ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo e dei pacchetti turistici
di Alessandro Palmigiano
SOMMARIO: 1. Premessa.2. La tutela del consumatore-viaggiatore. 3.La posizione delle imprese tour operator
1. Premessa
La velocità con cui nelle ultime settimane, in Italia, si è diffuso il contagio da “coronavirus” e la velocità con cui si sono susseguiti provvedimenti del Governo, impone un’analisi dei rimedi contrattuali applicabili in questa particolare situazione di emergenza sanitaria, avuto riguardo non solo ai consumatori, ma anche alle imprese che si trovano costrette a fronteggiare un’ imprevedibile perdita economica. In altri termini, occorre effettuare un bilanciamento tra la tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito e la tutela degli interessi economici delle attività pubbliche e private.
Alla luce del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 marzo 2020, le disposizioni dettate ad hoc per la cd. “zona rossa” con il decreto dell’8 marzo 2020, sono state estese a tutto il territorio nazionale con efficacia fino al 3 aprile 2020.
Pertanto, in questo particolare momento storico, fonte normativa di rilievo per la regolamentazione dei rapporti contrattuali aventi ad oggetto viaggi (nella loro concezione più ampia) è rappresentata dai recenti decreti emanati in materia.
2. La tutela del consumatore-viaggiatore
In primo luogo, occorre prendere le mosse dalla sospensione dei viaggi d’istruzione organizzati dalle istituzioni scolastiche del sistema nazionale d'istruzione sia sul territorio nazionale sia all'estero disposta con il D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e, da ultimo, con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, come integrato dal successivo del 9 marzo 2020 . Il legislatore, in tali ipotesi, ha espressamente richiamato la disciplina dell’art. 41, comma 4, del Codice del turismo, stabilendo dunque l'obbligo di rimborso integrale a favore dei viaggiatori da parte degli organizzatori turistici.
In secondo luogo, occorre condurre un’attenta analisi sul tema dei viaggi individuali con arrivo o partenza programmati in tutto il territorio italiano, nonché di quelli aventi come destinazione Stati esteri in cui sia impedito l’accesso in ragione dell’emergenza epidemiologica.
Al riguardo, bisogna distinguere, a seconda che l’annullamento del viaggio dipenda da un provvedimento del Governo, oppure dipenda dall’organizzatore e/o dal vettore.
Nel primo caso (ad. esempio il blocco voli aerei per la Cina, il divieto di entrata e di uscita in tutto il territorio nazionale e di spostamento all’interno dello stesso) i vettori e/o organizzatori che hanno raccolto la prenotazione non possono pretenderne il pagamento; invece, qualora sia già stato incassato il corrispettivo, hanno l’obbligo di rimborsare al consumatore quanto versato, indipendentemente da quanto previsto in merito nel contratto del singolo servizio e quindi anche se la prenotazione era classificata come non rimborsabile.
Infatti, già l’art. 28, D.L. del 2 marzo 2020, n. 9, aveva elencato una serie di soggetti che, nel caso di contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo nelle acque interne o terrestre, mediante il richiamo alla disciplina di cui all’art. 1463 c.c., hanno diritto al rimborso per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Si tratta, in particolare, di:
I viaggiatori che appartengono a qualcuna di queste categorie, hanno diritto al rimborso di quanto pagato. Con riguardo alle modalità con le quali richiedere il rimborso, il consumatore deve inoltrare una comunicazione al vettore in cui deve indicare il ricorrere di una delle situazioni elencate al comma 1, e allegare il titolo di viaggio, entro un periodo di 30 giorni che decorre differentemente a seconda della situazione concreta.
Ricevuta la comunicazione, il vettore ha l’obbligo di rimborsare il corrispettivo versato per il titolo di viaggio entro 15 giorni, o in alternativa, entro lo stesso termine, può emettere un voucher di pari importo da utilizzarsi entro un anno dall’emissione.
Altro profilo da analizzare, riguarda l’acquisto di c.d. pacchetti turistici, ovvero i viaggi, le vacanze, le formule “tutto compreso" e le crociere turistiche che risultano dalla combinazione prefissata di almeno due dei seguenti elementi, venduti o offerti ad un prezzo forfetario: trasporto; alloggio; servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio che costituiscano, per la soddisfazione delle esigenze ricreative del consumatore,una parte significativa del pacchetto turistico. In merito, trova applicazione l’art. 28, commi 5-6, D.L. 2 marzo 2020, n. 9, che prevede in capo al viaggiatore (che rientra tra le categorie sopra richiamate di cui al comma 1) il diritto di recesso e di rimborso ai sensi dell’art. 41 del Codice del turismo, ivi richiamato.
Più precisamente, il diritto di recesso e di rimborso è previsto nelle ipotesi di “contratti di pacchetto turistico da eseguirsi nei periodi di ricovero, di quarantena con sorveglianza attiva, di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva ovvero di durata dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 nelle aree interessate dal contagio come individuate dai decreti adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6”.
Il legislatore, fa un espresso richiamo alla disciplina del Codice del turismo e in particolare all’art. 41, il quale, al comma 4, dispone che “in caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il passeggero ha diritto di recedere dal contratto, prima dell’inizio del pacchetto, senza corrispondere spese di recesso, ed al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto, ma non ha diritto ad alcun indennizzo supplementare”.
In altri termini, la diffusione del COVID-19 rappresenta un’ipotesi di circostanza inevitabile e straordinaria che incide in modo sostanziale sull’esecuzione del pacchetto, e che, in quanto tale, giustifica l’esercizio del diritto di recesso da parte del viaggiatore cui il legislatore collega il diritto di rimborso integrale dei corrispettivi versati, senza pagamento di somme a titolo di penale. Inoltre, ai sensi del comma 6, dell’art. 41, del Codice del turismo, all’esercizio del diritto di recesso consegue la risoluzione dei contratti funzionalmente collegati stipulati con terzi.
Quanto alle modalità di esercizio del diritto, il recesso deve essere effettuato prima dell’inizio del pacchetto e l’organizzatore ha l’obbligo di corrispondere le somme a titolo di rimborso senza ritardo, o comunque entro 14 giorni dal recesso. In alternativa, l’organizzatore può offrire al consumatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore oppure può emettere un voucher di pari importo da utilizzarsi entro un anno dall’emissione.
Nel secondo caso, ovvero nelle ipotesi in cui il viaggio venga annullato dal vettore o dal tour operator (se il titolo di viaggio è stato acquistato mediante agenzia di viaggio), il consumatore ha diritto al rimborso integrale di quanto corrisposto.
Sul punto, l’Ente Nazionale di Aviazione Civile, già prima del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, aveva fornito informazioni in merito alla tutela dei diritti previsti dal Regolamento Comunitario n. 261 del 2004 per i casi di cosiddetta “forza maggiore: “I passeggeri che sono in possesso di biglietto aereo il cui volo è cancellato, i passeggeri che, pur non avendo subito la cancellazione del volo, sono comunque soggetti alle restrizioni di Paesi terzi imposte nei confronti delle persone che provengono o che abbiano soggiornato in Italia negli ultimi 14 giorni e i passeggeri che per ordine delle Autorità sono soggetti a misure di contenimento dell’epidemia da Covid19 e che quindi non possono usufruire del biglietto aereo hanno diritto al rimborso del prezzo del biglietto da parte del vettore; non hanno, invece, diritto alla compensazione pecuniaria di cui all'art. 5 del Reg. numero 261 del 2004 che regola i casi di cancellazione, negato imbarco e ritardo prolungato in quanto la cancellazione del volo non è dipendente da causa imputabile al vettore”.
In relazione a quanto fin qui esposto non pare esservi alcun dubbio circa il diritto del viaggiatore al rimborso delle somme versate.
Più problematica è, invece, l’ipotesi in cui il viaggiatore abbia annullato il viaggio, spinto dal timore di un probabile contagio e fuori dalle ipotesi contemplate nel decreto (si pensi a coloro che hanno scelto di non partire sebbene le misure restrittive non riguardassero l’intero territorio nazionale e/o non vi erano impedimenti da parte degli aeroporti di destinazione). In tal caso, in assenza di decisioni prese dal Governo e/o dall’organizzatore, se il servizio era attivabile in concreto, il consumatore che ha deciso di rinunciarvi, in linea di principio, non ha diritto al rimborso, a meno che tale circostanza sia prevista nelle condizioni del contratto stipulato.
3. La posizione delle imprese tour operator
Esaurita la trattazione dei diritti del viaggiatore, occorre adesso prendere in considerazione, la posizione, più complessa, delle imprese tour operator nei confronti dei fornitori con i quali hanno stipulato dei contratti in nome e per conto dei viaggiatori.
La complessità dell’argomento è rappresentata dalla difficoltà, in alcune specifiche circostanze, di stabilire quale sia la legge applicabile al contratto di soggiorno o di trasporto stipulato tra un tour operator italiano e un’impresa fornitrice di servizi (hotel, b&b, vettore) comunitaria.
In relazione ad imprese italiane o imprese estere con contratti la cui legge applicabile sia quella italiana, l’art. 41, comma 6, Codice del turismo, stabilisce che nelle ipotesi di recesso dal contratto di pacchetto turistico da parte del consumatore ai sensi dei commi 4 e 5 dello stesso art. 41, "si determina la risoluzione dei contratti funzionalmente collegati stipulati con terzi." Ne consegue che i contratti con i fornitori dovranno essere considerati risolti e pertanto questi ultimi saranno obbligati a rifondere gli organizzatori turistici i quali, a loro volta, rimborseranno i viaggiatori. Nel caso, invece, in cui il fornitore sia straniero e la legge applicabile al contratto non sia quella italiana, trova applicazione il Regolamento CE n. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, il quale prevede un criterio generale di libertà di scelta delle parti circa la legge da applicare al contratto, cui si affianca un criterio suppletivo per il quale, in mancanza di scelta delle parti, sarà la tipologia del contratto a determinare i criteri. In particolare, ai sensi dell’art. 4, par. 1, lett b), Reg. CE 593/2008, “il contratto di prestazione di servizi è disciplinato dalla legge del paese nel quale il prestatore di servizi ha la residenza abituale”. Inoltre, “Se il contratto non è coperto dal paragrafo 1 o se gli elementi del contratto sono contemplati da più di una delle lettere da a) ad h), del paragrafo 1, il contratto è disciplinato dalla legge del paese nel quale la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica del contratto ha la residenza abituale” (art. 4, par. 2).
Infine, ai sensi dei paragrafi 3 e 4, “se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il contratto presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello indicato ai paragrafi 1 o 2, si applica la legge di tale diverso paese” e, ancora, “se la legge applicabile non può essere determinata a norma dei paragrafi 1 o 2, il contratto è disciplinato dalla legge del paese con il quale presenta il collegamento più stretto.”
