ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Incostituzionalità della legge e illegittimità del regolamento attuativo (nota a sentenza Consiglio di Stato 4 giugno 2024, n.4998)
di Renato Rolli e Mariafrancesca D’Ambrosio ***
Sommario: 1. Ricostruzione della vicenda contenziosa; 2. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato; 3. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma regolativa o attributiva del potere amministrativo; 4. L’autonomia del momento amministrativo: la storica sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8/1963.
1. Ricostruzione della vicenda contenziosa
Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania l’associazione sindacale DIRER Campania (di seguito “DIRER”) impugnava il regolamento avente ad oggetto “Ordinamento amministrativo della Giunta regionale” approvato dalla Giunta regionale con delibera del 29 ottobre 2011 n. 612 ed emanato dal Presidente della Giunta regionale con atto del 15 dicembre 2011, n. 12; con motivi aggiunti, inoltre, impugnava le delibere della Giunta regionale del 10 settembre 2012, nn. 475, 478 e 479, con le quali venivano apportate modifiche e integrazioni al regolamento impugnato con il ricorso principale, definite le strutture ordinamentali della Giunta regionale in attuazione delle disposizioni regolamentari, e, infine, approvato il disciplinare per il conferimento degli incarichi dirigenziali, poi sostituito da un nuovo disciplinare approvato con delibera giuntale del 13 novembre 2012, n. 661, anch’essa impugnata con motivi aggiunti.
La ricorrente rilevava due i profili di illegittimità costituzionale.
Per un primo profilo, la norma era detta in contrasto con gli articoli 121, comma 4 e 123, comma 1, Cost. per violazione dell’interposto art. 56, comma 2, dello Statuto regionale (approvato con l.reg. 28 maggio 2009, n. 6), avendo previsto un procedimento per l’approvazione del regolamento divergente da quello disciplinato in sede statutaria: invero, l’art. 56, comma 2, dello Statuto regionale imponeva l’approvazione dei regolamenti da parte dal Consiglio regionale e l’emanazione del Presidente della Giunta, previa deliberazione di quest’ultima; la legge regionale contestata, di contro, aveva previsto che fosse acquisito il parere obbligatorio ma non vincolante della commissione consiliare permanente, senza approvazione da parte del Consiglio.
Da altro punto di vista, la ricorrente sosteneva l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, l. reg. n. 8 del 2010 per contrasto con l’art. 123 Cost. in ragione della violazione dell’interposto art. 56, comma 4, dello Statuto regionale: a fronte dell’obbligo imposto dalla disposizione statutaria – in caso di adozione di legge regionale di autorizzazione della Giunta ad emanare regolamenti in materie già disciplinate con legge, rientranti nella competenza esclusiva della Regione – di determinare le “norme generali regolatrici della materia”, con conseguente abrogazione delle norme legislative vigenti a far data dall’entrata in vigore delle norme regolamentari, il legislatore regionale s’era limitato a richiamare i principi generali dell’azione amministrativa, senza dare indicazioni in merito al modello organizzativo prescelto cui la Giunta avrebbe dovuto dare attuazione con le disposizioni regolamentari.
In primo grado, il Tar adito respingeva il ricorso e i motivi aggiunti, ritenendoli infondati, così come entrambi i profili di illegittimità costituzionale prospettati dalla ricorrente.
Avverso la sentenza DIRER proponeva appello, contestando nei primi due motivi la reiezione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nel ricorso ed esponendo negli altri quattro motivi la critica alle ragioni poste a fondamento della reiezione delle altre doglianze articolate con il ricorso introduttivo del giudizio.
Con ordinanza del 19 settembre 2022, n. 8071 la sezione V del Consiglio di Stato, risolto preliminarmente in senso positivo il profilo della legittimazione a ricorrere sollevava questione di legittimità costituzionale, dubitando della legittimità dell’art. 2, l. reg. Campania 6 agosto 2010, n. 8 per contrasto con l’art. 123 Cost., per violazione dell’interposto art. 56, comma 4, dello Statuto regionale, nonché per contrasto con gli articoli 121 e 97 Cost. In particolare, la Sezione riteneva rilevante per la decisione del giudizio la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’appellante, in quanto il suo accoglimento avrebbe avuto “l’effetto di eliminare il presupposto normativo sulla base del quale è stato adottato il regolamento impugnato (così come avvenuto a seguito di Corte cost. 23 novembre 2021, n. 218)”.
Successivamente, con sentenza del 10 luglio 2023, n. 138, la Corte costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Campania 6 agosto 2010, n. 8 (Norme per garantire l’efficienza e l’efficacia dell’organizzazione della Giunta regionale e delle nomine di competenza del Consiglio regionale); in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dichiarava altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della legge reg. Campania n. 8 del 2010, il quale prevede che la legge regionale Campania n. 11 del 1001 sia abrogata dalla data di entrata in vigore del regolamento.
Così concluso il giudizio di legittimità costituzionale, la FEDIRETS (Federazione Dirigenti e Direttivi – Enti territoriali e Sanità), subentrata a seguito di successive fusioni alla DIRER Campania, depositava motivi aggiunti prospettando, sotto vari profili, l’illegittimità costituzionale della normativa sopravvenuta. In particolare, evidenziava che anche quest’ultimo intervento legislativo sembrava presentare profili di illegittimità costituzionale in quanto con la «legificazione» delle disposizioni del regolamento n. 12 del 2011 e la «conferma[…] dell’organizzazione degli uffici così come delineata dalla deliberazione di Giunta regionale n. 478 del 2012, e succ. int. e mod., la Regione Campania avrebbe inteso risolvere in suo favore ex auctoritate legis una controversia pendente dinanzi al giudice amministrativo, limitando il diritto di difesa dell’appellante e, così, violando il principio della parità delle parti dinanzi al giudice, con ulteriore incidenza sull’esercizio della funzione giurisdizionale affidata a quest’ultimo». Altresì deduceva l’incostituzionalità dell’art. 7, co. 2, della l. reg. n. 15 del 2023 anche in relazione al parametro di cui all’art. 136 Cost., per violazione del giudicato formatosi sulla sentenza della Corte costituzionale del 10 luglio 2023, n. 138, poiché, nel fare «oggetto di espressa legificazione l’intero articolato (dall’art. 1 all’art. 42) del regolamento n. 12 del 2011, avrebbe vanificato del tutto gli effetti della suddetta pronuncia di incostituzionalità»[1].
2. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato
La vicenda posta all’attenzione del Consiglio di Stato mette in luce la questione relativa alle sorti del regolamento amministrativo adottato a seguito della dichiarazione di incostituzionale di una legge.
Nel dirimere la controversia, i giudici di secondo grado hanno espresso il principio a mente del quale «qualora la Corte costituzionale dichiari costituzionalmente illegittima una legge regionale di riforma dell’organizzazione della regione per aver previsto una delegificazione senza indicare criteri sufficientemente dettagliati, sì da attribuire alla giunta regionale una sorta di delega in bianco, il regolamento adottato dalla regione sulla base di tale legge è illegittimo; e va annullato dal giudice amministrativo anche se la regione lo abbia successivamente recepito con legge: tale “legificazione” del regolamento non è infatti idonea a sanare l’illegittimità dell’atto che risulta adottato in assenza di base normativa, vista la declaratoria di illegittimità costituzionale della legge di autorizzazione».
In questo senso il giudicante dà continuità ad un orientamento consolidatosi in materia, secondo cui «la legge in contrasto con la Costituzione è una legge invalida ancorché efficace sino alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che la dichiara illegittima. Tale sentenza, producendo effetti retroattivi incidenti sui rapporti pendenti, comporta che il provvedimento amministrativo viene privato, anch’esso con effetti retroattivi, della sua base legale. La conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere»[2].
La comprensione della decisione del giudice amministrativo passa attraverso l’analisi dell’istituto dell’invalidità e dei suoi effetti.
3. Effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma regolativa o attributiva del potere amministrativo
La dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma regolativa o attributiva del potere viene fatta rientrare nel novero delle ipotesi di invalidità sopravvenuta[3].
V’è, però, un isolato orientamento secondo il quale l’invalidità sarebbe originaria[4], atteso che la declaratoria di incostituzionalità espelle dall’ordinamento una norma fin dalla sua origine: in tal senso si osserva che le pronunce della Corte costituzionale determinano il venir meno – in via retroattiva – della norma censurata, perché operano la ricognizione di un vizio originario della norma stessa, la cui eliminazione non è assimilabile a quella che deriva dall’abrogazione della norma precedente ad opera della norma sopravvenuta.
La dottrina e la giurisprudenza hanno qualificato tale invalidità ora come nullità ora come annullabilità.
Un primo orientamento distingue l’ipotesi in cui la disposizione di legge dichiarata incostituzionale attribuisce il potere sul quale si fondano i provvedimenti emanati, da quella in cui la stessa legge si limita a disciplinare le modalità di esercizio del potere. In quest’ultimo caso l’atto sarebbe soltanto annullabile, con la conseguente necessità di impugnarlo entro il termine di decadenza dinanzi al giudice amministrativo; nella prima ipotesi, invece, il provvedimento dovrebbe considerarsi nullo, in quanto emanato nell’esercizio di un potere inesistente, con la conseguenza che, stante il carattere insanabile della nullità, il cittadino potrebbe giovarsi della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale in qualsiasi momento, senza incontrare preclusioni derivanti dal mancato rispetto dei termini decadenziali[5]. A fronte dell’inesistenza del potere, peraltro, la relativa controversia dovrebbe essere devoluta non al giudice amministrativo, ma il giudice ordinario venendo in considerazione un’ipotesi di carenza del potere.
Secondo altra dottrina, si tratterebbe di ipotesi di inesistenza.
Tale soluzione, tuttavia, si presta a delle cesure.
L’inesistenza sopravvenuta è una contraddizione in termini, atteso che per definizione è inesistente ciò che non è mai venuto ad esistere.
Una norma inesistente non è una norma, ma solo l’apparenza di una norma.
È inesistente infatti la norma priva degli elementi che ne rendono possibile la riconoscibilità. Tale insussistenza, però, non può che essere originaria, poiché un atto giuridico venuto ad esistere, anche per breve tempo, non può considerarsi come mai esistito[6].
L’orientamento accolto dalla giurisprudenza amministrativa e prevalente in dottrina ritiene, infatti, che l’atto emanato in base ad una norma dichiarata in costituzionale sia soltanto annullabile[7]. Ciò per una serie di ragioni.
Rileva, anzitutto, la circostanza che il provvedimento sia stato emanato da un organo che esercitava le sue funzioni sulla base di una legge vigente al momento in cui l’atto è stato emesso; che tra la legge e l’atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile fra l’atto preparatorio e l’atto finale del procedimento amministrativo.
V’è, poi, l’esigenza di tutelare l’affidamento che tali atti sono in grado di determinare nei terzi: tale affidamento sarebbe leso se l’incostituzionalità della norma comportasse la riapertura dei termini di impugnazione del provvedimento. La retroattività che caratterizza le pronunce di illegittimità costituzionale è, infatti, impropria, atteso che essa si arresta dinanzi ai rapporti esauriti[8].
È palmare la differenza rispetto alla retroattività delle norme di abolitio criminis, la cui forza è in grado di travolgere finanche le sentenze passate in giudicato.
L’effetto circoscritto della retroattività della sentenza[9] rappresenta un corollario del principio di certezza e stabilità del provvedimento amministrativo, principio che trova la sua ragion d’essere nella funzione assegnata all’attività amministrativa, consistente nella gestione e nella cura dell’interesse pubblico; nonché del principio di intangibilità del giudicato che cristallizza il contenuto della sentenza, non ammettendone successive modifiche.
Oltre ad escludere che la declaratoria di incostituzionalità della legge attributiva del potere alla p.a. riapra il termine per impugnare il provvedimento – in forza di un principio di autoresponsabilità del privato-ricorrente –, il giudice amministrativo ha sempre ritenuto di essere sfornito del potere di rilevare d’ufficio il vizio di incostituzionalità[10].
Tale vizio, secondo la giurisprudenza, deve trovare riscontro in un apposito motivo di ricorso. In quest’ottica, le disposizioni dell’art 1 della Legge costituzionale 8 febbraio 1948, n. 1 e dell’art 23, Legge 11 marzo 1953, n. 87, che consentono la proposizione dell’incidente di costituzionalità nel corso del giudizio anche d’ufficio, ricevono un’interpretazione assai riduttiva.
In particolare, partendo dalla previsione dell’art. 23 che richiede, ai fini della rimessione degli atti alla corte costituzionale, non solo la non manifesta infondatezza della questione, ma anche che «il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale», la giurisprudenza afferma che se la violazione di una norma di legge non è specificamente dedotta tra i motivi di ricorso, l’eventuale dubbio di legittimità costituzionale che sorge in relazione a tale norma non potrebbe considerarsi rilevante.
In questo senso, dunque, non sarebbe sufficiente invocare il principio secondo il quale il giudice ha il potere di sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale, atteso che tale potere viene in rilievo a condizione che il giudice debba fare applicazione, ai fini della decisione, della norma sospettata di incostituzionalità.
Il rigore della giurisprudenza è, però, destinato ad attenuarsi quando si tratti di pronunce che si occupano degli effetti della sentenza di incostituzionalità nei giudizi pendenti[11].
In tal caso, infatti, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di incostituzionalità della norma su cui si fonda il provvedimento, il giudice amministrativo ha il dovere di rimuovere quest’ultimo, anche se il vizio di legittimità riflesso non era stato dedotto come motivo di ricorso. A sostegno, si rileva che l’interesse generale impedisce che le norme dichiarate incostituzionali trovino ancora applicazione e consentano la consolidazione dell’atto assunto sulla loro base[12].
4. L’autonomia del momento amministrativo: la storica sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8/1963
Non sono immediati né diretti gli effetti che si ripercuotono su eventuali provvedimenti amministrativi adottati sulla base della disposizione legislativa dichiarata illegittima costituzionalmente.
