ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla dichiarazione di ripudio del fascismo nella richiesta di concessione di spazi pubblici (nota a Cons. Stato, Sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687)
di Alice Cauduro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. L’attuazione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” nella concessione di spazi pubblici: la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa. 3 – Cenni conclusivi sulla pubblica amministrazione nella ‘ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
1. Il caso di specie.
Con la sentenza del Consiglio di Stato qui commentata il giudice amministrativo torna ad affrontare il tema dell’applicazione da parte della pubblica amministrazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione della Repubblica italiana secondo cui “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (comma 1).
La vicenda da cui origina il ricorso riguarda la contestata legittimità della delibera n. 781 del 19 dicembre 2017 della Giunta del Comune di Brescia, avente ad oggetto “Indirizzi in merito alla concessione di spazi ed aree pubbliche, sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale”, per la previsione in essa contenuta dell’obbligo di allegare alla richiesta di concessione di spazi pubblici anche una esplicita dichiarazione di ripudio del fascismo.
Con la suddetta delibera il Comune di Brescia ha stabilito “l'obbligo di allegare alla domanda di concessione per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e l’utilizzo di sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale [anche] una dichiarazione esplicita di adesione ai principi della Costituzione” (pp. 3-4). La deliberazione prevede che alla richiesta si alleghi una dichiarazione “che contenga i seguenti impegni del richiedente: di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione; di non professare e non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste, in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori democratici fondanti” (pp. 2-3).
Trattasi di indirizzi espressamente finalizzati alla concreta attuazione del citato comma 1 della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana, nonché della relativa normativa attuativa[1].
Dalla deliberazione emerge che l’esigenza del Comune di Brescia di adottare tali indirizzi è sorta a seguito di episodi di manifestazioni di ideologia nazista e fascista ed è avvertita anche in altri Comuni tanto da portare gli stessi all’adozione di analoghi atti[2]; in effetti, tra gli altri, anche i Comuni di Pavia, Siena, Prato, Firenze, Torino, di recente si sono mossi in tal senso[3]. Una deliberazione dal contenuto simile a quella impugnata davanti al Tar Lombardia è stata approvata anche dal Comune di Rivoli e ha dato origine ad analogo contenzioso innanzi al Tar Piemonte, richiamato nella pronuncia che qui si commenta (sul punto infra § 2).
Nel caso qui esaminato l’associazione CasaPound, tramite il suo legale rappresentante, lamentava l’imposizione dell’obbligo previsto dalla delibera comunale, in quanto asseritamente lesivo della libertà di manifestazione del pensiero dell’associazione e dei suoi aderenti, nella parte in cui si chiede di allegare alla domanda una dichiarazione – ad avviso dell’associazione ricorrente – in grado di “compromettere le proprie convinzioni” con condividendo l’associazione stessa i “presunti valori dell’antifascismo”, senza che ciò significhi che essa non rispetti la Costituzione italiana e il metodo democratico da essa individuato[4].
Nella ricostruzione del fatto il giudice di prime cure (Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166) riportava gli argomenti della ricorrente a sostegno del ricorso per l’annullamento della delibera, specie laddove sosteneva che la deliberazione di indirizzo impugnata violasse diversi diritti e libertà fondamentali (artt. 2, 3, 17, 18, 21 e 49 Cost.) e che «l’unico limite opponibile alle libertà costituzionalmente tutelate di cui alle norme ricordate sarebbe quello rappresentato dall’obbligo di rispetto dell’ordine pubblico e, conseguentemente, di tenere riunioni pacifiche e senza armi, di dare il preavviso all’autorità e di rispettare i limiti imposti dalla legge penale»; che «la pretesa di ripudiare il fascismo non avrebbe nulla a che vedere con tali prescrizioni e con il loro rispetto da parte del richiedente. In ogni caso, una tale dichiarazione sarebbe del tutto inutile, in quanto non preserverebbe la società da comportamenti riprovevoli come quelli xenofobi, omofobi, razzisti ecc»; infine, rilevando i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, l’associazione affermava che «la famigerata professione di antifascismo […] perseguirebbe una finalità del tutto estranea a quella che deve perseguire il Comune nella sua azione amministrativa, limitata dalla legge statale ad alcune specifiche materie. Allo stesso modo, quindi, l’utilizzo delle attribuzioni amministrative per subordinare l’accesso dei cittadini alle strutture e agli spazi pubblici a tale aberrante condizione costituirebbe uno sviamento del potere amministrativo, che sarebbe utilizzato per finalità che non sono quelle sue proprie».
In primo grado i giudici amministrativi respingevano il ricorso premettendo anzitutto che il “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana” e il “ripudio del fascismo” costituiscono un’endiadi, «nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo»[5].
Escludevano poi la violazione del «principio di uguaglianza e dei diritti di riunione e associazione anche in partiti politici» in quanto la «dichiarazione richiesta dal Comune non pregiudica in alcun modo la costituzione dell’associazione, ma solo, eventualmente, la possibilità per la stessa di utilizzare gli spazi pubblici del Comune di Brescia».
Non vi sarebbe neanche violazione della libertà di manifestazione del pensiero in quanto l’amministrazione locale non impone una “proclamazione di pensiero” ma impone «una condizione specifica all’utilizzo da parte dei privati dei beni pubblici, rappresentata dall’impegno a non destinarli a scopi non in contrasto con la Costituzione, quali quelli propri di un soggetto che non prenda le distanze dal pensiero fascista».
Gli stessi giudici ravvisavano altresì il rispetto del principio di ragionevolezza nella scelta di «precludere l’utilizzo di beni pubblici a soggetti che non intendano "respingere decisamente" il fascismo e il nazismo e cioè due ideologie i cui ideali e principi si pongono in reciso contrasto con i valori costituzionali, tra cui, in primo luogo la libertà di pensiero e di parola».
Sarebbe rispettato anche il principio di proporzionalità in quanto la richiesta di dichiarazione è preordinata «all’acquisizione di garanzie atte ad assicurare che l’uso del bene pubblico non sia strumentale all’esercizio di attività non rispettose dei principi costituzionali e, in particolare, del divieto di ricostituzione del partita fascista e di fare propaganda filo-fascista».
Riconoscevano così la legittimità degli indirizzi in tal senso adottati dalle pubbliche amministrazioni, affinché, «nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, abbiano cura di evitare che i beni pubblici possano essere utilizzati per scopi non conformi alla Costituzione, a prescindere dall’innegabile e aggiuntiva possibilità di intervenire, in esito all’esercizio dell’attività di controllo, con provvedimenti dichiarativi della decadenza immediata dalla concessione nel caso di turbativa dell’ordine pubblico legata a condotte del concessionario»[6].
E, in effetti, la pubblica amministrazione ha sempre il potere «di adottare, in caso di inosservanza degli obblighi del concessionario, i provvedimenti sanzionatori previsti dalla legge […], nonché, in particolare, […] la potestà, di carattere generale, di pronunciare la revoca della concessione tutte le volte che ragioni di interesse pubblico, e in particolare ragioni istituzionali per l’ente concedente, in relazione al bene, lo esigano»[7].
Come non può limitarsi «la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto, escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività». E, in effetti, da tempo si è evidenziato che nell’amministrazione dei beni pubblici «è il demanio comunale a spiccare per l’importanza dei suoi collegamenti con i bisogni collettivi della comunità locale»[8].
Di diverso avviso i giudici amministrativi siciliani che in quegli stessi anni si sono trovati a decidere della legittimità di provvedimenti di diniego di occupazione temporanea di suolo pubblico subordinata alla dichiarazione di ripudio del fascismo. In quei casi, infatti, i giudici avevano sostenuto l’illegittimità di tali provvedimenti per lesione del c.d. diritto al silenzio laddove «impone al richiedente la concessione di suolo pubblico di effettuare affermazioni che appaiono, almeno in parte, lesive del diritto inviolabile (ai sensi dell’art. 2 Cost.) alla libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’art. 21 Cost. nella parte in cui tutela anche la libertà di pensiero e il diritto al silenzio, cioè a non manifestare le proprie convinzioni», dal momento che «le limitazioni alla libertà di cui all’art. 21 Cost. che discendono dall’ordinamento costituzionale e, in particolare, dalla XII disp. trans. della Cost. non si riverberano sulla libertà di formazione del pensiero nel cosiddetto “foro interno”, […] in disparte ogni considerazione in ordine all’assoluta impossibilità di controllare quest’ultimo, è la connotazione pubblica della manifestazione del pensiero a delineare la rilevanza penale delle condotte tipizzate dalla legge Scelba (n. 645 del 20 giugno 1952) secondo l’interpretazione del giudice costituzionale (Corte cost. 25 novembre 1958 n. 74)»[9]. Tali considerazioni non sono condivise dalla pronuncia del Consiglio di Stato qui commentata.
2. L’attuazione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” nella concessione di spazi pubblici: la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa
Sulla legittimità della concessione di spazi pubblici condizionata alla dichiarazione esplicita di ripudio del fascismo si era espresso in modo analogo, invece, il Tar Piemonte, Sez. II, 18 aprile 2019, n. 447 l’anno precedente, su ricorso presentato dalla stessa associazione Casa Pound, con riferimento al provvedimento del Comune di Rivoli che aveva rigettato l’istanza di occupazione temporanea di suono pubblico presentata dalla suddetta associazione.
Anche in quel caso la ricorrente aveva sostenuto che l’amministrazione locale «non può imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati “valori dell’antifascismo” che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a “ripudiare il fascismo e il nazismo”, atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell’individuo, che non può essere coartata dall’amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali o con le leggi dello Stato»[10].
Il giudice amministrativo in quell’occasione aveva evidenziato che «i valori dell’antifascismo e della resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948» e che il «limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui» non possono esplicarsi «in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del distolto partito fascista».
Anche in quella vicenda il giudice amministrativo aveva ritenuto non irragionevole la richiesta dell’amministrazione, nel valutare la meritevolezza del’interesse dedotto, «della dichiarazione di impegno rispetto dei valori costituzionali e, in particolare dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell’ideologia autoritaria fascista nell’adesione ai valori fondanti l’assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell’antifascismo e della resistenza».
In quel caso l’associazione CasaPound aveva reso una dichiarazione diversa da quella richiesta espressamente dal Comune, omettendo «volutamente, la parte di dichiarazione relativa al ‘ripudio del fascismo e del nazismo’ e all’adesione ‘ai valori dell’antifascismo’». Tuttavia, secondo i giudici, «dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica». Così, anche in quel caso, il ricorso era stato respinto considerando legittimo il diniego di concessione del Comune che, «a fronte dell’assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell’antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica».
