di risorse. Lo abbiamo ricordato in un comunicato sindacale letto in tutti i tg Rai quel giorno, l’8 agosto. Sapete cosa hanno fatto i dirigenti della Rai nominati dal Governo? Si sono sentiti in dovere di rispondere al posto di Palazzo Chigi. E nella replica che hanno ascoltato tutti i telespettatori hanno avuto il coraggio di dire che Usigrai lede l’immagine e la reputazione della Rai e la dignità professionale dei colleghi.
Nella mentalità di queste persone ricordare che è entrato in vigore un regolamento europeo che non è applicato in Italia significa ledere immagine e reputazione.
Del resto è chiaro. Chi critica vuole male al Paese. Bisogna colpire sistematicamente e neutralizzare ogni voce critica
Lo abbiamo visto anche per la cosiddetta Riforma Nordio. Sono state minacciate pubblicamente dal Ministro della Giustizia sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati che sono intervenuti nel dibattito pubblico
Guardate qui non è questione idee politiche, ma di onestà intellettuale. Anche l’ultimo cronista come me capisce benissimo che questa legge non risolve nemmeno uno dei problemi atavici della Giustizia. Chiunque abbia seguito almeno una inaugurazione dell’anno giudiziario sa bene che i passaggi di funzione da requirente a giudicante si contano sulle dita di una mano, chiunque segua la cronaca giudiziaria sa che ogni giorno, più volte al giorno, un Giudice ribalta le tesi di un Pm.
Qui c’è solo la volontà di questo Governo di colpire la Magistratura, indebolirla e ridurla al silenzio. Addirittura, cancellare il diritto di eleggere i propri rappresentanti.
Viene il dubbio che faccia tutto parte di un disegno più ampio. Penso al Decreto Sicurezza, penso diritto di critica e al diritto di cronaca oggi sempre più indeboliti. Un intero partito, il partito della Presidente del Consiglio, che querela un programma di inchiesta come Report. La seconda carica dello stato che sulla Rai in prima serata definisce i giornalisti di Report “calunniatori serali” e li querela (ennesima richiesta archiviata).
Le querele bavaglio restano una piaga per i giornalisti: fai un servizio, un articolo che non mi piace? Ti querelo e ti chiedo un risarcimento milionario. Il Parlamento Europeo nel febbraio 2024 ha approvato la direttiva anti SLAPP per la protezione della libertà di espressione e della partecipazione pubblica di giornalisti, attivisti e whistleblower ma ancora quella direttiva non è stata trasposta nel nostro ordinamento. E così chi vuole intimorire e imbavagliare i giornalisti è libero di farlo.
Ma anche altri Governi, penso al cosiddetto "Governo dei migliori" ci hanno regalato riforme meno nefaste per la Magistratura, ma che colpiscono il diritto dei cittadini ad essere informati, che discende dall’articolo 21 della Costituzione.
Su tutte la riforma Cartabia con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza che dal nostro punto di vista ha creato danni incalcolabili. Peraltro, un recepimento che è andato in una direzione opposta rispetto a quella pensata dal legislatore, perché quella direttiva europea richiama più volte la necessità di salvaguardare la libertà di stampa e dei media in nome dell’interesse pubblico.
Abbiamo decine di casi di notizie censurate (il più eclatante un femminicidio a Padova nell’agosto del 2023, questa settimana una violenza sessuale ai danni di una studentessa universitaria a Pavia), ogni giorno riceviamo dalle Forze di Polizia comunicati relativi a fatti avvenuti giorni o addirittura mesi prima. A volte perché i comunicati erano in attesa di approvazione da parte del Procuratore capo. Le persone vengono arrestate, per fatti rilevanti e di interesse pubblico, e a volte non si viene a sapere. Ma questa è tutela della presunzione di innocenza o censura di Stato?
Riceviamo comunicati stampa surreali dove nemmeno vengono citati, non dico i nomi delle persone indagate, non dico quelli delle persone destinatarie di misure cautelari, ma nemmeno le località dove avvengono i reati o dove vengono eseguite le ordinanze.
“La riforma Cartabia ha introdotto il concetto di velina di regime”. Non lo dico io. Lo ha detto in un convegno organizzato da Usigrai sul tema, nel febbraio del 2022, l’allora Procuratore facente funzione di Milano Riccardo Targetti. Di certo non un pericoloso sovversivo.
Che sia un Procuratore capo a dover decidere cosa dia notizia o meno non è consono a un paese civile. E trovo pericoloso che questo potere sia concentrato nelle mani di una sola figura istituzionale.
Poi il combinato disposto con l’emendamento Costa e il divieto di pubblicare estratti delle ordinanze di custodia cautelare è veramente la ricetta perfetta per annichilire la libertà di informazione.
L’impressione è che si vogliano colpire tutti i poteri di controllo. Accade con il sistema giudiziario con l’obiettivo di portare i pubblici ministeri sotto il controllo del Governo. Accade con l’informazione, con il servizio pubblico radiotelevisivo di cui il Governo vuole continuare a controllare nomine e quindi notizie.
Ma non lo permetteremo. Quest’anno anche l’Usigrai, sindacato di base della Federazione nazionale della stampa, ha celebrato il proprio congresso. Abbiamo scelto tre parole: solidarietà, libertà, diritti. Con un sottotitolo “di sana e robusta Costituzione”, ovviamente con la C maiuscola. Dobbiamo continuare ogni giorno a lottare per difendere la nostra Costituzione antifascista, antirazzista, solidale e pacifista.
Grazie.
Relazione introduttiva al V Congresso nazionale di Area DG, 10 ottobre 2025, Genova
Benvenuti a tutti.
Grazie alla Sindaca Salis per il calore e l’energia con la quale ha portato i saluti di questa bella città.
Grazie agli amici di AreaDG genovese che hanno organizzato questo congresso e soprattutto i tantissimi eventi che hanno riempito la citta nei giorni scorsi. Dal carcere, dallo scandalo del sovraffollamento carcerario alla tutela dei minori nel processo, dal lavoro povero, dal lavoro pericoloso alla giustizia riparativa, dalla riforma Nordio al diritto, la guerra e la pace.
La pace, l’art. 11 Cost.: l’Italia ripudia la guerra. Da giurista, mi vergogno per come abbiamo consentito che la forza delle armi abbia annichilito il diritto degli esseri umani. Ed anche per questo, il titolo di questo congresso è “la forza ed il diritto”.
Quando ad inizio settembre abbiamo visto la folla che si accalcava per portare i viveri da imbarcare sulla flottiglia diretta a Gaza abbiamo capito di avere fatto bene a venire a Genova.