Circa il regime dell’atto amministrativo adottato sulla base della legge dichiarata incostituzionale, si è soliti parlare di ‘effetto viziante’ e non già di ‘effetto caducante’ in ragione della cosiddetta «autonomia del momento esecutivo rispetto al momento legislativo e dell’operatività del meccanismo della caducazione automatica a seguito della declaratoria di incostituzionalità della legge di disciplina del rapporto»[13].
Si tratta del principio di diritto che emerge dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 8 del 1963[14], secondo la quale «la dichiarazione di illegittimità costituzionale ha efficacia ex tunc, salvo il limite degli effetti irrevocabilmente prodotti dalla norma incostituzionale (situazioni e rapporti divenuti incontrovertibili per il maturarsi di termini di prescrizione o di decadenza, o perché definiti con giudicato etc.) ed opera erga omnes, cioè anche fuori dell’ambito del rapporto processuale nel quale è sollevato l’incidente di costituzionalità, distinguendosi dall’abrogazione della legge, perché si estende ai fatti anteriori»[15].
I giudici osservano che la norma dichiarata incostituzionale non può considerarsi inesistente (con conseguente inesistenza dell’organo creato in base ad essa e degli atti emessi da tale organo) e che tra legge ed atto amministrativo non sussiste un rapporto di conseguenzialità analogo a quello ravvisabile tratto preparatorio atto finale di un procedimento amministrativo.
Nella motivazione della pronuncia si legge che l’atto amministrativo, quale manifestazione di autonomia del potere esecutivo, ha una vita ed una sua individualità propria e non resta direttamente travolto dalla cessazione di efficacia della legge.
Erra perciò il giudice amministrativo che dichiara improcedibile il ricorso giurisdizionale avverso gli atti emanati dall’organo creato da una norma dichiarata incostituzionale sul riflesso che si tratta di atti inesistenti. Il Consiglio di Stato ha escluso che «la norma dichiarata incostituzionale debba dichiararsi inesistente con la conseguenza che inesistente debba essere anche l’atto amministrativo che si fonda su di questa». Il percorso logico giuridico della decisione, in sostanza, si può riassumere nel modo seguente: la legge dichiarata incostituzionale non è nulla, ma annullabile; la stessa legge, benché successivamente incostituzionale, esiste e produce i suoi effetti fino alla declaratoria di illegittimità da parte della Corte costituzionale. Di conseguenza anche l’atto amministrativo emesso in base a legge dichiarata incostituzionale non è inesistente ma annullabile, e pertanto spiegherà i suoi effetti fino a quando non interverrà una pronuncia su di esso del giudice amministrativo, che ne produce il suo definitivo annullamento; escludendo in tal senso un’efficacia diretta della sentenza della Corte sul risultato di una qualsiasi attività amministrativa[16].
In altri termini, tra la legge e l’atto amministrativo non vi un rapporto d presupposizione.
L’atto amministrativo mantiene una vita ed una individualità propria: esso quindi non viene investito dalla cessazione dell’efficacia della legge su cui si basa, pur subendo ovviamente, l’influenza delle vicende della norma cui ha dato applicazione.
La decisione del Consiglio di Stato, nell’affrontare la questione riguardante il rapporto di conseguenzialità tra legge e l’atto amministrativo fonda il suo ragionamento sull’autonomia del potere esecutivo, contrapposto al rapporto intercorrente tra atto preparatorio e finale di un procedimento amministrativo. Se il potere esecutivo non fosse autonomo rispetto a quello legislativo, la caducazione della legge derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale creerebbe automaticamente la caducazione dell’atto amministrativo emanato in base ad essa, in un più ampio contesto di un procedimento amministrativo. Si tratterebbe di invalidità ad effetto caducante.
Quando l’invalidità derivata dell’atto consequenziale è ad effetto caducante, l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale anche se quest’ultimo non sia stato impugnato.
Non sembra convincente l’orientamento che delinea, come conseguenza della pronuncia di legittimità costituzionale, la rimozione dell’atto sic et simpliciter[17].
Del resto, affermare che un determinato provvedimento, anche se viziato, possa sparire dall’ordinamento senza una formale rimozione – rinvenibile nell’annullamento a seguito di ricorso giurisdizionale –, bensì soltanto per l’effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma in base alla quale è stato emanato, significa negare l’imperatività stessa dell’atto amministrativo.
È, dunque, alla luce della sentenza dell’Adunanza Plenaria che si comprende la decisione in commento del Consiglio di Stato, secondo cui, in definitiva, «la conseguenza sarà sempre l'annullabilità e non la nullità dell’atto anche nel caso in cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima sia l’unica attributiva del potere».
Ne discende che quando l’invalidità derivata è ad effetto viziante, l’atto consequenziale non viene automaticamente travolto dall’annullamento dell’atto presupposto: l’atto consequenziale è affetto da illegittimità; l’atto consequenziale è affetto da una invalidità che deve essere fatta valere nei termini di decadenza. Diversamente l’atto consequenziale si cristallizza anche se illegittimo, anche se invalido.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i paragrafi 1 e 4 al Prof. Renato Rolli i restanti alla Dott.ssa Mariafrancesca D’Ambrosio
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 giugno 2024, n. 4998
[2] V. Cons. Stato, sez. VI, 11 settembre 2014, n. 4624
[3] M.A. Sandulli, La giustizia costituzionale in italia, in Giur. Cost., 1961, 830 ss
[4] Sul punto si vede: S. Romano: “Osservazioni sulla invalidità successiva degli atti amministrativi”, in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di Giovanni Vecchielli, Giuffré, Milano, 1938, p. 435; A. Romanelli: “Sulla cosiddetta invalidità successiva degli atti amministrativi”, Jus, 1942, pp. 123 ss.; P. Gasparri: L’invalidità successiva degli atti amministrativi, Nistri-Lischi, Pisa, 1939, p. 45; F. Benvenuti: “Inefficienza e caducazione degli atti amministrativi”, Giur. compl. Corte Suprema Cass., 1950, pp. 916 ss.; G. Pagliari: Contributo allo studio della c.d. invalidità successiva degli atti amministrativi, Giuffré, Milano, 1991, pp. 1 ss.
[5] Cons. Stato, sez. VI, n. 51/1960; nello stesso senso cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 aprile 1960 n. 241 e Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 1961 n. 234
[6] F. MODUGNO, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del “potere esecutivo”, in Giur. cost., 1963, 1728; N. LIPARI, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze, cit., 2259; G. GIONFRIDA, Giudizio di legittimità costituzionale della legge e questioni pregiudiziali attinenti al cosiddetto processo principale, in Studi in onore di Ernesto Eula, Milano, 1957, II, 98 ss.; B. CAVALLO, Rapporti di priorità fra questioni, cit., 24 ss.; P. CALAMANDREI, Corte costituzionale e autorità giudiziaria, cit., 20; M. CAPPELLETTI, La pregiudizialità, p.103; In particolar modo quanto agli effetti della illegittimità costituzionale di norme istitutive di organicfr. C.ESPOSITO, Inesistenza o illegittima inesistenza di uffici ed atti amministrativi per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di norme organizzatorie?, in Giur. cost., 1960, 330 ss., secondo cui i pubblici uffici non si costituiscono “magicamente” con una disposizione di legge e l’attività di questi non può volatilizzarsi con la eliminazione di tale disposizione; quanto, invece, alle norme attributive di poteri ad organi già esistenti cfr. G. BORZELLINO, Illegittimità costituzionale di norme e validità di atti amministrativi, in Foro amm., 1962, 13 ss; CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1984, II, 385.
[7] V. Tar Salerno, Sez II, 4 febbraio 2015, n. 239
[8] Consiglio di Stato, sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3449, Pres. Giaccardi, Est. Greco, p. 3 della motivazione in diritto dove si afferma ulteriormente che «in tema di effetti della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma attributiva di un potere alla p.a. sul provvedimento che ne costituisce esercizio, il più recente orientamento è nel senso che, pur non essendovi travolgimento automatico del provvedimento per effetto del venir meno della norma a monte (trattandosi di illegittimità derivata dell’atto applicativo e non già di sua inesistenza o nullità, come pure era stato ipotizzato), non è onere della parte ricorrente proporre motivi aggiunti per dedurre il vizio sopravvenuto quante volte la stessa nel ricorso introduttivo, attraverso uno o più motivi specifici, abbia fatto venire in rilievo la norma in questione, ancorché non sotto il profilo di una sua illegittimità costituzionale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, nr. 4002)».
[9] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. 2., 9. ed., Padova, Cedam, 1976, p. 1364.
[10] v M. Magri, La legalità costituzionale dell’amministrazione. Ipotesi dottrinali e casistica giurisprudenziale, Milano, 2002,121 e ss
[11] Cons. Stato, sez. I, parere 12 aprile 2024, n. 470; Pres. Poli; Est. Ciuffetti
[12] CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, 7. ed., Torino, Giappichelli, 2021, p. 502.
[13] In Giur.it, 1964, III, p. 66, nonché in Foro amm., 1964, con nota di A. Romano, Pronuncia di illegittimità costituzionale di una legge e motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo
[14] Si consenta il rinvio a Renato Rolli, La disapplicazione giurisdizionale dell’atto amministrativo, tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario, Aracne Editore 2005, p. 91 e ss.
[15] Cfr. F. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale E autonomia del potere esecutivo, in Giur. Cost. 1963, p. 1729
[16] Cfr. R. Giovagnoli, L’atto amministrativo emanato in base ad una legge incostituzionale, in Diritto e Formazione, n. 8 del 2001, p. 1066.
[17] R. Niro, Disapplicazione di norme e declaratoria di illegittimità di provvedimento, in I garanti delle regole. Le autorità indipendenti, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna 1996 p. 193, ss.
I nuovi orizzonti dei rapporti fra Corte Costituzionale e Parlamento
di Eleonora De Gregorio
Sommario: 1. Separazione dei poteri e piena tutela dei diritti: un equilibrio difficile. 2. Osservazioni conclusive.
1. Separazione dei poteri e piena tutela dei diritti: un equilibrio difficile
La Corte costituzionale è un giudice sui generis, al cui interno convivono due “anime”, una giurisdizionale e una politica. Queste due anime non sono fra loro inconciliabili, ma compongono la fisiologica struttura – per come pensata dai Costituenti – di un Giudice che è chiamato a custodire la Costituzione, la primaria fonte dell’ordinamento, da ogni possibile minaccia o lesione.
La Corte, pur non avendo una legittimazione democratica, è riuscita, col tempo, a crearsi il proprio spazio nell’ordinamento, e oggi gode di una forte autorità. Potremmo dire, anzi, vista la sua capacità di inserirsi nei procedimenti legislativi, che essa è all’apice della sua autorità[1]. Alcuni fra i suoi più recenti interventi, legittimamente criticati, hanno portato a ritenere che, fra le sue due anime, quella politica occupi oggi uno spazio maggiore. L’organo puramente politico, e, in generale, il principio rappresentativo, risultano, invece, gravemente in crisi[2].
Così, ci si interroga sul rapporto che lega oggi due delle colonne portanti dell’ordinamento costituzionale italiano, Corte costituzionale e Parlamento: “per qualcuno siamo di fronte a un’evoluzione naturale, per altri invece a un’involuzione preoccupante, se non addirittura a una deviazione, rispetto all’originario modello disegnato nella Carta”[3].
Si registra, infatti, un iperattivismo della Corte, un suo “innaturale convertirsi” in un decisore politico, che è giustificato dall’esigenza di compensare l’immobilismo del legislatore[4], suo interlocutore naturale, con il quale dovrebbe avere un costante rapporto dialettico, di incontro o anche di “scontro” (è naturale un “antagonismo”[5] fra i due organi, in conseguenza del ruolo cui il giudice costituzionale è chiamato: giudicare e, se del caso, caducare gli atti prodotti dal Parlamento). Nel silenzio del legislatore, però, la Corte ha gradualmente assunto il ruolo di “supplente”, superando la precedente “timidezza”[6], che la portava a rigettare le questioni che “si aprivano a plurimi esiti ricostruttivi del tessuto normativo”[7], e iniziando, di fronte a questioni particolarmente delicate – e soprattutto riguardanti la materia penale – a osare sempre più[8], sino a “sconfinare” al di fuori dei limiti che tradizionalmente le sono riconosciuti[9]. Siffatto “sconfinamento”, dunque, affonda le sue radici nell’auto-emarginazione del Parlamento[10], il quale non solo non adempie al suo ruolo spontaneamente, ma neppure quando viene espressamente sollecitato. La tecnica decisoria in due tempi è stata ideata dalla Corte proprio con l’obiettivo, dichiarato, di esortare il Parlamento ad esercitare le sue prerogative: in questo senso, la Corte ha tentato di individuare uno strumento che consentisse di evitare un’ulteriore “umiliazione ed emarginazione del Parlamento e del principio rappresentativo”[11]. Infatti, “se a seguito della prima pronuncia il legislatore facesse luogo alla salvaguardia dei diritti, risvegliandosi dal suo annoso letargo, la Corte non avrebbe necessità di perfezionare l’intervento preannunziato nella sua prima decisione e portare così ad effetto la manovra già avviata”[12]. Dunque, la Corte ha pur tentato, ideando tecniche decisorie quali l’incostituzionalità prospettata o la precedente “doppia pronuncia”[13], “di metter le mani sul calendario dei lavori parlamentari”[14], così da esortare il legislatore ad affrontare determinate questioni, poiché esso rimane sempre “il soggetto «preferito» per dare risposta al problema di costituzionalità” sollevato dinanzi alla Corte medesima[15]. Il legislatore, però, è padrone di sé e non è tenuto ad intervenire solo perché il Giudice delle leggi lo sollecita[16]. Ed è allora che la Corte interviene incisivamente. Essa, infatti, si ritrova dinnanzi a ridotte alternative: o dichiara inammissibili le questioni non risolvibili “a rime obbligate” e rispetta la discrezionalità del Parlamento, ma sopporta il vulnus di costituzionalità, oppure si pronuncia “a versi sciolti”, compiendo scelte discrezionali che non le competono, ma garantendo il pieno rispetto dei diritti. La Corte interviene, insomma, per rispondere alle richieste di tutela formulate dai corpi sociali, solo dopo che il legislatore, sordo alle loro istanze, non ha accolto neppure quelle della Corte[17]. In materia di sanzioni – penali ma anche amministrative –, il Giudice delle leggi ha recentemente scelto di orientarsi in un’ottica di maggiore “attivismo”, così da “evitare la determinazione di «zone franche» del giudizio di costituzionalità e di scongiurare «insostenibili vuoti di tutela» che possano discendere da una pronuncia meramente ablativa”[18].