Nel caso di contratti aventi ad oggetto il trasporto di passeggeri, il Regolamento CE, all’art. 5, par. 2, prevede una disciplina ad hoc per determinare la legge applicabile e precisamente: “Nella misura in cui la legge applicabile a un contratto di trasporto di passeggeri non sia stata scelta dalle parti conformemente al secondo comma, la legge applicabile è quella del paese di residenza abituale del passeggero, purché il luogo di partenza o di destinazione sia situato in tale paese. Se tali condizioni non sono soddisfatte, si applica la legge del paese in cui il vettore ha la residenza abituale. Le parti possono scegliere come legge applicabile al contratto di trasporto di passeggeri a norma dell’articolo 3 solo la legge del paese in cui: a) il passeggero ha la residenza abituale; o b) il vettore ha la residenza abituale; o c) il vettore ha la sua amministrazione centrale; o d) è situato il luogo di partenza; o e) è situato il luogo di destinazione”. E inoltre, “Se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il contratto, in mancanza di scelta della legge, presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello indicato ai paragrafi 1 o 2, si applica la legge di tale diverso paese” (art. 5, par. 3).
Pertanto, se alla luce dei criteri sopraindicati, risulta che la legge applicabile al contratto di pacchetto turistico, di soggiorno o di trasporto sia quella straniera, occorre, da un lato, verificare l'esistenza nell'ordinamento del fornitore di una norma che tuteli l'organizzatore turistico, oppure, dall’altro, verificare che nel contratto con il proprio fornitore, sia inserita una clausola che prevede la risoluzione nelle ipotesi di forza maggiore, con conseguente obbligo di rimborso di quanto pagato in nome e per conto dei viaggiatori.
In conclusione, potrebbe verificarsi la circostanza che il fornitore, prima facie, non riconosca efficacia nella propria sfera contrattuale alla sospensione governativa in atto nel nostro Paese e manifesti il proprio diniego al rimborso. In tale ipotesi, qualora la legge straniera applicabile o il contratto prevedano la possibilità della risoluzione in caso di forza maggiore, il fornitore non potrà sottrarsi al rimborso nei confronti del tour operator.
Si tratta, in ogni caso, di un’analisi da condurre caso per caso, anche in relazione alle diverse modalità di conclusione del contratto che potrebbero comportare deroghe alle regole generali.
Difetto strutturale dell’ordinamento nazionale rispetto al ne bis in idem, tra obblighi di cessazione e di riparazione: qualche osservazione su Corte dir.uomo,Korneyeva c. Russia.
di Diego Mauri
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Dalla partecipazione alla manifestazione non autorizzata al doppio processo, sino alla doppia condanna: le violazioni degli artt. 5 e 6 CEDU; 3. Ne bis in idem sostanziale e concorso di norme nella CEDU; 4. Le statuizioni ex art. 46, par. 1, CEDU: la portata degli obblighi di riparazione e di cessazione dell’illecito.
1. Introduzione
Con la sentenza resa nel caso Korneyeva c. Russia[1], la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte edu) ha accertato la violazione, da parte della Russia, dei diritti sanciti dagli artt. 5 (diritto alla libertà personale), 6 (equo processo) e 4 Protocollo 7 (diritto a non essere puniti due volte per lo stesso fatto – c.d. ne bis in idem) della CEDU. La ricorrente del caso in esame è una donna russa tratta in arresto, quindi processata e infine condannata, per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata contro il presidente della Federazione.
Due sono i profili di maggiore interesse sollevati dalla pronuncia appena citata. Il primo attiene alla portata del diritto a non essere giudicati o puniti due volte per un medesimo fatto (recte, “offesa”, stando alla lettera della disposizione di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU), rispetto al quale la Corte in realtà conferma – sollevando spunti di rilievo, come si vedrà, anche per l’ordinamento italiano – il proprio indirizzo giurisprudenziale. Il secondo – quello su cui si porrà maggiormente attenzione – involge la questione delle violazioni c.d. “strutturali” della CEDU e, in particolare, degli obblighi incombenti sugli Stati parte di adottare misure individuali e generali per porre fine alla violazione e rimediare alla medesima, ai sensi dell’art. 46 CEDU.
2. Dalla partecipazione alla manifestazione non autorizzata al doppio processo, sino alla doppia condanna: le violazioni degli artt. 5 e 6 CEDU
I fatti da cui è originata la vicenda di specie possono essere riassunti come segue. La ricorrente – appena più che ventenne all’epoca dei fatti – si ritrova coinvolta in una manifestazione di protesta (pacifica, ma non autorizzata dalle competenti autorità russe) a San Pietroburgo, il 12 giugno 2017. Le forze dell’ordine, sopraggiunte sul luogo, accerchiano i manifestanti e ogni altro individuo lì presente (tra cui la ricorrente), li prelevano e li conducono alla stazione di polizia, per procedere alla loro identificazione e alle rispettive contestazioni.
In particolare, alla ricorrente vengono contestati gli illeciti di cui agli artt. 19.3 par. 1 e 20.2 par. 5 del Codice federale russo sugli illeciti amministrativi (d’ora in avanti anche solo “Codice”). La prima disposizione punisce l’inosservanza dell’ordine legittimo dell’autorità nell’esercizio delle proprie funzioni; la seconda, invece, l’inosservanza, da parte dei partecipanti, della procedura prevista per lo svolgimento di un evento pubblico. Anticipando un aspetto di rilievo per le doglianze sollevate dalla ricorrente (e in particolare per quella sub art. 4 Protocollo 7 CEDU), è bene osservare come, a dispetto della qualificazione normativa di tali illeciti (e delle relative sanzioni) come “amministrativi”, la Corte perviene a considerarli come “sostanzialmente” penali alla luce dei noti criteri Engel (cfr. par. 53)[2]. Sulla base di tali contestazioni, la ricorrente – nel frattempo mantenuta in vinculis per poco più di ventiquattro ore – viene processata dalla medesima autorità giudiziaria in due distinti procedimenti e condannata, in data 16 giugno 2017, con due distinti provvedimenti, alle pene pecuniarie corrispondenti, rispettivamente, a Euro 7 e 140.
Nel proprio atto di impugnazione avverso tali statuizioni, la ricorrente solleva due censure. Da un lato, lamenta la mancata possibilità di interrogare come testi, nel corso del giudizio di prime cure, gli agenti di polizia che avevano proceduto all’arresto e redatto il verbale contenente le contestazioni e, dunque, la circostanza secondo cui la condanna sia avvenuta sulla base esclusiva degli atti di indagine, cioè di dichiarazioni extra-processuali. Dall’altro lato, la ricorrente eccepisce la violazione del principio del ne bis in idem, riconosciuto, in effetti, dall’art. 4.1 par. 5 del Codice con riferimento agli illeciti di natura amministrativi ivi disciplinati. Né la prima né la seconda doglianza vengono accolte dal giudice di seconde cure che, con due distinte decisioni, conferma le statuizioni del primo grado.
Esaurite pertanto le vie di ricorso approntate dall’ordinamento russo, la ricorrente avvia il contenzioso convenzionale. Posto che la doglianza sub art. 4 Protocollo 7 sarà trattata funditus e separatamente nel prosieguo, ci si limiterà ora, per mere esigenze di completezza, a riassumere i motivi di ricorso e le relative statuizioni della Corte sub artt. 5 e 6 CEDU.
Quanto alla doglianza relativa al diritto alla libertà personale di cui all’art. 5, par. 1, CEDU, per la Corte è piuttosto agevole rintracciare, nella condotta delle autorità russe coinvolte, gli elementi per affermare l’avvenuta violazione. La Corte analizza separatamente la traduzione della ricorrente alla stazione di polizia ai fini della compilazione del verbale contenente le contestazioni e il suo successivo mantenimento in vinculis: per entrambi i momenti, le autorità russe non hanno fornito adeguate motivazioni circa l’esigenza di comprimere, seppur per un periodo di tempo limitato, la libertà personale della ricorrente.
Quanto alla lamentata violazione del diritto all’equo processo, sotto il profilo della mancata partecipazione alle udienze della parte titolare (alla pari del Pubblico Ministero) dell’accusa e, dunque, del canone di imparzialità, la Corte si limita a richiamare per relationem la propria giurisprudenza[3] e perviene, così, ad affermare la responsabilità della Russia.
3. Ne bis in idem sostanziale e concorso di norme nella CEDU
3.1 Il caso di specie
Il vero epicentro della sentenza in commento e del suo “merito” è costituito dal ne bis in idem quale diritto fondamentale sancito dall’art. 4 Protocollo 7 CEDU. Come si è già detto supra, la ricorrente risulta essere stata soggetta a due distinti procedimenti (sostanzialmente “penali”) per la condotta tenuta in occasione della manifestazione non autorizzata a San Pietroburgo: non aver ottemperato all’ordine di dispersione intimato dalle autorità russe ai partecipanti (rilevante ex art. 19.3 par. 1 Codice) e non aver rispettato gli obblighi relativi allo svolgimento di manifestazione (rilevante ex art. 20.2 par. 5 Codice).
Per impiegare una terminologia vicina all’operatore del diritto italiano, si può dire che il caso di specie solleva un problema di concorso formale di illeciti: con la medesima condotta, infatti, la ricorrente risulta aver violato due diverse disposizioni del Codice.
Non pare inutile, a questo punto, procedere a un rapido richiamo della giurisprudenza convenzionale in punto di ne bis in idem e concorso di norme, tralasciando – ma solo perché non direttamente sollevato dal caso in commento – il filone relativo al c.d. “doppio binario sanzionatorio”, ben presente nella riflessione dottrinale e nella prassi giudiziaria italiana[4]. In effetti, com’è stato correttamente osservato, l’approccio interpretativo dei giudici di Strasburgo è contrassegnato da “significative oscillazioni”[5].
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale[6], oggi abbandonato, il divieto di doppia sottoposizione a processo o pena si declinava in senso prettamente formale: ciò che rilevava era la medesimezza (idem) della contestazione (“infraction” secondo il testo francese, “offence” secondo il testo inglese) e non del fatto materiale in sé. Ne conseguiva che, ai fini del giudizio circa l’idem formale, assumevano rilievo, a seconda dei casi, non solo il fatto storico in sé, ma pure la classificazione normativa della condotta nonché elementi comuni alle fattispecie che venivano, di volta in volta, in rilievo. Insomma, una selva di indici in cui l’interprete si trovava a districarsi con parecchia difficoltà.
Proprio per risolvere tali difficoltà e, in ultima analisi, scongiurare non immateriali pericoli di incertezza giuridica, la giurisprudenza di Strasburgo si decise ad operare un deciso revirement con la sentenza resa, dalla Grande Camera, nel caso Sergey Zolotukhin c. Russia[7]. Qui la Corte edu sposò appieno un approccio fondato non più sull’idem legale, bensì sul c.d. idem factum: ciò che la garanzia di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU vieta è la doppia sottoposizione a processo o pena per fatti identici o fatti che siano sostanzialmente i medesimi. Assume rilievo, in altre parole, l’identità materiale del fatto, data dalla medesimezza sia della condotta tenuta dall’imputato sia del contesto spaziale e temporale in cui la stessa si colloca, e non le (eventualmente) plurime qualificazioni normative[8]. Volendo rendere ragione di tale mutamento ermeneutico, non può tacersi, in aggiunta alla già menzionata esigenza di evitare applicazioni incerte della garanzia, anche l’opportunità di favorire un’interpretazione teleologicamente orientata della medesima, attenta, cioè, a che la qualificazione normativa della condotta non produca l’effetto di comprimere i diritti individuali e, soprattutto, l’effettività dei medesimi[9]. Vale la pena segnalare che tali rilievi furono costantemente posti alla base della giurisprudenza successiva, anche con riguardo a quella attinente al doppio binario sanzionatorio[10].