Genova medaglia d’oro della Resistenza in quest’anno che festeggiamo gli 80 anni della Liberazione dell’Italia dei nazi fascisti.
Genova porto di partenza dei nostri avi per emigrare in America, memoria che abbiamo perduto visto che ci ostiniamo a rendere tanto difficile salvare chi si mette in mare verso il nostro paese.
Genova i cui magistrati sono stati vittima di una campagna mediatica per avere indagato e processato “potenti” locali ed ai quali nessuno ha chiesto scusa.
Genova la cui Accademia, il cui Foro, la cui Magistratura tanto ha dato all’evoluzione del diritto italiano, agli studi sulle fonti del diritto, sulla interpretazione giurisprudenziale. Alpa, Rodotà, Roppo, Bessone, Tarello, Guastini fino all’amico Benedetti, ma l’elenco è lungo.
Non per nulla, qui, cinquanta anni fa, è nato il danno biologico. Ricordarlo è importante soprattutto oggi quando in molti tendono a mortificare gli spazi di interpretazione lasciati al giudice. Ricordare la fecondità dello scambio fra l’Università, l’avvocatura, i giudici è importante soprattutto oggi in cui in tanti vogliono separare invece di unire.
I
Questo congresso inizia con quello che ci eravamo detti due anni fa a Palermo.
Allora ci eravamo interrogati sul destino della giurisdizione nell’epoca del maggioritarismo.
Sul pericolo che le legittime maggioranze vedessero come un ostacolo le decisioni e le funzioni degli organi di garanzia e fra tutti quelle della Giurisdizione.
Ci eravamo impegnati a mantenere una luce accesa su tali pericoli. A difendere il diritto dei magistrati ad associarsi, ad intervenire nel dibattito pubblico sui temi dei diritti e della giustizia, ad esercitare – con la dovuta continenza - un pensiero critico.
Proprio mentre parlavo a Palermo si scatenava la polemica su un giudice catanese che aveva “disapplicato” il decreto Cutro. Non aveva preso una decisione sovversiva. Aveva semplicemente ritenuto la primazia del diritto dell’Unione Europea. Ancora non si sapeva il suo nome. Io dissi “c’è un giudice a Berlino”.
Quella giudice era Iolanda Apostolico.
La sua persona è stata sottoposta ad un’intensa campagna mediatica. La sua vita è stata setacciata, coinvolgendo anche i suoi affetti più cari.
Però la sua decisione non venne mai impugnata o meglio il ricorso non venne mai coltivato.
I suoi argomenti sono stati avallati da altre decisioni di giudici italiani ed infine dalla sentenza della Corte di Giustizia.
Quella giudice si è infine dimessa, senza che ad oggi ancora le abbiano chiesto scusa.
Quella stessa sorte l’hanno passata o la stanno passando tanti giudici, da Bologna a Roma, a Milano che si ostinano a prendere decisioni sgradite alle maggioranze di turno. Noi non li lasciamo soli!
A Palermo eravamo stati facili profeti. Quelli che allora sembravano fenomeni preoccupanti ma ancora marginali sono diventati la regola.
La politica rinuncia ad elaborare ed offrire un’idea di futuro migliore.
Così facendo inevitabilmente si sottrae al dovere di offrire soluzioni, limitandosi ad ingigantire i problemi ed a diffondere la paura.
Nel frattempo, avvocati e magistrati, nei limiti del singolo caso a loro sottoposto, devono invece offrire soluzioni, non possono sottrarsi a rispondere alle singole domande di giustizia.
Ed è questo il conflitto fra politica e giurisdizione: la politica annaspa nel dare risposte di sistema alle sfide del presente, i magistrati sono costretti a prendere una decisione sulla base delle fonti del diritto interno ed internazionale.
Altro che straripamento del potere giudiziario!
Se la politica rinuncia a pensare un mondo migliore e si limita ad incarnare il sentimento popolare contingente, se il consenso passa dalla immedesimazione sentimentale fra eletti ed elettori, le prime vittime sono gli organi di controllo e garanzia che fisiologicamente devono tutelare il nocciolo duro ed insopprimibile della democrazia, qualunque sia il volere delle maggioranze contingente.
Ed allora è gioco facile accusare i giudici, che devono tutelare i diritti e le garanzie di tutti, anche dei pochi e dei pochissimi, di essere contro il popolo, contro gli interessi nazionali, contro le decisioni delle maggioranze.
Emblematico quel che accade negli Stati Uniti.
La decisione dell’amministrazione Trump sui dazi è stata dichiarata illegale dalla Corte per il Commercio Internazionale il 28 maggio, decisione confermata il 30 agosto dalla Corte d’Appello federale. Vedremo cosa dirà a breve la Corte Suprema.
L’invio della Guardia Nazionale a Los Angeles per fronteggiare le proteste contro la politica governativa sull’immigrazione è stata sospesa, dapprima dal giudice distrettuale, poi dalla Corte di appello di San Francisco.
Il licenziamento di Lisa Cook, componente del Consiglio dei governatori della Fed che si opponeva al taglio dei tassi di interesse richiesto da Trump, è stato sospeso dalla Corte federale di Washington.
Tutte le volte, i giudici che hanno deciso sono stati accusati di boicottare l’azione governativa e di non fare l’interesse degli americani. Quando è stato possibile, i giudici che hanno preso decisioni sgradite sono stati rimossi o sospesi.
Ma l’apparente contrasto fra sovranità elettorale e giurisdizione passa soprattutto dalla debolezza della politica. Una politica che fonda il suo consenso sui valori e sui progetti non traballa a fronte di una decisione giudiziaria che è - per forza di cose - contingente e relativa.
Ed invece anche qui la cronaca ci racconta una realtà diversa.
Yoon Suk-Yeol, Presidente della Corea del Sud, fra l’altro ex magistrato e procuratore generale, è stato all’inizio del 2025 arrestato e, poi, con decisione della Corte Costituzionale dell’aprile di quest’anno rimosso.
Le elezioni del Presidente della Repubblica di Romania sono state annullate dalla Corte Costituzionale.
Marine Le Pen, leader della destra francese e grande favorite per la prossima competizione elettorale, è stata condannata il 31 marzo dalla giudice Benedicte de Perthuis, magistrata del tribunale di Parigi, alla pena di 4 anni di carcere e soprattutto a cinque anni di ineleggibilità con effetto immediato, ritenendola colpevole di una frode da 2,9 milioni di euro al Parlamento europeo.