La crisi del Parlamento genera, quindi, dal punto di vista della Corte, un conflitto fra il principio della separazione dei poteri e la tutela dei diritti, che, a sua volta, determina uno “scivolamento” della Corte medesima verso la sua anima politica[19].
La risposta che la Corte può dare alle istanze sociali bisognose di tutela, però, è solo parziale: la visione della Corte, infatti, è “parcellizzata”, in quanto essa, per quanto cerchi di garantire la più larga tutela possibile dei diritti, è inevitabilmente condizionata dalla domanda che le viene posta da chi solleva la questione incidentale[20]. In tema di suicidio assistito, ad esempio, la Corte ha tentato, con la sent. 242 del 2019, di fare le veci del Parlamento - assumendo la veste di “legislatore positivo”[21] - dettando una disciplina generale, disciplina che, però, risulta “ritagliata” sul caso di specie, cosicché non è in grado di ricomprendere neppure situazioni ad esso analoghe, ma non completamente sovrapponibili.
Oltretutto, per quanto pregevole possa essere l’obiettivo cui la Corte aspira, cioè assicurare la piena ed effettiva tutela ai diritti fondamentali, si può dire che il fine giustifica i mezzi? La compressione del principio di separazione dei poteri rischia di ledere quegli stessi diritti in nome dei quali la Corte agisce, in quanto tale principio ha, nei loro confronti, una funzione servente[22]. La separazione dei poteri, pure nella visione temperata dell’attuale Stato costituzionale, garantisce che nessuno degli organi costituzionali possa agire in maniera incontrollata e incontrollabile, facendo qualunque cosa voglia, senza dover necessariamente rispettare i diritti dei cittadini. In quest’ottica, siffatte alterazioni dei ruoli istituzionali non ledono solo la separazione dei poteri, ma ledono conseguentemente anche l’altra “base portante” dello Stato costituzionale, cioè la difesa dei diritti[23].
Ancora, se è vero che la supplenza è determinata dall’inerzia legislativa, è anche vero che tale supplenza, qualora perpetuata, rischia di reiterare l’inerzia stessa, creando dei cortocircuiti difficili da neutralizzare[24].
La Corte, ovviamente, avverte la necessità di rispettare i ruoli istituzionali, ed è proprio per questo che è stata ideata la tecnica dell’incostituzionalità prospettata, al fine, cioè, di “accordare al legislatore la precedenza temporale nella nuova disciplina della materia”[25]. In altri casi, però, la Corte ha agito direttamente, “rompendo gli indugi” e “confermando di considerare ormai pleno iure fungibili i ruoli istituzionali”[26]. Ciò risulta chiaramente dalla sent. 41 del 2021, nella quale la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni che prevedevano la partecipazione in via ordinaria ai collegi di Corte d’appello di giudici onorari (i giudici ausiliari), in quanto contrastanti con l’art. 106 Cost., secondo comma, ma ha rinviato la caducazione di tali disposizioni di ben quattro anni (sino al 31 ottobre 2025)[27]. Così, la Corte ha praticamente deciso di “sospendere” temporaneamente l’operatività dell’art. 106, secondo comma, della Costituzione, negando il “diritto ad essere giudicati da giudici idonei, forniti dei requisiti previsti dalla Costituzione”[28]. Essa, infatti, non si è limitata a consentire la sopravvivenza degli effetti prodotti in passato dalla normativa incostituzionale (in modo da evitare di travolgere giudizi già pronunciati da collegi irregolarmente composti), ma ha anche riconosciuto ai giudici onorari la possibilità di continuare, anche dopo la sentenza di incostituzionalità, a svolgere ordinariamente funzioni collegiali, in violazione – riconosciuta – del preciso divieto costituzionale[29], al fine di evitare un grave pregiudizio all’amministrazione della giustizia[30]. Tale rischio, però, poteva essere scongiurato in altri modi[31], che non avrebbero comportato l’avallo di una situazione di incostituzionalità da parte dello stesso custode della Costituzione.
Se in materia penale la Corte non ha accettato, in alcuni casi, che il dover compiere scelte discrezionali le precludesse di agire in difesa dei diritti, ed è pertanto intervenuta in luogo del legislatore (considerando il limite della discrezionalità solo quale limite “relativo”), nel caso in esame, invece, ha riconosciuto l’incostituzionalità di una specifica disciplina, l’ha dichiarata, ma ha previsto, al contempo, che la violazione della Costituzione potesse – e possa – perdurare ancora per un po’, disattendendo così “le legittime aspettative di chi aveva correttamente eccepito l’esistenza di un vulnus costituzionale”[32].
In questo senso, è stato detto che la Corte sembra trattare il limite della discrezionalità del legislatore diversamente a seconda delle circostanze: a volte viene fatto espandere, altre volte contratto[33]. Il problema, a questo punto, diventa la mancanza di un canone prestabilito – sia pure forgiato dalla stessa Corte – che consenta di prevedere in modo sufficientemente attendibile come la Corte si pronuncerà nel corso di questa o quella vicenda processuale[34].
Da ultimo, poi, con la sent. 40 del 2023, in materia di sanzioni amministrativo pecuniarie, concernenti le inadempienze delle strutture di controllo delle produzioni agroalimentari registrate con denominazione di origine o indicazione geografica protetta, la Corte ha realizzato un ulteriore intervento “sostitutivo” al legislatore. In questa sentenza, infatti, essa ha rilevato l’incostituzionalità della sanzione fissa prevista per un ampio novero di condotte illecite aventi diverso disvalore, ma, anziché limitarsi ad una pronuncia di mero accoglimento, ha statuito che la sanzione prevista dalla norma censurata debba essere “conservata” come massima, e, attraverso una pronuncia sostitutiva, ha previsto un minimo edittale, ricavandolo dalla disciplina riguardante le violazioni degli organismi di controllo sui prodotti BIO[35] (disciplina utilizzata come “punto di riferimento”, in conseguenza della “piena omogeneità finalistica”[36]).
Si è osservato che la Consulta tende a piegare e adattare “alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità”[37], dismettendo talvolta i panni di giudice, e indossando quelli del decisore politico, generando “un’anomala commistione dei ruoli istituzionali”: “è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore”[38]. Da ciò emerge l’immagine della Corte quale organo “potente”, sia “quando decide dei contenuti, sia quando decide delle forme attraverso le quali esprimerli; sia quando «dice», inoltre, che quando «tace», come peraltro notato, già decenni orsono, da raffinata dottrina, in relazione al significato «politico» connesso al crescente utilizzo di decisioni di inammissibilità”[39].
Dunque, se da un lato la Corte ha assunto un ruolo – dichiaratamente non voluto – di “supplenza” a causa della crisi dell’organo politico, dall’altro lato non si può non notare che l’evoluzione delle tipologie decisorie ha determinato un’ampia libertà della Corte nell’adeguare la tecnica da utilizzare al singolo caso, con conseguenze negative “in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali)”[40]. Tale evoluzione è iniziata già dalle prime sentenze del giudice costituzionale, poiché la previsione delle sole due alternative “secche” di accoglimento o rigetto è risultata sin da subito inadeguata a consentire alla Corte di esercitare a pieno le sue funzioni,dimostrando così l’ingenuità dell’idea che la Corte potesse essere mero “legislatore negativo”[41]. D’altronde, il compito della Corte non è semplice: essa deve tutelare i diritti, ma stando attenta a non compiere scelte discrezionali, che solo il legislatore può effettuare, ma che difficilmente compie; quando, poi, rinviene una situazione di illegittimità costituzionale può accoglierla, con il rischio di creare un vuoto normativo, o rigettarla esortando il Parlamento ad intervenire, ma lasciando intanto in vigore una normativa illegittima[42]. L’horror vacui, ha spinto, così, la Corte, nella consapevolezza che a una declaratoria di incostituzionalità difficilmente segue un tempestivo intervento del legislatore, a ideare degli strumenti che consentano di non aprire voragini normative[43]. In questo senso, “l’intera storia dell’arricchimento degli strumenti decisori che ha contrassegnato la parabola evolutiva del ruolo della Corte costituzionale nel nostro ordinamento”, esprime l’esigenza di “minimizzare, circoscrivere, limitare «a quanto strettamente necessario» gli effetti delle pronunce di accoglimento”, in virtù della consapevolezza “dell’estrema difficoltà del legislatore di intervenire, ove necessario, a valle della declaratoria di incostituzionalità al fine di ripianare la lacuna da questa provocata”[44].
La crisi del Parlamento – la cui origine è difficile da individuare con precisione, ma la cui sussistenza è evidente a tutti – spiega, al tempo stesso, l’espansione del potere della Corte, e la sua difficoltà nel rendere giustizia costituzionale, che la porta a ideare nuove e modellare vecchie tecniche decisorie, da adattare alle circostanze[45]. Questo modus operandidella Corte, però, genera un circolo vizioso: il Parlamento, infatti, trae vantaggio dalla supplenza, in quanto può evitare di intervenire in quei campi che rischierebbero di compromettere il consenso raggiunto dalla maggioranza in vigore in quel dato momento[46]; così, l’inerzia comporta la supplenza che accentua l’inerzia. Si parla di “malfunzionamento sistemico” che viene così a determinarsi, in quanto il Parlamento si sente “sotto tutela giurisdizionale”, e finisce per “delegare ai giudici la soluzione dei problemi di costituzionalità più delicati, scaricando su di essi la propria responsabilità”[47]. Una tale problematicità, che da tempo viene attenzionata negli Stati Uniti, risulta di particolare attualità in un sistema come quello italiano, “a fronte – cioè – di maggioranze poco coese e attraversate da ideologie all’un tempo deboli e differenziate”, che indeboliscono sempre più la legittimazione dei partiti e dei sistemi politici in genere[48]. La classe politica in crisi tende, dunque, trasferire altrove le sue responsabilità: “in simili condizioni un meccanismo particolarmente costrittivo (…) qual è quello della doppia pronuncia di nuovo tipo non solo non pare idoneo a stimolare la reattività del legislatore, ma ne sollecita l’inerzia, consentendogli un commodus discessus dalle sue responsabilità politiche”, e facendogli perdere, così, “lo stimolo alla coraggiosa assunzione del dovere di risposta politica”[49].
La “fungibilità” tra una tecnica decisoria e l’altra è ormai un fattore da tenere (sempre più) in considerazione nello studio della giurisprudenza costituzionale, che crea di continuo, con “irrefrenabile fantasia”, sempre nuove soluzioni[50]. Inoltre, “la ricca e piuttosto disordinata panoplia di strumenti e di tipologie di decisioni che la Corte italiana usa, pur essendo pressoché tutta di elaborazione giurisprudenziale, non pare favorire un lavoro organico e sistematico del Giudice delle leggi”[51].
Così, la legge 87 del 1953 non basta più come quadro normativo di riferimento del giudice costituzionale. Invero, articoli come il numero 28 (che impedisce alla Corte “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”) e il numero 30 terzo comma (che statuisce che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), potrebbero sembrare ormai superati. In realtà, ciò risulta eccessivo: a non aver “resistito” non è tanto la norma in sé, quanto più la sua assolutizzazione, la “logica del «tutto-o-niente»”, che mirava ad impedire qualsiasi manipolazione normativa e temporale[52]; tali norme, però, continuano ad avere fondamentale rilevanza, e a limitare l’azione della Corte, nella misura in cui consentono di essere - per così dire - “derogate” solo in esito ad un contemperamento con valori di pari rango[53]. D’altronde, la legge 87 è stata scritta in un’epoca in cui non si aveva alcuna esperienza della giustizia costituzionale e del suo concreto modo di operare; ciò nonostante, il suo impianto generale non è mai stato del tutto disatteso, anzi è risultato “impermeabile” a tutte le difficoltà e le esigenze che sono sorte dalla prassi del giudizio costituzionale[54]. Tuttavia, come si è detto, la prassi si è evoluta, per cui sarebbe forse giunto il momento che tale legge venisse “adeguata agli insegnamenti della pratica”[55], non essendo necessario un suo stravolgimento, quanto più, però, qualche importante modifica, che consenta di “ri-razionalizzare” il ruolo del giudice costituzionale.
Risulta insomma necessario mettere ordine. In tal senso, sembra difficile aspettarsi un intervento del legislatore, “già tradizionalmente schivo anche nel semplicemente codificare gli innovativi approdi della giurisprudenza della Corte”; appare allora ancora più essenziale il contributo della dottrina, che, con la sua opera di instancabile analisi e “razionalizzazione ex post” della giurisprudenza della Corte, “potrebbe fornire allo stesso giudice costituzionale elementi utili ad indicare i termini della nuova rotta intrapresa”[56]. La stessa Corte, poi, dovrebbe tentare di ricondurre ad un sistema le operazioni manipolative che compie, magari facendo ricorso ad una decisione “magisteriale”, ad una “sentenza-matrice caratterizzata dalla motivazione «eccedente» rispetto le esigenze del caso deciso, idonea a indicare le linee-guida e i criteri generali cui il giudice della legge intende attenersi nell’intraprendere il nuovo percorso”[57].
Una precedente sentenza che si è mossa in questa direzione, e che ha tentato, cioè, di definire i contorni di un modello decisorio, è la sent. 10 del 2015, nella cui motivazione, nell’affrontare la problematica relativa al potere della Corte di disporre degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento, emerge l’impegno argomentativo della Corte per tentare di offrire “alla scelta compiuta un orizzonte ampio e, specialmente, per definirne ragioni e termini”[58].