Tale impostazione è ripresa dal Consiglio di Stato nella pronuncia qui commentata che – nel rigettare il ricorso presentato dall’associazione Casa Pound per la riforma della sentenza del Tar Lombardia sopra ampiamente richiamata – ha anzitutto ricordato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui la concessione di spazi pubblici, in quanto comporta un utilizzo a fini privati di aree o locali che vengono sottratti all’uso comune, «è espressione di una potestà ampiamente discrezionale, sia nell’an, sia nella definizione di tempi, modi e condizioni dell’occupazione»[11].
Sicché – afferma il Consiglio di Stato – nell’esercizio del potere comunale di stabilire i criteri per l’occupazione di spazi pubblici «l’amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo - comprese le idee e i metodi razzisti - o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste».
Trattasi, secondo i giudici, di un «obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito ‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’[12]». La riconosciuta ‘matrice antifascista’ della Costituzione repubblicana emergerebbe sia dalla sua genesi sia «soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto», attesa la discontinuità delle norme e dei principi costituzionali rispetto a quelli del regime precedente[13], in questo senso il primo comma della XII disposizione non è da intendersi come norma meramente “transitoria”, come ampiamente sostenuto dalla dottrina e giurisprudenza[14]. Secondo la ricostruzione argomentativa dei giudici di secondo grado, la XII disposizione – in deroga all’art. 49 cost. che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partititi, nonché degli artt. 17 e 21 Cost. che sanciscono la libertà di riunione e di manifestazione del pensiero – è volta a «scongiurare un ritorno ‘sotto qualsiasi forma’ del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono proprie». E a tale previsione ha inteso dare attuazione il legislatore anzitutto con la legge del 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba), seppure – come già ricordato dal giudice amministrativo – senza voler offrire un’attuazione limitata alla repressione penale, poiché questa «va estesa ad ogni atto fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[15].
Proprio considerando tale finalità nella pronuncia qui commentata i giudici hanno affermato che «l’obbligo posto dalla giunta del Comune di Brescia non può dirsi sproporzionato» […] e «anche la parte di dichiarazione contestata dall’associazione appellante – lungi dal rappresentare una sorta di ‘professione di fede’ o un giuramento di fedeltà fine a sè stessi – debba intendersi come strettamente correlata all’uso dello spazio pubblico di cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, e quindi mantenga un legame con quell’esperienza, possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità antidemocratiche».
Il ricorso è perciò respinto condividendo gli argomenti dei giudici di prime cure e riportando espressamente quello secondo cui: «se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero valersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività».
Proprio con riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero si è parlato in dottrina di «limite ideologico del neofascismo» contenuto nella XII Disposizione che sarebbe perciò tesa a «spogliare l’ideologia neofascista dalla garanzia costituzionale delle libertà»; in tal senso, più in generale, la Costituzione «intende chiaramente vietare non solo gli atti conclusivi di ricostituzione del partito fascista, ma anche tutti i comportamenti idonei a porne le premesse, attraverso l’istaurazione di un clima favorevole»[16].
3. Cenni conclusivi sulla pubblica amministrazione nell’‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
Con la sentenza qui commentata, il Consiglio di Stato – riprendendo gli argomenti del giudice di prime cure e dei precedenti conformi qui richiamati – offre interessanti spunti di riflessione non solo sull’attuazione del divieto della «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» nell’attività amministrativa della concessione di spazi pubblici, ma più in generale sul ruolo della pubblica amministrazione nell’ ‘ispirazione antifascista della nostra Costituzione’.
La pubblica amministrazione è stata messa alla prova dalla matrice antifascista della Costituzione italiana anche in altre occasioni e in ambiti diversi dell’azione amministrativa.
Nelle competizioni elettorali locali, infatti, alcune associazioni politiche sono state escluse dalle commissioni elettorali circondariali in diversi Comuni sul territorio nazionale proprio in ragione della loro ispirazione al disciolto partita fascista. Non a caso il contenzioso sul punto è richiamato nella pronuncia che qui si commenta.
Con rifermento a quelle vicende la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che non è ammissibile che «un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione con norma tanto più grave e severa, in quanto eccezionalmente derogatorio al principio supremo della pluralità, libertà e parità delle tendenze politiche»[17].
Si è affermato che «un movimento politico che si ispira ai principi del disciolto partito fascista deve essere incondizionatamente bandito dalla competizione elettorale, secondo quanto impone la XII esposizione transitoria e finale della Costituzione, il cui precetto sul piano letterale ideologico non può essere applicato solo alla repressione di condotte finalizzate alla ricostruzione di un’associazione vietata […] ma deve essere esteso ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista, per sua essenza stessa antidemocratico, e quindi anche al riferimento inequivoco ai suoi principi fondanti, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 645 del 1952»[18].
Nel tempo si è ribadito che «il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’arte. 49 Cost., e quello di accesso alle cariche elettive, ex art.51 Cost., trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere democratiche dinamiche. […] l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzata alla ricostituzione di un’associazione vietata, [ma] deve essere estesa ad ogni atto fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[19]; si riconosce così il potere della commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento.
Sia nel caso della concessione di spazi pubblici, sia nell’ammissione alle competizioni elettorali l’esercizio di libertà e diritti dei privati richiede l’esercizio del potere della pubblica amministrazione. Si tratta di un ambito di applicazione della XII Disposizione costituzionale che si distingue da quello che di recente ha visto l’intervento della giurisprudenza penale con riferimento al divieto di utilizzo di simboli e del cosiddetto saluto romano[20].
La sentenza del Consiglio di Stato qui commentata offre un’articolata e chiara ricostruzione del fondamento e dei contenuti del potere della pubblica amministrazione di prevedere una dichiarazione di ripudio del fascismo nel rilascio della concessione di spazi pubblici con l’obiettivo di evitare che gli stessi siano «utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo – comprese le idee e i metodi razzisti – o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del distorto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste». Sarebbe proprio questo – si è detto – l’«obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito ‘l’ispirazione antifascista della nostra costituzione’»[21].
È qui di interesse ricordare che secondo la Corte costituzionale la XII Disposizione della Costituzione repubblicana «ha conferito in modo tassativo al legislatore non solo la potestà-dovere di fissare sanzioni penali in casi di violazione del divieto costituzionale di ricostituzione del disciolto partito fascista, ma anche di ricercare il modo e le forme più idonei e più incisivi per la realizzazione della pretesa punitiva nella salvaguardia dei diritti fondamentali che la costituzione riconosce a tutti i cittadini, al fine di combattere più efficacemente e sollecitamente possibile quel pericolo che la citata disposizione, in accordo con l’ispirazione antifascista della nostra costituzione è inteso direttamente imperativamente prevenire».
La legislazione penale si è fatta nel tempo interprete dell’obiettivo costituzionale del ripudio del fascismo e «il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle»[22].
In linea con tale orientamento si è in seguito affermato che «non può sostenersi la illegittimità costituzionale di una norma legislativa che attui il disposto della XII disposizione transitoria, la quale, in vista della realizzazione di un ben determinato scopo, pone limiti all’esercizio dei diritti di libertà enunciati dagli evocati precetti costituzionali»[23].
Va detto che il contenuto del comma 1 delle XII Disposizioni fin dal dibattito in Assemblea costituente è stato lungi dall’essere pacificamente interpretato come norma “transitoria”[24].
E il carattere “finale”, e non meramente transitorio, del “divieto di riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” (comma 1 della XII Disposizione) – oggi generalmente riconosciuto – è riconducibile al suo legame con l’art. 54 comma 1 Cost. secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica “e l’art. 139 Cost. che sottrae alla revisione costituzionale la forma repubblicana[25]. In tale prospettiva la c.d. legge Scelba avrebbe fornito al bene giuridico dell’“ordine pubblico democratico e costituzionale” una tutela anticipata[26]. Sicché l’attuazione di tale precetto – lungi dal limitarsi alla repressione penale che richiede il pericolo concreto d di ricostituzione del partito fascista[27] – come già ricordato dalla giurisprudenza amministrativa, «deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[28], facendo così della pubblica amministrazione un importante “strumento di attuazione”.
Come ricordato dai giudici di prime cure nella vicenda qui commentata non sarebbe «in questione […] la rilevanza penale di condotte riconducibili alla connotazione pubblica della manifestazione del pensiero, bensì il significato da attribuire al “silenzio” che l’associazione ricorrente vorrebbe serbare sul tema, rifiutandosi di sottoscrivere le dichiarazioni richieste dall’atto di indirizzo del Comune di Brescia. In buona sostanza, con tale provvedimento non si richiedono né abiure, né professioni di fede che non si traducano nella mera riaffermazione dei valori fondanti della Carta costituzionale e del nostro Ordinamento»[29].
Sulla questione dell’attuazione della XII Disposizione, ancora oggi attuale, si è di recente ricordata l’idea che «se la democrazia muore nel cuore del popolo, nessuna forza giuridica potrà farla resuscitare»[30].
Non c’è dubbio che né le leggi (né l’azione dell’amministrazione) possano di per sé sole proteggere la democrazia e, tuttavia, proprio la «perdurante esigenza di garanzia antifascista», che è stata ricondotta a una «sorta di disattuazione strisciante»[31] della XII Disposizione, sembra imporre estrema attenzione alla compiuta attuazione della previsione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Di interesse sarebbe perciò lo studio del ruolo della pubblica amministrazione, in generale, nell’‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
La questione dell’attuazione delle XII disposizioni finali da parte della pubblica amministrazione nella specifica attività di concessione di spazi pubblici assume certo contorni differenti rispetto a quelli della legislazione penale, forse meno “problematici” con riferimento alla limitazione della libertà di manifestazione del pensiero; in tali casi l’obbligo di dichiarare il ripudio del fascismo, imposto come condizione della concessione di spazi pubblici da parte della amministrazione locale, non pone luna imitazione della libertà di manifestazione del pensiero che, in caso di diniego, può essere esercitata su spazi privati entro i limiti della legislazione penale.
Proprio alla luce della ricostruzione offerta dalla giurisprudenza amministrativa richiamata, ci si chiede se non sia ultroneo, se non addirittura fuorviante, considerando ‘l’ispirazione antifascista della nostra Costituzione’, qualificare come ampiamente discrezionale l’esercizio del potere della pubblica amministrazione che si sostanzia nel condizionare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione di ripudio del fascismo.