Tornando quindi al caso di specie, la Corte in effetti si confronta con l’argomento, sollevato dal Governo russo, circa la necessità di mantenere un approccio formale alla questione: in altre parole, le deduzioni della Russia si concentrano sulla diversità di – per usare, di nuovo, una formula nota – “bene giuridico” protetto dalle due disposizioni del Codice (parr. 45 e 62). L’operatività dell’istituto del concorso formale, insomma, sarebbe giustificato dalla necessità di assicurare “distinct types or areas of protection pertaining to each offense” (par. 62).
Rispetto a tale argomento, la Corte edu ha gioco facile nell’osservare come sia stata, di recente, la stessa Corte suprema russa, nella sua formazione plenaria, ad aver adottato un indirizzo ermeneutico volto, in maniera decisa, a rigettare l’applicazione dell’istituto del concorso formale tra le norme di cui agli artt. 19.3 par. 1 e 20.2 par. 5 Codice. Con sentenza del giugno 2018 (richiamata al par. 60), dunque successiva ai fatti di cui al ricorso di specie, il giudice russo ha infatti ritenuto – pur non facendo espresso riferimento al principio del ne bis in idem – che le due fattispecie si trovino in rapporto di specialità, ritenendo cioè che il disvalore condensato nella condotta sanzionata dalla prima delle disposizioni di cui sopra sia integralmente assorbito dalla seconda disposizione. Dunque, in casi quali quello di specie, solo l’art. 20.2 par. 5 Codice – e la sanzione ivi prevista – deve trovare applicazione.
La Corte edu sposa in toto tale indirizzo ermeneutico e, constatato come, alla luce di questo, la ricorrente sia stata sottoposta a processo e dunque condannata due volte per i medesimi fatti, conclude per l’avvenuta violazione dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU. Si tratta, infatti, di condotte “sovrapposte” (par. 62) e di fatti che, al netto delle varie qualificazioni giuridiche, si presentano come “substantially the same” (ibidem).
3.2 Il ne bis in idem nell’ordinamento italiano: qualche rilievo costruttivo e qualche spunto critico
Siano ora consentiti alcuni (fugaci, per il vero) rilievi a partire dall’esperienza italiana, proiettandoci sul piano penalistico in ragione della natura – “sostanzialmente penale” – delle fattispecie analizzate a partire dal caso di specie. Come insegna la più illuminata dottrina, le regole che presidiano gli istituti del concorso formale e del concorso apparente di norme non sono esenti da rilievi critici, quantomeno per quel che attiene al rischio di “incertezze applicative”[11] suscettibili di contrastare col principio del ne bis in idem[12].
Rimanendo sul piano processuale, la garanzia del ne bis in idem è condensata all’art. 649 c.p.p., il quale preclude l’esercizio dell’azione penale per lo stesso “fatto” nei confronti dell’individuo già prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile. A fronte di un dato testuale per il quale la diversa qualificazione giuridica – cioè il titolo – del fatto non ne muta l’identità, la giurisprudenza di legittimità ha a lungo seguito un indirizzo ermeneutico che, rispetto a ipotesi di concorso formale, esclude l’applicazione della garanzia[13]. Una decisiva inversione di rotta è stata di recente operata dal Giudice delle leggi, il quale, con la sentenza n. 200 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 647, co. 1, c.p.p., per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. (e col parametro interposto offerto dall’art. 4 Protocollo 7 CEDU), “nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale”[14]. Con questa pronuncia, la Corte costituzionale ha inteso intervenire in un “diritto vivente” contrassegnato da orientamenti contrapposti, al fine di confutare quello – invero minoritario – che, nel valutare il “fatto”, dava spazio non solo alla “dimensione storico-naturalistica” del medesimo (secondo la triade condotta / nesso causale / evento naturalistico)[15], ma anche alle “implicazioni penalistiche” (cioè, alla qualificazione giuridica) dell’accadimento. Così facendo, tale orientamento finiva infatti per ripiegare su un concetto di idem legale in distonia con l’idem factum elaborato dalla medesima Corte costituzionale (oltre che dal giudice convenzionale)[16].
La pronuncia di costituzionalità, poi, aggiunge importanti rilievi anche per quel che concerne il ne bis in idem sostanziale. Riscontrato che i due profili (processuale e sostanziale) si trovano di fatto “saldati” nel diritto vivente, la Corte costituzionale rileva come l’alternativa tra concorso formale e concorso apparente di norme non possa essere risolta sulla base di un mero raffronto tra “ben[i] giuridic[i] tutelat[i] dalle convergenti disposizioni penali” poiché ciò segnerebbe “l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o no il divieto del ne bis in idem”[17]. E tutto ciò, si badi, anche alla luce della giurisprudenza convenzionale, vera e propria “stella polare” del ragionamento dei giudici di Palazzo della Consulta.
Analogo discorso vale per la giurisprudenza di legittimità successiva alla censura di costituzionalità di cui sopra. Non mancano infatti, nelle pronunce di cassazione, puntuali raffronti con l’art. 4 Protocollo 7 CEDU così come interpretato dalla Corte edu. Ad esempio, chiamata a pronunciarsi, nel suo massimo consesso, sul rapporto tra truffa aggravata ex art. 640-bis c.p. e malversazione ex art. 316-bis c.p.[18], la Cassazione ha concluso come la giurisprudenza di Strasburgo non imponga l’adozione di criteri di concorso tra norme differenti rispetto a quelli presenti nel codice, segnatamente quello della lex specialis di cui all’art. 15 c.p., e che quindi la soluzione del concorso formale tra le disposizioni di cui sopra non si possa ritenere di per sé convenzionalmente censurabile, posta la diversità strutturale delle fattispecie (cioè: l’assenza di idem factum intesa come medesimezza storico-naturalistica) e fermo il rispetto della proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata[19]. Con ciò allineandosi perfettamente a quell’orientamento – favorito, come si è visto, non solo a Roma, ma anche a Strasburgo – che esclude efficacia dirimente alla differenza tra “beni giuridici” protetti dalle due norme incriminatrici[20].
Ritornando ora alla prospettiva convenzionale, dunque, quel che conta ai fini della non duplicazione della risposta sanzionatoria (cioè, del ne bis in idem sostanziale) è il rispetto degli indici formulati dalla Corte edu a partire (quantomeno) dalla celebre pronuncia nel citato caso A e B c. Norvegia[21]. Rilevano, in particolare, quelli del grado di interazione tra procedimenti diversi (soprattutto in punto di valutazione del compendio probatorio), della proporzionalità della sanzione finale e della prevedibilità della duplicazione sanzionatoria come conseguenza, sia di diritto che di fatto, della medesima condotta.
Posto che in sostanza la giurisprudenza italiana in tema di idem factum non pare oggi in contrasto con l’indirizzo convenzionale, un profilo critico cui si dovrebbe porre mente riguarda proprio l’ultimo degli indici che precedono, quello della prevedibilità dell’applicazione dei criteri di concorso, peraltro connesso a stretto filo con il principio di legalità della sanzione (penale)[22]. Infatti, quanto più il ricorso pretorio ai criteri di concorso tra norme (specialità, nelle sue plurime declinazioni; sussidiarietà; consunzione o assorbimento) faticherà a liberarsi dalle “incertezze applicative” di cui sopra, in contrasto con i principi di legalità e tipicità della fattispecie, tanto più la statuizione finale potrebbe non riuscire a porsi al riparo da censure convenzionali. È, questo, un punto che dovrebbe richiamare all’attenzione tutti gli operatori del diritto interno.
4. Le statuizioni ex art. 46, par. 1, CEDU: la portata degli obblighi di riparazione e di cessazione dell’illecito
Il richiamo al recente indirizzo giurisprudenziale della Corte suprema russa fornisce altresì lo spunto per affrontare l’ultima – ma, ai fini del presente scritto, centrale – questione analizzata dalla Corte edu nel caso di specie, vale a dire l’adozione, da parte dello Stato responsabile di una violazione di diritti sanciti nella CEDU, di misure, sia individuali che generali, finalizzate alla cessazione della violazione e alla riparazione dell’illecito commesso.
Ciò su cui pare utile porre l’attenzione, per inserire la pronuncia in esame nel quadro più generale della giurisprudenza convenzionale, è la natura “strutturale” dell’illecito di cui si è accertata, nel caso di specie, l’esistenza. Di essa dunque, si renderà conto per inquadrare gli obblighi derivanti dall’accertamento di siffatta violazione, segnatamente di approntare un adeguato rimedio (4.1) e di cessare la condotta illecita (4.2).
4.1 La nozione e la portata di violazione “strutturale” della Convenzione e l’obbligo di riparazione
L’obbligo di adottare le misure così indicate dalla Corte discende, com’è noto, dal più generale obbligo di conformarsi alle sentenze pronunciate dall’organo di controllo ai sensi e per gli effetti dell’art. 46, par. 1, CEDU[23]. Laddove, infatti, la Corte edu rintracciasse l’esistenza di una violazione c.d. strutturale – derivante, cioè, da un vero e proprio difetto dell’intero ordinamento giuridico dello Stato interessato tale da cagionarne, sia nel caso individuale sia in una pluralità di casi analoghi, un malfunzionamento –, essa, oltre a provvedere in punto di equa soddisfazione per il ricorrente vittorioso ex art. 41 CEDU, potrebbe altresì indicare allo Stato le misure da adottare per porre fine e rimediare a tale difetto strutturale[24]. Ciò in quanto, com’è facilmente intuibile, la mancata correzione di un vizio strutturale dell’ordinamento non può che comportare la violazione “a nastro” di diritti sanciti nella CEDU e, per l’effetto, la presentazione di un numero indefinito (e, tendenzialmente, elevato) di ricorsi a Strasburgo. Detto altrimenti, in materia di diritti umani l’obbligo di riparazione – obbligo c.d. secondario contenuto in una norma consuetudinaria codificata all’art. 31 del Progetto di Articoli sulla Responsabilità dello Stato per illeciti internazionali (d’ora in avanti: Progetto)[25] – non si indirizza unicamente alla vittima (o alla vittime dell’illecito), ma, laddove siano in gioco violazioni “strutturali”, è suscettibile di proiettarsi in una dimensione rimediale “super-individuale”.