In un diverso ambito – ma non per questo meno pertinente – si è inserita la sent. 36 del 1997, nella quale la Corte, decidendo sull’ammissibilità di un referendum abrogativo, ha elaborato per la prima volta gli “indici” della manipolazione ammessa mediante lo strumento ablatorio popolare[59].
Dunque, nel tempo non sono mancati sforzi del giudice costituzionale per “fornire una «bussola» ai suoi interlocutori”[60]. E una tale bussola dovrebbe essere fornita anche oggi, in quanto, “al netto delle inevitabili oscillazioni connaturate all’esercizio della giurisdizione”, si avverte l’esigenza di comprendere “le ragioni della coerente compresenza delle diverse soluzioni a disposizione del giudice costituzionale”[61].
In particolare, dovrebbero essere stabiliti dei principi e dei criteri direttivi, preferibilmente da inserire proprio all’interno delle norme integrative opportunamente modificate, e precisati poi in sede giurisprudenziale, ai quali “far capo laddove si reputi necessaria ed urgente una produzione normativa discrezionalmente forgiata per via pretoria, in vece di quella legislativa colpevolmente mancante”[62]. Tale soluzione è stata definita “di compromesso”, in quanto, se, da un lato, definendo i limiti entro i quai i ruoli istituzionali possono essere “mescolati”, determinerebbe una ulteriore breccia al principio della separazione dei poteri, dall’altro lato, consentirebbe, però, di “preservare un brandello di tipicità dei ruoli stessi”[63]. Alla Corte potrebbe, infatti, essere riconosciuta la facoltà di fare le veci del legislatore soltanto a determinate condizioni ed entro certi limiti, nei casi in cui, ad esempio, risulti acclarata la particolare gravità del vulnus di costituzionalità e impossibile tollerarne ulteriormente l’incisione[64]. In questo modo, certo, sarebbe incisa la separazione dei poteri, ma si tratterebbe, in realtà, di normare un fenomeno che nella prassi già si verifica, e si verifica senza limiti e contorni ben precisi. Avallare tale prassi, alla luce delle considerazioni effettuate, significa forse prendere consapevolezza di un assetto istituzionale che più che mutato si è evoluto, e che continua ad evolversi; l’adeguamento della disciplina alla prassi potrebbe consentire che tale evoluzione avvenga in futuro in maniera meno caotica e più comprensibile per chi osserva, perché si muoverebbe all’interno di confini ben delineati.
Per quanto giuste siano, quindi, le critiche dogmatiche agli interventi più “audaci” del giudice costituzionale, non si possono non considerare le impellenti esigenze della prassi: “questa è la differenza fra chi rimane fedele a tutti i costi a schemi teorici e chi, invece, rileva la distanza tra la pura teoria e la prassi del diritto, con la sua necessaria attenzione al complesso degli interessi in gioco”[65]. Dunque, una “razionalizzazione delle sue tecniche decisorie”, e, di conseguenza, “una loro preventiva delimitazione e definizione, potrebbe aiutare l’«organo di chiusura» del nostro ordinamento a rasserenare i rapporti con gli altri poteri dello Stato”[66].
Affinché, poi, la Corte possa svolgere al meglio le sue funzioni, “senza forzature (apparenti o reali) e nel rispetto delle regole processuali” è davvero necessaria una “rifondazione del ruolo del Parlamento”[67]. Come si è avuto modo di osservare, la supplenza della Corte sembra essere controproducente, non aiuta il legislatore a risvegliarsi dal “suo annoso letargo”, ma anzi agevola il suo rimanere inerte[68]. Ruggeri propone, allora, il seguente rimedio: “obbligare lo Stato a risarcire i danni causati dalle omissioni del legislatore” (“sempre che – beninteso – risulti provato il nesso di causalità tra le stesse e i vulnera recati alla sfera soggettiva degli agenti”)[69]; nella consapevolezza che ciò comporterebbe un appesantimento ulteriore della procedura legislativa, poiché il legislatore cercherebbe il più possibile di evitare carenze vistose che possano “spianare la via ad esborsi anche cospicui di denaro per le già sofferenti casse dello Stato”; lo stesso autore sostiene che comunque questa soluzione possa costituire il “male minore”, poiché comunque una proposta che presenti solo vantaggi e non comporti alcun costo è impossibile da individuare[70]. Tale soluzione replicherebbe il modello adottato in sede europea, dove gli Stati vengono sanzionati se non danno esecuzione alle sentenze della Corte di Giustizia, o se non adempiono agli obblighi comunitari[71]. Una soluzione in tal senso, però, potrebbe non bastare: sanzionare non basta quando vi sono profondi problemi strutturali.
2. Osservazioni conclusive
La Costituzione, in senso liberaldemocratico, è un “processo storico” e non un mero “atto” puntuale nel tempo, per cui non deve stupire “né preoccupare troppo la mutazione, nel corso dei decenni, del rapporto fra Corte e Parlamento, a vantaggio della prima”[72]. La nostra Costituzione è, infatti, giovane, così come è giovane il giudice costituzionale, a differenza del Parlamento. Secoli di storia hanno permesso di consolidare la figura dell’organo rappresentativo, di far evolvere e far radicare la consapevolezza di quali siano i suoi compiti e i suoi limiti. Certo, le funzioni e i meccanismi operativi del Parlamento continuano ad evolversi, in relazione a come cambia la società nel suo complesso. La Corte costituzionale, invece, non ha neppure un secolo di storia alle sue spalle. Quando è stata ideata, i Costituenti hanno “inventato” un organo, senza avere nessuna esperienza concreta, basandosi solo sulle teorizzazioni di eminenti studiosi, e sulle esperienze di altri ordinamenti. Ogni ordinamento, però, è differente, e, si sa, la teoria arriva fino ad un certo punto. L’evoluzione dei rapporti fra Corte costituzionale e Parlamento è, a parere di chi scrive, un fenomeno fisiologico, dovuto al consolidamento di un organo che deve ancora essere a pieno inquadrato. Lo “sconfinamento” della Corte al di fuori dei limiti pensati dai Costituenti è un superare i confini fra due organi che, quando questi sono stati tracciati, non avevano mai interagito fra di loro. Pertanto, se da un lato occorre evitare una “commistione fra ruoli istituzionali”[73], e occorre sempre difendere la separazione dei poteri, per evitare che la Corte si tramuti in una “terza camera” del Parlamento, dall’altro lato, non basta criticare la Corte perché compie scelte discrezionali che, in teoria, le sarebbero precluse. Occorre, forse, prendere atto dell’evoluzione del rapporto e riscrivere la disciplina che lo regola, in base all’esperienza che è stata acquisita in quasi settant’anni di attività del giudice costituzionale.
Viviamo oggi in un momento di crisi del principio rappresentativo e dell’organo legislativo. Tuttavia, la Corte ha, in effetti, fatto i conti con un Parlamento inerte di fronte a violazioni dei diritti, già sin dagli albori della sua attività. All’inizio, però, poiché tali violazioni erano provocate dalla legislazione fascista, la Corte poteva “supplire” al Parlamento semplicemente dichiarando l’incostituzionalità delle leggi, riuscendo così nell’opera di smantellamento di una legislazione autoritaria, che avrebbe dovuto essere abrogata direttamente dal legislatore. Oggi, invece, per garantire l’effettiva attuazione dei diritti, non basta più caducare leggi anteriori, ma occorre “riempire i vuoti” (come nel caso Cappato), o, viceversa, adoperarsi per non creare dei vuoti (come nel caso della sent. 41 del 2021). Sin da quando è nata, dunque, la Corte si è impegnata per tutelare i diritti, ma il modo in cui questa tutela è stata realizzata è inevitabilmente cambiato. Non sono mancati, comunque, periodi di attività particolarmente proficua del Parlamento, ad esempio a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, durante i quali le decisioni della Corte hanno assunto un carattere più cauto e meno dirompente. In questo senso, sembra condivisibile la ricostruzione di Giuliano Amato, che, nel descrivere i rapporti fra gli organi di garanzia – Corte costituzionale e Presidente della Repubblica - e legislatore, parla di “moto a fisarmonica”[74]: nei momenti di vuoto politico e legislativo si espandono i ruoli degli organi di garanzia, e viceversa[75].
Un’altra metafora che dipinge con chiarezza l’immagine del tema qui esaminato è fornita da Spadaro: si tratta della metafora della “barca a vela”, che “però dispone di un «motorino» per i momenti in cui il vento non spira o c’è burrasca – la nostra «barca» (forma di governo) ordinariamente naviga «a vela» (parlamentare), ma dispone anche – per i tempi di bonaccia (inanità politica) o di tempesta (emergenze) – di due «motorini» (Presidente e Corte), che le permettono comunque di proseguire il suo percorso senza gravi intoppi. Proprio grazie alla presenza dei due motorini ricordati, il singolare sistema italiano – «forma di governo parlamentare con doppia supplenza» – nonostante le sue note imperfezioni, tutto sommato «funziona»”[76].
Sembra, dunque, che gli organi di garanzia non siano solo “anticorpi” del sistema che impediscono all’organo politico di violare la Costituzione esorbitando dalla sfera dei poteri che gli sono attribuiti – come accaduto in epoca fascista -, ma impediscono anche che la Costituzione, e, segnatamente, i diritti che essa riconosce, siano violati dall’immobilismo del legislatore[77]. Così, se il legislatore viola con un atto la Costituzione, l’atto viene annullato; se il legislatore viola con un “non atto” la Costituzione, la Corte lo esorta ad intervenire, o, addirittura, detta una “disciplina provvisoria” che colmi il vulnus di costituzionalità. Ciò, nel parere forse ingenuo di chi scrive, non sembra troppo preoccupante. L’equilibrio del sistema ideato dai Costituenti, che verrebbe danneggiato dagli interventi “suppletivi” della Corte, è un equilibrio che era stato solo teoricamente pensato, ma che nella prassi non appare adeguato.
Il grande assente, come si è detto, è una normativa di riferimento che consenta di “ridefinire” il ruolo della Corte, tracciando dei confini che, non essendo più solo pensati ma essendo stati anche “testati”, siano maggiormente in grado di guidare – e limitare – in concreto l’attività della Corte, così da garantire anche il rispetto dell’irrinunciabile principio della separazione dei poteri, nell’ottica oggi privilegiata non di netta separazione, ma di proficuo dialogo e bilanciamento fra gli organi. Potrebbe essere la stessa Corte costituzionale, nell’esercizio del suo potere di autoregolamentazione, ad intervenire in tal senso[78].
“L’iperattivismo” della Corte che si registra oggi potrebbe, dunque, essere l’attuazione di quel moto a fisarmonica di cui già si parlava più di quarant’anni fa, e forse, più che una minaccia all’equilibrio di sistema, rappresenta un riassestamento dell’equilibrio medesimo, che risultava già compromesso dalla crisi politica in atto, che, fra l’altro, al momento, non sembra essere facilmente e rapidamente superabile.
[1] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, in “Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima «politica» e quella «giurisdizionale»”, a cura di in R. Romboli, Torino, 2017, pp. 75 e ss.
[2] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, p. 84. “La crisi della rappresentanza è, soprattutto, crisi dei partiti: non è di certo un mistero, e ampia dottrina si è espressa a riguardo, che i partiti abbiano smarrito la propria funzione di anello di congiunzione tra la società civile e le istituzioni”. D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, in Dirittifondamentali.it, Fascicolo 2/2022, 11 maggio 2022, pp. 28 e ss.
[3] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, in Rivista AIC, Fascicolo 2/2023, 12 aprile 2023, pp. 103 e ss.
[4] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, in “Ricordando Alessandro Pizzorusso. Verso una nuova «stagione» nei rapporti fra Corte costituzionale e legislatore?”, a cura di E. Malfatti, V. Messerini, R. Romboli, E. Rossi, A. Sperti, Pisa, 15 dicembre 2022, pp. 24 e 25.
[5] La relazione fra Corte e legislatore è, secondo Carnevale, declinata in termini “antagonisti”, “che pure, però, per altri aspetti, ha conosciuto una declinazione opposta, di marca assimilazionista”, dovuta “essenzialmente al convergere su di un medesimo campo d’azione rappresentato del tessuto legislativo”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, in Nomos. Le attualità del diritto, Fascicolo 3/2023, www.nomos-leattualitaneldiritto.it , p. 3, nota n. 2.
[6] D. Manelli, “La diffamazione a mezzo stampa e il persistente dominio dell’inerzia legislativa nella tutela dei diritti. La Consulta perfeziona un nuovo caso di «incostituzionalità differita» con la sentenza n. 150 del 2021”, in Consulta online, Fascicolo 1/2022, pp. 94 e ss.
[7] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 28.
[8] D. Manelli, “La diffamazione a mezzo stampa e il persistente dominio dell’inerzia legislativa nella tutela dei diritti. La Consulta perfeziona un nuovo caso di «incostituzionalità differita» con la sentenza n. 150 del 2021”, cit., p. 102.
[9] “Il fenomeno dello «scaricabarile» istituzionale inevitabilmente arriva, alla fine, all’organo giudiziario «di chiusura» di tutto l’ordinamento: la Corte costituzionale”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 135.
[10] “A me sembra evidente che la causa prima dei supposti «sconfinamenti» della Corte andrebbe cercata nell’abulia del legislatore che, non solo ha consentito alla Corte di allargarsi, ma l’ha costretta a farlo, non fornendo ad essa strumenti utili per lavorare adeguatamente”. R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, in Quad. cost., Fascicolo 4/2019 (pp. 757 ss.); testo consultabile su www.robertobin.it , p. 4.
[11] M. Dogliani, “La sovranità (perduta?) del Parlamento e la sovranità (usurpata?) della Corte costituzionale”, p. 84.
[12] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 29.
[13] La differenza, però, è che nel caso dell’incostituzionalità prospettata “il giudice costituzionale non solo intende metter mano all’agenda del legislatore immettendovi l’argomento da trattare, ma prescrive altresì il tempo di trattazione, stabilendone il termine ultimo, così da incidere sull’autonomia delle Camere, la quale – per usare le stesse parole della Corte – «si estrinseca non solo nella determinazione di cosa approvare, ma anche di quando approvare»”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 26.