In tale prospettiva, ragionando sul ruolo della pubblica amministrazione nel garantire l’effettiva attuazione del comma 1 delle XII Disposizioni, subordinare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione di ripudio del fascismo sembra piuttosto espressione di una discrezionalità della pubblica amministrazione necessariamente orientata dall' "ispirazione antifascista della nostra Costituzione".
[1] La delibera richiama espressamente sia la legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba) sia l’art. 1 del d. l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. in legge 25 giugno 1993.
[2] Nella premessa della deliberazione si rileva che “alcuni Comuni, sulla scorta di recenti episodi e manifestazioni che hanno inneggiato o propagandato ideologie naziste, fasciste e/o razziste, hanno approvato o si stanno attivando per approvare un atto di indirizzo al fine di ottenere uno specifico impegno al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella Costituzione italiana per quanto concerne l’utilizzo di spazi ed aree pubbliche”.
[3] Per una ricostruzione della vicenda che ha portato all’ordinanza cautelare del Tar Brescia, 8 febbraio 2018, n. 68 e alle delibere dei Comuni sopra richiamati si rinvia a F. Paruzzo, Il Tar Brescia rigetta il ricorso di CasaPound: l’antifascismo come matrice e fondamento della Costituzione, in Osservatorio costituzionale, AIC, fasc. 2/2018, pp. 2 ss.
[4] Cit. virgolettato estratto dal ricorso, come riportato nel testo del Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166.
[5] Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166: «la deliberazione censurata, nella sua formulazione integrale, richiede agli interessati di dichiarare di “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”, facendo ricorso, nella sostanza, a una vera e propria endiadi, nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo».
[6] E. Silvestri, voce Concessione, I. Concessione amministrativa, in Enc. dir., vol. VIII, 1961, p. 370, osserva che «le concessioni amministrative sono espressione di una potestà pubblica e tendono quindi al conseguimento di fini pubblici».
[7] Cit. A. M. Sandulli, voce Beni Pubblici, in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, p. 290; in generale, sul rapporto tra “Concessione, potere pubblico e interesse pubblico” F. Fracchia, voce Concessione amministrativa, in Enc. dir., Annali I, 2007, p. 267 ss.
[8] V. Caputi Jambrenghi, I beni pubblici e d’interesse pubblico, in Diritto amministrativo, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F. G. Scoca, Bologna, 1993, II ed., p. 1126.
[9] Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, sez. giur., ordinanza, 13 dicembre 2019, n. 797; poi anche Tar Sicilia, sez. I, 15 aprile 2021, n. 1241.
[10] Cit. virgolettato estratto dal ricorso, come riportato nel testo del Tar Piemonte, Sez. II, 18 aprile 2019, n. 447.
[11] Ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5442; Consiglio di Stato, Sez. quinta, 7 giugno 2022, n. 4660; Consiglio di Stato, Sez. V, 8 maggio 2024, n. 4129. L’occupazione di suolo pubblico da parte di privati comporta la sottrazione di spazi pubblici all’uso comune coinvolgerebbe l’amministrazione non solo nella «mera scelta delle aree da occupare, ma anche nella scelta della dimensione, dei tempi e dei modi dell’occupazione, nonché nella previsione delle restrizioni delle forme di temperamento ritenute, di volta in volta, opportune dal punto di vista viabilistico, urbanistico, architettonico, paesaggistico, al fine di bilanciare la pluralità di interessi coinvolti», cit. Cons. St. n. 4129 del 2024.
[12] In questi termini espressamente Corte cost., sent. n. 254 del 1974.
[13] I giudici amministrativi – nella sentenza commentata – argomentano che «in questo senso il primo comma della XII disposizione – che non è da intendersi come norma meramente “transitoria” – sarebbe legata sia all’art. 54 comma 1 Cost che recita: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica”, sia all’articolo 139 Cost. che esclude la possibilità di revisione costituzionale per la “forma repubblicana”». Sula “continuità degli ordinamenti statutario, fascista e repubblicano” dedica interessanti passaggi L. Paladin, voce Fascismo (dir. cost.), in Enc. dir., vol. XVI, 1967, p. 887, 888.
[14] Cfr. Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166, come ripreso espressamente da Cons. Stato, Sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687.
[15] Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, così potendo la commissione elettorale circondariale esercitare un potere di ricusazione ed estromissione dalla competizione di quelle liste o simboli che si rifanno specificatamente al partito fascista «bandito irrevocabilmente dalla Costituzione».
[16] Cit. P. Barile, voce Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 470; sull’art. 21 Cost. M. Manetti, A. Pace, Art. 21. La libertà di manifestazione del pensiero, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 2006, p. 212; la qualifica come “libertà funzionale” C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento democratico, Milano, 1958, p. 3.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. I, 23 febbraio 1994, n. 173; Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 2013 n. 1355; Cons. Stato, Sez. III, 29 maggio 2018, n. 3208.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 29 maggio 2018, n. 3208; già Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354.
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, dove si dice altresì che la disciplina costituzionale «dettando un requisito originario per la partecipazione alla vita politica, fonda il potere implicito della commissione di ricusare le liste che si pongano in contrasto con diritto precetto».
[20] Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[21] In questi termini, Corte cost., sent., n. 254 del 1974, richiamata nella pronuncia qui commentata.
[22] Corte cost., sent. n. 74 del 1958.
[23] Corte cost., sent. n. 15 del 1973. Sulle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, in una prospettiva penalistica, si rinvia a P. Caroli, Il potere di non punire, Uno studio sull’amnistia Togliatti, Napoli, 2020, p. 278 ss.
[24] Alla seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea costituente l’intervento di Calamandrei aveva già evidenziato il carattere non transitorio di questa disposizione: «Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome “fascismo”, ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c'è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. […]».
[25] La pronuncia qui commentata evidenzia che «il primo comma della XII disposizione, che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, non può ritenersi meramente ‘transitoria’, ossia destinata a trovare applicazione per un periodo di tempo determinato (com’è, per esempio, il secondo comma), ma, come osservato anche in letteratura, è norma ‘finale’, in quanto, legandosi all’art. 54, co. 1, Cost. secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica” e all’art. 139 Cost., che sottrae alla revisione costituzionale “la forma repubblicana” (secondo Corte cost., sent. n. 1146 del 1988, da intendersi comprensiva di tutti quei principi che “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione Italiana” e quindi innanzitutto dei ‘diritti inviolabili’, su cui si v., tra le più recenti, Corte cost., sent. n. 135 del 2024), rifinisce il disegno costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che in deroga all’art. 49 Cost., che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti, nonché agli artt. 17 e 21 che sanciscono le libertà di riunione e di manifestazione del pensiero (sul punto si v. Corte cost., sentt. n. 74 de 1958 e n. 15 del 1973) – è volta a scongiurare un ritorno “sotto qualsiasi forma” del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono propri».
[26] Da ultimo Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[27] Cfr. Corte cost., sent. n. 15 del 1973; Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[28] Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354.
[29] In questi termini già Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166, poi ripresa dal Consiglio di Stato qui commentato.
[30] Cit. P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 413; di recente richiamato nelle sue osservazioni conclusive da F. Paruzzo, La XII Disposizione transitoria e finale: tra garanzia “antirazzista” della legge Mancino e specificità della matrice antifascista, in Rivista AIC, fasc. 3/2024, p. 131.
[31] B. Pezzini, Attualità e attuazione della XII Disposizione finale: la matrice antifascista della Costituzione repubblicana, in AA. VV., Le frontiere del Diritto costituzionale. Scritti in onore di V. Onida, Milano, 2011, p. 1402. Parla di «poche occasioni pratiche di applicazione» P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 411.
Con l’inizio del mese di aprile entra in vigore un ulteriore segmento di processo penale telematico.
O meglio, “dovrebbe” entrare in vigore, perché anche l’efficacia di questo scaglione – come già successo in occasione dei precedenti previsti dal provvedimento legislativo che ha introdotto l’utilizzo del famigerato applicativo APP - sembra destinato a rimanere su carta ancora per un po’.
L’incredibile sequela di disfunzioni, malfunzionamenti, crash di sistema che stanno affliggendo il lavoro di magistrati, avvocati ed operatori del diritto da quando sono costretti a confrontarsi con questo sistema operativo ha da tempo reso evidente che il processo penale telematico è allo stato del tutto inidoneo a far fare l’auspicato salto di qualità al lavoro nelle aule e negli uffici giudiziari; anzi, non riesce nemmeno nel più modesto obiettivo di velocizzarne i tempi, risolvendosi anzi in un ulteriore rallentamento degli stessi.
Qualche mese fa, nel pieno delle feste natalizie, il Ministero della Giustizia ha fatto uscire il decreto che rendeva obbligatorio l’utilizzo di APP, quasi senza alcuna sperimentazione, in tutti gli uffici giudiziari nei tre giorni successivi (il decreto, uscito il 27 dicembre, è entrato in vigore il 1° gennaio del 2025), costringendo i Presidenti dei Tribunali di tutta Italia a sospenderne l’obbligatorietà per i riscontrati malfunzionamenti.
La successiva scadenza del 1° aprile, indicata dal decreto come data dalla quale APP diventerà obbligatorio per una ulteriore seri di provvedimenti e adempimenti, pur non essendo stati risolti nei tre mesi di vigore del decreto i problemi riscontrati, sembra dunque essere destinata a vedere il bis dei provvedimenti di sospensione, con ulteriore proroga del “doppio binario” nella speranza che qualcuno metta mano al programma attenuandone le anomalie e i disagi.
Il panorama attuale vede quasi ovunque un enorme rallentamento nella celebrazione dei processi e nella redazione dei provvedimenti per colpa di un sistema operativo che avrebbe dovuto apportare funzionalità ad un sistema già duramente messo alla prova dalla obsolescenza dei computer e dei mezzi informatici in dotazione a magistrati e cancellerie.
Al grido di dolore che da ogni ufficio giudiziario si leva verso il Ministero della Giustizia e il suo titolare, costituzionalmente deputato al funzionamento del servizio Giustizia, si aggiunge la nota dell’OCF che pubblichiamo, in cui si evidenziano ulteriori disfunzioni che mettono in serio pericolo il deposito telematico degli atti da parte degli avvocati, pure reso obbligatorio dalla data odierna.