Per inciso, pochi giorni fa è stato condannato anche l’ex Presidente Sarkozy. Non si è contestato il merito della decisione ma il fatto che la giudice era un’attivista del sindacato dei magistrati che aveva protestato contro una riforma proposta da Sarkozy. La stessa tecnica di delegittimazione che, nelle stesse ore, era adottata, in Italia, contro una decisione della Corte dei Conti sul ponte di Messina.
Insomma, ogni volta, i giudici sono accusati di essere “politicizzati”.
Noi magistrati italiani ci siamo sentiti rivolgerci tante volte questa accusa. L’ultima addirittura innanzi alla Assemblea delle Nazioni Unite.
C’è la terza guerra mondiale a pezzetti, chi sa se anche quella è colpa dei giudici…
L’accusa nemmeno ci scandalizza più.
Continuano però a scandalizzare le parole di un sotto segretario che ci definisce come cancro da estirpare o quelle di un ministro che ci paragona ai killer che ammazzano. Qualche parola di scusa servirebbe. Le aspettiamo con pazienza.
Sia chiaro, noi non cerchiamo la supplenza giudiziaria, noi non vogliamo essere la guida politica e tanto meno etica del paese.
Ci preoccupa, invece, la debolezza della politica, che cerca nemici fra le altre istituzioni, che cerca alibi, che decide di non decidere ed inevitabilmente lascia ogni singolo magistrato nelle condizioni di dovere decidere in assenza di leggi, di dovere affrontare contenziosi che nascono dal fallimento del welfare, di dovere applicare norme senza le risorse necessarie. Ma questo è il tema della tavola rotonda che comincerà fra qualche minuto…
II
Nel frattempo, la politica e la giurisdizione cedono il passo innanzi alla tecnologia, alla concentrazione dei big data e delle competenze tecnologiche nelle oligarchie di pochi, che sfuggono alla regolamentazione degli Stati, che addirittura ambiscono a sostituirsi a chi viene eletto, che sono indifferenti alle decisioni delle Corti.
L’ intelligenza artificiale è fra noi, da tempo.
È un’innovazione che sta cambiando le professioni intellettuali e tocca da vicino i temi della giurisdizione. Per quanto la si voglia studiare, regolamentare, limitare, è già fra noi. È nelle scuole e nell’università, negli studi professionali, nelle aule di giustizia.
Certamente, la decisione sarà sempre riservata al giudice e spetta a lui valutare le risposte offerte dalla I.A.
Ma la possibilità di calcolare e predire il possibile esito di un giudizio influenzerà chi vuole intraprenderlo.
La I.A. influenzerà la giurisdizione e la tutela dei diritti non perché condizionerà le decisioni (od almeno speriamo che non accada) ma perché eviterà addirittura che certe questioni arrivino davanti ad un giudice.
Una I.A. predittiva funziona sulla elaborazione di migliaia di precedenti decisioni in casi simili ma se non c’è qualcuno che rischia di andare “contro” il precedente, di fare causa “nonostante” il precedente, la giurisprudenza ed il diritto non si evolvono.
Se la I.A. inibisce dal rischiare un giudizio per cercare di affermare un principio nuovo, corriamo tutti il rischio di fermarci allo status quo.
Con un sistema del genere, non ci sarebbe stato il danno biologico, che, lo ripeto, è nato qui, a metà anni 70, e saremmo ancora alla giurisprudenza Gennarino per la quale il figlio di un ciabattino subisce un danno minore.
Con un sistema del genere, non ci sarebbe stato il Pretore di Cingoli che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’art. 5 cp ed ha ricostruito il sistema penalistico italiano sulla base del principio di colpevolezza.
Se l’ I.A. è addestrata con dati parziali, restituisce un precedente giurisprudenziale conveniente per chi l’ha addestrata e nasconde i precedenti giurisprudenziali scomodi.
Quindi la questione è ben più seria e ben più ampia del vigilare e sanzionare.
Riguarda l’oligopolio in mano a soggetti privati, riguarda la gestione dei big data, riguarda la popolazione dei motori di ricerca e l’addestramento leale delle macchine per l’I.A.
Un Ministero che non ha idee e progetti per l’ammodernamento della giustizia, che offre ai suoi operatori strumenti che nascono vecchi, che esternalizza funzioni strategiche come quelle dell’informatica e della tecnologia è consapevole delle opportunità e dei rischi dell’I.A. o si limita ad introdurre qualche reato nuovo?
III
Il ruolo del magistrato, le colpe dei magistrati.
Se vogliamo essere magistrati al passo con i tempi, se vogliamo tenere accesa la luce affinché il diritto freni la forza e la giurisdizione presidi i diritti, non dobbiamo rintanarci nella comodità delle nostre funzioni.
Mi ha colpito quello che ha detto la ex Prima Presidente circa la deriva impiegatizia della magistratura.
I magistrati sono lavoratori, sono usurati da carichi insostenibili, mortificati dalla cronica mancanza di risorse, denigrati come categoria.
È comprensibile che lottino anche per tutelare le loro condizioni di lavoro e di vita. Del resto, solo un magistrato sereno può rendere un buon servizio.
Quando però si parla di impiegatizzazione della magistratura, io vedo un rischio diverso e maggiore.
Quello di adagiarsi sulla comodità del precedente, di non cercare la soluzione migliore per il caso concreto, di conformarsi a quel che dicono gli altri, di non rivendicare che i magistrati si differenziano solo per funzioni ma - per il resto - sono tutti uguali, hanno pari dignità professionale e costituzionale, dal Primo Presidente al più giovane dei mot presente oggi in platea.
Una magistratura così chiusa in se stessa non è degna erede della magistratura che ha contribuito alla crescita culturale e giuridica del paese, degna erede del Tribunale di Genova che ha depatrimonializzato il danno alla persona, del Pretore che ha dubitato che l’ignoranza della legge non scusa.
Una magistratura che non ha consapevolezza culturale di sé, del suo ruolo nel sistema multilivello di tutela dei diritti, è una magistratura più povera e che rende più povera la società italiana.
Le quotidiane delegittimazioni, le campagne stampa, gli insulti mirano proprio a questo. Ad indurre tutti noi a chiuderci in difesa. Ad indurre tutti noi a cercare di limitare il danno. A ridurci a ceto impiegatizio, ben remunerato, ben tutelato ma che evita decisioni che possano intralciare i piani dei governanti di turno.
Le prime vittime, ovviamente, sarebbero i cittadini. Soprattutto quelli che non hanno tutela e difesa se non da una giustizia imparziale, efficiente e libera.