[14] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 25.
[15] La preferenza per un intervento del legislatore è testimoniata anche dall’ulteriore rinvio cui la Corte ha fatto ricorso con l’ordinanza 122 del 2022, per consentire ai lavori parlamentari, che avevano raggiunto uno stato abbastanza avanzato, di giungere a termine. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 25.
[16] È stato osservato, ad esempio da Carnevale, che la fissazione di un termine a legiferare possa rappresentare, “piuttosto che un pungolo, un disincentivo all’intervento del legislatore”: “questi, difatti, avendo di fronte «già fissata» la data di esecuzione della condanna a morte della legge potrebbe essere fatalmente indotto ad attendere l’(ormai sicura) irrogazione della pena capitale da parte del giudice costituzionale, la cui certezza d’intervento avrebbe perciò l’effetto di deresponsabilizzarlo, invece che responsabilizzarlo”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., pp. 26-27.
[17] D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, cit., p. 29.
[18] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, Relazione al Convegno del Gruppo di Pisa tenutosi a Como il 26-27 maggio 2023: “I 70 anni della Legge n. 87 del 1953: l’occasione per un “bilancio” sul processo costituzionale”, consultabile in forma provvisoria sul sito del Gruppo di Pisa, www.gruppodipisa.it , p. 20.
[19] A. Mazzola, “Decide che deciderà! La Corte costituzionale torna a adoperare la tecnica inaugurata con il «caso Cappato»”, in Consulta online, Fascicolo 3/2020, pp. 545 e ss.
[20] D. Scopelliti, “Il canale giurisdizionale per il riconoscimento dei diritti: tra crisi della rappresentanza e supplenza nei confronti della politica”, cit., p. 48.
[21] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, in Costituzionalismo.it, Fascicolo 1/2023, pp. 112 e ss.
[22] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, in Osservatorio sulle fonti, Fascicolo 2/2021, pp. 568 e ss.
[23] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, cit., p. 595.
[24] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 126.
[25] A. Ruggeri, “Ha ancora un futuro la legge quale strumento primario di normazione e di direzione politica?”, cit., p. 581.
[26] Ibidem.
[27] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, in Osservatorio costituzionale AIC, Fascicolo 2/2021, pp. 130 e ss.
[28] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., pp. 131-132.
[29] La sent. 41 è “una sentenza di natura additiva che non mira – contrariamente a quanto usualmente praticato – a sanare, nell’immediato, il vulnus contestualmente accertato, quanto piuttosto a renderlo «sopportabile» limitandone la durata nel tempo”. R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, in Consulta online, Fascicolo 1/2021, pp. 288 e ss.
[30] V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., p. 135.
[31] Tra possibili rimedi “giusti” in grado di garantire l’ordinata prosecuzione dei processi, Onida cita, ad esempio, l’innalzamento dell’età pensionabile dei giudici professionali, o iniziative anche straordinarie di reclutamento di nuovi magistrati professionali, o anche riforme semplificatrici dei procedimenti giudiziari, o altre riforme intese a ridurre la domanda di giustizia cui deve rispondere la magistratura professionale. V. Onida, “Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?”, cit., p. 135.
[32] R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, cit., p. 293.
[33] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 34.
[34] Ibidem.
[35] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 17.
[36] Corte cost., sent. 11 gennaio 2023, n. 40, considerato in diritto, punto 5.5.1.
[37] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, in Giustizia insieme, www.giustiziainsieme.it , 13 aprile 2021.
[38] Ibidem.
[39] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 119.
[40] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, cit.
[41] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 3.
[42] Carnevale parla, con riferimento ai casi in cui il Giudice delle leggi rinuncia ad intervenire, pur ravvisando la necessità di un suo intervento, di “sfumatura amara del velim (iudicare) sed non possum”. P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 7.
[43] “La Corte sembra voler cercare ogni possibile strada per evitare soluzioni che possano dirsi invasive della sfera riservata al legislatore e, nella stessa logica, tende ad evitare decisioni che possano creare vuoti nomativi o comunque esiti idonei a produrre una situazione di incostituzionalità paradossalmente maggiore rispetto a quella che si dovrebbe andare a rimuovere”. M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 28.
[44] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 4.
[45] G. Silvestri parla di “felix culpa” della Corte costituzionale, facendo riferimento a qualche “eccesso o disinvoltura” che in questi anni hanno caratterizzato le sue decisioni, le quali, però, al contempo, sono riuscite a realizzare una coraggiosa opera “di «bonifica» costituzionale della legislazione”. G. Silvestri, “Legge (controllo di costituzionalità)”, in Dig./pubb., IX, Torino 1994, p. 32; A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[46] M. Della Morte, “La Corte decidente negli squilibri di sistema”, cit., p. 126.
[47] M. Luciani, “Ogni cosa al suo posto”, Milano, 2023, pp. 207 e ss.
[48] Ibidem.
[49] M. Luciani, “Ogni cosa al suo posto”, cit., p. 209.
[50] R. Pinardi, “Costituzionalità «a termine» di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021)”, cit., pp. 290-291.
[51] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[52] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., p. 40.
[53] In senso contrario, invece, Spadaro, che ritiene che sia avvenuta ormai “una sorta di abrogazione tacita della seconda parte dell’art. 28, l. n.87/1953”, in quanto la Corte costituzionale sembra decidere, di volta in volta, quando sussiste la discrezionalità del Parlamento, e quando invece non sussiste. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., pp. 133-134.
[54] R. Bin, “Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone”, cit., p. 2.
[55] Ibidem.
[56] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., pp. 17-18.
[57] Ibidem, p. 18.
[58] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 18.
[59] Ibidem, p. 19.
[60] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 19.
[61] P. Carnevale, “Tre variazioni sul tema dei rapporti Corte costituzionale- legislatore rappresentativo”, cit., p. 34.
[62] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 35.
[63] Ibidem, p. 36.
[64] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 36.
[65] Intervento del Giudice Prof. Gaetano Silvestri, in Aa. Vv. “Atti della giornata in ricordo del Giudice emerito della Corte Costituzionale Vezio Crisafulli”, Corte costituzionale, Roma, 2011, pp. 54 ss. (www.cortecostituzionale.it/documenti/pubblicazioni/Giornata_Crisafulli.pdf ).
[66] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 106.
[67] M. Ruotolo, “Le tecniche decisorie della Corte costituzionale, a settant’anni dalla legge n. 87 del 1953”, cit., pp. 44-45.
[68] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., pp. 38-39.
[69] Ibidem.
[70] A. Ruggeri, “Verso un assetto vieppiù «sregolato» dei rapporti tra Corte costituzionale e legislatore?”, cit., p. 40.
[71] Ibidem.
[72] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 105.
[73] A. Ruggeri, “Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)”, cit.
[74] G. Amato, “Dal garantismo alla democrazia governante”, in Mondoperaio, Fascicolo 6/1981, pp. 17 ss.
[75] A. Formisano, “La tendenziale convergenza della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica nelle situazioni di emergenza”, in Nomos. Le attualità del diritto, Fascicolo 1/2023, www.nomos-leattualitaneldiritto.it , p. 2.
[76] A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 136.
[77] “L’attuale «sistema di relazioni inter-istituzionali”» presenta alcuni rischi, ma esso può ancora essere letto, soprattutto se contestualizzato in un quadro più ampio, quale inevitabile e più generale risposta di supplenza concreta che, a ben vedere, «tutti» gli organi costituzionali di controllo (quindi anche il Presidente della Repubblica), svolgono di fronte alle costanti carenze e ripetute omissioni di «tutti» gli organi di indirizzo politico (dunque anche del Governo)”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 105.
[78] Spadaro, ad esempio, si augura che venga realizzata una “razionalizzazione normativa autogestita” dalla stessa Corte, in quanto, in fondo, è proprio nell’interesse di quest’ultima che si dovrebbe mettere ordine nella “quasi sconfinata panoplia di tipi e sottotipi di decisioni che usa”, invece di aspettare che sia il Parlamento ad intervenire in tal senso; quest’ultimo, infatti, potrebbe intervenire “nella forma che più gli aggrada/ rassicura – plausibilmente la legge costituzionale – e nella sostanza”, forse, “solo per contenere pro domo sua i poteri del Giudice delle leggi”. A. Spadaro, “Involuzione – o evoluzione? – del rapporto fra Corte costituzionale e legislatore (notazioni ricostruttive)”, cit., p. 140.
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L’art. 578 c.p.p. tra Sezioni unite e Corte costituzionale
di Aniello Nappi
Dopo l’intervento delle Sezioni unite del 2009 la giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidata nel senso che «allorquando, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile, il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova». Sicché è indiscusso che «all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del pubblico ministero proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p.».
Nel 2021 è tuttavia intervenuta in tema la Corte costituzionale, affermando che l’art. 578 c.p.p. non viola il diritto dell'imputato alla presunzione di innocenza, «perché nella situazione processuale che vede il reato estinto per prescrizione e quindi l'imputato prosciolto dall'accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure "incidenter tantum", un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili», ma «nel decidere sulla domanda risarcitoria, anziché verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, deve accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.)».
Si è dunque prospettata la possibilità che la decisione della Corte costituzionale abbia così contraddetto la giurisprudenza di legittimità, che in presenza della parte civile esige sempre l’accertamento pieno in ordine alla responsabilità penale dell’imputato nonostante la sopravvenuta estinzione del reato per amnistia o prescrizione.
Con ordinanza dell’8 giugno 2024 la Quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha dunque rimesso la questione alle Sezioni unite, ritenendo che il principio di diritto enunciato nel 2009 dalla sentenza Tettamanti potrebbe appunto essere ormai incompatibile con la sopravvenuta decisione della Corte costituzionale del 2021.
Risolvendo la questione loro rimessa, le Sezioni hanno però ribadito ora, con sentenza depositata il 27 settembre 2024, che «nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l'estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l'assoluzione nel merito».
Ha precisato la Corte che «la situazione processuale oggetto della pronuncia della Consulta riguarda il caso in cui “il giudice dell'impugnazione penale (giudice di appello o Corte di cassazione), spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), deve provvedere — in applicazione della disposizione censurata — sull'impugnazione ai soli effetti civili”»; mentre «il principio espresso da Sez. U, Tettamanti opera, invece, nel caso in cui non sia venuta meno per il giudice dell'impugnazione penale la cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato». Sicché «l'esigenza di tutela della presunzione d'innocenza nei rapporti tra proscioglimento in rito dall'accusa penale e potere cognitivo del giudice dell'impugnazione sugli interessi civili non si pone nell'ambito applicativo del principio espresso da Sez. U, Tettamanti, concernente la possibilità per il giudice penale di privilegiare l'assoluzione nel merito dall'accusa penale sulla declaratoria di prescrizione, con parallela revoca delle statuizioni civili».
Tuttavia la Corte non ha chiarito a quali condizioni il giudice dell’impugnazione possa ritenersi “spogliato” «della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia)». Infatti l’esercizio da parte del giudice dell'impugnazione penale della cognizione piena sulla responsabilità penale dell'imputato dovrebbe escludere che quello stesso giudice possa pervenire alla dichiarazione di estinzione del reato limitando la sua cognizione all’illecito civile.
Come ha rilevato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unte, non è che «dapprima debba essere condotta l’indagine secondo le direttive della Sez. U. Tettamanti e successivamente, ove esclusa la possibilità di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, c.p.p.». nel merito, dovesse farsi applicazione di quelle dettate dalla Corte costituzionale».
In realtà la decisione delle Sezioni unite è corretta, perché non è un’impossibile cesura tra i due accertamenti a rendere la sentenza Tettamanti compatibile con la decisione della Corte costituzionale, ma è l’effetto devolutivo dell’impugnazione a determinare l’ambito della cognizione del giudice adito.
Infatti l’accertamento pieno ai fini dell'eventuale assoluzione nel merito, richiesto dalla giurisprudenza di legittimità «anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie», presuppone che al giudice dell’impugnazione sia devoluto appunto l’accertamento della responsabilità dell’imputato, ai sensi dell’art. 597 o dell’art. 606 c.p.p.: presuppone ad esempio che il giudice sia chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione ai fini penali proposta dall’imputato che neghi la sua colpevolezza. Mentre può accadere che il giudice dell’impugnazione sia chiamato a pronunciarsi su questioni che non pongano in discussione la colpevolezza dell’imputato, con la conseguenza che in tal caso potrebbe trovare applicazione solo l’art. 129 comma 2 c.p.p., laddove prevede che anche «quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta». E in questi casi il giudice, esclusa l’evidenza della non colpevolezza dell’imputato, potrà pronunciarsi sulla sola azione civile in conformità alla decisione della Corte costituzionale.
Potrà accadere ad esempio che, quando il solo P.M. abbia impugnato una sentenza di condanna anche al risarcimento dei danni in favore della parte civile (lamentando ad esempio l’erronea esclusione di un’aggravante a effetto speciale o l’irrogazione di una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato), il giudice dell’impugnazione, non sia chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato e dunque, ove sopravvenga comunque l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia e non risulti applicabile l’art. 129 comma 2 c.p.p., dovrà pronunciarsi sull’azione civile ai sensi dell’art. 578 c.p.p.; e potrà allora ribadire la condanna agli effetti civili anche nel caso in cui la responsabilità penale sarebbe stata in realtà da escludere indipendentemente dall'estinzione del reato, perché, come chiarito da C. cost., n. 182/2021, il giudice dovrà in tal caso attenersi alle regole di giudizio e allo standard probatorio del processo civile.
Ma anche quando fosse l’imputato a impugnare la sentenza di condanna, per lamentare ad esempio solo l’eccessività della pena o il mancato riconoscimento di un’attenuante, la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione o amnistia renderebbe possibile un proscioglimento nel merito solo in applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p.; e dunque il giudice dell’impugnazione, esclusa l’evidenza di non colpevolezza dell’imputato e dichiarato estinto il reato, dovrebbe ribadire la decisione in favore della parte civile, eventualmente anche solo in applicazione delle regole di giudizio e dello standard probatorio del processo civile.