Guardando ora alla prassi convenzionale in materia, questa si presenta assai ricca. Rispetto all’esigenza da ultimo menzionata, la Corte, ad esempio, ha avviato, a partire dal noto caso Broniowski, una sperimentazione della procedura c.d. pilota, che prevede la sospensione del procedimento a Strasburgo al fine di consentire, allo Stato, di approntare le misure necessarie per correggere il vizio in questione[26]. Ben più interessanti, però, sono quei casi in cui, pur non attivando la procedura de qua, la Corte nondimeno, nella motivazione o financo nel dispositivo, afferma – sia pure con quello che è stato definito un “lieve tocco di mano”[27] – l’esistenza di violazioni strutturali. Si è parlato, talvolta, di procedure “quasi-pilota”[28] e, in molti altri casi, di violazioni strutturali “invisibili”, in cui, pure a fronte di difetti sistematici dell’ordinamento, la Corte edu non si spinge a imporre allo Stato di adottare misure generali, limitandosi ai soli profili attinenti il rimedio della situazione individuale del ricorrente[29].
Di questo ultimo fascio di casi si potrebbe citare l’esempio offerto dalla recentissima sentenza pronunciata in Viola c. Italia (n. 2)[30], in cui la Corte edu, preso atto dell’esistenza di un difetto strutturale nel nostro ordinamento (segnatamente, il regime ostativo previsto per condannati all’ergastolo per alcuni delitti, ritenuto in contrasto con l’art. 3 CEDU), ha esortato l’Italia a trovare un rimedio “de préférence par initiative législative”[31] pur senza adottare misure generali ex art. 46 CEDU. In Italia, per il vero, il nodo dell’esecuzione delle pronunce convenzionali accertanti un difetto “strutturale” dell’ordinamento – e suscettibili, dunque, di proiettarsi verso una moltitudine di casi analoghi (i c.d. “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo) – è già da tempo avviato[32].
Venendo al caso in commento, è facile vedere come la violazione lamentata dalla ricorrente costituisca il diretto precipitato di un difetto strutturale nell’ordinamento russo e, segnatamente, di una scorretta – in quanto incompatibile con la Convenzione – interpretazione degli artt. 19.3 e 20.2 del Codice: applicare la regola del concorso formale tra illeciti e non il criterio della specialità tra i medesimi, si è detto, costituisce violazione del ne bis in idem. Trattandosi allora di “diritto vivente” russo, è ragionevole attendersi che in tale situazione versi una pluralità indefinita di individui – e infatti, la Corte stessa afferma essere pendenti oltre cento ricorsi analoghi a quello di specie (par. 68).
Se così è, ci si poteva aspettare l’adozione di misure generali o, addirittura, l’attivazione della procedura pilota. Così non è stato: la Corte edu ha infatti ritenuto non necessario procedere nei sensi indicati sopra, in quanto un (possibile) rimedio è già presente, in una qualche misura, nell’ordinamento russo, e a questo deve rivolgersi – innanzitutto – la vittima.
Procediamo con ordine. La violazione dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU si materializza a partire dall’esistenza – e dalla vigenza, intesa come idoneità a produrre effetti giuridici propri – di due giudicati di condanna (bis) nei confronti del medesimo soggetto e per fatti sostanzialmente identici (idem). Un primo rimedio, dunque, ben potrebbe essere la “rescissione” del giudicato dal quale dipende la violazione convenzionale, da ottenersi mediante l’attivazione delle procedure interne previste per la riapertura dei processi: in numerosi casi, ormai, la Corte edu ha invocato disposizioni interne, sia in ambito penale che civile e amministrativo, per rimuovere la res judicata per gli effetti di cui agli artt. 41 e 46 CEDU[33].
In effetti, nel Codice è disciplinato l’istituto del riesame di pronunce passate in giudicato (art. 30.12); il punto, sollevato dalla Corte, è che, a differenza di altri codici della Federazione, tale disposizione non contempla espressamente l’ipotesi di riapertura del procedimento per conformarsi a una sentenza dell’organo di controllo della CEDU che accerti la violazione di un diritto sancito nella Convenzione (par. 69). Tuttavia, continua la Corte, in seguito alla pronuncia della Corte suprema russa del giugno 2018, almeno un giudice competente per il riesame ex art. 30.12 Codice ha applicato il principio del ne bis in idem contemplato dall’art. 4.1 par. 5 Codice per allinearsi al criterio di specialità enunciato dalla Corte suprema (parr. 70 e 26). In altre parole, al ricorrente è già aperta la via per un riesame avanti la competente corte regionale, ferma restando la possibilità, per il Governo russo, di approntare rimedi ad hoc per correggere il difetto strutturale dell’ordinamento (parr. 71 e 72).
A commento di quanto appena sopra, può dirsi che nell’ordinamento russo il rimedio, a quanto consta, c’è; il punto fondamentale è che, all’indomani dell’accertamento della violazione convenzionale, esso deve anche… vedersi. Come ciò avvenga (se con il rimedio individuato dalla Corte o con altri), dipende(rà) dalla Russia, cui la Corte edu riconosce, come sovente avviene in questi casi, un certo margine di apprezzamento[34]. Tale statuizione si colloca, come pare a chi scrive, nell’alveo di una genuina applicazione del principio di sussidiarietà – vera architrave del sistema convenzionale, anche se, di recente, pretestuosamente invocata per limitare il sindacato dell’organo di controllo[35] – attenta a spingere le autorità interne ad assicurare l’adempimento dell’obbligo di adottare le misure conformative richieste.
4.2 La portata dell’obbligo di cessazione dell’illecito strutturale
In aggiunta all’obbligo di riparazione, nella peculiare configurazione con cui esso si presenta in casi di violazioni strutturali, tra gli obblighi secondari discendenti dalla violazione del diritto internazionale vi è pure quello di cessare la condotta costituente illecito; si tratta, anche qui, di un obbligo consolidato nel diritto consuetudinario (art. 30, lett. a, Progetto). È stato notato come, nello specifico settore dei diritti umani, l’obbligo di cessazione dell’illecito fatica ad acquisire autonomia dall’obbligo di riparazione: molto spesso, infatti, gli obblighi si trovano condensati in una sorta di endiadi senza che l’uno produca effetti distinguibili dall’altro[36].
In effetti, nella giurisprudenza della Corte edu i due obblighi si trovano spesso giustapposti. Quando la Corte intima l’adozione di una misura per interrompere la condotta che incide negativamente su un diritto, questa (misura) è inquadrabile facilmente, al contempo, sia come riparazione/restituzione sia come cessazione dell’illecito. Si pensi al caso Assanidzé, in cui la Corte ha ritenuto che l’unica misura idonea a porre fine (“to put an end”, come nel caso di specie) alla violazione convenzionale (segnatamente, del diritto alla libertà personale) fosse proprio la scarcerazione del ricorrente “at the earliest possible date”[37]. Ugualmente, nei casi concernenti la rescissione del giudicato interno gli obblighi si fondono l’uno con l’altro: rompere una res judicata formatasi in contrasto – o comunque contrastante – con un diritto sancito nella Convenzione vuol dire, al medesimo tempo, riparare e cessare l’illecito.
Si è, a questo punto, del tutto legittimati a chiedersi se, al netto di inquadramenti teorici più o meno convincenti, abbia una qualche… utilità pratica ricondurre la misura individuale o generale de qua nell’alveo dell’obbligo di riparazione in luogo di quello di cessazione.
Dal punto di vista del diritto internazionale generale, la risposta è sicuramente affermativa. L’obbligo di riparazione, nella sua specifica configurazione di obbligo di restitutio in integrum, è infatti soggetto ad alcuni limiti, segnatamente quello della proporzionalità: non si può esigere, dallo Stato autore dell’illecito, la restituzione se essa è materialmente impossibile o troppo onerosa (art. 35 Progetto). Al contrario, l’obbligo di cessazione non è soggetto a limiti di proporzionalità: in altre parole, cessare di commettere un illecito non è mai considerato materialmente impossibile o eccessivamente oneroso, e ciò in quanto, come correttamente messo in luce dalla dottrina, in quanto tale obbligo è strettamente connesso all’adempimento dell’obbligo primario (cioè della norma internazionale che si è violata)[38].
Anche dal punto di vista del diritto convenzionale, peraltro, si è raggiunto un risultato non dissimile. In materia di rescissione del giudicato e, in particolare, di predisposizione di uno strumento ad hoc in ordinamenti che non ne possiedono, la Corte edu, ad esempio nel caso Laska e Lika, si è spinta sino a disegnare un vero e proprio obbligo positivo di introdurre un siffatto strumento[39]: non solo dunque lo Stato non può invocare l’impossibilità materiale o eccessiva onerosità, ma il proprio margine di apprezzamento è, in ogni caso, limitato dall’esigenza di far cessare immediatamente la condotta illecita (che equivale, si è detto, a fornire un rimedio adeguato).
Riportando l’attenzione sul caso di specie, la Corte edu non si spinge sino a tanto. Né ciò deve stupire, in realtà, posta l’esistenza di un possibile rimedio interno cui il ricorrente potrebbe far ricorso per eliminare gli effetti pregiudizievoli del mantenimento di due giudicati di condanna per i medesimi fatti – cioè, per ottenere la cessazione dell’illecito. Vale però la pena mettere in risalto due circostanze.
Primo, se pure è vero che la Corte riconosce un certo margine di apprezzamento alla Russia ai fini dell’adozione di misure ex art. 46 CEDU, ciò non toglie che l’obbligo di predisporre uno strumento di rescissione del giudicato contrario a Convenzione, se inquadrato sotto il profilo dell’obbligo di cessazione, potrebbe essere strategicamente invocato dalla ricorrente in sede di riesame ex art. 30.12 Codice. Pur a fronte di un indirizzo giurisprudenziale interno ancora da consolidarsi, si potrebbe sostenere, nel senso di un’interpretazione convenzionalmente orientata della normativa interna, che la Russia è tenuta a porre immediatamente fine all’azione contraria al ne bis in idem, ciò che potrebbe utilmente prodursi proprio a partire dalla rescissione del giudicato per via pretoria. Uno strumento di diritto vivente (il ricorso alla procedura di riesame) ben potrebbe, nel caso individuale, sopperire all’assenza di una specifica base normativa per la riapertura del procedimento: la cessazione avverrebbe, così, immediatamente e in senso sicuramente conforme, quantomeno, al diritto generale.
Secondo, tali rilievi paiono tanto più convincenti se si pone mente alla circostanza che la Corte fa ritorno sull’obbligo di cessazione anche statuendo in tema di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU: qui, infatti, la Corte ritiene che l’obbligo di cessazione derivante dall’accertamento dell’illecito convenzionale non è sufficiente per compensare il pregiudizio subito, di tal che si rende necessario il riconoscimento di una somma di danaro a titolo di danno non patrimoniale (parr. 77 e 78). Si tratta, insomma, di una riconferma della distinzione – a un tempo concettuale e pratica – dei vari obblighi secondari, anche nella prassi applicativa della Corte edu.