Le altre sono gli avvocati, che già vivono un momento di crisi professionale profondissima e che sono tutti consapevoli che la delegittimazione della giurisdizione colpisce i magistrati e gli avvocati, allo stesso modo. Lo svilimento del magistrato svilisce anche l’avvocato. Perché dietro ogni decisione che un magistrato prende, c’è un avvocato che chiede giustizia. E spiace che lo sappiano e lo dicano gli avvocati che incontriamo nei corridoi, ma che siano molto più timide le loro rappresentanze istituzionali. Forse colpa della nostra autoreferenzialità, ma amici avvocati il percorso è lungo e stiamo tutti dalla stessa parte della barricata!
Anche il CSM deve vigilare sul rischio di burocratizzazione della funzione giudiziaria.
Non lo deve avallare con valutazioni solo quantitative del lavoro negli uffici, non lo deve promuovere auto rappresentandosi come datore di lavoro dei magistrati.
Il CSM deve essere uno degli attori della scena della giustizia, con prestigio ed importanza pari e forse superiore al Ministro della Giustizia.
Non per nulla, era buona e feconda prassi – temo disattesa di recente - che ogni nuovo Ministro, fra i primi adempimenti, andasse in Consiglio a presentare il suo programma.
Ha fatto bene, al di là del merito delle proposte, il Consiglio, quando questa estate ha evidenziato il rischio del mancato parziale raggiungimento degli obiettivi PNRR ed ha offerto al decisore politico alcune soluzioni facilmente praticabili, evidenziando i settori, dalla materia della cittadinanza a quella della protezione internazionale al tributario, che affossano le corti italiane per improvvide scelte amministrative e normative.
È stata deludente, invece, la risposta governativa, che – nel paniere delle tante soluzioni offerte – ne ha scelte solo alcune.
Ha rinunciato ad intervenire sui motivi del sorgere del contenzioso civile, così come rinuncia ad intervenire sul contenzioso penale ed anzi è uno dei promotori del panpenalismo che solo nei convegni e negli articoli sui giornali dice di avversare.
Ha rinunciato ad un esame di alto profilo, come invece gli aveva suggerito il Consiglio ed ha promosso invece solo misure di piccolo cabotaggio, misure contingenti, che guardano all’oggi ma non al domani.
Misure che - con il cottimo - avallano la concezione impiegatizia della magistratura, che - con l’uso dei mot - rischiano di sacrificare la formazione dei giovani colleghi che è il fondamento primo della loro legittimazione professionale.
Sono certo che, verificato il funzionamento di tali interventi, il CSM saprà riguadagnare il suo ruolo politico ed istituzionale insistendo nelle misure di riforma infrastrutturale e legislativa che, a prescindere dagli obiettivi PNRR, potranno garantire una giustizia giusta e celere, come meritano i cittadini italiani.
IV
La debolezza della politica, le frizioni fra giurisdizione e populismo, l’impatto della tecnologia e dell’I.A., la deriva impiegatizia della funzione giudiziaria sono tanti i temi che ci interrogano e che ci hanno interrogato.
Non so se anche il Ministro Nordio si interroghi su questi temi.
Quello che so è che ha impegnato la legislatura sulla riforma che porta il suo nome.
Una riforma che non risolve nessuno dei problemi della giustizia.
Non rende i processi più veloci, non li rende più giusti.
Una riforma che non guarda alla Magistratura come servizio ma solo come potere e cerca di mortificarla nel rapporto con gli altri poteri dello Stato.
Una riforma che ci riporta - nel dibattito - indietro di decenni. Che finge che nel frattempo non ci sono state leggi che rendono di fatto impossibile il transito dai ranghi dei PM a quello dei giudici e l’inverso.
Una riforma che sottrae il diritto di voto ai magistrati, creando un precedente assai pericoloso.
Una riforma che sposta il giusto processo dalla sede processuale, dove si devono rafforzare le garanzie sostanziali, prima fra tutte quella della celerità, a quella ordinamentale.
Una riforma che sposta la terzietà ed imparzialità del giudice dal momento del giudicare al momento della carriera.
Una riforma che spacca il paese, che spacca gli operatori del diritto, che spinge tutti a schierarsi per il sì o il no, in un tempo in cui le sfide della modernità e dei diritti vanno combattute tutti insieme.
Una riforma che con uno slogan poco fortunato viene giustificata con l’esigenza che il giudice, nella pausa del processo, non vada al bar insieme al PM.
Al di là che nelle pause di udienza, al bar vanno tutti insieme giudici, PM ed avvocati.
Io vi chiedo: in un tempo in cui i diritti sono negati, in cui la forza schiaccia la ragione, ha senso dividere? Questo è invece il tempo di unire tutti sotto la stessa bandiera, quella del diritto.
Sommario: 1. Il testo di legge e i profili critici - 2. Il quadro costituzionale di riferimento - 3. Il consenso dei genitori come dispositivo di controllo - 4. Gli standard internazionali e la responsabilità dello Stato - 5. Violenza di genere e il falso “paradosso nordico”.
1. Il testo di legge e i profili critici
Il disegno di legge C. 2423, in discussione presso la VII Commissione Cultura della Camera, introduce l’obbligo del consenso informato dei genitori per ogni attività scolastica che riguardi educazione all’affettività, sessualità, identità e relazioni.
Il cuore della proposta è semplice: percorsi educativi essenziali non potrebbero svolgersi senza l’autorizzazione preventiva delle famiglie.
Questo approccio trova eco nelle PDL Sasso (C. 2271), che restringe la possibilità delle carriere alias e vieta attività e progetti su identità e orientamenti sessuali, e Amorese (C. 2278), che impone divieti discriminatori sull’uso degli spazi scolastici secondo il genere di elezione e obbliga a inserire nel PTOF una sezione dedicata alle cosiddette “attività sensibili riguardanti la sfera personale”.
La questione sollevata dalle proposte di legge C. 2423, C. 2271 e C. 2278 tocca uno dei nodi più delicati del nostro ordinamento: il rapporto tra autonomia scolastica, libertà di insegnamento e diritti genitoriali. Dietro la retorica della “tutela del diritto dei genitori a educare i figli” si cela un impianto che, in realtà, mette in discussione il carattere pubblico, democratico e pluralista della scuola italiana, trasferendo poteri decisionali dalla sfera dell’autonomia professionale dei docenti a quella della discrezionalità familiare.
La tesi secondo la quale l’autonomia scolastica è intesa come minaccia e il consenso informato come baluardo contro l’“indottrinamento”[1], propone un’impostazione che rovescia il quadro costituzionale e internazionale.