GIUSTIZIA; OCF: CRITICITÀ SUI DEPOSITI TELEMATICI OBBLIGATORI DAL 1° APRILE PER IL PROCESSO PENALE
Roma, 31 marzo 2025 – Da domani, 1° aprile, le iscrizioni al Registro delle Notizie di Reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica, come previsto dal DM Giustizia n. 206/2024. Tuttavia, l’OCF esprime forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia.
A gennaio, 87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l'Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l'Innovazione). Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi.
Inoltre, l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa. Alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di Parte Civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali.
L’OCF ribadisce il proprio impegno per la digitalizzazione della giustizia, ma senza compromessi sulle garanzie difensive e le regole del giusto processo. Chiediamo interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico. Continueremo a monitorare la situazione per evitare disservizi e pregiudizi ai diritti delle parti processuali.
Così in una nota l’Organismo Congressuale Forense.
---------------
L’Organismo Congressuale Forense (OCF) è l’organismo di vertice di rappresentanza politica dell’Avvocatura italiana. Fondato nel 2016, l’OCF esercita la rappresentanza politica del Congresso Nazionale Forense, di cui ha il compito di attuare i deliberati, ed elabora progetti e proposte a tutela degli interessi dell’Avvocatura e della società italiana.
Sommario: 1. La trattazione scritta dopo il d.lgs. 164/2024 – 2. La finzione di lettura (fictio recitationis). – 3. La decisione tardiva.
1. La trattazione scritta dopo il d.lgs. n. 164/2024
Con l’intervento legislativo in sede di “correttivo” della riforma del codice processuale civile (d. lvo n. 164/2024) è stata, come noto, integrata anche la disciplina relativa alla c.d. trattazione scritta ex art. 127ter c.p.c.[i] dirimendo, innanzitutto, il dubbio sorto in ordine alla compatibilità tra la trattazione “cartolare” e l’udienza di discussione che, ai sensi dell’art.128 c.p.c, “è pubblica a pena di nullità”[ii].
Nello stesso art. 128 c.p.c. è, infatti, ora chiarito che anche “l’udienza in cui si discute la causa” può essere dal giudice “sostituita” dal deposito delle note scritte previste dall’art.127ter c.p.c. se non sopravviene una opposizione anche di una sola parte.
Mentre, quindi, secondo la confermata disciplina generale, di regola, il giudice è tenuto a revocare la disposta trattazione scritta solo quando l’opposizione provenga da tutte le parti, nel caso invece di “sostituzione” della discussione è ora previsto espressamente che anche di fronte all’opposizione di una sola parte il giudice debba senz’altro revocare il proprio provvedimento e fissare l’udienza pubblica (art.127ter, comma 2, terzo periodo, c.p.c.)[iii].
È da ritenere, tuttavia, che in linea di principio per l’opposizione valga l’onere di proposizione entro il termine di cinque giorni decorrenti dalla comunicazione del decreto dispositivo della trattazione scritta, così come stabilito in via generale dallo stesso art. 127ter c.p.c., al fine di salvaguardare le esigenze difensive delle altre parti, in prossimità della già fissata udienza, oltre che le incombenze dell’”agenda” del giudice.
Nei confronti della parte non ancora costituita il decreto dispositivo della trattazione “cartolare” non può essere, invero, oggetto di specifica comunicazione; è però senz’altro esigibile la conoscenza di tale decreto quanto meno alla scadenza del termine per la costituzione in giudizio, alla stregua del più generale onere di esame degli atti già depositati in causa, con conseguente decorrenza contestuale del termine per l’opposizione alla modalità ex art.127ter c.p.c..
All’udienza di discussione partecipano i difensori delle parti costituite e, quindi, non opera l’ulteriore specifica preclusione alla trattazione scritta introdotta dall’intervento “correttivo” relativamente ai casi nei quali la comparizione personale delle parti sia prevista dalla legge o disposta dal giudice: preclusione che opera, a rigore, per tutte le prime comparizioni in primo grado ai fini dello svolgimento dell’interrogatorio libero ed il tentativo di conciliazione (artt. 183, 320, 420, 473bis.21 c.p.c.), anche se, in effetti, in caso di violazione, in difetto di una sanzione specifica di nullità, la rilevanza invalidante sarebbe comunque subordinata ai sensi dell’art.156 c.p.c. alla dimostrazione di una concreta pregiudizievole incidenza sul diritto di difesa.
La “correzione” più singolare apportata dal legislatore delegato è, poi, inserita all’ultimo comma dell’art. 127ter c.p.c. laddove era già previsto che “il giorno di scadenza del termine” per la trattazione cartolare “è considerato data di udienza a tutti gli effetti”: si aggiunge, infatti, una disposizione attinente alla modalità decisoria prevedendo che “il provvedimento depositato entro il giorno successivo alla scadenza del termine si considera letto in udienza”.
Viene così integrata la finzione dell’udienza anche riguardo al giudice: non solo, quindi, il deposito delle note sostituisce per le parti la trattazione orale “a tutti gli effetti” ma anche la decisione giudiziale, se depositata entro il giorno successivo, è da considerarsi come se fosse letta all’udienza stessa.
2. La finzione di lettura (fictio recitationis)
L’innovazione della finzione di lettura trova una ragione giustificatrice nell’esigenza pratica di contemperare i tempi dei depositi delle note delle parti con la concentrazione, nella stessa udienza, del provvedimento decisorio: ai sensi dell’art. 196sexies disp. att. c.p.c., infatti, il deposito della nota è tempestivamente eseguito quando la conferma del completamento della trasmissione “è generata entro la fine del giorno di scadenza”, con conseguente possibilità della inevitabile dilazione della decisione almeno al giorno successivo.
È da considerare, tuttavia, che nella giurisprudenza di merito è già riscontrabile la prassi di integrare la fissazione del termine per le note ex art.127ter mediante la prescrizione, oltre che del giorno, anche di un orario (le 9.00 o 10.00 a.m.) compatibile con l’esame degli atti nel medesimo giorno da parte del giudice.
In ogni caso, qualora il “giorno successivo” all’udienza coincida con il sabato o con un giorno festivo, ai sensi dell’art.155, commi 4 e 5 c.p.c., espressamente richiamati dall’art.196sexies disp. att. c.c., il termine è prorogato al primo giorno ulteriore non festivo: quindi nel caso di udienza cartolare di discussione di venerdì, è da considerarsi letta in udienza la sentenza depositata il successivo lunedì.
La contestualità tra la discussione e la lettura del dispositivo è stata, come noto, dapprima introdotta nel rito del lavoro dagli artt. 429, comma 1 (per il primo grado, ove è stata successivamente estesa anche alla motivazione) e 437 (per l’appello), c.p.c., quale connotato sintomatico dei principi di oralità, immediatezza e concentrazione che ispiravano il processo lavoristico; anche se non è stata prevista una espressa previsione di nullità in caso di violazione, tuttavia la giurisprudenza di legittimità si è orientata sin dagli anni settanta nel senso che la lettura del dispositivo è un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto e, quindi, la sua omissione implica la nullità insanabile della sentenza ai sensi dell’art.156, comma 2, c.p.c., venendo meno una modalità “strutturalmente ordinata al perseguimento delle finalità di concentrazione processuale, e di sollecita definizione delle controversie” attraverso la previsione di una pronuncia immutabile all’esito dell’udienza di discussione[iv].
La lettura dell’intera sentenza - cioè del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto che lo motivano - è stata successivamente, come noto, “esportata” dal rito del lavoro anche nel rito ordinario di cognizione sia pure come scelta discrezionale del giudice monocratico (art.281sexies c.p.c.) e, da ultimo, si è imposta come regola nel procedimento semplificato di cognizione avanti al giudice monocratico ( art.281terdecies, comma 1, c.p.c.), avanti al giudice di pace (art.321 c.p.c.) ed anche nel processo ordinario di appello nei casi nei quali il gravame sia ritenuto suscettibile di essere deciso senza la nomina del consigliere istruttore o, comunque, sia valutato dal consigliere istruttore di pronta soluzione (artt. 349bis, comma 1, c.p.c.; 350bis, comma 1, c.p.c.).
Tuttavia, è da sottolineare che a seguito della riforma ex d.lgs n. 149/2022 si è eliso il nesso originario di tra discussione e lettura della decisione in quanto ora l’art.281sexies c.p.c. – richiamato dagli artt. 281terdecies, 321 e 350bis c.p.c. - consente comunque al giudice, in alternativa alla lettura contestuale, di depositare la decisione nei successivi trenta giorni
Ora, la finzione di lettura non appare, invero, espressamente limitata, nel suo ambito di applicazione, né quanto al rito (ordinario o speciale) né relativamente allo stato del procedimento (trattazione o discussione): è, infatti, prevista non già dall’art.128 c.p.c., relativo all’udienza pubblica di discussione, bensì dalla disciplina generale della trattazione scritta, all’ultimo comma dell’art.127ter, ad integrazione della disposta assimilazione della modalità cartolare all’udienza (“a tutti gli effetti”).
Potrebbe, quindi, teoricamente applicarsi a tutte le decisioni adottate all’esito delle udienze comunque “sostituite” dalla trattazione scritta ai sensi dell’art.127ter, comma 1, c.p.c., ivi compresi, quindi, i provvedimenti aventi contenuti ordinatori o istruttori.
Tuttavia, non sono da trascurare i rischi di tale interpretazione estensiva della finzione di lettura: in ragione dell’espressa assimilazione del tempestivo deposito della decisione (“entro il giorno successivo”) alla effettiva lettura in udienza, infatti, il provvedimento adottato non dovrebbe neppure essere comunicato alle parti a cura del cancelliere, ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c., essendo tale adempimento previsto solo per l’ordinanza “pronunciata fuori dall’udienza”[v], con la conseguenza che le parti sarebbero private dell’utilità della comunicazione ogniqualvolta il giudice emetta la sua decisione entro il primo dei trenta giorni previsti in via generale per il deposito del provvedimento ai sensi dell’art.127ter, comma 3, c.p.c..
È, quindi, preferibile seguire la intentio legis – desumibile dalla relazione al d. lgs n. 164/2024[vi] - orientata chiaramente soltanto a sostituire per equivalente una modalità decisoria già specificamente prevista per l’udienza in presenza delle parti, in tal senso circoscrivendo la fictio alle sole ipotesi in cui il codice processuale già contempli la lettura in udienza della decisione; ipotesi, pertanto, nelle quali le parti ben possono essere onerate della verifica dello stato del procedimento a prescindere da ogni avviso da parte della cancelleria, ai sensi dell’art.136 c.p.c., che non è previsto per la sentenza contestuale all’udienza
La finzione temporale dovrebbe, altresì, implicare che la sentenza si debba intendere emessa il giorno precedente anche ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione ex art. 327 c.p.c., con elisione cioè di un giorno del periodo c.d. lungo: sarebbe, tuttavia, preferibile argomentare, in senso contrario, che il sacrificio di diritti essenziali della difesa è estranea alla ratio dell’innovazione, finalizzata soltanto a promuovere la tempestività della decisione nei limiti consentiti dalla trattazione “cartolare”, così ammettendo la decorrenza del termine per l’impugnazione solo dal giorno di deposito “effettivo” del provvedimento.