5. Conclusioni
Dall’analisi del caso di specie è emersa, con particolare nitidezza, una questione che rimonta ben oltre la sentenza in commento e che rimanda al complesso tema dell’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte e, in generale, all’essenza stessa della tutela multilivello dei diritti fondamentali. Violazioni “sistematiche”, più o meno visibili, di diritti fondamentali – derivanti, come nel caso Korneyeva c. Russia, dall’interpretazione e quindi applicazione del diritto interno in senso contrario alla Convenzione – producono l’insorgenza di obblighi riparatori e di cessazione che, quand’anche affermati a titolo meramente individuale, non possono non spostare la prospettiva anche sul piano generale. In altre parole, gli Stati sono tenuti ad approntare rimedi anche in vista di conformare il proprio ordinamento interno – in generale – agli standard di tutela affermati a livello convenzionale.
Traendo ispirazione dal caso di specie, l’impossibilità di rescindere un doppio giudicato di condanna per i medesimi fatti produce effetti pregiudizievoli sub art. 4 Protocollo 7 CEDU per una pluralità indistinta di soggetti, tra cui, appunto, la ricorrente. Che la sentenza sia resa con riferimento esclusivo al rapporto giuridico tra questa e la Russia non toglie che, sul piano generale, è l’intero ordinamento russo a essere chiamato ad approntare un rimedio per analoghe (e, in potenza, seriali) violazioni[40].
Da ultimo e a chiusura, preme osservare quanto segue. In una congiuntura storica segnata da un sensibile scetticismo nei confronti dei meccanismi di tutela dei diritti umani a livello universale e regionale nonché, in conseguenza, da una progressiva chiusura “su se stessi” degli ordinamenti interni – fenomeno di cui la Russia offre un preclaro esempio[41] –, l’atteggiamento della Corte edu nel caso di specie, attento a valorizzare indirizzi ermeneutici interni in linea, di fatto, con gli standard convenzionali, non pare né timido né remissivo ma, anzi, si premura di seminare in un campo, per così dire, già arato. “Lo chiede Strasburgo”, ma senza chiedere l’impossibile. Ciò che il giudice convenzionale suggerisce, infatti, altro non è che un’interpretazione del diritto interno che possa correggere il difetto strutturale e il suo precipitato a livello individuale, in ottemperanza a tutti gli obblighi secondari (riparazione e cessazione) incombenti sulla Russia in conseguenza dell’illecito accertato: basta questo. Da questo punto in avanti, però, spetta allo Stato – in nome della tanto rivendicata sussidiarietà – prendere le mosse.
[1] Corte dir. uomo, Korneyeva c. Russia, ricorso n. 72051/17, 8 ottobre 2019.
[2] Corte dir. uomo, Engel e altri c. Paesi Bassi, ricorsi n. 5100/71 e altri, 8 giugno 1976, parr. 80 ss.
[3] Corte dir. uomo, Karelin c. Russia, ricorso n. 926/08, 20 settembre 2016, parr. 69-84; mutatis mutandis, anche Mikhaylova c. Ucraina, ricorso n. 10644/08, 6 marzo 2018, parr. 62-67).
[4] In giurisprudenza, v. in particolare Corte cost., sentenza n. 200 del 31 maggio 2016.
[5] Così Cassibba, I limiti oggettivi del ne bis in idem in Italia tra fonti nazionali ed europee, Rev. Bras. de Direito Processual Penal, 4/3, 2018, pp. 953-1002.
[6] Corte dir. uomo, Oliveira c. Svizzera, ricorso n. 25711/94, 30 luglio 1998; Franz Fischer c. Austria, ricorso n. 37950/97, 29 maggio 2001; Sailer c. Austria, ricorso n. 38237/97, 6 giugno 2002.
[7] Corte dir. uomo, Sergey Zolotukhin c. Russia, ricorso n. 14939/03, 10 febbraio 2009.
[8] All’insegna di questo nuovo indirizzo ermeneutico si segnala, tra le molte, Grande Stevens e altri c. Italia, ricorsi n. 18640/10 e altri, 4 marzo 2014.
[9] Corte dir. uomo, Sergey Zolotukhin c. Russia, cit., par. 81; quanto al principio secondo il quale la Convenzione garantisce diritti non teorici e illusori, ma concreti ed effettivi, si v. ad es. Corte dir. uomo, Airey c. Irlanda, ricorso n. 6289/73, 9 ottobre 1979, par. 24.
[10] Corte dir. uomo, A e B c. Norvegia, ricorsi n. 24130/11 e 29758/11, 15 novembre 2016, parr. 121, 122. Infatti, quanto detto sopra non toglie, a ogni buon conto, che uno Stato possa scegliere di adottare risposte sanzionatorie di diversa natura tese a reprimere, sotto plurimi aspetti, una condotta considerata come particolarmente offensiva dalla società. Infatti, non è ritenuto porsi in contrasto con la garanzia convenzionale del ne bis in idem il ricorso a un sistema sanzionatorio integrato, purché siano soddisfatti gli imprescindibili requisiti di prevedibilità e proporzionalità della risposta e, quindi, il destinatario di siffatta sanzione non si ritrovi soggetto a un trattamento “ingiusto”. Insomma, le diverse sanzioni facente parte di un unitario schema punitivo non sono ritenute costituire una doppia punizione se si dimostra l’esistenza di una “sufficiently close connection between them, both in substance and in time”.
[11] Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2011, p. 561.
[12] Per una disamina generale sul concorso apparente di norme, non si può che rinviare, per completezza, a Marinucci, Dolcini e Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, pp. 539 ss.; con specifico riferimento alla tematica del ne bis in idem sostanziale, si veda Vallini, Tracce di ne bis in idem sostanziale lungo i percorsi disegnati dalle Corti, Diritto Penale e Processo, 4/2018, pp. 525 ss.
[13] V. ad es. Cass. pen. III, ric. Ferrarelli, 15 aprile 2009 e, per ulteriori riferimenti, Cassibba, cit., p. 974.
[14] Corte cost., sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, punto 13 in diritto.
[15] Corte cost., sentenza n. 129 del 30 aprile 2008.
[16] Corte cost., sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, punto 8 in diritto.
[17] Ibidem, punto 11 in diritto.
[18] Cass. pen. SS.UU., ric. Stalla e Battilana, n. 20644 del 23 febbraio 2017. A commento, si veda Colucci, Le Sezioni Unite tornano sul principio di specialità: al vaglio la questione del rapporto tra truffa aggravata e malversazione, disponibile all’indirizzo https://www.penalecontemporaneo.it , 6 dicembre 2017.
[19] Per ulteriori riflessioni, relativi ad altri arresti giurisprudenziali, si veda Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, disponibile all’indirizzo https://www.penalecontemporaneo.it, 21 novembre 2017.
[20] Cass. pen. SS.UU., ric. La Marca, n. 41588 del 22 giugno 2017: “l’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per “stessa materia” deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U., n. 1963 del 28/20/2010, Di Lorenzo, cit.)”.
[21] Cit. supra, nota n. 9.
[22] Per i profili di criticità, in termini di principio di legalità e, soprattutto, tipicità, dei vari criteri di concorso tra norme, v. amplius Vallini, cit. supra nota 12.
[23] “Art. 46”, in Bartole, De Sena, Zagrebelski (a cura di), Commentario breve alla CEDU, Padova, 2012, p. 703 ss.
[24] La letteratura in materia di violazioni strutturali è ormai corposa. Ci si limita a segnalare, su tutti: Saccucci, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Napoli, 2018; Cannone, Violazioni di carattere sistemico e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Bari, 2018.
[25] Commissione di diritto internazionale, Report on the work of its fifty-third session, UN Doc. A/56/10, 10 agosto 2001. Quanto alla distinzione tra obblighi primari e obblighi secondari (che, nel diritto internazionale, viene mutuata dalla teoria hartiana), si veda, tra moltissimi, Crawford, State Responsibility. The General Part, Cambridge, 2013, pp. 64 ss.
[26] Corte dir. uomo, Broniowski c. Polonia, ricorso n. 31443/96, 28 settembre 2005.
[27] Susi, The Definition of a “Structural Problem” in the Case-Law of the European Court of Human Rights Since 2010, in German Yearbook of International Law, 2012, pp. 385 ss., p. 403.
[28] Come nei casi, per limitarci all’ordinamento italiano, Gaglione e altri c. Italia, ricorsi n. 45867/07 e altri, 21 dicembre 2010 (in tema di indennizzo per eccessiva durata del processo) e Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11, 7 aprile 2015 (in tema di norme incriminatrici per condotte di tortura).
[29] Così v. amplius Saccucci, cit., pp. 42 ss.
[30] Corte dir. uomo, Viola c. Italia (n. 2), ricorso n. 77633/16, 13 giugno 2019. Per alcuni primi commenti alla sentenza, si vedano Pellissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, disponibile sul sito http://www.sidiblog.org/, 21 giugno 2019; Mauri, Nessuna speranza senza collaborazione per i condannati all’ergastolo ostativo? Un primo commento a Viola c. Italia (n. 2), disponibile sul sito http://www.sidiblog.org/, 20 giugno 2019.
[31] Corte dir. uomo, Viola c. Italia (n. 2), cit., par. 143.
[32] V. ad es. Cass. pen. SS.UU., sentenza n. 18821 del 24 ottobre 2013, ric. Ercolano, con nota di Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 1/2014, p. 250 ss.; ma v. anche Biondi, La Cassazione e i fratelli minori di Lorefice, in Dir. pen. Cont., 21 marzo 2019 e, più di recente, con riferimento alla vicenda Contrada (rispetto al quale le motivazioni dell’attesa sentenza della Corte di cassazione, a Sezioni Unite, non sono ancora pubblicate alla data in cui si scrive), le note di Angelillis, su questa rivista.
[33] Per una panoramica sulla prassi in esame, sia consentito il rimando a Mauri, Il ‘mito’ del giudicato civile e amministrativo alla prova degli obblighi internazionali di restitutio in integrum, in Diritti umani e diritto internazionale, 3/2019, pp. 487 ss.
[34] Per il quale si veda, tra i molti, Legg, The Margin of Appreciation in International Human Rights Law. Deference and Proportionality, Oxford, 2012.
[35] V. ad esempio Donald e Leach, A Wolf in Sheep’s Clothing: Why the Draft Copenhagen Declaration Must be Rewritten, disponibile sul sito https://www.ejiltalk.org/a-wolf-in-sheeps-clothing-why-the-draft-copenhagen-declaration-must-be-rewritten/, 21 febbraio 2018.
[36] V. Saccucci, cit., pp. 235 ss.
[37] Corte dir. uomo, Assanidze c. Georgia, ricorso n. 71503/01, 8 aprile 2004.
[38] V. Saccucci, cit., p. 237.
[39] Corte dir. uomo, Laska e Lika c. Albania, ricorso n. 12315/04 e 17605/04, 20 aprile 2010, par. 77: “it is for the respondent State to remove any obstacles in its domestic legal system that might prevent the applicants' situation from being adequately redressed (…) or introduce a new remedy that would enable the applicants to have the situation repaired. Moreover, the Contracting States are under a duty to organise their judicial systems in such a way that their courts can meet the requirements of the Convention”.
[40] Si tratta, in sostanza, di isolare concettualmente un “obbligo conformativo” di portata generale, suscettibile di trascendere il piano meramente individuale per correggere difetti “strutturali” con modalità erga omnes. Si vedano sul punto le riflessioni conclusive di Saccucci, cit., p. 263 ss. (che dimostra come la base giuridica di un siffatto obbligo potrebbe essere rintracciata nell’art. 1 CEDU).