Per misurare la portata di questa inversione occorre tornare al quadro costituzionale che governa scuola, libertà di insegnamento e responsabilità genitoriale
2. Il quadro costituzionale di riferimento
Il sistema costituzionale italiano si fonda su un equilibrio sottile tra tre principi fondamentali: la libertà di insegnamento, il diritto universale all’istruzione e la responsabilità educativa dei genitori. L’articolo 33 della Costituzione stabilisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, riconoscendo la libertà di insegnamento come diritto fondamentale dei docenti e, al tempo stesso, come garanzia della pluralità del sapere e della libertà di pensiero nella formazione delle nuove generazioni. L’articolo 34, a sua volta, afferma che “la scuola è aperta a tutti” e che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, configurando l’istruzione come diritto universale e strumento di eguaglianza sostanziale. Infine, l’articolo 30 riconosce che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, sancendo una responsabilità familiare che tuttavia non può tradursi in un potere esclusivo o assoluto.
Proprio su questo terreno si colloca la frattura con l’interpretazione che il disegno di legge e la sua recente lettura tentano di introdurre[2].
L’idea che il consenso informato costituisca un meccanismo di bilanciamento tra diritti costituzionali — il diritto dei genitori all’educazione e la libertà di insegnamento — è giuridicamente fallace, poiché altera la struttura sistemica dei rapporti costituzionali: la libertà di insegnamento non è una posizione soggettiva in conflitto con la potestà genitoriale, ma una funzione pubblica che assicura la realizzazione del diritto all’istruzione in quanto diritto fondamentale di cittadinanza. È dunque strumentale e complementare al diritto all’istruzione, non alternativa o opponibile ad esso.
La giurisprudenza costituzionale ha chiarito che questi principi non operano in isolamento, ma richiedono un bilanciamento che garantisca il rispetto dell’autonomia di ciascuna sfera.
Con la sentenza n. 36 del 1958, la Corte costituzionale ha riconosciuto che la libertà di insegnamento, pur costituendo un diritto soggettivo costituzionalmente garantito, può essere sottoposta a regolamentazioni legislative, purché queste non ne snaturino il contenuto essenziale e trovino giustificazione in interessi generali compatibili con la Costituzione.
Ciò significa che la libertà di insegnamento può essere limitata solo per ragioni oggettive di interesse pubblico — mai per ragioni ideologiche o morali derivanti da convinzioni private.
La logica del consenso preventivo proposta dal DDL, invece, sovverte tale impostazione, poiché introduce un limite non legato a interessi generali, ma a preferenze soggettive e differenziate di ciascuna famiglia. In tal modo, la scuola verrebbe privata del suo ruolo di garante di un sapere universale e pubblico, trasformandosi in un mosaico di micro-etiche domestiche.
Nel quadro normativo di attuazione, l’articolo 1 del Testo Unico sull’istruzione garantisce ai docenti la libertà di insegnamento “intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”, precisando che tale libertà è diretta “a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. Anche qui si manifesta un errore concettuale: confondere la libertà di insegnamento con l’arbitrio del docente. L’autonomia didattica non significa discrezionalità senza limiti, ma capacità professionale di elaborare percorsi educativi coerenti con la finalità costituzionale della scuola, cioè la formazione libera e critica della persona.
Il consenso informato genitoriale, lungi dal garantire un equilibrio, introduce invece una gerarchia incompatibile con il dettato costituzionale: la conoscenza e l’apprendimento verrebbero subordinati all’autorizzazione familiare, in un rovesciamento della logica pubblica dell’istruzione.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che questa libertà non ha carattere autoreferenziale, ma è sempre funzionale alla tutela del diritto all’istruzione. Il Tribunale del Lavoro di Parma, con sentenza n. 687 del 2024, ha affermato che la libertà di insegnamento non può essere intesa come un diritto assoluto, ma deve essere esercitata in modo funzionale al diritto degli studenti a ricevere il miglior insegnamento possibile, idoneo a garantire la loro crescita intellettuale, morale e civile.
Tale pronuncia conferma che la scuola non è una somma di diritti soggettivi (dei docenti, dei genitori o degli studenti), ma un luogo in cui il diritto all’istruzione si realizza come diritto collettivo e relazionale, attraverso l’autonomia professionale e didattica di chi ne è responsabile.
In questa prospettiva, la tesi secondo cui il consenso informato rafforzerebbe la partecipazione delle famiglie si rivela infondata.
La partecipazione genitoriale, infatti, è già pienamente garantita dai decreti delegati del 1974, che istituirono gli organi collegiali come spazio democratico di confronto e co-responsabilità tra scuola e famiglie. Introdurre un potere di veto esterno significa non ampliare la partecipazione, ma sostituirla con un controllo ideologico. La scuola pubblica non è un’estensione della famiglia, ma un’istituzione della Repubblica, fondata sul principio di eguaglianza e sul pluralismo delle idee. In essa, la libertà di insegnamento costituisce lo strumento per garantire a ogni persona, indipendentemente dalle convinzioni familiari, la possibilità di formarsi come cittadino libero, critico e consapevole.
Il consenso informato, al contrario, non promuove la corresponsabilità, ma istituzionalizza la diffidenza. È la formalizzazione di una logica di sospetto che priva il corpo docente della propria autonomia professionale e impedisce alla scuola di adempiere alla sua funzione costituzionale di emancipazione.
Né può convincere l’argomento, avanzato in difesa del DDL, secondo cui il consenso servirebbe a proteggere i minori da contenuti “sensibili”. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 508 del 2000, ha ricordato che la scuola è il luogo deputato alla costruzione critica del pensiero, e che le sensibilità individuali non possono legittimare forme di censura preventiva.
La “protezione” che il disegno di legge invoca si traduce in realtà in una restrizione cognitiva, che colpisce in modo particolare le bambine, i bambini e le persone LGBTQI+, già spesso esclusi da narrazioni inclusive. Lungi dal tutelare la libertà educativa, il consenso informato diventa così un dispositivo di disuguaglianza epistemica, un filtro che decide chi può sapere e chi no.
In sintesi, il DDL in questione rovescia il paradigma costituzionale: laddove la Costituzione pone l’autonomia della scuola a presidio del diritto all’istruzione, il DDL propone di subordinare quella autonomia al controllo genitoriale; laddove la Costituzione concepisce l’educazione come processo collettivo e pubblico, il DDL la privatizza, riportandola entro la sfera domestica; laddove la giurisprudenza ha affermato che i limiti alla libertà di insegnamento devono essere determinati dalla legge per finalità oggettive e generali, il DDL li riconduce alle preferenze morali di ciascun gruppo familiare. È un rovesciamento che svuota la scuola della sua missione costituzionale e la espone anche al rischio di divenire terreno di esclusione e disuguaglianza, in violazione non solo del principio di libertà, ma anche di quello di eguaglianza sostanziale.