3. La decisione tardiva
La questione più delicata è senz’altro quella di stabilire le conseguenze dell’eventuale deposito della sentenza oltre il termine previsto per l’integrazione della finzione di lettura (c.d. fictio recitationis), oltre cioè il giorno immediatamente successivo all’udienza, tenuto conto anche del differimento ex art.155, commi 4 e 5 c.p.c..
Si è già ricordato l’orientamento giurisprudenziale, affermatosi nel 1977, che ha individuato nella omessa lettura della decisione in udienza una nullità assoluta pur non prevista espressamente dal codice processuale ma derivante, ex art.156, comma 2, c.p.c., dal difetto di un requisito essenziale per il raggiungimento dello scopo dell’atto, individuato nel valore della concentrazione processuale.
È utile risalire, tuttavia, anche ad una delle critiche che a suo tempo furono rivolte in dottrina alla pronuncia delle Sezioni Unite, vale a dire che l’enfasi posta sulla concentrazione nella sola sequenza finale del processo (discussione-decisione) risulta del tutto sproporzionata rispetto all’assenza di qualsiasi sanzione al difetto di concentrazione nelle scansioni processuali precedenti, inerenti alla fase introduttiva, alla trattazione ed alla assunzione delle prove, governate da termini meramente ordinatori, già stigmatizzati come “canzonatori”[vii].
In effetti si può osservare che la qualità della decisione potrebbe, in astratto, ritenersi condizionata dal tempo trascorso rispetto all’assunzione degli elementi di prova assai più che dal difetto di immediatezza e contestualità rispetto alla discussione tecnica tra i legali delle parti.
A distanza di poco più di venti anni dall’arresto delle Sezioni Unite il legislatore costituzionale (l. n. 2/1999) ha finalmente ridefinito il valore della concentrazione affermando, nell’ambito del c.d. giusto processo ex art.111 Cost., il principio della ragionevole durata del processo, in forza del quale il valore della concentrazione dovrebbe essere predicato con riguardo non già a singoli segmenti processuali bensì all’intero tempo occorrente per la tutela giurisdizionale.
Ora, anche nell’ambito della trattazione meramente “cartolare” il termine previsto all’ultimo comma dell’art.127ter c.p.c. non è affatto presidiato da una esplicita nullità né ad esso è ricollegata alcuna decadenza, essendo piuttosto espressamente da osservare soltanto ai fini della integrazione della finzione di lettura della decisione.
Si può, al riguardo, ritenere che l’eventuale deposito tardivo della sentenza, oltre il giorno successivo all’udienza, sia comunque idoneo ad integrarne la funzione ex art.156, comma 3, c.p.c. – quale decisione sulla domanda – tenuto anche conto che la discussione si è svolta solo attraverso il deposito delle note e senza il dialogo immediato con il giudice, così difettando anche quei connotati di oralità ed immediatezza che caratterizzano la discussione ordinaria in presenza.
Una volta, quindi, intervenuto il pur tardivo deposito del provvedimento, l’atto è cioè idoneo a produrre gli effetti propri della sentenza in ottemperanza al principio di conservazione formulato all’art.159, comma 3, c.p.c.
L’ipotetica nullità, del resto, sarebbe da far valere attraverso il rimedio dell’impugnazione ex art.161, comma 1, c.p.c. ed implicherebbe la rinnovazione del giudizio di merito, sia pure nella medesima sede di gravame e senza il regresso del grado [viii], con conseguente dilatazione della durata complessiva del processo verosimilmente ben superiore all’entità del ritardo della decisione; la lettura della sentenza sarebbe, altresì, rimessa ad un giudice diverso da quello avanti al quale sono state raccolte originariamente le prove.
Appare, pertanto, evidente che il valore della concentrazione, circoscritto alla sequenza finale discussione-decisione, rischia di essere non più compatibile con il valore preminente del tempo nel c.d. giusto processo e, quindi, con lo stesso interesse della parte alla pronuncia sulla rispettiva domanda in tempi ragionevoli.
Di tale considerazione sembra avere tenuto conto proprio il legislatore della riforma processuale del 2022 allorché ha consentito nel rito ordinario al giudice, in forza di una valutazione discrezionale, di non decidere contestualmente all’udienza di discussione e di riservarsi la decisione nei successivi trenta giorni (art.281sexies, comma 3, c.p.c.), così superando l’originario nesso di conseguenzialità tra discussione e lettura della sentenza.
Si può, quindi, in conclusione, auspicare che nella sede di impugnazione si possa utilmente discutere, tra i vizi del provvedimento, solo sulla offerta “lettura” degli atti processuali piuttosto che sulla “finzione di lettura” della decisione giudiziale.
[i] Per una prima riflessione sulle novità apportate dal “correttivo” al regime della trattazione “scritta” v. G. AMMASSARI, Focus sul correttivo della riforma della giustizia civile: le novità in tema di udienze atti e processo telematico, su www.questionegiustizia.it, 23.12.2024; A. CARBONE, Udienza cartolare e D.Lgs. 31 ottobre 2024, n. 164. Nuove questioni e vecchi problemi in attesa delle Sezioni Unite, www.questionegiustizia.it, 28.1.2025.
[ii] La questione relativa alla compatibilità del rito del lavoro con la trattazione ex art.127ter c.p.c. è stata rimessa alle Sezioni Unite a seguito di Cass., sez. lav., ord. 3 maggio 2024 n. 11898.
[iv] Così Cass., sez. un., sent. 22 giugno 1977, n. 2632, cui si è conformata la giurisprudenza successiva: Cass. sez. VI-III sent. 28 novembre 2014 n. 25305,; Cass. sez. II, sent. 4 gennaio 2018 n. 72; Cass. VI-II, ord. 6 dicembre 2021, n. 38521. In dottrina, la tesi della nullità assoluta fu sottoposta a rilievi critici già da V. ANDRIOLI, Dir.proc.civ.,1978,I,495 e G.GUARNERI, In tema di omessa lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, Dir.proc.civ.,1978,I,546; successivamente anche da M.VELLANI, Alcune considerazioni in tema di lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, Riv.trim.dir.proc.civ., 2008, 435.
[v] Nel senso che il provvedimento adottato all’esito dell’udienza “cartolare” debba essere comunicato dalla cancelleria alle parti costituite ai fini della legale conoscenza dello stesso, Cass. sez. I, ord. 18 maggio 2023 n. 13735.
[vi] In tal senso la Relazione illustrativa dello schema del d.lvo 31 ottobre 2024 n. 164:”si è scelto di considerare….il dato esperienziale in base al quale l’udienza di cui all’art. 420, che in virtù dei principi di immediatezza, oralità e concentrazione dovrebbe condensare in una sola udienza l’intera vicenda processuale, si snoda invece in una fase introduttiva, nella quale si esperisce il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi del primo comma, una fase istruttoria e una fase decisoria, alle quali sono destinate due o più udienze. Le disposizioni di cui si è detto (cioè la discussione in modalità ex art.127ter c.p.c.) troveranno quindi applicazione in relazione al segmento decisorio”.
[vii] G. Fabbrini, Della tutela eccessiva di talune forme processuali, Riv. Dir. Lav., 1978, II,721, che richiama la nota stigmatizzazione dei termini “canzonatori” di Redenti.
[viii] In conformità ad un principio consolidato: Cass. 25305/2014 cit.; Cass., sez. III, sent. 9 marzo 2010, n. 5659; Cass., sez. lav., sent. 8 giugno 2009, n. 13165.
Immagine: illustrazione di Günter Grass per la copertina del suo L'incontro di Telgte (1979).
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quarta puntata: Toccata e... volo in Europa
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Per volere dell’onnipotente - 2. Njeem in viaggio di affari - 3. Fermo e sequestri – 4. Ritorno a Mitiga.
1. Per volere dell’onnipotente
Mi chiamo Osama, di cognome el-Masry Njeem. Le vostre autorità giudiziarie mi indicano “Njeem” nei loro atti. Da voi in Europa, dopo questa faccenda dell’arresto a Torino, sono diventato però più popolare come “Almasri”, non ho capito perché. In verità sono molte le cose che non comprendo di voi occidentali. Lo so, voi dite di avere un vostro dio, da qualche secolo siete abituati a dominare il mondo. Ma pensate anche di giudicare gli altri con gli stessi occhi con cui voi guardate il mondo, dall’alto in basso. Perciò ci attribuite i nomi che vi piacciono di più.
Nella Libia occidentale, dove il grande presidente Fayez al-Serraj è riuscito a regalarci la pace col suo Governo di accordo nazionale, posso dire di essere un’autorità anche io. E da qualche tempo la mia forza e la mia risolutezza sono apprezzati anche altrove. Devo molto al mio generale Raouf Kara, che mi ha reso uno dei capi nell’Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, quando ancora si chiamava al-Radaa.
Ma certo, posso negare che Iddio mi abbia guidato per arrivare dove sono? Non è blasfemia riconoscere la volontà dell’onnipotente nella propria buona fortuna.
Gheddafi era ormai un servo dell’occidente, tradito dall’occidente. L’Islam non può accettare la colonizzazione di chi degrada i nostri costumi, corrompe la nostra politica, toglie al nostro popolo il potere con il sotterfugio e la menzogna. Io mi sono ribellato a tutto questo.
Allo scoppio della rivoluzione ero reputato nient’altro che un commerciante ambulante di volatili. Ciò che vendevo era halal[1], nessuno si è mai lamentato, e le mie ubare[2] erano le migliori del mercato. È stato grazie a loro che ho conosciuto berberi, tuareg, tebu: questi, passato il tempo degli uccelli, mi hanno aiutato anni dopo a cacciare le milizie di Belkasim Haftar che ancora hanno l’ardire di spingersi fino ai confini della Tripolitania, a stanare le loro spie, che si annidano ovunque tra noi, a catturare gli infedeli che attraversano il deserto infestando le nostre coste e i nostri quartieri.