Si deve pertanto concludere che correttamente le Sezioni unite hanno escluso l’ipotizzabilità della dedotta incompatibilità tra la giurisprudenza di legittimità e la decisione della Corte costituzionale, perché, per gli effetti devolutivi delle impugnazioni, C. cost., n. 182/2021 risulterà applicabile solo quando non sia applicabile la sentenza Tettamanti.
Per leggere la sentenza: https://www.cortedicassazione....
La certezza del diritto penale e l’incertezza del resto: la nozione di pubblico servizio tra diritto penale e altri diritti
Maria Sabina Calabretta
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il punto di vista della legge penale – 3. L’incertezza del resto – 4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale - 5. L’attività “BANCOPOSTA” - 6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo.
1. Introduzione
Spesso l’interprete affronta acque perigliose quando deve risolvere problemi applicativi che coinvolgono ambiti e materie diverse, ciascuna connotata da profili peculiari: così è per l’interprete penale che deve risolvere, spessissimo, il problema dell’applicabilità delle norme che puniscono condotte del pubblico ufficiale e dell’esercente un pubblico servizio. In casi come questo, gli strumenti interpretativi del diritto penale sostanziale si intersecano, indubitabilmente, con quelli propri del diritto amministrativo. Verrebbe da dire che nel mondo del perfetto sistema, del legislatore unico e quasi “creatore” di un mondo perfetto, tutto dovrebbe corrispondere e nessun problema dovrebbe sorgere nella concreta casistica applicativa. Ma, indubbiamente, la realtà giuridica vive di regole, eccezioni e diversità e l’operatore penale, ogni volta che si trovi ad applicare una fattispecie inclusa tra i reati contro la pubblica amministrazione, deve verificare se il soggetto che esercita una determinata attività percepita e disciplinata secondo le regole del servizio pubblico sia un esercente un pubblico servizio. Proprio così: perché non è così scontato che ad ogni servizio pubblico corrisponda un esercente un pubblico servizio quale descritto dall’art. 358 c.p.
2. Il punto di vista della legge penale
Sia consentita una premessa preliminare: il codice sostanziale non prevede una nozione universalmente valida né di pubblico ufficiale né di pubblico servizio. Tanto è vera questa premessa, che sia l’art. 357 c.p. che il successivo art. 358 c.p. contengono un inciso chiarificatore: “agli effetti della legge penale”. E ciò si comprende alla luce del fatto che scopo della norma penale è quello di individuare soggetti e condotte di soggetti meritevoli di sanzione penale.
Il legislatore, pertanto, con le disposizioni citate si riferisce alla materia penale e pone dei confini precisi. Quanto ai pubblici ufficiali dispone:
Quanto invece agli incaricati di un pubblico servizio:
L’osservazione che si può fare, sulla base del dato letterale della norma, è che il punto di vista del legislatore penale oltre ad essere metodologicamente mirato all’ambito strettamente penale, è altresì indubbiamente connotato da una prevalente dimensione sostanzialistica. Sia il pubblico ufficiale che l’incaricato (cioè, chi riceve un incarico) di pubblico servizio tali sono in quanto svolgono una determinata attività.
Quanto alle caratteristiche di tale attività essa, sia nel caso del pubblico ufficiale che nel caso del pubblico servizio, di sicuro può dirsi che le stesse rivestano un interesse ultra individuale le cui insopprimibili esigenze di tutela sono proprio quelle che giustificano inasprimenti sanzionatori (si pensi alle differenza tra appropriazione indebita e peculato) o previsioni di sanzioni penali per comportamenti altrimenti di mero rilievo civilistico (turbativa d’asta e violazione di regole concorrenziali) o meramente amministrativo.
Ebbene, l’impostazione sostanzialistica delle anzidette nozioni è evidentemente desumibile dal tenore letterale degli articoli citati, e ciò vale sia per la pubblica funzione che per il pubblico servizio. Quanto alla funzione pubblica, posto che nessun particolare dubbio ponevano le funzioni legislativa e giudiziaria, il legislatore del 1992 ha inserito nell’art. 357 c.p. il secondo comma, specificatamente rivolto alla funzione amministrativa, elencando una serie di indici rivelatori della natura pubblica di una funzione di amministrazione (ulteriori rispetto alla natura pubblicistica delle norme che la disciplinano) ovvero: l’agire per atti non paritari rispetto al destinatario, il contenuto tendenzialmente volitivo di questi atti ed il loro estrinsecarsi mediante poteri autoritativi o certificativi (o entrambi) .
La declinazione della nozione di pubblici ufficiali a fini penali si è per l’effetto attuata, nella applicazione giurisprudenziale, attraverso percorsi che possono definirsi condivisi: si riconosce la qualità di pubblici ufficiali (alle condizioni previste dalla legge) agli appartenenti alle forze armate e alle forze dell’ordine che commettano fatti previsti dalla legge come reato nell’esercizio delle loro funzioni, ai docenti universitari, di scuole statali e di istituti parificati nell’esercizio delle attività certificative e autorizzative e, alle stesse condizioni, ai dipendenti degli enti locali (si pensi al dipendente del Comune addetto all’ufficio tecnico) ed al personale delle aziende sanitarie e del servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento alla tipologia di attività svolta (Cass. pen., Sez. V, Sentenza, 16/12/2019, n. 9393 (Rv. 278665-01), così massimata: “L'infermiere operante in una struttura sanitaria privata, anche se non accreditata con il servizio sanitario nazionale, riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio, in quanto l'attività svolta, come evidenziato anche dall'art. 1 della legge 10 agosto 2005, n. 251, persegue finalità pubbliche di rilievo costituzionale, garantendo il diritto alla salute individuale e collettiva ed esercita, quindi, un'attività amministrativa con poteri certificativi assimilabili a quelli del pubblico ufficiale quando redige la cartella o la scheda infermieristica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen. per le false attestazioni compiute in una scheda infermieristica di una casa di cura privata, in quanto atto destinato a confluire nella cartella clinica, condividendone, quindi, la natura di atto pubblico munito di fede privilegiata).”
Più problematica, nello stesso approccio ermeneutico, la nozione a fini penali dell’incaricato di pubblico servizio. Il secondo comma dell’art. 358 c.p. sebbene non contenga lo stesso inciso di rinvio “ agli effetti penali” deve intendersi riferito e limitato ad essi e specifica la nozione non mediante l’utilizzo del verbo essere (come sarebbe delle definizioni, laddove ogni cosa o concetto è o non è altra cosa o un altro concetto astratto) bensì attraverso una “convenzione”: dice infatti la legge che “…Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale.”
Nel definire si dice sia cosa “deve essere” (un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione”) sia cosa “non deve essere”, ovvero una semplice mansione di ordine o una prestazione di opera meramente materiale.
Nel diritto penale, diritto vivente e del fatto, la declinazione di pubblico servizio (ulteriormente declinata con riferimento ai servizi di pubblica necessità ex art. 359 c.p.) prescinde dall’inserimento del soggetto attivo in un determinato contesto soggettivo pubblicistico: nell’art. 358 c.p. la legge, infatti, espressamente prevede che l’esercente un pubblico servizio è tale a prescindere dal titolo in ragione del quale svolga l’attività riconducibile al canone definitorio (posto che il primo comma della norma prevede che “Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.”). Sotto tale profilo, indubbiamente, il legislatore ha delineato una nozione oggettiva di pubblico servizio, derivante dalla disciplina normativa dell'attività considerata, indipendentemente dalla natura, pubblica o privata, del soggetto da cui l'attività è svolta. A confortare la declinazione oggettiva delle definizioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, vale altresì citare il disposto dell’art.360 c.p., “Cessazione della qualità di pubblico ufficiale” a norma del quale ove il fatto reato sia commesso da soggetto che riveste la qualità, ovvero anche solo aggravato in ragione della stessa, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all'ufficio o al servizio esercitato[1].
Simmetricamente, quindi, il pubblico ufficiale è tale quando agisce nell’esercizio dei poteri legislativo, giudiziario, amministrativo e l’esercente un pubblico servizio tale è quando svolga un’attività (non di mero ordine né meramente materiale) che sia disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione.
Questa premessa ci induce a ritenere che, delle molte possibili (e particolarmente care al diritto amministrativo, che tradizionalmente declina la nozione di pubblico servizio secondo impostazioni soggettive, oggettive o miste), il legislatore penale abbia inteso fare propria una nozione sostanzialistica del pubblico servizio.
3. L’incertezza del resto
Il diritto amministrativo conosce la categoria del pubblico servizio e del servizio pubblico locale, ed ancora del servizio pubblico essenziale (art. 43 Cost.) sebbene fatichi, e non poco, ad approdarne ad una definizione esaustiva e finale dell’uno e dell’altro.
Si sono nel tempo variamente confrontate tra loro nozioni di pubblico servizio (locale e non) improntate ad una prevalente dimensione soggettiva, ovvero oggettiva o, infine, mista.
Nella presente riflessione non si pretende certo di individuare una nozione condivisa in quell’ambito, piuttosto, da interprete penale, si tenta di raccogliere, con sporadiche incursioni nel diritto pubblico, indizi che possano risultare altresì utili a declinare la corrispondente nozione penalistica.
Ebbene, alla nozione di servizio pubblico fa senz’altro riferimento l’art. 43 della Costituzione per il quale “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”: la norma certamente collega la nozione di servizio e quella di impresa, con una connotazione in termini di rilievo ultra individuale ed economico dell’attività svolta e, altresì, individua, tra i servizi pubblici, un sottoinsieme dedicato ai servizi pubblici “essenziali”. L’impostazione costituzionale sembrerebbe quindi optare per una nozione del pubblico servizio in senso oggettivo
In via di prima approssimazione interpretativa, può certamente affermarsi che la nozione di “servizio pubblico” è comunque declinata dal legislatore costituzionale in correlazione con la funzionalizzazione di una determinata attività al soddisfacimento di bisogni di carattere collettivo.
Così letta, la norma costituzionale sembra superare (anche in ragione della natura della fonte) l’originaria impostazione della legge Giolitti (legge 29 marzo 1903 n. 103), che istituiva le aziende municipalizzate e del TU n. 2578 del 1925, e conteneva, all’art. 1[2], un elenco dei servizi pubblici (che il Comune poteva assumere) ripartiti in n. 19 categorie : la legge citata seguiva, quindi, un’impostazione prevalentemente soggettiva del servizio pubblico al contempo temperato dalla elencazione di attività finalizzate al soddisfacimento di bisogni collettivi (acqua, luce, fognature, trasporti ecc. ecc.).
La materia risulta oggi ampiamente trattata nel Decreto legislativo 23 dicembre 2022, n. 201, “Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, sempre però con un occhio assolutamente privilegiato alla dimensione, appunto, economica del servizio: ebbene la citata dimensione economica non risulta invece necessariamente valutata come coessenziale ai fini del diritto penale, rispetto al quale, ad esempio, valgono piuttosto, oltre al rilievo ultra individuale dell’interesse sotteso, la presenza di eventuali poteri attestativi, certificativi, valutativi e di controllo connaturati all’attività svolta (come nel caso del capocantiere Anas, cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 3342 del 20/12/2023 Ud. (dep. 26/01/2024) Rv. 285906 – 01, così massimata: “In tema di reati contro la pubblica amministrazione, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio il "capo cantiere sorvegliante" dipendente di Anas s.p.a., il quale non è assegnatario di semplici mansioni d'ordine, né prestatore di opere meramente materiali, ma svolge attività disciplinate nella stessa forma della pubblica funzione, essendo titolare di numerosi compiti di guida, sorveglianza e vigilanza sull'operato degli altri lavoratori, di sottoscrizione di verbali di accertamento, di redazione di un rapporto settimanale dei lavori eseguiti.”.
Altri “indizi”, potenzialmente utili all’interprete penale (ferma restando l’impostazione definitoria del legislatore penale attuata attraverso l’inciso “a fini penali”) li ritroviamo nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo 31 marzo 2023 n. 36), in particolare, nel capo dedicato al partenariato pubblico privato di tipo contrattuale o istituzionale (anche menzionato come PPP) disciplinato dagli artt. 174-208. Il raccordo, non intuitivo, tra il concetto di servizio pubblico e quello di partenariato pubblico privato diviene evidente avuto riguardo alla declinazione della relativa nozione, contenuta nell’art. 174 del decreto legislativo citato[3],: indubbiamente la norma segue una impostazione sostanzialistica e privilegia una valutazione di tipo economico dell’istituto (basti pensare che il legislatore al riguardo prevede una programmazione, ed altresì la valutazione di fattibilità ed efficienza, art. 175 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 36 citato).
Resta ferma la assoluta rilevanza del tema relativo alla individuazione della nozione di servizio pubblico nel diritto processuale amministrativo, posto che l’art. 133 del codice di quel processo espressamente prevede che tale materia costituisca ipotesi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo (in particolare la lettera c) del citato articolo testualmente prevede che siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: “c) le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all'affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità;…”.
Quanto alle fonti eurounitarie, l’art. 106 del TFUE prevede al secondo paragrafo che “le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione”. Le citate fonti sovranazionali paiono quindi approcciare ad una prevalente valutazione della dimensione economica del servizio/prestazione, astrattamente idonea a soddisfare una “missione” di rilievo ultra-individuale (e perciò di interesse pubblico).
Concludendo, queste rapide e senz’altro sintetiche incursioni nel diritto pubblico interno e nel diritto euro unitario, di certo non sembrano risolvere i dilemmi dell’interprete penale (cui il legislatore ha indicato, come detto, una via “riservata”): in esse, tutte, prevale, all’evidenza, una valutazione economica del servizio pubblico (inteso come attività che produce prestazioni o beni di interesse per la collettività) che non risulta del tutto corrispondente a quella utilizzata in sede penale.
4. La nozione di incaricato di pubblico servizio nella sua declinazione giurisprudenziale penale
Premessa la nozione di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p., valutata la sua diversità rispetto alle nozioni proprie del diritto amministrativo, pare doveroso verificare in quali casi concreti la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto sussistente la qualifica di incaricato di pubblico servizio.