Su questo sfondo, il consenso informato non bilancia ma sovverte: da qui i profili di illegittimità che si colgono ancor meglio sul terreno della prassi e della giurisprudenza.
3. Il consenso dei genitori come dispositivo di controllo
L’argomento a favore dell’introduzione del consenso informato in ambito scolastico prende a prestito la sua legittimazione dalla bioetica medica, dove esso è nato come strumento di tutela dell’autonomia individuale e di protezione del corpo del paziente contro l’invasività del potere medico.
Ma la trasposizione di questo concetto nel campo dell’educazione è metodologicamente scorretta e giuridicamente inappropriata.
Nel contesto sanitario, il consenso informato è la soglia che delimita il diritto all’integrità personale: un atto volto a garantire la libertà della persona rispetto a interventi potenzialmente lesivi.
In ambito educativo, invece, non si tratta di difendere il corpo da un intervento, ma di aprire la mente all’apprendimento e al confronto. Il consenso, che in medicina segna il limite dell’azione, non può essere trasformato in una barriera che ostacola la trasmissione del sapere. La scuola, a differenza dell’ospedale, non è luogo di somministrazione, ma di dialogo; non opera su corpi passivi, ma su soggetti che imparano a esercitare la propria libertà di pensiero.
E, soprattutto, il soggetto di diritti nell’istituzione scolastica non è il genitore, ma lo studente.
È questa la differenza fondamentale che sfugge a chi propone il consenso come meccanismo di tutela: il diritto all’istruzione appartiene alle bambine, ai bambini e alle persone giovani, non ai loro genitori.
La libertà di insegnamento, sancita dall’articolo 33 della Costituzione, esiste proprio per proteggere la scuola dal rischio che i contenuti siano ostaggio di interessi particolari, ideologici o confessionali. Come osserva Martha Nussbaum (2010), il compito dell’educazione pubblica non è quello di rassicurare le sensibilità familiari, ma di formare la capacità critica e la cittadinanza democratica.
Sottrarre la scuola alla sua funzione emancipativa, subordinandola al consenso dei genitori, significa rinunciare a contrastare stereotipi e diseguaglianze e, in ultima analisi, ridurre l’educazione a un trattamento da autorizzare. In questa logica, la scuola non sarebbe più un luogo di libertà e di confronto, ma uno spazio di controllo, dove il sapere circola solo dopo essere stato filtrato, purificato e neutralizzato.
Le norme che subordinano i contenuti educativi al consenso familiare non sono neutre: riproducono logiche patriarcali e adultocentriche, rafforzando l’idea che i bambini e le bambine non siano soggetti di diritti ma oggetti di custodia. In questo senso, il consenso diventa un dispositivo di potere che sottrae voce e agency ai più giovani, impedendo loro di sviluppare la consapevolezza critica e affettiva necessaria a vivere in una società plurale.
Contro questa logica del controllo, Carol Gilligan, Joan Tronto ed Eva Feder Kittay hanno mostrato che la responsabilità educativa non può fondarsi sull’imposizione o sul timore, ma sulla relazione, sull’ascolto e sull’interdipendenza.
Una scuola imbavagliata dal consenso non educa alla cura, ma alla paura. Non costruisce fiducia, ma diffidenza. E sostituisce al principio della responsabilità condivisa quello della sorveglianza reciproca.
Allo stesso tempo, il veto genitoriale produce ciò che Miranda Fricker (2007) ha definito ingiustizia epistemica: la negazione del diritto di partecipare alla costruzione del sapere. Escludere dai percorsi educativi i temi dell’affettività, delle differenze e del consenso significa tacitare le esperienze e le identità di ragazze, ragazzi e persone LGBTQI+, rendendo invisibili i loro vissuti e i loro linguaggi. La scuola, che dovrebbe essere lo spazio in cui ogni soggettività può prendere parola, diventa così il luogo della sua esclusione.
Infine, la prospettiva dell’autonomia relazionale, elaborata da Catriona Mackenzie e Natalie Stoljar (2000), consente di ribaltare l’idea individualista di libertà sottesa al modello del consenso. L’autonomia, lungi dall’essere un attributo isolato del soggetto, è una capacità che si costruisce nelle relazioni e attraverso i contesti sociali. È proprio la scuola, e non la famiglia in quanto autorità, a rendere possibile questa crescita: attraverso la pluralità dei punti di vista, il confronto con la differenza e l’apprendimento dell’empatia.
In questa prospettiva, il consenso informato in ambito scolastico non promuove l’autonomia, ma la svuota, perché priva i soggetti giovani delle esperienze necessarie a formarla.
La scuola pubblica è presidio di uguaglianza sostanziale e pluralismo, non mera proiezione dei convincimenti privati: di conseguenza nella sua ispirazione costituzionale, non ha lo scopo di conformare, ma di emancipare; non di proteggere i bambini dal mondo, ma di prepararli a trasformarlo. Introdurre un filtro genitoriale sui contenuti educativi significa distorcere questo compito, trasformando la libertà di insegnamento in libertà condizionata e il diritto all’istruzione in un privilegio selettivo.
In definitiva, il consenso informato non è una forma di tutela, ma un dispositivo di controllo che, sotto l’apparenza della neutralità, reintroduce le gerarchie di potere che la scuola democratica dovrebbe, invece, contribuire a disfare. È un rovesciamento che svuota la scuola della sua missione costituzionale e incrina l’eguaglianza sostanziale, consegnando i diritti educativi alla variabilità delle convinzioni familiari.
4. Gli standard internazionali e la responsabilità dello Stato
Gli standard internazionali in materia di educazione sessuale non costituiscono mere raccomandazioni, ma si inseriscono in un quadro normativo vincolante che trova fondamento nei trattati europei e nelle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2011, ha stabilito che le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo, integrano – quali “norme interposte” – il parametro costituzionale espresso dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
Ne deriva che gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, inclusi quelli relativi al diritto all’educazione e alla non discriminazione, vincolano direttamente il legislatore e le istituzioni italiane, imponendo un’interpretazione conforme della normativa interna. Ne discende l’obbligo per il legislatore di non introdurre barriere all’accesso a contenuti riconosciuti come parte della tutela della salute e della parità.
Nel contesto europeo, il Testo Unico in materia di istruzione (art. 4) stabilisce che “l’ordinamento scolastico italiano […] favorisce la cooperazione tra gli Stati membri per lo sviluppo di un’istruzione di qualità e della sua dimensione europea”. Ciò significa che la scuola italiana è chiamata non solo a rispettare, ma a promuovere attivamente gli standard europei e internazionali che orientano le politiche educative verso la qualità, l’inclusione e la parità di genere.