[41] Da alcuni anni la Russia sta dimostrando una certa “resistenza” alle pronunce di Strasburgo. Nel 2015, ad esempio, con Legge Federale n. 7-KFZ, entrata in vigore il 15 dicembre 2015, di modifica della Legge Costituzionale Federale n. 1-FKZ del 21 luglio 1994 (recante la disciplina della Corte Costituzionale federale), si attribuì alla Corte Costituzionale federale il potere di decidere sulla eseguibilità delle decisioni rese da organi internazionali posti a tutela dei diritti umani (tra cui la Corte edu). Vedi amplius Marchuk, Flexing Muscles (Yet Again): The Russian Constitutional Court’s Defiance of the Authority of the ECtHR in the Yukos Case, disponibile all’indirizzo: https://www.ejiltalk.org/flexing-muscles-yet-again-the-russian-constitutional-courts-defiance-of-the-authority-of-the-ecthr-in-the-yukos-case/, 13 febbraio 2017; vedi poi il Parere n. 832/2015 della European Commission For Democracy Through Law (c.d. Commissione Venezia), 107th Plenary Session, 10-11 giugno 2016, disponibile all’indirizzo http://www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-AD(2016)016-e. All’indomani della sentenza della Corte resa nel caso OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia, ricorso n. 14902/04, 31 luglio 2014 (con la quale condannava la Russia a corrispondere al ricorrente, a titolo di risarcimento per il danno patrimoniale, la somma di ben € 1.866.104.634!), la Corte costituzionale russa, con sentenza n. 1-P/17 del 19 gennaio 2017 (disponibile all’indirizzo http://doc.ksrf.ru/decision/KSRFDecision258613.pdf), ha negato l’esecuzione della pronuncia convenzionale per contrasto con la Costituzione russa. A commento, si veda Marchuk e Aksenova, The Tale of Yukos and of the Russian Constitutional Court’s Rebellion against the European Court of Human Rights, in Osservatorio Costituzionale, 2017, pp. 1 ss.
L’emergenza e ‘le’ emergenze secondo un recente climate case.
di Andrea Giordano
Sommario: 1. Un recente climate case olandese. 2. Il prisma delle tutele. 3. L’ellisse della C.e.d.u. e le geometrie multilivello.
1.Un recente climate case olandese.
L’emergenza[1] non ammette l’inerzia degli Stati.
Ciò che plasticamente si constata nel periodo della corrente emergenza epidemiologica da COVID-19[2] è stato, a chiare lettere, sancito dalla Suprema Corte olandese che, con una innovativa sentenza in tema di emergenza climatica[3], ha ritenuto che il Governo olandese debba ridurre al 25% le emissioni di biossido di carbonio e degli altri gas serra[4] entro il corrente 2020[5].
Sulla domanda della Fondazione “Urgenda”, che aveva convenuto in giudizio lo Stato per vederlo condannare alla riduzione delle dette nocive emissioni[6], si erano pronunciate, con sentenze favorevoli, sia la Corte distrettuale, sia la Corte di Appello.
L’orientamento è stato suggellato dalla Suprema Corte, che – contrariamente alla tesi erariale, secondo cui un ordine di “creare legislazione” non sarebbe ammissibile e inciderebbe sullo stesso sistema di separazione dei poteri [7] – ha riconosciuto l’esistenza di una vera e propria obbligazione positiva dello Stato di proteggere la vita e la salute dei cittadini.
Più in particolare, seguendo il ragionamento della Corte, dagli articoli 93 e 94 della Costituzione olandese[8] discenderebbe l’obbligo dello Stato di osservare ogni disposto della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, siccome in ogni sua parte vincolante; essendo l’Olanda sottoposta alla giurisdizione della Corte Edu, le Corti olandesi dovrebbero interpretare gli articoli della Convenzione ai lumi degli stessi parametri ermeneutici impiegati dalla Corte di Strasburgo[9]. Le garanzie scolpite negli articoli e 2 e 8 della Cedu – i diritti alla vita e al rispetto della vita privata e familiare – implicherebbero la doverosità di misure tali da scongiurare, anche nell’ottica del principio di precauzione, i pregiudizi correlati al cambiamento climatico[10].
Dal carattere necessario di misure di mitigazione[11] idonee alla riduzione, nella misura del 25%, delle emissioni di gas serra deriverebbe, quindi, secondo la catena logica sottesa al decisum, la possibilità della Corte di ordinare l’adozione delle medesime misure. Se così non fosse, si finirebbe per vulnerare, insieme a una regola fondamentale delle democrazie costituzionali, lo stesso “diritto a un ricorso effettivo” di cui all’art. 13 C.e.d.u.. [12]
Un “order to create legislation” sarebbe, in definitiva, ammissibile, attesa l’inesistenza di un generale divieto di ingerenza delle Corti nei processi decisionali politici e, comunque, considerata la necessità – imposta dall’art. 94 della Costituzione olandese – di disapplicare le norme contrastanti con obblighi internazionali.
Secondo il Supremo Collegio olandese, conflitti con il principio di separazione dei poteri scaturirebbero soltanto da ordini di riempire la norma di contenuti precisamente determinati[13]; l’individuazione del ‘fine’ di ridurre le emissioni di gas serra non intersecherebbe la libertà del legislatore di forgiare i ‘mezzi’ che all’obiettivo meglio e più efficacemente si attaglino[14].
2.Il prisma delle tutele
Lungi dall’essere una voce isolata, la pronuncia olandese riecheggia una sinfonia condivisa e dall’ordinamento internazionale e da quello europeo.
Le radici delle politiche ambientali volte a contrastare i cambiamenti climatici affondano nella Convenzione di Rio de Janeiro (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC), che aveva, come obiettivo, quello della stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera onde escludere qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico[15]. Mezzo al fine era l’impegno, solo politico, delle Parti di riportare le emissioni di diossido di carbonio ai livelli del 1990. Le politiche di mitigazione – fondate sul rilievo per cui, dipendendo il cambiamento del clima globale dalla quantità dei gas serra riversati nell’atmosfera, la riduzione delle emissioni rallenta il cambiamento, sino a diminuirlo – avevano, dunque, la meglio su quelle di adattamento.
Il quadro internazionale si è, poi, arricchito del Protocollo di Kyoto dell’11 settembre 1997[16], con cui gli Stati contraenti si sono legalmente vincolati a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni complessive di gas serra del 5.2% rispetto ai valori del 1990[17].
Tre i fondamentali pilastri del Protocollo: l’International Emissions Trading (IET), che consentiva ai Paesi soggetti al vincolo che avessero ottenuto un surplus nella riduzione delle emissioni di “vendere” il suddetto ad altri Paesi[18]; la Joint Implementation (JI), secondo cui gruppi di Paesi soggetti a vincolo, fra quelli indicati dall’Allegato I del Protocollo, potevano collaborare per raggiungere gli obiettivi fissati accordandosi su una diversa distribuzione degli obblighi, purché l’obbligo complessivo venisse osservato; il Clean Development Mechanism (CDM), preposto a fornire assistenza alle Parti non incluse nell’Allegato I negli sforzi per la riduzione delle emissioni[19].
I dubbi sulla possibilità di conseguire la stabilizzazione delle emissioni, evidenziati dal secondo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)[20], le rilevate criticità del Protocollo di Kyoto (specie in relazione alla prevista esenzione dagli obblighi di contenimento dei Paesi in via di sviluppo, agli ingenti costi che avrebbero inciso sugli Stati sviluppati e alla stessa impossibilità di regolare le emissioni globali con un Trattato internazionale[21]), il rifiuto di ratifica da parte degli Stati Uniti (ai tempi responsabili del 36% delle emissioni globali[22]) e il ritardo nell’entrata in vigore del Protocollo hanno condotto a una graduale virata verso le politiche di adattamento o, comunque, verso la sinergica integrazione della mitigazione con le strategie di adattamento[23].
Tale percorso di crescente promozione di queste ultime è culminato con l’Accordo di Parigi del 2015, che si è prefissato di rafforzare la risposta ai cambiamenti climatici, limitando il riscaldamento globale “ben al di sotto di 2° C” rispetto ai livelli preindustriali (fatti salvi gli sforzi di mantenerlo entro 1.5° C[24]) e promuovendo la adaptation[25].
Il diritto europeo ha seguito il sentiero delle Convenzioni internazionali.
L’Unione ha, infatti, aderito alla Convenzione di Rio de Janeiro e ha attuato il Protocollo di Kyoto a partire dal 1998, quando ha dato vita al Burden Sharing Agreement[26].
All’Accordo è seguita, a cascata, la Comunicazione sul cambiamento climatico, adottata dalla Commissione, il Libro Verde sullo scambio dei diritti di emissione di gas ad effetto serra all’interno dell’Unione, la ratifica del Protocollo di Kyoto e la Direttiva 2003/87 istitutiva del sistema per lo scambio delle quote di emissione dei gas serra[27].
Più segnatamente, in consonanza con il diritto internazionale convenzionale, la Direttiva ha introdotto il sistema per cui i gestori di impianti, cui viene assegnato un cap di emissioni producibili, divengono – se diligenti nel rispetto del “tetto” – “creditori di emissioni”, abilitati a cedere i “crediti” agli Stati che abbiano oltrepassato il cap: coloro che non riescono a ridurre le emissioni debbono acquistare “crediti” dai soggetti virtuosi, onde raggiungere il livello del cap superato a causa delle emissioni sovrabbondanti[28].
Allo stato, il c.d. Emissions Trading System – come aggiornato alla luce della Direttiva n. 2018/40 – si inquadra nel cerchio a più ampio diametro del “Pacchetto per il clima e l’energia 2020” e, quindi, del “Quadro per il clima e l’energia 2030”; con quest’ultimo, l’Unione Europea si è impegnata a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra di almeno il 40% al di sotto dei livelli del 1990[29].
In linea con il trend internazionale, a tale rilevante disegno di mitigazione – i cui mezzi risultano, da una parte, il miglioramento dell’efficienza energetica almeno del 32.5%[30] e, dall’altra, l’aumento della quota di consumo energetica proveniente da fonti rinnovabili di almeno il 32%[31] – si aggiunge la nota “Strategia Europea in tema di adattamento ai cambiamenti climatici”[32], volta alla minimizzazione degli impatti economici, ambientali e sociali derivanti dai mutamenti climatici[33].
3.L’ellisse della C.e.d.u. e le geometrie multilivello
La sentenza olandese[34] ha aggiunto una tessera a tanto uniforme mosaico.
Stando alla predetta, l’obbligo di riduzione del gas serra al 25% vanterebbe una precipua base positiva negli artt. 1, 2, 8, 13 e 32 C.e.d.u., concretamente azionabile dai singoli.
Se il principio sia condivisibile e applicabile al nostro ordinamento è cosa che dipende dalla disamina del detto reticolato di disposti e dalla loro dialettica con i sistemi giuridici interno, unionale e internazionale[35].