La prima e più ampia categoria certamente comprende i dipendenti di enti che svolgono un pubblico servizio: così è stato affermato che fosse incaricato di pubblico servizio il gestore del servizio di ambulanza, il gestore del servizio di soccorso stradale, il depositario di veicoli coinvolti in incedenti stradali, il ricevitore autorizzato a ricevere giocate, il custode del cimitero, l’addetto alle casse dell’azienda sanitaria locale ed altre variegate ipotesi.
Si osserva che di frequente si ritiene ricorra tale particolare qualifica nei casi in cui il soggetto movimenti denaro proveniente dallo Stato o da enti locali (così ad esempio l’amministratore di una comunità per il recupero di tossicodipendenti beneficiaria di erogazioni finanziarie pubbliche vincolate) ovvero sia preposto alla raccolta dai privati di somme di denaro destinate all’erario (il caso più evidente quello del soggetto autorizzato alla raccolta delle giocate, con specifico riferimento al versamento del c.d. PREU).
Questo, si intende, perché in ipotesi di tale specie senz’altro risulta agevolmente individuabile la norma che impone comportamenti doverosi analoghi a quelli previsti per la pubblica funzione, ovvero una norma che vincola l’agire del soggetto nell’interesse di una collettività e segna le direzioni dei suoi comportamenti.
Così, ad esempio, nel caso del soggetto esercente attività di raccolta di giocate, la convenzione sottoscritta tra il predetto e l’ente concessionario dei monopoli, impone all’esercente tanto le modalità della raccolta tanto l’esazione del PREU ed il suo successivo pagamento all’Erario.
Sembra quindi possa affermarsi che, dopo la riformulazione dell’art. 358 c.p. ad opera del legislatore del 1990, si è adottato un criterio oggettivo-funzionale per la definizione del pubblico servizio, sicché la qualifica pubblicistica dell'attività prescinde dalla natura dell'ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell'impiego. Possiamo altresì affermare, con un certo grado di convinzione, che un ulteriore indice rivelatore della qualità di pubblico servizio e del soggetto incaricato risiede nella disciplina dell’attività ad esso correlata: deve essere quindi possibile rinvenire una norma di natura pubblicistica che indichi un comportamento doveroso per il soggetto che lo esercita al precipuo fine di consentire la realizzazione di interessi propri della collettività (in ciò il servizio è pubblico). Se il soggetto è totalmente libero nella realizzazione di una determinata attività, nella scelta del contraente, nella individuazione dei propri scopi di impresa e delle modalità con cui perseguirli, sarà ben difficile che lo stesso possa ritenersi incaricato di pubblico servizio, anche se l’ambito in cui opera sia di interesse pubblico.
Certamente questa conclusione costituisce approdo certo della giurisprudenza della Corte di la quale ha recentemente affermato che “Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è dunque identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata, con esclusione in ogni caso dall'area pubblicistica delle mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).” (cfr. Cass. Sez. 6, sent. N. 21624 del 2022)
5. L’attività “BANCOPOSTA”
La questione relativa all’ambito di operatività della nozione di esercente un pubblico servizio si è recentemente posta con specifico riferimento alla attività c.d. di “BANCOPOSTA” svolta dal Poste s.p.a.: come noto la soluzione della questione, ritenuta controversa, circa la natura dell’attività bancoposta è stata recentemente rimessa alle Sezioni Unite della Corte (notizia di decisione n. 10/24).
Poste S.p.a., ente avente forma giuridica di società per azioni, nel nostro sistema può svolgere attività “bancaria” o “finanziaria”, attività oggi pacificamente privatistica sebbene vigilata dalle competenti Autorità (Banca d’Italia, in particolare, per il settore dell’attività bancaria e Consob per quello del mercato finanziario): entrambe tali attività si estrinsecano in negozi giuridici sottoposti a regime privatistico, nonostante l’interesse delle Autorità di Vigilanza al rispetto di determinati standard di tutela finalizzati ad assicurare sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed i controlli necessari e opportuni per l’attività finanziaria.
Tuttavia, non si ritiene di poter affermare che Poste svolga attività bancaria in regime parificabile a quello degli altri operatori, rispetto ai quali le attività di vigilanza sono comunque successive e di gestione ed estranee alla concreta disciplina dei singoli rapporti: ed invero, in virtù di una specifica normativa Poste s.p.a. svolge tale attività in regime “concessorio” da Cassa Depositi e Prestiti ed è proprio la relazione genetica con tale ente che deve essere valutata al fine di verificare se dalla stessa sorgano obblighi comportamentali e precetti di disciplina che realizzano proprio quella particolare condizione cui la giurisprudenza della Corte riconnette l’operatività dell’art. 358 c.p., ovvero quella “regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata”. La questione, come noto, è controversa ed oggetto di una recente rimessione alle Sezioni Unite, proprio al fine di scongiurare pronunce tra loro contrastanti sul punto.
Ebbene, tornando alla eventuale esistenza di una regolazione pubblicistica, l’analisi delle norme vigenti pare fornire elementi indizianti in tal senso: ciò varrebbe, in particolare, proprio con riferimento a quella attività di raccolta del risparmio che si estrinseca attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi (cfr. sul punto Cass. Sent. Sez. 6 n. 44146 del 22 giugno 2023) e tanto si desume dalla circostanza che tali forme di risparmio abbiano un regime fiscale agevolato e l’esenzione da taluni oneri in materia successoria e, ancor prima, che tale attività sia svolta per conto della Cassa Depositi e Prestiti, anch’essa ente con forma societaria sebbene con una “spiccata vocazione al sostegno degli investimenti pubblici”.
Quanto a tale ultimo aspetto, val la pena considerare che l’art. 5, comma 7) lett. a) del DL 30 settembre 2003 n. 269 (convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003 n. 326) prevede tra l’altro che “La CDP S.p.A. finanzia, sotto qualsiasi forma:
Risulta quindi, per quanto di interesse ai fini della individuazione della rilevanza della qualifica di esercente un pubblico servizio, la circostanza che a monte dell’attività Banco Posta ci sia una norma primaria che prevede espressamente che Cassa depositi e prestiti nello svolgimento delle proprie finalità si finanzi attraverso prodotto nominativamente definiti (libretti di risparmio postale, buoni fruttiferi postali) assistiti dalla garanzia dello stato e distribuiti attraverso Poste Italiane Spa. Tanto significherebbe, altresì, che quale mera distributrice il prezzo di distribuzione non sia necessariamente determinato da Poste: se nel contratto tipico di offerta al pubblico dei predetti prodotti si rinvenissero disposizioni limitative della concreta volontà contrattuale non tanto dell’acquirente ma dell’offerente-distributore Bancoposta, ecco che si invererebbe proprio la condizione già ritenuta dalla cassazione come coessenziale alla natura del pubblico servizio.
Dalla consultazione del sito delle Poste è possibile acquisire ulteriori informazioni: si tratta di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti che appunto li distribuisce attraverso Poste spa, con agevolazione fiscale sia su interessi che su eventuali premi (con tassazione al 12,50%) e che sono esenti da imposte di successione.
Va da sé che già per esempio la determinazione ad opera di CDP del prezzo di vendita del prodotto potrebbe costituire argomento utilizzabile al fine di ritenere che la libertà contrattuale di Poste non sia del tutto priva di limiti, non sia una libertà contrattuale piena e che, per l’effetto, vi siano i presupposti per ritenere che l’attività relativa alla collocazione sul mercato di quel tipo di prodotti si sostanzi nell’esercizio di un pubblico servizio ai sensi e per gli effetti dell’art. 358 c.p. : tuttavia, occorre ben ponderare, in ottica più ampia, la circostanza che anche nei rapporti giuridici privati sono possibili vincoli contrattuali in virtù dei quali un determinato soggetto assume l’obbligo di collocare sul mercato beni o servizi a prezzi predeterminati dalla propria controparte contrattuale. Il discrimine potrebbe, quindi, rinvenirsi nella circostanza che la ratio del vincolo contrattuale risponda ad interesse non meramente individuale, ovvero ad interesse collettivo, senza peraltro trascurare che comunque attraverso la vendita di tali prodotti CDP, ente che svolge attività di rilievo ed interesse pubblicistico, si finanzia.
La questione di diritto (controversa) del “Se, nell'ambito delle attività di "bancoposta" svolte da Poste Italiane s.p.a., ai sensi del D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la "raccolta del risparmio postale”, (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata per conto della Cassa depositi e prestiti art. 2 comma 1 lett. b) d. lgs. 30 luglio 1999 n. 284) -, abbia natura pubblicistica e, in caso positivo, se l'operatore di Poste Italiane s.p.a. addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 cod. pen.” risulta, come detto, di recente rimessa alle Sezioni Unite della Corte con l’ordinanza n. 31605 del 29 maggio 2024.
In attesa della decisione delle Sezioni Unite, pare ragionevole affermare comunque che proprio la correlazione dell’attività bancaria svolta da Poste Spa rispetto a quella della Cassa Depositi e Prestiti, unitamente alla circostanza che quella specifica categoria di prodotti sia presidiata da garanzia dello Stato, porta ad evidenziare a monte una “vocazione pubblicistica in senso oggettivo” dell’attività bancaria svolta da Poste e relativa a questi prodotti.
Si verte, quindi, nel caso di specie di una duplice corrispondenza tra l’attività bancoposta ed il pubblico servizio, trattandosi di attività che da una lato è relativa, anche se in senso ampio, al patrimonio destinato dello stato, dall’altro finalizzata, in senso oggettivo, al finanziamento dello stato, delle regioni, degli enti locali, degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico, attività che ex se e in senso oggettivo integra un pubblico servizio (anche prescindere dall’utilizzo che gli enti destinatari facciano di queste risorse).
Il regime di tassazione agevolata, l’esenzione dalle imposte di successione e, ultimo ma non per importanza, la strumentalità dell’attività Bancoposta al raggiungimento dell’obiettivo senz’altro di rilievo pubblicistico, di finanziare soggettività di rilievo pubblico, in particolare, concreta quella particolare ipotesi di delimitazione esterna del pubblico servizio che vincola l'operatività dell'agente (se non Poste spa, strumento di collocazione sul mercato di prodotti emessi da Cassa Depositi e Prestiti, direttamente quest’ultima, vincolata ad utilizzare la provvista ricavata per il surriferito finanziamento pubblico) e che costituisce presupposto per l’operatività dell’art. 358 c.p., limitatamente all’attività di collocamento sul mercato dei prodotto emessi da CDP.
6. Ultime riflessioni in tema di coerenza interna del sistema normativo
Posta la non corrispondenza tra i concetti di esercente un pubblico servizio in ambito penale e quello in materia penale, è interessante chiedersi se possano esservi incompatibilità tra norme che disciplinano l’esercizio del servizio pubblico nella declinazione propria del diritto amministrativo e norme che mirano ad individuare condotte sanzionabili penalmente poste in essere dall’esercente ex art. 358 c.p.
Ora, questa distanza tra i due sistemi, astrattamente configurabile ad esempio con riferimento a comportamenti “efficienti” (in ambiti nei quali è ammessa discrezionalità) non pienamente conformi alle previsioni di una norma di rango qualificato, deve pur trovare un momento di applicazione coerente.
In tali casi, se di certo non può giungersi a ritenere lecito per il diritto amministrativo un comportamento meramente predatorio posto in essere dall’esercente un pubblico servizio, potrebbe valutarsi invece lecito il caso in cui l’esercente un pubblico servizio tenga un comportamento diverso da quello previsto dalla norma che disciplina l’attività, senza recare nocumento ( ed anzi recando un vantaggio all’amministrazione): si ponga il caso di scelta non conforme ad un criterio predefinito ma vantaggiosa (e non illecita, posto che l’illiceità costituisce sempre ragione di anno per l’amministrazione).
La giurisprudenza della Corte di Cassazione dimostra come questo potenziale conflitto sia stato già affrontato: il caso che si vuole richiamare è quello risolto (in senso favorevole all’imputato) dalla Corte di legittimità con la sentenza delle sez. 6, n. 25173 del 13/04/2023 Ud. (dep. 09/06/2023) Rv. 284790 – 01). In essa, si afferma tra l’altro , per quanto di interesse in questa sede quale concetto condiviso, che il legale rappresentante di una società a totalitaria partecipazione pubblica, deputata allo svolgimento di attività di pubblico servizio corrispondente a quello affidato all'ente pubblico controllante riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio e che parimenti rivesta la medesima qualità anche il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, interamente controllata da una società "in house", deputata all'espletamento di attività di carattere tecnico che si pongano in rapporto ausiliario e strumentale rispetto ai compiti pubblicistici perseguiti dalla società controllante. Tuttavia, riconosciuta la sussistenza del profilo soggettivo, nel merito la Corte è giunta ad escludere la configurabilità del cd. peculato per distrazione nella condotta di uno degli imputati in ragione di una destinazione da questi impressa a somme di denaro che, sebbene non corrispondente a quella astrattamente prevista, non giungeva comunque ad integrare un fatto appropriativa in senso stretto, in ragione della sussistenza di un interesse pubblico anche alla diversa e non prevista destinazione (ovviamente destinazione non privatistica).
Ecco, quindi, che il sistema già dimostra di essere in grado di porre rimedio a quei potenziali conflitti interni (derivanti dalla diversità tra regole amministrative di efficiente amministrazione e regole penali) valorizzando l’esistenza di un concreto vulnus quale presupposto essenziale per l’operatività della sanzione penale.
Il principio di offensività, unito alla valutazione della sussistenza del dolo quale elemento psicologico che connota i delitti contro la pubblica amministrazione, costituiscono strumenti attraverso i quali risolvere le pur configurabili diversità tra comportamenti doverosi nelle diverse sedi penale e amministrativa. Ovvia la considerazione (finale) che ogni intervento normativo che “riempia” le fattispecie incriminatrici in tema di reati contro la pubblica amministrazione di elementi connotanti (l’intenzionalità del dolo, la sussistenza del danno) costituisce strumento di ausilio per l’interprete nella individuazione del discrimine tra incriminazioni di pura forma ed incriminazioni rispondenti al principio di offensività, oltre a garantire, al contempo, la giusta reazione del sistema rispetto a condotte invece pacificamente meritevoli di rilievo nella sede penale.