Le linee guida di OMS, UNESCO e Parlamento europeo si collocano dunque in un sistema di obblighi giuridici già pienamente operativo: la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia, all’articolo 28 riconosce il diritto all’educazione, e all’articolo 29 ne definisce le finalità, tra cui “lo sviluppo della personalità, dei talenti e delle capacità mentali e fisiche del bambino nella misura più ampia possibile”. La Convenzione di Istanbul, art. 14, impone agli Stati di includere nei curricula scolastici materiali didattici su parità tra i sessi, ruoli di genere non stereotipati, reciproco rispetto e non-violenza.
La recente sentenza n. 68 del 2025 della Corte costituzionale ha richiamato espressamente tali obblighi, ribadendo che l’Italia è tenuta “a rispettare e garantire ad ogni fanciullo i diritti enunciati dalla Convenzione senza distinzione di sorta” e ad adottare “tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia tutelato contro ogni forma di discriminazione”. La Corte ha aggiunto che l’interesse superiore del minore deve prevalere su qualsiasi preferenza o convinzione familiare che possa limitarne l’accesso ai diritti fondamentali.
In questa prospettiva, l’educazione affettiva e sessuale, riconosciuta dagli organismi internazionali come strumento di prevenzione della violenza e di promozione dell’uguaglianza di genere, rientra tra i diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a garantire.
La giurisprudenza amministrativa conferma questa impostazione: il Consiglio di Stato, con sentenza n. 5358 del 2023, ha affermato che le scelte educative devono rispettare i principi di non discriminazione e di tutela dei diritti fondamentali, e che l’amministrazione deve svolgere una valutazione sostanziale delle competenze educative in conformità con gli standard europei, non potendosi limitare a valutazioni formali.
In questo contesto, l’introduzione di un obbligo generalizzato di consenso informato per l’educazione affettiva e sessuale rischia di porre l’Italia in contrasto con i propri obblighi internazionali sotto diversi profili.
In primo luogo, essa comprometterebbe l’universalità dell’accesso all’educazione, creando disparità fondate sulle convinzioni familiari, in violazione del principio di non discriminazione sancito dalla Convenzione ONU, dalla CEDU e dalla Convenzione di Istanbul.
In secondo luogo, subordinare contenuti educativi riconosciuti come essenziali a un’autorizzazione privata svuoterebbe di significato gli impegni assunti dall’Italia in sede internazionale. Se, come affermano l’OMS e l’UNESCO, l’educazione sessuale è strumento di salute pubblica, di cittadinanza attiva e di prevenzione della violenza, limitarla significa compromettere la stessa capacità dello Stato di adempiere ai propri doveri di protezione.
La giurisprudenza in materia di istruzione parentale offre una conferma ulteriore.
Le recenti decisioni del Consiglio di Stato (sentenze nn. 1370, 1367, 1369, 1389 e 1388 del 2025) hanno chiarito che, anche quando la responsabilità educativa dei genitori è massima, essa deve esercitarsi “in concorso con le istituzioni scolastiche e non come diritto di esclusiva”.
Allo stesso modo, la Cassazione civile, con ordinanza n. 19101 del 2024, ha ricordato che la libertà educativa dei genitori deve sempre essere esercitata “nel rispetto della legge e nell’interesse superiore del minore”.
Laddove la mancata collaborazione con le istituzioni o il rifiuto di garantire al minore contenuti educativi essenziali producano un danno alla sua crescita e formazione, la giurisprudenza non esclude l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale.
Questa impostazione è coerente con il principio di responsabilità internazionale dello Stato: gli obblighi assunti in sede ONU, Consiglio d’Europa e Unione europea vincolano l’Italia nel suo complesso e non possono essere elusi rinviando alle scelte individuali delle famiglie.
La Corte europea dei diritti umani ha più volte ribadito che l’educazione deve essere pluralista, aperta e rispettosa dei diritti fondamentali, e che le limitazioni basate su orientamento sessuale, identità di genere o convinzioni religiose costituiscono forme di discriminazione indiretta vietate dall’articolo 14 della Convenzione.
Anche l’Unione europea, attraverso la Strategia per l’uguaglianza di genere 2020–2025, riconosce nell’educazione uno strumento decisivo per il contrasto agli stereotipi e per la promozione dell’uguaglianza sostanziale.
Infine, l’articolo 117 della Costituzione attribuisce allo Stato la competenza esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’educazione affettiva e sessuale, in quanto diritto riconosciuto a livello internazionale come componente essenziale della salute e della cittadinanza, deve essere considerata parte di tali livelli essenziali.
Consentire che singole famiglie possano impedirne l’attuazione significherebbe violare la garanzia di uniformità dei diritti e introdurre un’arbitraria diseguaglianza territoriale e sociale.
5. Violenza di genere e il falso “paradosso nordico”
Tra gli argomenti più ricorrenti nel dibattito pubblico contrario all’educazione affettiva e sessuale vi è il richiamo al cosiddetto “paradosso nordico”, secondo il quale i Paesi che hanno introdotto da decenni percorsi strutturati di educazione sessuale e di uguaglianza di genere presenterebbero alti tassi di violenza contro le donne. È un argomento suggestivo ma profondamente fuorviante, che confonde la realtà statistica con la realtà sociale e ignora la dimensione sistemica della violenza maschile.
Come hanno dimostrato numerosi studi comparativi – tra cui quelli del World Economic Forum, dell’European Institute for Gender Equality (EIGE) e del Council of Europe (2022) – i Paesi scandinavi non registrano più violenza, ma più denunce, più consapevolezza e più trasparenza istituzionale. L’apparente “aumento” dei casi riflette la capacità di rilevare, non di produrre, la violenza. Dove la cultura del consenso e dell’uguaglianza è più radicata, le donne riconoscono prima e meglio le situazioni di abuso, i sistemi giudiziari offrono maggiori garanzie di ascolto e le istituzioni pubbliche investono in strumenti di protezione e prevenzione.
Il “paradosso nordico”, dunque, non rivela un eccesso di libertà femminile, ma la differenza tra Paesi che misurano la violenza e Paesi che la occultano.
La violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale, radicato nelle asimmetrie di potere e nei modelli culturali che naturalizzano il dominio maschile e la subordinazione femminile. Non dipende dall’educazione sessuale, ma dalla sua assenza.