Avevo già tanti amici. Quando ho visto la Radaa nascere a Souk al Juma e diventare potente in tutta Tripoli, ho capito che le mie amicizie sarebbero state importanti, che la mia capacità di riunire i seguaci avrebbe rafforzato la pace imposta dal nostro presidente, che il mio coraggio sarebbe servito al popolo libico.
Ho combattuto, ho ucciso, ho dimostrato di sapere comandare una milizia e arruolare nuovi combattenti. Nessuno come me sa organizzare centri di raccolta di sbandati e assassini, di ladri, meretrici e invertiti. Nessuno come me sa ottenere il denaro e le informazioni necessari alla nostra causa. Dispongo di carceri e magazzini, comando la polizia penitenziaria e ho due milizie direttamente ai miei ordini. Da me dipende il destino di migliaia di persone, detenute o affrancate solo precariamente.
Ora che ci siamo liberati del colonnello Gheddafi e del suo mondo malato, l’Europa ha bisogno di noi più di prima. Perché oltre al petrolio abbiamo la massa di disperati che si arrogano il diritto di volere navigare due mari: quello di sabbia, che per noi è Fezzan, e quello di acqua, Mediterraneo. E l’Europa teme gli sbandati che vanno a nord tanto quanto adora il petrolio: del petrolio non sa fare a meno, dei pezzenti che vorrebbero navigare i due mari ha paura.
Devo venire ogni tanto in Europa, dunque. Ho da fare affari e assecondare il volere dell’onnipotente.
2. Njeem in viaggio di affari
6 gennaio. Njeem inaugura il 2025 con un nuovo viaggio per l’Europa. Vola da Tripoli a Londra, facendo scalo all’aeroporto di Roma. Come passeggero in transito, a Fiumicino non subisce controllo passaporti. A Londra, dove si tratterrà sette giorni, invece esibisce un passaporto della Repubblica Dominicana.
13 gennaio. Njeem si trasferisce a Bruxelles in treno. Dal passaporto dominicano risulta che l’ingresso in area Schengen è avvenuto attraverso la frontiera francese presso il tunnel della Manica[3]. Da Bruxelles poi prosegue diretto in Germania, Bonn in particolare, dove si resterà due giorni. Nell’ex capitale della Germania ovest affitta un’automobile Mercedes esibendo una patente turca e indicando come destinazione finale del viaggio Fiumicino. Queste notizie allertano l’intellingence tedesca, che nell’arco di alcune ore metterà in moto l’unità investigativa della Corte penale internazionale.
Pare che già dal 10 luglio 2024 la Corte avesse inserito una nota, diretta solo alla Germania e non visibile agli altri Paesi, che, nella codificazione del canale di comunicazione di Interpol, era finalizzata alla raccolta discreta di informazioni su dati e documenti di viaggio, telefoni e mezzi di pagamento, persone e contatti durante la presenza in Germania di Njeem, con richiesta, per le autorità tedesche, di informare immediatamente l’ufficio del procuratore della Corte medesima[4].
16 gennaio. A bordo della Mercedes Njeem lascia Bonn in direzione sud. I connazionali che viaggiano con lui ora sono tre. Prima di Monaco di Baviera l’auto viene fermata da un controllo stradale. Njeem mostra, tra l’altro, un biglietto ferroviario a suo nome da Londra a Bruxelles datato 13 gennaio. Gli agenti, non avendo motivi contrari lasciano proseguire il quartetto, che nella serata arriva a Torino.
18 gennaio. La mattina del 18 la Mercedes con targa tedesca attira l’attenzione anche di un posto di controllo di polizia italiana. A bordo vi sono tutti e quattro i libici giunti dalla Germania. Neppure stavolta l’esame dei loro documenti giustifica un qualche seguito al controllo di routine dei documenti.
Più tardi Njeem assiste alla partita di calcio Juventus-Milan. Esce dallo stadio torinese nel tardo pomeriggio. Poco prima la camera preliminare 1 della Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti[5]. Le accuse ipotizzano crimini di guerra (oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele, tortura, violenza sessuale, omicidio e stupro) e crimini contro l’umanità (detenzione abusiva, tortura, violenza sessuale, stupro, omicidio e persecuzione), tutti commessi nella prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2015 al 2 ottobre 2024. Tra le vittime, vi sarebbero 34 persone uccise e un bimbo di cinque anni violentato.
Il mandato viene trasmesso all’Italia nonché a Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, Austria e Belgio[6].
19 gennaio. Più nel dettaglio, la sala operativa internazionale della Direzione centrale della polizia criminale trasmette alla questura di Torino la nota di diffusione “rossa” della direzione centrale Interpol alla questura di Torino. Dalla consultazione della Banca Dati Interforze emergono i dati acquisiti durante il controllo nella mattinata del 18. Di qui alla banca dati dei soggetti alloggiati si perviene rapidamente all’individuazione della nota struttura alberghiera che ospita Njeem e i suoi connazionali.
3. Fermo e sequestro
Alle 3 personale della Digos e della squadra mobile torinese viene inviato nell’hotel, da cui all’alba i quattro libici vengono prelevati. Alle 9.30 in questura viene notificato a Njeem il mandato di arresto della CPI.
Vengono fermati anche gli altri tre cittadini libici, poi denunciati alla procura di Torino in stato di libertà per il reato di favoreggiamento personale. Espulsi dal prefetto, previo nulla osta dell’autorità giudiziaria, i tre vengono infine rimpatriati. Njeem viene invece temporaneamente ristretto nella casa circondariale torinese Lorusso e Cutugno e, quindi, messo a disposizione della Corte di appello di Roma e della procura generale presso la corte di appello di Roma.
In questura gli sono stati sequestrati tre passaporti (uno libico, uno turco e uno dominicano), otto carte di credito tra Visa e Mastercard (due emesse da banche del Regno Unito e sei da istituti turchi). Ha inoltre una patente con il timbro di Ankara, che gli permette di noleggiare auto e guidare liberamente in tutti i Paesi europei, la carta per l’accesso in camera di un esclusivo albergo milanese di proprietà di una casa di alta moda e la tessera elettronica per accedere a uno stabile del “Mavera Park”. Si tratta di un elegante complesso residenziale costruito alla periferia di Istanbul, pensato come una piccola Dubai realizzata a pochi chilometri dal Bosforo[7].
Sui biglietti da visita che ha con sé Njeem risulta “general manager” di due società private turche: vi sono riportati, oltre al cellulare personale con numerazione di Tripoli, numeri di telefono fissi del Regno Unito e del Canada, Ontario. Njeem indossa inoltre un nuovo modello di Rolex Submariner Hulk, un orologio che, girando per i siti specializzati, può costare tra i 14 e i 24.000 euro.
C’è da chiedersi se il tenore di vita raccontato da questi oggetti sia frutto solo dei proventi dell’attività poliziesca e militare condotta in patria o anche dei rapporti d’affari internazionali che emergono da tante fonti. Le due società di cui Njeem appare essere manager sono iscritte effettivamente nella gazzetta del registro delle imprese turco e rispondono a un indirizzo unico nel distretto Başakşehir della capitale. Le attività aziendali sono indicate come “importazione, esportazione, placcatura del ferro e commercio di PVC”[8].
4. Ritorno a Mitiga
Dell’arresto eseguito nell’albergo torinese non viene data inizialmente alcuna comunicazione ufficiale. Solo nel corso della domenica gli attivisti di Refugees in Libya colgono un messaggio di un sito libico in cui la cattura di Njeem viene definita “un errore oltraggioso”. Due cronisti, Nello Scavo di Avvenire e Sergio Scandura di Radio radicale interpellano il ministro degli esteri Tajani, che si abbandona a un laconico “effettivamente ci risulta”. Dopo di ciò sulla vicenda scende il silenzio.
Martedì 21 gennaio Njeem viene rilasciato su disposizione della corte d’appello di Roma. Sentito il procuratore generale, la Corte rileva l’irritualità dell’arresto. C’è un vizio procedurale, insomma, poiché la CPI non ha precedentemente trasmesso gli atti al Ministro della giustizia[9].
È vero, in effetti, che la Digos torinese ha agito richiamando correttamente l’art. 11 della l. n. 237/2012, il quale dispone che – nei casi in cui sia già stato emesso dalla CPI un mandato d’arresto o una sentenza di condanna a pena detentiva – il procuratore generale presso la corte di appello, ricevuti gli atti, chieda alla corte stessa l’applicazione della misura della custodia cautelare nei confronti della persona della quale è richiesta la consegna. Tuttavia, la trasmissione degli atti al procuratore generale è affidata al Ministro della giustizia che cura in via esclusiva i rapporti con la CPI (art. 2, co., 1 l. n. 237/2012), essendo il destinatario delle richieste della CPI.
Nel caso di specie, invece, la Digos non ha atteso la richiesta del procuratore generale, ma ha agito di propria iniziativa, apparentemente ai sensi dell’art. 716 c.p.p.: tale norma, è relativa alle procedure di estradizione, in casi di urgenza, non invece all’esecuzione dei mandati d’arresto emessi dalla CPI. Di qui l’irritualità della misura[10].
Ad attendere Njeem sulla pista di Ciampino c’è, da otto ore, il jet Dassault Falcon 900, con sigla ICARG, di proprietà della Compagnia Aereonautica Italiana s.p.a.: è uno dei cinque velivoli che compongono la flotta a disposizione dei nostri servizi segreti, Aise e Aisi[11]. Alle 11.14 decolla in direzione aeroporto Caselle di Torino, dove atterra alle 12.13. La notizia della liberazione non è ancora trapelata all’esterno.
Mentre il Falcon è fermo sulla pista di Caselle, alle 15.55 esce una nota del ministro Nordio: “È pervenuta la richiesta della Corte Penale Internazionale di arresto del cittadino libico Najeem Osema Almasri Habish. Considerato il complesso carteggio, il Ministro sta valutando la trasmissione formale della richiesta della CPI al Procuratore generale di Roma”. Il suo collega Piantedosi, però, non gli dà tempo per studiare. Njeem, infatti, dopo essere stato riaccompagnato nel carcere delle Vallette a ritirare gli effetti personali trattenuti, alle 19 è di ritorno a Caselle.
Sono le 19.51 quando – a carteggio non ancora valutato dal guardasigilli – il Falcon si alza definitivamente in volo, stavolta diretto a Tripoli. Njeem lascia l’Italia e le piazze europee dei suoi affari economici.