[1] Interessante sul punto la recente sentenza della Corte di Cassazione sez 6, n. 33016 del 2024 udienza 11 luglio 2024 in tema di peculato dell’amministratore di sostegno così massimata “ …La ratio sottesa all'art. 360 cod. pen. è volta ad estendere gli effetti della qualifica pubblicistica, anche ad un periodo successivo alla sua cessazione, nella misura in cui sussiste un rapporto di strumentalità tra la qualifica precedentemente ricoperta e il reato commesso, la cui realizzazione deve essere stata possibile proprio sfruttando la pregressa posizione.”
[2] “Art. 1 I Comuni possono assumere, nei modi stabiliti dilla presente legge, l'impianto e l'esercizio diretto dei pubblici servizi, e segnatamente di quelli relativi agli oggetti seguenti: 1° costruzione di acquedotti e fontane e distribuzione di acqua potabile; 2° impianto ed esercizio dell'illuminazione pubblica e privata; 3° costruzione di fognature ed utilizzazione delle materie fertilizzanti; 4° costruzione ed esercizio di tramvie, a trazione animale o meccanica; 5° costruzione ed esercizio di reti telefoniche nel territorio comunale; 6° impianto ed esercizio di farmacie; 7° nettezza pubblica e sgombro di immondizie dalle case; 8° trasporti funebri, anche con diritto di privativa, eccettuati i trasporti dei soci di congregazioni, confraternite ed altre associazioni costituite a tal fine e riconosciute come enti morali; 9° costruzione ed esercizio di molini e di forni normali; 10° costruzione ed esercizio di stabilimenti per la macellazione, anche con diritto di privativa; 11° costruzione ed esercizio di mercati pubblici, anche con diritto di privativa; 12° costruzione ed esercizio di bagni e lavatoi pubblici; 13° fabbrica e vendita del ghiaccio; 14° costruzione ed esercizio di asili notturni; 15° impianto ed esercizio di omnibus, automobili, e di ogni altro simile mezzo, diretto a provvedere alle pubbliche comunicazioni; 16° produzione e distribuzione di forza metrico idraulica ed elettrica e costruzione degl'impianti relativi; 17° pubbliche affissioni, anche con diritto di privativa, eccettuandone sempre i manifesti elettorali e gli atti della pubblica autorità; 18° essicatoi di granturco e relativi depositi; 19°stabilimento e relativa vendita di semenzai e vivai di viti ed altre piante arboree e fruttifere.”
[3] Art. 174
Art. 174 “Nozione”:
1.Il partenariato pubblico-privato è un'operazione economica in cui ricorrono congiuntamente le seguenti caratteristiche: a) tra un ente concedente e uno o più operatori economici privati è instaurato un rapporto contrattuale di lungo periodo per raggiungere un risultato di interesse pubblico;
b) la copertura dei fabbisogni finanziari connessi alla realizzazione del progetto proviene in misura significativa da risorse reperite dalla parte privata, anche in ragione del rischio operativo assunto dalla medesima; c) alla parte privata spetta il compito di realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l'attuazione;
d) il rischio operativo connesso alla realizzazione dei lavori o alla gestione dei servizi è allocato in capo al soggetto privato.
2. Per ente concedente, ai sensi della lettera a) del comma 1, si intendono le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori di cui all'articolo 1 della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014.
3. Il partenariato pubblico-privato di tipo contrattuale comprende le figure della concessione, della locazione finanziaria e del contratto di disponibilità, nonché gli altri contratti stipulati dalla pubblica amministrazione con operatori economici privati che abbiano i contenuti di cui al comma 1 e siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. L'affidamento e l'esecuzione dei relativi contratti sono disciplinati dalle disposizioni di cui ai Titoli II, III e IV della Parte II. Le modalità di allocazione del rischio operativo, la durata del contratto di partenariato pubblico-privato, le modalità di determinazione della soglia e i metodi di calcolo del valore stimato sono disciplinate dagli articoli 177, 178 e 179. 4. Il partenariato pubblico-privato di tipo istituzionale si realizza attraverso la creazione di un ente partecipato congiuntamente dalla parte privata e da quella pubblica ed è disciplinato dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, e dalle altre norme speciali di settore. 5. I contratti di partenariato pubblico-privato possono essere stipulati solo da enti concedenti qualificati ai sensi dell'articolo 63.
“Marie Gulpin” di Marco Mantello l’inedito camouflage dell’odio. Recensione di Paola Filippi
In Francia, in un futuro distopico, l’estrema destra è al potere.
È Marie Gulpin che guida il paese, la leader del partito Figli della Patria.
È arrivata al potere cavalcando le paure e le insicurezze dei francesi. Il collante lo ha facilmente rinvenuto nell’odio razziale che ha sapientemente coltivato, insieme a populismo e complottismo.
Tutti i francesi sono con lei, uniti contro i neri, contro gli immigrati e soprattutto contro i musulmani. Nell’immaginario collettivo, manipolato da Gulpin e dai suoi sodali, gli stranieri sono i nemici mortali della Francia, e il popolo francese è saldamente unito nel comune sentimento di rabbia e istinto di prevaricazione contro il diverso.
La leader del partito Figli della Patria – come già è accaduto in altri paesi europei dove i fasciti sono al governo e il sovranismo ha vinto – reintroduce in Francia la pena di morte.
Chi sarà il primo decapitato, dopo l’introduzione della ghigliottina? Sarà Luigi Gulpin, il figlio, appena diciottenne, di Marie? È lui che, con i suoi amici, ha organizzato il poussez le mannequin e gettato Abdel Hakim Hadiudi, un anziano immigrato di origine tunisina, tra le rotaie del metrò? Abdel Hakim Hadiudi meritava di morire?
Il romanzo di Marco Mantello, scrittore e poeta romano che vive tra Parigi e Berlino, autore del romanzo “La rabbia”, finalista al Premio Strega nel 2012, inizia così, con il drammatico poussez le mannequin, e di lì si dipana, almeno apparentemente, secondo gli ordinari schemi del thriller psicologico; nessuno dei personaggi è veramente come appare, la realtà è presentata su diversi piani e differenti angoli visuali.
Immagini carpite da misteriose riprese video, spedite al narratore Cesare Cannelutti, terzo marito di Marie Gulpin, da un mittente anonimo, restituiscono vicende inaspettate e sconvolgenti. Rappresentazioni di vita vissuta che modificano repentinamente i tratti dei personaggi e i loro ruoli. La storia si fa sempre più avvincente.
Marco Mantello, con “Marie Gulpin”, in maniera magistrale, offre al lettore, intrecciandole in un'unica storia, tre diverse narrazioni: quella che si dipana nel thriller; quella che affronta i temi legati all’ascesa dell’estrema destra, al populismo nazionalista, all’ossessione identitaria e antislamica che attraversa l’Europa, quella che descrive, senza veli, la personalità e l’ascesa della leader sovranista.
Il giallo è intrigante: Luigi Gulpin sarà condannato? Ci saranno altri morti? Chi è veramente Davide? Il Soleil Noir esiste? Quale è il ruolo assegnato all’ultimo discendente dei boia, chiamato a rimettere in funzione la Petite Louison?
L’analisi politica dell’ascesa dell’estrema destra è estremante lucida: la paura droga la ragione, l’odio razziale è il nuovo oppio che obnubila il popolo francese.
Il sovranismo, con la proclamazione dell’obiettivo dell’esclusione è il vessillo che rassicura gli animi. La solidarietà è bandita e i diritti fondamentali sono sostituiti dai valori della patria. Ma in cosa consistono i valori della patria? Quali sono questi valori proclamati e da difendere strenuamente? Ebbene, si tratta di valori dei quali si sa solo che sono da difendere; alla loro mera enunciazione corrisponde il vuoto; un vuoto potente perché riesce a cancellare non solo l’egalité – cancellazione scontata per i diversi – ma anche la liberté e la fraternité.
In questo nuovo regime gli showman e i pagliacci diventano, a pieno titolo, uomini politici di successo, nella facile declinazione di una ideologia populista, senza idee, senza rispetto dei diritti fondamentali dei diversi ove solo i francesi possono ridere, essere felici e vivere. I giudici sono sostituiti dai talkshow.
Il processo mediatico delle vittime è formalizzato – diventa Cour d’Assises con il nome di Giudice delle vittime. Secondo la filosofia per cui “il sangue non si nutre di una colpa dei carnefici ma di un sentimento diffuso di colpevolezza attribuito alla vittima” l’immigrato, vittima, diventa imputato. Il sistema penale è particolarmente repressivo con l’introduzione di crimini tipici dei regimi di polizia, la giustizia oltre che mediatica è sommaria. I nuovi crimini sono quelli da strada, mentre, contestualmente, i reati dei colletti bianchi vengono depenalizzati.
La descrizione della Francia è desolante, trapela come scenario di fondo un occidente ripiegato su stesso, chiuso nelle proprie ossessioni, sterile e contaminato da “democrazie identitarie” e “sovranismi”.
Nella descrizione di Mantello – alla fine non così immaginaria – l’Occidente è in pericolo. Non sono i neri, gli immigrati o l’Islam a collocarlo sull’orlo del baratro quanto piuttosto è l’Occidente che è in fase di autoeliminazione; processo iniziato con la drastica sostituzione della politica dell’esclusione alla politica della solidarietà e dell’accoglienza, con la sostituzione dei principi di Jean-Jacques Rousseau con i vacui valori della patria.
In questo nuovo occidente – con la o minuscola – tutto ruota attorno al doppelwirKung, come scrive nella sua tesi Davide Cannelutti, figlio del narratore e amico di Luigi Gulpin, con lui nel poussez le mannequin. La nuova cristianità che anima l’occidente ha sostituito Dio con il culto dell’apparire, del piacere e della ricchezza; in nome di divinità commerciali e ha poi trovato la regola per autoassolversi da ogni delitto. L’odio verso il diverso è giustificato dall’amore verso l’uguale o l’assimilato. L’introduzione della pena di morte è un atto di amore di Gulpin verso la Francia. In nome della sicurezza degli uguali è stata elaborata la distinzione tra costi umani e omicidi. Il terrorismo islamico è omicida mentre l’occidente è innocente per definizione, perché agisce a difesa di sé stesso e, per il resto, i danni sono effetti collaterali, non importa se le vittime sono civili innocenti o addirittura bambini.
L’intento di Marco Mantello è quello di «recuperare la vista» sulle identità collettive e la violenza in Europa, per accendere i riflettori sui «pericoli insiti in una mentalità collettiva che si alimenta in modo ossessivo del terrore prodotto dagli “altri”»[1].
L’occidente descritto da Mantello è un occidente con la “o” minuscola, che non ha fatto i conti con il suo lato oscuro, che non ha preso le distanze da fenomeni politico-culturali come il nazismo e il fascismo.
La terza narrazione che si intreccia nel racconto riguarda nell’intimo Marie Gulpin.
Gulpin si svela come una donna qualunque, solo ben “lanciata”, altro non è che un marchio di successo, il cui slogan è tratto dall’ancestrale paura della morte.
È instabile e psicotica – straordinario il suo rapporto con il boia della Bastiglia, lo gusterà il lettore – ma ciò non altera il rapporto della Gulpin con il suo popolo. È significativo che la leder del partito nazionalista sia una donna. Come ha scritto Marco Mantello «È un qualcosa di altamente manipolativo, perché si usano argomenti condivisi per rendere incontestabile il fine, reazionario, attraverso la condivisione del mezzo, progressista»[2].
Il messaggio è che chiunque, con un buon lancio pubblicitario, può diventare un leader sovranista, un dittatore; tutto inevitabilmente si snoda attorno al pericolo correlato alla desertificazione della cosa pubblica, al disinteresse per il collettivo e all’abbandono della politica.
Il messaggio di Marco Mantello è chiaro: la partecipazione politica va costantemente coltivata per impedire che vengano occupati da uno solo al comando – una sola nel nostro caso – gli spazi che, in uno Stato democratico devono, necessariamente, essere occupati da una pluralità di soggetti.
Le idee vanno coltivate con il confronto; le ideologie non possono essere sostituite dai c.d. valori della patria, concentrati esclusivamente attorno all’identità nazionale, il centro dell’etica della polis è l’essere umano, senza distinzioni riferite a diversità, come recita la Carta fondamentale dei diritti dell’Uomo.
La pochezza di Marie Gulpin, l’assenza di un’ideologia contro la quale confrontarsi, l’inconsistenza dei valori della patria, cuciti con la stessa stoffa del vestito dell’imperatore[3], avvertono che non è poi così difficile che un leader fascista prenda il potere. La ricetta è sempre la stessa fomentare la paura e assicurare sicurezza e protezione.
Il romanzo di Marco Mantello, con questa stupenda descrizione di una surreale Francia fascista, che purtroppo richiama criminalizzazioni, depenalizzazioni, razzismi e nuove diseguaglianze del nostro quotidiano, richiama alla memoria il monito di Primo Levi “È accaduto, quindi può di nuovo accadere”.
“Marie Gulpin” va letto.
Marco Mantello, "Marie Gulpin", Neri Pozza, 2023.
https://www.ibs.it/marie-gulpi...
Inedito camouflage dell’odio è un’espressione tratta dal titolo dell’intervista a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023 https://media.gruppoathesis.it/media/attach/2023/05/il_manifesto.pdf
[1] V. Marco Mantello e l’inedito camouflage dell’odio dal titolo dell’intervista di Guido Caldiron a Marco Mantello apparsa su il Manifesto il 25.4.2023.
[2] V. nota 1.
[3] Il vestito della fiaba danese di Hans Christian Andersen - Keiserens Nye Klæder.
L'immagine è un’installazione dalla serie «Human condition» di Antony Gormley
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