Il I Rapporto sulla violenza maschile contro le donne pubblicato da Differenza Donna (2024) evidenzia che la mancanza di educazione al consenso, il persistere di stereotipi sessisti e la rappresentazione diseguale delle relazioni tra i generi sono i principali fattori di rischio per la violenza domestica, sessuale e relazionale. L’analisi delle risposte mostra che la difficoltà delle giovani generazioni nel riconoscere comportamenti di controllo, manipolazione o coercizione affettiva è direttamente proporzionale alla carenza di strumenti educativi che insegnino a nominare, riconoscere e decostruire la violenza.
Privare la scuola di questi strumenti significa dunque lasciare intatte le radici culturali della violenza. L’educazione sessuale e affettiva non è una pratica moralizzante, ma una pratica di libertà: insegna il consenso, il rispetto dei limiti, la reciprocità e la responsabilità nelle relazioni.
Come mostrano le linee guida dell’OMS e dell’UNESCO, essa contribuisce a ridurre i tassi di abuso sessuale e di molestie, aumenta la consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni, e sviluppa competenze di empatia e comunicazione.
In questa prospettiva, la critica al modello educativo nordico rovescia i termini del problema. Non è l’educazione al consenso a generare violenza, ma l’assenza di educazione a produrre silenzio, paura e ignoranza.
Dove la scuola insegna la libertà e la parità, la violenza emerge e viene denunciata; dove la scuola tace, la violenza resta sommersa e continua a riprodursi.
Il tentativo di usare la violenza di genere come argomento contro l’educazione sessuale e sentimentale è una forma di distorsione culturale che confonde la visibilità con la causalità, e che, di fatto, legittima il mantenimento di modelli relazionali oppressivi.
Il vero paradosso, dunque, non è quello nordico, ma quello italiano: un Paese che si proclama civile e democratico, ma che continua a esitare nel riconoscere la scuola come luogo primario di prevenzione e di libertà, scegliendo la censura alla conoscenza e il controllo alla responsabilità condivisa
Come ha scritto bell hooks (2020) la scuola è un “luogo radicale di possibilità”, dove si può imparare a nominare il mondo e a costruire relazioni libere dalla paura.
L’introduzione del consenso informato genitoriale ribalta questa funzione: la scuola diventa un luogo sorvegliato, privato della sua missione pubblica, incapace di garantire uguaglianza e pluralismo.
L’educazione non è proprietà privata della famiglia, ma diritto di ciascun bambino e bambina e responsabilità collettiva della società.
Per questo, la scuola deve essere sostenuta nella sua autonomia e nei suoi compiti educativi, non ridotta a spazio sotto sorveglianza.
Note:
[1] A.R. Vitale, Il consenso informato in ambito scolastico: prospettive de iure condendo, 16 settembre 2025, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3596-il-consenso-informato-in-ambito-scolastico-aldo-rocco-vitale
[2] Ibidem.
Bibliografia:
· Differenza Donna. (2024). I° Rapporto sulla violenza maschile contro le donne. Roma: Differenza Donna.
· European Institute for Gender Equality (EIGE). (2023). Gender Equality Index 2023: Country profiles and EU trends. Vilnius: EIGE.
· hooks, b. (1994). Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom. New York, NY: Routledge.
· Kittay, E. F. (1999). Love’s Labor: Essays on Women, Equality, and Dependency. New York, NY: Routledge.
· Mackenzie, C., & Stoljar, N. (Eds.). (2000). Relational Autonomy: Feminist Perspectives on Autonomy, Agency, and the Social Self. New York, NY: Oxford University Press.
· Nussbaum, M. C. (2010). Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities. Princeton, NJ: Princeton University Press.
· Tronto, J. C. (1993). Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care. New York, NY: Routledge.
· Gilligan, C. (1982). In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development. Cambridge, MA: Harvard University Press.
· Fricker, M. (2007). Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing. Oxford: Oxford University Press.
Immagine: Jan Steen, La scuola del villaggio, olio su tela, 1670, Scottish National Gallery.
Oggi 9 ottobre 2025, presso l’Universitas Mercatorum di Roma, sarà conferito il “Premio Giulia Cavallone” edizione 2025, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrato, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro il cancro. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Com’è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in co-tutela con l’Université Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e in seguito ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua morte, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, la Giunta Capitolina di Roma ha deliberato il 30 ottobre 2020 di riservarle un’area presso il Cimitero Monumentale del Verano, quale persona che ha onorato con la sua vita la città di Roma in Italia e nel mondo.
Anche il Tribunale di Velletri, sua prima sede di servizio ha deliberato, come già avvenuto a Roma, di intitolarle l’aula dove lei aveva tenuto le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone “era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)”
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2025 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 9 ottobre 2025, è stato attribuito a Luigi Parodi, dottorando di ricerca in Security and Law presso l’Università di Genova.
Il tema del progetto di ricerca sarà “L’uso dei dati personali nel procedimento penale. Strumenti e tecniche di tutela dei diritti fondamentali”.
Il dott. Luigi Parodi, grazie anche al Premio “Giulia Cavallone”, propone di perfezionare presso l’Università del Lussemburgo la sua ricerca, che avrà a oggetto, anche attraverso un’analisi comparatistica delle soluzioni adottate dagli ordinamenti di altri Stati membri dell’UE, l’impiego di strumenti investigativi tecnologici per finalità di garanzia della sicurezza pubblica e, in particolare, di accertamento dei reati. È noto che tali strumenti, di particolare utilità ai fini del contrasto della criminalità, sono peraltro particolarmente invasivi nella sfera privata dei singoli e possono rappresentare un rischio per i diritti e le libertà fondamentali dei medesimi. È pertanto essenziale individuare gli strumenti giuridici, in chiave interpretativa e nella prospettiva de iure condendo, che garantiscano la tutela degli individui nella dimensione tecnologica.
Il focus della ricerca sarà sulla materia della “data retention”, alla luce anche dei numerosi e importanti interventi della Corte di giustizia dell’Unione europea, che hanno contribuito a costruire uno “statuto garantista”. I principi elaborati dalla Corte costituiscono una delle frontiere più avanzate della tutela dei diritti fondamentali nell’era digitale e travalicano i confini della materia.
La ricerca si propone, in primo luogo, di tentare di elaborare soluzioni interpretative già praticabili in un’ottica de iure condito, allo scopo di limitare gli effetti potenzialmente lesivi dei diritti individuali che derivano dall’evidente scostamento della disciplina interna dai principi sanciti dal diritto eurounitario, come interpretato dalla Corte di giustizia. In secondo luogo si propone di individuare una possibile proposta di riforma organica della disciplina della prova tecnologica in Italia.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che tale progetto di ricerca raggiunga i risultati auspicati e che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo messaggio di vita: “Siate giusti, siate gentili”.
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