La stazione di atterraggio del Falcon non poteva che essere quella di Mitiga. Sono le 21.50. Del resto, già da nove giorni anche Ita Airways ha inaugurato la linea Fiumicino-Mitiga, con due voli settimanali. Finalmente anche i passeggeri della compagnia di bandiera italiana hanno il privilegio di atterrare nell’aeroporto che ospita il quartier generale della RADAA e il carcere libico più famigerato.
Alle 22 sul sito ufficiale della polizia giudiziaria libica compaiono le foto dello sbarco di Njeem. Sulla pista di atterraggio, ai piedi dell’aereo, lo attendono decine e decine di miliziani. Alcuni lo caricano sulle spalle in trionfo, i più si spingono l’un l’altro sporgendo le braccia rivolte verso l’alto, per riprendere il memorabile festeggiamento coi propri cellulari. Soltanto l’onnipotente poteva regalare un lieto fine così rocambolesco e repentino.
[1] Permesso, secondo la religione islamica.
[2] L’otarda ubara è un uccello migratore, dal piumaggio chiaro adatto a mimetizzarsi nei colori delle aree desertiche. È una delle prede preferite dei cacciatori libici e per questo a rischio di estinzione.
[3] Informativa Ministro dell’interno Matteo Piantedosi alla Camera dei deputati il 5 febbraio 2025.
[4] Informativa M. Piantedosi, cit.
[5] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-I1/11, 18.1.2025. Il mandato è emesso a maggioranza dal collegio della CPI. Una giudice, infatti, esprime posizione di dissenso non sul merito delle accuse, ma sulla riconducibilità dei fatti alla giurisdizione della Corte nei confronti della Libia.
[6] Nell’informativa alla Camera del 5 febbraio il ministro Piantedosi riferisce che in realtà una nota “di diffusione blu” (blue notice), per l’inserimento del nominativo di Almasri Njeem nelle banche dati nazionali, era stata trasmessa soltanto a Belgio, Regno Unito, Austria, Svizzera e Francia, non anche all’Italia. Solo nella serata del 18 gennaio la Corte ha chiesto al segretariato generale Interpol di Lione di sostituire la nota di diffusione blu con una red notice, contenente cioè indicazioni per l’arresto, rivolta a questo punto anche all’Italia, unitamente agli altri Paesi. Alle ore 2,33 del 19 gennaio, il segretariato generale Interpol ha validato la nota di diffusione rossa per l’arresto provvisorio e la successiva consegna alla Corte penale internazionale del cittadino libico.
[7] N. Scavo, Arresto, rilascio, caos politico: 8 domande e risposte sul caso Almasri, Avvenire, 29 gennaio 2025.
[8] Il criminale di guerra che ha scosso l’Italia si è rivelato essere un cittadino turco, TG24 Bagimsiz internet gazetesi, 5 febbraio 2024, in t24.com.tr, consultato il 25 marzo 2025.
[9] App. Roma, sez. VI penale, ord. 21 gennaio 2025: l’esecuzione del mandato di arresto “non è stato preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale; ministro interessato da questo ufficio in data 20 gennaio, immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, e che, ad oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”.
[10] Per una rivisitazione critica di alcuni aspetti decisionali dell’ordinanza della corte d’appello romana cfr. L. Parsi, Un volo di stato chiude il caso Al Masri?, in questa rivista, 25 gennaio 2025.
[11] L. Berberi, Voli “schermati e conti in rosso: così si muove la compagnia aerea degli 007 italiani”, in corriere.it, 24 marzo 2022, consultato il 26 marzo 2025.
Sommario: 1. Formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori - 2. Come realizzare il senso della mediazione con onore - 3. Il mio pensiero sulla formazione - 4. Esiti dell’indottrinamento - 5. Oltre lo strato raggiungere il substrato.
1. Formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori.
Poco, mi pare, fin ora si sia riflettuto sulla formazione del mediatore dei conflitti e circolano proposte di formazione per gli aspiranti mediatori pericolose, imbarazzanti, costose.
Vanno fermate. Va viceversa ampliata l'offerta di proposte serie. Vanno diffusi tra chi vuole avventurarsi in questo campo, i criteri per scegliere tra le offerte formative più o meno commerciali e banali.
Questo mio contributo spera di dare un apporto alla riflessione e alla ricerca del modello di formazione idoneo a preparare seriamente questa figura professionale, nuova ed impegnativa ma utilissima, tenendo sullo sfondo la necessità di far conoscere alla società civile la natura del nuovo istituto giuridico e diffonderne la cultura.
La mediazione dei conflitti è UNA GIUSTIZIA ALTRA E ALTA. Anzi molto alta e difficile, come tutto ciò che mette al centro la persona con il suo mistero: una complicata macchina che ci tiene in affanno[1].
Si tratta quindi di una giovane scienza, che deve fare ancora tanto cammino. Quello finora avviato è niente rispetto a quello che ancora occorre. È niente rispetto alla ricerca teorica e pratica che nei secoli tanto ha riguardato la giustizia ordinaria e la sua giurisdizione. È niente rispetto alla creazione di un modello di formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori.
Siamo nella linea di pensiero che costruisce una modalità inusuale di rispondere al bisogno di giustizia della persona e questa richiede una conversione culturale. Pone il valore dell'et et, della responsabilità al posto della delega, della cooperazione al posto del potere, della competizione e della sopraffazione. Valori che contrastano molto col pensiero comune.
Per promuoverli nei confliggenti nelle sedute di mediazione ben li deve prima praticare il mondo di chi a vario titolo si occupa di mediazione.
Quindi il tema della formazione deve essere radicalmente ripensato per qualità e quantità. Lo statuto epistemologico della formazione del mediatore deve divenire un urgente oggetto di studio e di elaborazione culturale. Attualmente si potrebbe osare chiedersi: What is?
Per questo occorre darsi il coraggio di aprirsi a questa sfida che appare titanica, la più grande del nostro tempo: cambiare il concetto stesso di giustizia, farlo evolvere, completarlo.
Questa rappresenta una vera aporia, quella che Jacques Derrida ha definito «l’esperienza dell’impossibile»[2].
Senza coraggio, senza il rischio e l’impegno si consegna all’insignificanza la riforma di civiltà che introduce pervasivamente il concetto di mediazione.
2. Come realizzare il senso della mediazione con onore
Definita l’epistemologia della mediazione il passaggio successivo sarà realizzarla con onore. Si è chiamati infatti a saper gestire un setting appropriato e sempre originale, così come unico è sempre un conflitto interpersonale, qualunque sia la materia del contendere.
Quando si riesce ad offrirlo, oltre ogni protocollo predeterminato e rigido, si restituisce alle parti la possibilità di trovare da sé la soluzione alla questione che li oppone, senza delegarla ad un terzo, il giudice, il professore, il dirigente, il genitore. Si accetta di vederne il significato relazionale che lo ha generato con il suo incepparsi tanto umano quanto frequente, fatto di malintesi, di malevoli intenzioni, di soprusi, di giochi di potere, di truffe, ecc. La diversità dei punti di vista diviene dialogo, confronto ed arricchimento e quindi rielaborazione e conseguente risoluzione del conflitto. A ciò può portare la mediazione solo se ogni applicazione è di spessore e induce un’esperienza di vita, veramente umana, che consente perfino a chi è stato ‘ingiusto’ di “riaggiustare” se stesso e la propria vita. Mediare, in tutti gli ambiti, significa pertanto realizzare una giustizia, profondamente anelata da ogni essere, che pone al centro la persona in carne ed ossa e la sua relazione con l'altro.
Il percorso può essere anche difficile, ma ne vale la pena in quanto è volto a rimuovere le cause del dolore che ogni conflitto, ogni contenzioso produce. Prendendosi cura dell’uomo, la mediazione è quindi la risposta più radicale e deflattiva, forse risolutiva del problema Giustizia.
Migliora la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti.
Quindi va ben indagato il modello operativo da applicare, che la collochi in un orizzonte di valore che è interessante ricercare e perseguire perché possa essere un volano di cambiamento migliorativo della risposta al bisogno di giustizia della persona.
Io studio e applico il modello umanistico-filosofico che mi consente di arrivare a livelli profondi della contesa, è un modello che evita che un procedimento, nato per consentire un confronto libero tra i protagonisti delle vicende conflittuali, condizione che permette quel sostanziale riavvicinamento che un procedimento formalizzato, qual è il giudizio, impedisce, diventi una prassi di seconda categoria. Sarebbe questa un’opportunità persa. Una risposta mancata.
Il nostro senso di responsabilità dovrebbe chiamarci tutti a sentirci coinvolti in questa svolta di civiltà che l’istituto della mediazione, ben attuato, consente. Ognuno è chiamato a conoscerla, a capirne la portata e difenderla. Tutti dobbiamo convergere verso un modello che eviti che la società abbia un servizio “povero”, orientato solo al "fare".
3. Il mio pensiero sulla formazione[3]
La formazione è un’operazione complessa che non può essere confusa con l’informazione, con una dotta lezione frontale, con il riassunto di una buona lettura fatta o di un buon testo di cui il docente è autore. Questo può essere consegnato allo studio individuale, oltretutto più proficuo: il corsista, di solito un laureato, sa bene capire quel che legge, soffermandosi, sottolineando, metabolizzando e mettendo in discussione. Non ha bisogno di un docente che gli offra una sintesi.
È inaccettabile che i cenni di operatività, ove presenti, i momenti di laboratorio, si concentrino sulle tecniche. Restino ancorati solo nel campo del fare. Spesso vengono solo presentati con slides o con qualche esercitazione imitativa.
Attualmente ci sono molti modelli operativi. Per padroneggiarli è necessario mettersi in situazione e provarsi. Utile in formazione è incontrarne più di uno. Forse occorrerebbe tutto il monte ore totale degli attuali corsi solo per scoprire le potenzialità di ognuno di questi. Certamente comunque non basta ascoltarne la presentazione. Né si tratta di addestrarsi. Ogni mediazione è un “vestito su misura”. Ogni conflitto è unico anche se i motivi oggettivi sono sempre gli stessi. Quelli soggettivi sono sempre diversi. Scoprire più protocolli operativi è certamente il modo di attrezzarsi con strumenti molteplici che poi, di volta in volta, il mediatore sfodererà e userà al momento opportuno. Una varietà da cui ciascun corsista partirà, che poi porterà a sintesi fino a giungere a costruire un proprio stile. Vanno tutti bene, nella logica del modus pensandi della mediazione: et et.
Inoltre mi piace invocare più che un modello di tecniche di mediazione, un mediatore che crea modelli di tecniche.