Ora, mentre l’art. 1 sancisce il principio per cui le Parti contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della Convenzione, l’art. 2 consacra il diritto alla vita, implicitamente erigendolo a precondizione di ogni altro diritto[36].
Il predicato di irreversibilità delle violazioni della vita e il carattere di essenzialità della tutela del ‘valore dei valori’[37] rispetto al godimento di ogni altro diritto fanno sì che al concetto di “protezione” venga attribuita una portata ampia[38], tale da far gravare sugli Stati non solo obblighi negativi, di astensione da atti che possano intenzionalmente cagionare la morte delle persone soggette alla giurisdizione statale[39], ma anche positivi di intervento con misure di protezione e repressione[40].
Come la vita, così le sfere dell’autonomia personale, protette dall’art. 8 (che, tanto quanto l’art. 2, impiega ampie locuzioni, quali “rispetto”, “vita privata e familiare” e “ingerenza”), implicano la coesistenza di obblighi negativi e positivi: al divieto di ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici e, quindi, al divieto di misure legislative, atti amministrativi e comportamenti materiali che limitino l’esercizio dei diritti garantiti si aggiungono obblighi positivi “di fare”, volti a rendere effettivo l’esercizio delle prerogative di cui alla Convenzione o a proteggerle dalle ingerenze di terzi[41].
Se è, poi, vero che il lessema “ambiente” non trova positiva cittadinanza nella Convenzione, il rispetto della vita e della sfera personale del soggetto non possono prescindere dalla salvaguardia di un bene tanto rilevante[42].
Ciò è stato, a più riprese, affermato dalla Corte di Strasburgo, che, oltre a riconoscere una generale responsabilità dello Stato per violazione dei diritti umani in conseguenza di un danno ambientale[43], non ha esitato ad affermarla con specifico riguardo ai disastri naturali, al ricorrere di un rischio prevedibile e della mancata adozione, da parte della nazione interessata, delle misure rientranti nelle sue possibilità[44].
Il riconoscimento ai singoli dei diritti e delle libertà di cui alla Convenzione passa, infine, attraverso l’effettività dei rimedi[45] e la possibilità del privato di agire individualmente innanzi alla Corte Edu allorché quei rimedi si siano rivelati ineffettivi. Se le Carte internazionali e le fonti europee hanno di norma, come destinatari, gli Stati, nel contesto di una comunità internazionale di governanti più che di governati[46], il sistema introdotto dalla Convenzione[47] rompe i tradizionali schemi, orientato – quale è – verso la diretta protezione di interessi individuali[48].
Vi è, nondimeno, uno speculare fuoco dell’ellisse disegnata dalla C.e.d.u..
Garanzie e tutele trovano un dovuto bilanciamento nel margine di apprezzamento dello Stato; non si sovrappongono al suo assetto costituzionale, per come veicolato dalla dialettica dei poteri e dal sistema delle fonti.
La c.d. dottrina del margine di apprezzamento[49] preserva, infatti, la discrezionalità dello Stato nell’applicare la Convenzione, consentendo al primo di soppesare gli obblighi pattizi con i propri interessi ed esigenze.
I diritti contemplati dalla C.e.d.u. non trovano, dunque, un’estensione incondizionata, risultando, piuttosto, soggetti ai limiti dettati dalle particolari circostanze e condizioni degli Stati contraenti[50] e, in definitiva, dalla sfera di sovranità non abdicata da questi ultimi[51].
Ciò deve, anzitutto, valere in relazione all’assetto costituzionale dei poteri dello Stato, che necessariamente sfugge all’universo dei limiti alla sovranità accettati dai Governi firmatari della Convenzione.
Non può non rilevare, in quest’ottica, il potere dello Stato di legiferare e, soprattutto, di legiferare introducendo nel tessuto delle norme questo o quel contenuto, questa o quella previsione di dettaglio. L’attività legislativa, prerogativa della sovranità nazionale, è istituzionalmente libera nei fini[52]. A riconoscerlo è non solo la giurisprudenza nostrana[53], ma anche, almeno per implicito, quella della Corte di Strasburgo. Lo dimostrano gli indirizzi che fanno dello Stato il sovrano del tempo e del modo di legiferare, avallando finanche la legislazione retroattiva, se suffragata da motivi imperativi di interesse generale[54]. Lo dimostra il rilievo per cui, anche allorché la Corte ha ritenuto esistenti lacune legislative, ha deciso con self restraint, rimettendo al legislatore nazionale il quomodo della regolamentazione normativa[55].
La dialettica della sovranità degli Stati con il sistema C.e.d.u. non è, poi, nel suo atteggiarsi, coincidente con quella che lega lo Stato al sistema unionale, ove il principio di primauté impone la disapplicazione, con sindacato diffusamente attribuito agli organi giurisdizionali, delle norme nazionali confliggenti con quelle europee[56] e la mancata attuazione delle direttive prive di efficacia diretta comporta la responsabilità dello Stato legislatore[57].
Né può la Convenzione – vieppiù in difetto di un obbligo di disapplicazione delle confliggenti norme nazionali[58] (obbligo che la Corte Suprema olandese ha invece desunto, nella pronuncia del 20 dicembre 2019[59], dall’art. 94 della Carta costituzionale olandese) – imporre al giudice interno di fare più di quanto non possa alla luce del disegno costituzionale delle attribuzioni degli organi statali.
L’attività giurisdizionale deve arrestarsi da una parte dinanzi a petita che valichino il perimetro dei poteri decisori, sagomato dal principio di separazione dei poteri, e, dall’altra, a domande sprovviste di condizioni dell’azione, con particolare riguardo ai predicati di attualità e concretezza dell’interesse ad agire[60].
E vi è di più. I fuochi dell’ellisse si inquadrano in un articolato e sofisticato contesto di geometrie multilivello.
Il sistema C.e.d.u. non è una monade isolata, vivendo piuttosto di relazioni osmotiche con l’ordinamento internazionale tutto, con quello eurounitario e con i singoli ordinamenti degli Stati. Applicare gli artt. 2 e 8 della C.e.d.u., imponendo allo Stato di ridurre, di una data misura ed entro un ristretto spatium temporis, le emissioni di gas a effetto serra, pur a fronte, non tanto di un ordinamento nazionale che fissa parametri flessibili nell’ottica di una progressiva e graduale decarbonizzazione[61], quanto di norme unionali che conferiscono margini di discrezionalità a fronte di obiettivi di lungo periodo e a portata transfrontaliera[62], significa dare prevalenza al sistema sovranazionale della Convenzione su quello eurounitario.
Privare lo Stato della flessibilità che le norme europee (e le stesse Carte internazionali) gli attribuiscono (con la generale previsione – in forza del “Quadro per il clima e l’energia 2030” – di un target del 40% entro il 2030, con l’affermazione del principio della responsabilità ‘comune’ o con la valorizzazione dell’impegno nelle strategie di adattamento[63]), per dare peso assorbente ai canoni ‘a rime libere’ della C.e.d.u. rischia di risolversi in una gerarchizzazione di ordini giuridici di pari livello.
Se è vero che la vita merita incondizionata protezione e che l’emergenza – climatica tanto quanto epidemiologica – deve essere contrastata con ogni mezzo, appare discutibile che una Corte nazionale possa veicolare i contenuti della legislazione interna, fissando standards of care ‘individualizzati’ (siccome indirizzati al solo Stato convenuto) e di breve periodo e, così, sovrapponendosi agli obiettivi globali ed europei di lungo periodo[64]; come appare vieppiù discutibile che ciò non avvenga all’esito dei circuiti dialogici di cui all’art. 267 T.F.U.E.[65] e al Protocollo n. 16 alla C.e.d.u.[66], ma nel silenzio di una camera di consiglio.
[1] Segnatamente, climatica, conseguente al fenomeno del riscaldamento globale. Come è noto, determinate attività umane, quali la combustione di combustibili fossili, la deforestazione e l’agricoltura, danno luogo alla produzione dei c.d. gas serra, che trattengono il calore irradiato dalla superficie terrestre e dall’atmosfera e ne impediscono la dispersione nello spazio, così provocando il riscaldamento globale. In argomento, v. M. A. Sandulli, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, in Riv. giur. dell’edilizia, n. 4/2019, 291; S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, in Riv. giur. amb., n. 1/2018, 29; M. Montini, La disciplina settoriale sulla protezione dell’ambiente, in P. Dell’Anno-E. Picozza (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Torino, 2015, 43; V. Cavanna, Il cambiamento climatico globale: il Quinto Rapporto IPCC, in Riv. giur. dell’ambiente, n. 3-4/2014, 425; F. Fracchia-M. Occhiena (a cura di), Climate change: la risposta del diritto, Napoli, 2010. Più in generale, sulle dinamiche del diritto dell’emergenza, v., da ultimi, L. Giani-M. D’Orsogna-A. Police (a cura di), Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018.
[2] Su cui si confrontino i molti contributi pubblicati da “Giustizia insieme” (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19). In particolare, sulla gestione in chiave europea dell’emergenza, v. E. Arbia-C. Biz, L’Unione Europea contro la pandemia di COVID-19, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[3] Hoge Raad der Nederlanden, 20 december 2019, n. 19/00135, visionabile in lingua inglese (trad. non ufficiale) in https://uitspraken.rechtspraak.nl/inziendocument?id=ECLI:NL:HR:2019:2007.
[4] Che – come è noto – riescono a trattenere una parte considerevole della componente nell’infrarosso della radiazione solare che colpisce la Terra ed è emessa dalla superficie terrestre, dall’atmosfera e dalle nuvole; proprietà tale da originare il c.d. “effetto serra”.
[5] Sono, del resto, noti gli effetti negativi del cambiamento climatico; in argomento, v., ad es., S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, cit., 30-31:“Con il mutare del clima, molti sistemi naturali, e la fauna e la flora che li compongono, si stanno trasformando: i ghiacci si sciolgono, il livello degli oceani aumenta mettendo a rischio isole e aree costiere, aree prima fertili o coperte da foreste si inaridiscono, la desertificazione aumenta, gli ecosistemi si modificano in modo spesso irreversibile”.
[6] Così il § 2.2.1 della sentenza: “Urgenda (‘Urgent Agenda’) is engaged in developing plans and measures to prevent climate change. Urgenda’s legal form is that of a foundation under Dutch law (stichting). Its object according to its Articles is to stimulate and accelerate transition processes towards a more sustainable society, starting in the Netherlands. Urgenda’s view is that the State is doing too little to prevent dangerous climate change. In these proceedings, to the extent relevant in cassation, it is requesting an order instructing the State to limit the volume of greenhouse gas emissions in the Netherlands such that this volume would be reduced by 40% at the end of the year 2020, or at least by a minimum of 25%, compared to the volume in the year 1990. It institutes its claim pursuant to Article 3:305a DCC, which enables interest organisations to bring class action suits. It is pursuing its claim, to the extent relevant in cassation, on behalf of the interests of the current residents of the Netherlands (the inhabitants of the Netherlands) who are being threatened with dangerous climate change”.