Quel che lascia sconcertati per la pericolosità e la banalità che sottende, è il modo prevalente di apprendere e di insegnare tali modelli nelle proposte di corsi.
Va di moda la scaletta di “istruzioni per”, tanto amate, in vero, dai corsisti che si sentono rassicurati da un elenco di pratiche vincenti, di frasi fatte che magicamente sgretolano i contrasti, di stock di procedure da imitare. Ma il formatore deve sapere resistere a questa richiesta. Assecondarla sarebbe un tranello: come dare una sicurezza illusoria e deludente a breve e a lungo termine.
Onestamente, chi ne ha letta qualcuna, può dire di essere riuscito ad applicarla ottenendo le promesse di efficacia che prometteva? È riuscito a diventare abile e ad applicare le istruzioni così lusinghiere ricevute? Di solito no, semmai ha aumentato il senso di frustrazione: “credo di sapere come si fa, eppure…”
Allo stesso modo la visione di un tutorial insinua l’idea di diventare subito esperti nella gestione delle più disparate questioni conflittuali, come se fosse ovvio ed automatico sapere come e dove “mettere le mani”.
Il giudizio su molte offerte di formazione non muta qualora a sostegno dei programmi didattici vi siano slides o filmati, né quando i corsi hanno assunto tratti più operativi, addestrando – mediante riprese video di simulazioni ‘interpretate’ dagli stessi discenti – all’acquisizione delle tecniche, indipendentemente dal modello di mediazione a cui esse si riferiscono o dall’ambito in cui le stesse dovrebbero essere applicate.
Stereotipate formule di rito riscontrabili spesso nei video che tanto copiosi, quanto ripetitivi, sono reperibili in rete o in libreria, o peggio, i software di gestione del procedimento, la cui supponente pretesa è ‘ammaestrare’ i mediatori, mostrando loro ‘come si fa”, o peggio, ‘cosa si deve replicare’.
A volte gli interessati hanno pensato perfino di poter strutturare la propria identità di mediatore e le necessarie capacità attraverso l’interazione con immagini e situazioni cui si attribuiscono in modo fabulistico ed autoreferenziale le fattezze che si desiderano, ‘giocando’ così in forma anche piacevole ed accattivante con trame che hanno l’unico difetto di essere tanto finte, quanto superficiali: dei videogames che, in definitiva, creano la falsa convinzione di acquisire tecniche di relazione serie ed efficaci. Una contraddizione in termini, un paradosso.
Simulare virtualmente può risultare, al di là di ogni ingenua speranza, un triste imbroglio autoconsolatorio.
4. Esiti dell’indottrinamento
Il risultato che ne segue è un superficiale indottrinamento, che tanto danno ha arrecato alla professionalità e all’autorevolezza che invece la collettività deve riscontrare nel ruolo di mediatore. È troppo alto il numero di mediatori inidonei in quanto sprovvisti tanto di una adeguata consapevolezza del loro delicato ruolo, quanto di una reale preparazione. Così si determina, amaramente, lo status di una professione di secondo piano, o, addirittura, di un istituto subìto che si squalifica degradandosi in un involontario ostacolo all’accesso alla giustizia. Persino può divenire uno strumento per addomesticare il riconoscimento dei diritti in nome di una salomonica ‘via di mezzo’, di rinunce più o meno pesanti magari con blandizie e manipolazioni, o semplicemente forme di sdolcinato buonismo.
In questo modo chi ha l’onore e il privilegio di elaborare l’offerta formativa, risulta protagonista, più o meno consapevole ma gravemente colpevole, dello screditamento del ruolo dei mediatori, oltre che della stessa mediazione.
Il formatore inoltre è altro dal docente. Il compito del buon formatore, e bene lo sa chi offre corsi di formazione d’eccellenza, di cui cura perfino i minimi dettagli, è di creare degli allievi non imitatori ma autonomi generatori di procedure. Per questo è auspicabile in una buona proposta formativa che il docente si astenga, non solo dal porsi come modello da imitare ma anche dal solo raccontare quello che lui ha fatto nelle varie situazioni: ciò può bloccare nell’allievo il suo processo creativo e progettuale, senza il quale non può avvenire la formazione vera.
5. Oltre lo strato raggiungere il substrato
Comunque sia il tema delle tecniche è quel che io considero lo “strato”. Oltre, e prima, c’è il “substrato”: il modo di essere nel profondo del mediatore, che attiene ai concetti dell’antropologia filosofica. Io ho raccolto i concetti più significativi e per ciascuno ho strutturato un seminario intensivo di due giornate dove le alimentazioni culturali sono solo l’input di un lavoro che poi si svolge tutto nell’interiorità, nella scoperta dei preconcetti e delle convinzioni sedimentate, delle paure e dei blocchi. Nel vivere esperienze strutturate ad hoc per far fare contatto con il proprio sé, dove ogni cosa assume una cifra diversa, una connotazione emotiva personale, una forza inibente squisitamente propria e spesso indicibile.
Infatti la consapevolezza della propria dimensione umanistica la si sviluppa e la si raggiunge non attraverso il detto ascoltato ma attraverso il proprio sentito, attraverso un fare riflessivo, attraverso un “gioco” sapientemente guidato dal formatore e delicatamente commentato nel gruppo. Il tutto frutto di una conoscenza della scienza della formazione, che tenga conto della persona umana e dei suoi vissuti soprattutto conflittuali.
Ovviamente questa formazione richiede la presenza fisica. Non può essere fatta on line. Simbolicamente è coadiuvante che il corsista “esca” da casa, interrompa il ritmo quotidiano, e “vada verso” una occasione di cura di sé, di introspezione, di riflessione, di silenzio. Che “resti” in un “luogo “protetto” dove possa guardare ed essere guardato dai compagni di questa avventura e provarsi anche in simulazioni che possono prevedere la messa in gioco del corpo, lo scambio relazionale, con più persone del gruppo o con un partner.
Uscire da, andare verso, restare nel, luogo protetto, scambi relazionali, rimandano a concetti, che altrove abbiamo già sviluppato, e che sono i pilastri della mediazione. Il luogo protetto è la stanza della mediazione, in esso si sosta nel conflitto e si prova ad uscire da sé per incontrare l’altro.
Inoltre vedo due macroaree nella formazione. La parte destruens, che svela e scardina le categorie culturali di provenienza, i motti e le regole dalla famiglia e del contesto sociale, i pregiudizi e le paure. E la parte costruens che fonda i nuovi pensieri evolutivi, le nuove mappe mentali più rispondenti alle istanze del nostro tempo.
Questo il lavoro a cui ritengo debba essere dedicato il miglior tempo concesso dalle indicazioni ministeriali. Su questa base di formazione, comune a tutti gli ambiti di applicazione della mediazione, si innesta facilmente e senza ostacoli l’apprendimento delle tecniche, specifiche e differenziate.
Ma cosa significa studiare se stesso secondo il punto di vista antropologico e filosofico?
Significa imparare a conoscere come si reagisce, non solo a livello razionale ma soprattutto emotivo ed affettivo, nella dinamica relazionale. Con se stesso e con gli altri.
Mediante gli stimoli forniti da un formatore che ben padroneggi queste manifestazioni, si impara a intercettarne gli aspetti problematici, li si sperimenta in primis sulla propria pelle. Sono molteplici, per questo la formazione richiede tempi lunghi e lenti, ha bisogno di corsi ricorrenti. Fatti di un lavoro mai ripetitivo, perché centrato sulla persona, sempre originale e quindi irripetibile; che sceglie di fare un cammino dove nessuno può barare, né con gli altri, né tantomeno con se stesso. Pena il fallimento.
Si tratta di un piano di formazione continua, che non finisce mai se è vero che occorre rinforzare quanto acquisito e rinnovarlo nel tempo, per evitare che la formazione raggiunta si isterilisca determinando una sorta di analfabetismo di ritorno.
Gli aspetti problematici della relazione sono tanti e complessi. Il percorso di formazione li deve tutti sondare. Per dare un’idea dell’impegno serio e profondo richiesto ai corsisti e al formatore stesso si può avviare un parziale elenco di alcuni concetti come:
vincere/perdere/donare/ben-essere/responsabilità/diversità/dignità/autostima/spaziovitale/giusta distanza/compassione/intelligenzaemotiva/comunicazioneprofonda/silenzio/autenticità/identità/ascolto empatico/nongiudicare/nonconsigliare/fiducia/cambiamento/paura/coraggio/limite/forza/autodeterminazione/relazione/prepotenza/gelosia/invidia/aggressività/furbizia/sotterfugio/menzogna/vendetta/sopraffazione.
Sono tante le sfumature che intervengono nelle criticità della vita relazionale, dove si manifestano situazioni di luce e zone d’ombra. Fanno parte della nostra vita quotidiana e per questo non possono mancare nella formazione del mediatore che si trova ad affrontare nel suo lavoro questa complessità. Ormai è noto a tutti, anche se nella prassi sembriamo dimenticarcene, che nella comunicazione quel che conta non è quel che si dice ma quel che si è. Importante è quindi l’intenzione che sta dietro a ciò che diciamo.
Per questo il mio convincimento, correndo il rischio della ripetitività, come un mantra, è: se si sa “essere”, gli strumenti operativi diventano efficaci, come avviene per gli strumenti musicali. Le loro potenzialità si esprimono in base a chi li suona, c’è chi li suona in modo scolastico, chi da grande maestro, chi da eccellenza assoluta. Chi da apprendista stregone.
“Piuttosto che niente preferisco piuttosto” recita un detto popolare; relativamente ad un professionista mediatore che ha conosciuto solo il fare, io dico senza dubbio: “meglio il niente”.
[1] Giovanni Cosi, Potere diritto interessi. Introduzione alla gestione dei conflitti, Libreria Scientifica, 2011; L'accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, Utet 2017.
[2] Jacques Derrida, Forza di legge. Il Fondamento mistico dell'autorità, Bollati Boringhieri, 2003; Confessare l'impossibile. Pentimento e riconciliazione, Cronopio, 2018 ; Dal diritto alla filosofia, Abramo, 1990.; Al di là delle apparenze. L'altro è segreto perché è l'altro, Mimesis, 2010.
[3] Il tema è trattato più dettagliatamente nel saggio La formazione del mediatore, Utet giuridica, 2013 e in Il senso della mediazione dei conflitti, Giappichelli, 2024.
Immagine: Sebastiano del Piombo, Giudizio di Salomone, 1505-1510 circa, olio su tela, Kingston Lacy, Wimborne Minster, Regno Unito.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.