[7] § 2.2.2 della pronuncia: “The defences asserted by the State include the following. The requirements of neither Article 3:296 DCC (court order) nor Article 6:162 DCC (unlawful act) have been met. There is no basis in either national or international law for a duty that legally requires the State to take measures in order to achieve the reduction target as sought. The target laid down in AR4 is not a legally binding standard. Articles 2 and 8 ECHR do not imply an obligation for State to take mitigating or other measures to counter climate change. Granting the reduction order being sought would also essentially come down to an impermissible order to create legislation and would contravene the political freedom accruing to the government and parliament and, thus, the system of separation of powers”.
[8] Secondo l’art. 93, “Provisions of treaties and of resolutions by international institutions which may be binding on all persons by virtue of their contents shall become binding after they have been published.”; stando, poi, all’art. 94, “Statutory regulations in force within the Kingdom shall not be applicable if such application is in conflict with provisions of treaties that are binding on all persons or of resolutions by international institutions”.
[9] § 5.6.1 della sentenza: “Pursuant to Articles 93 and 94 of the Dutch Constitution, Dutch courts must apply every provision of the ECHR that is binding on all persons. Because the ECHR also subjects the Netherlands to the jurisdiction of the ECtHR (Article 32 ECHR), Dutch courts must interpret those provisions as the ECtHR has, or interpret them premised on the same interpretation standards used by the ECtHR”.
[10] § 5.6.2 della pronuncia: “Pursuant to the findings above in paras. 5.2.1-5.3.4, no other conclusion can be drawn but that the State is required pursuant to Articles 2 and 8 ECHR to take measures to counter the genuine threat of dangerous climate change if this were merely a national problem. Given the findings above in paras. 4.2-4.7, after all, this constitutes a ‘real and immediate risk’ as referred to above in para. 5.2.2 and it entails the risk that the lives and welfare of Dutch residents could be seriously jeopardised. The same applies to, inter alia, the possible sharp rise in the sea level, which could render part of the Netherlands uninhabitable. The fact that this risk will only be able to materialise a few decades from now and that it will not impact specific persons or a specific group of persons but large parts of the population does not mean – contrary to the State’s assertions – that Articles 2 and 8 ECHR offer no protection from this threat (see above in para. 5.3.1 and the conclusion of paras. 5.2.2 and 5.2.3). This is consistent with the precautionary principle (see para. 5.3.2, above). The mere existence of a sufficiently genuine possibility that this risk will materialise means that suitable measures must be taken.”.
[11] Sul concetto di “mitigazione”, v., da ultimo, S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, cit., 30: “Il cambiamento climatico può essere affrontato con due diverse strategie: la mitigazione e l’adattamento. La mitigazione interviene sulle cause del cambiamento climatico e consiste in interventi idonei a contenere ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall’attività dell’uomo fino al raggiungimento di livelli di emissioni sostenibili. L’adattamento consiste in interventi idonei a ridurre gli effetti e le conseguenze negative del cambiamento climatico e a sfruttare le conseguenze positive”.
[12] § 8.2.1 della sentenza: “If the government is obliged to do something, it may be ordered to do so by the courts, as anyone may be, at the request of the entitled party (Article 3:296 DCC). This is a fundamental rule of constitutional democracy, which has been enshrined in our legal order. As far as the rights and freedoms set out in the ECHR are concerned, this rule is consistent with the right to effective legal protection laid down in Article 13 ECHR referred to above in 5.5.1-5.5.3. Partly in connection with this fundamental rule, the Dutch Constitution stipulates that civil courts have jurisdiction over all claims, so that they can always grant legal protection if no legal protection is offered by another court”.
[13]§ 8.2.4 della decisione: “The first consideration does not mean that courts cannot enter the field of political decision-making at all. In the case law referred to above, therefore, the earlier case law of the Supreme Court has been reiterated, which dictates that, on the basis of Article 94 of the Dutch Constitution, the courts must disapply legislation if any binding provisions of treaties entail such. It has also been decided in that case law that the courts may issue a declaratory decision to the effect that the public body in question is acting unlawfully by failing to enact legislation with a particular content. The first consideration on which the case law referred to in 8.2.2 is based must therefore be understood to mean that the courts should not interfere in the political decision-making process regarding the expediency of creating legislation with a specific, concretely defined content by issuing an order to create legislation. In view of the constitutional relationships, it is solely for the legislator concerned to determine for itself whether legislation with a particular content will be enacted. Therefore, the courts cannot order the legislator to create legislation with a particular content.”.
[14] § 8.2.7 della sentenza: “[…] this order does not amount to an order to take specific legislative measures, but leaves the State free to choose the measures to be taken in order to achieve a 25% reduction in greenhouse gas emissions by 2020. This is not altered by the fact that many of the possible measures to be taken will require legislation, as argued by the State. After all, it remains for the State to determine what measures will be taken and what legislation will be enacted to achieve that reduction. The exception to Article 3:296 DCC made in the case law referred to in 8.2.2 above therefore does not apply in this case”.
[15] Posto che l’influenza dell’uomo è stata rinvenuta nel riscaldamento dell’atmosfera e dell’oceano, nel cambiamento del ciclo globale dell’acqua, nella riduzione di ghiaccio e neve, nell’innalzamento del livello del mare e nei cambiamenti in dati eventi metereologici estremi. V., in argomento, B. Pozzo, Il nuovo sistema di emission trading comunitario. Dalla Direttiva 2003/87/CE alle novità previste dalla Direttiva 2009/29/CE, Milano, 2010, 1; M. D’Auria, L’emission trading e la negoziazione policentrica, in S. Cassese-M. Conticelli (a cura di), Diritto e amministrazioni nello spazio giuridico globale, Milano, 2006, 247.
[16] Sul Protocollo di Kyoto v., ad es., W. Th. Douma-L. Massai-M. Montini (a cura di), The Kyoto Protocol and Beyond, The Hague, 2007; M. Bothe-E. Rehbinder, Climate Change Policy, Utrecht, 2005; D. Freestone-C. Streck (a cura di), Legal Aspects of Implementing the Kyoto Protocol Mechanisms: Making Kyoto Work, Oxford, 2005.
[17] Per l’Europa l’8%; successivamente, tale impegno è stato ripartito in modo diverso tra i singoli Stati, in forza del Burden Sharing Agreement del 16 giugno 1998 (segnatamente, l’Italia si è impegnata a ridurre le proprie emissioni del 6.5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012).
[18] Sullo scambio di quote di emissione, v. amplius V. Jacometti, Lo scambio di quote di emissione. Analisi di un nuovo strumento di tutela ambientale in prospettiva comparatistica, Milano, 2010.
[19] In particolare, i privati o i governi dei Paesi dell’Annex I che forniscono tale assistenza possono ottenere, in cambio dei risultati raggiunti nei Paesi in via di sviluppo, “certified emission reductions” (CERs), il cui ammontare viene calcolato ai fini del raggiungimento del target.
[20] AA.VV, Climate change 1995: Economic and Social dimensions of Climate Change, Cambridge, 1996, 183 e 187-188.
[21] Su tali limiti, si rinvia a R. N. Cooper, The Kyoto Protocol: A Flawed Concept, in FEEM Working Paper No. 52.2001, 2001 in https://ssrn.com/abstract=278536.
[22] S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, cit., 41.
[23] S. Nespor, op. cit., 42-47.
[24] Art. 2.1 a): “Holding the increase in the global average temperature to well below 2°C above pre-industrial levels and pursuing efforts to limit the temperature increase to 1.5°C above pre-industrial levels, recognizing that this would significantly reduce the risks and impacts of climate change”.
[25] Anche in forza della previsione per cui “Each Party should, as appropriate, submit and update periodically an adaptation communication, which may include its priorities, implementation and support needs, plans and actions, without creating any additional burden for developing country Parties” (v. S. Nespor, op. cit., 49).
[26] “Accordo sulla ripartizione degli oneri”, raggiunto nel Consiglio Ambiente del 16-17 giugno 1998, con cui – come è noto – l’Unione Europea ha ‘ripartito’ l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra dell’8% nel periodo 2008-2012, rispetto ai livelli del 1990, previsto dal Protocollo di Kyoto, tra gli allora quindici Stati membri dell’Unione, in base al principio di equità e proporzionalità.
[27] Su cui v., in particolare, C. Fraterrigo, Il diritto dell’energia in un sistema multilivello: legislatori e prassi a confronto, Palermo, 2015, 42; V. Jacometti, La direttiva Emissions Trading e la sua attuazione in Italia: alcune osservazioni critiche al termine della prima fase, in Riv. giur. ambiente, n. 2/2008, 273; M. D’Auria, L’emission trading e la negoziazione policentrica, in S. Cassese-M. Conticelli (a cura di), Diritto e amministrazioni nello spazio giuridico globale, cit., 247.
[28] V., da ultima, la Direttiva 2018/410, che ha stabilito il funzionamento dell’Emissions Trading System europeo (EU-ETS) nella fase IV del sistema (2021-2030).
[29] Https://ec.europa.eu/clima/policies/strategies/2030_it; in tema, v. M. A. Sandulli, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, cit., 291 ss.. La strategia ancora successiva risulta delineata nella “Energy Roadmap 2050”.
[30] L’obiettivo originario del 27% è stato rivisto al rialzo nel 2018.
[31] Originariamente del 27%.
[32] Sui cui ancora M. A. Sandulli, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, cit., 291 ss..
[33] Si veda, del resto, già il Libro verde della Commissione sull’adattamento ai cambiamenti climatici in Europa: quali possibilità di intervento per l’UE, 2007 in http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM:l28193, nella cui introduzione si legge: “La modifica del clima è comunque ineluttabile e comporterà impatti significativi legati, tra l’altro, all’aumento delle temperature e delle precipitazioni, alla riduzione delle risorse idriche e all’aumento della frequenza delle tempeste. Le misure di mitigazione devono pertanto essere accompagnate da misure di adattamento destinate a far fronte a questi impatti. L’adattamento deve riguardare sia i cambiamenti in corso sia i cambiamenti futuri che devono essere anticipati”.
[34] Supra, § 1.
[35] In generale, sui rapporti tra C.e.d.u. e ordinamenti europeo e italiano, v., per tutti, D. Tega, La Cedu e l’ordinamento italiano, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, 69-70; A. Barbera, “Nuovi diritti”: attenzione ai confini, in L. Califano (a cura di), Corte costituzionale e diritti fondamentali, Torino, 2004. Si rinvia, altresì, più di recente, a D. Trabucco, Tutela multilivello dei diritti e sistema delle fonti nei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento italiano. Verso un ritorno ai criteri formali-astratti a garanzia della superiorità della Costituzione?, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018, 1. Sulla c.d. tutela multilivello dei diritti fondamentali, v. F. Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 1/2005, 79 e ss.; P. Bilancia, Le nuove frontiere della tutela multilivello dei diritti, in Rivista A.I.C., 16 maggio 2006.
[36] In tema, per tutti, S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 36: “La disposizione dedicata al diritto alla vita è la prima tra le norme della CEDU relative ai diritti sostanziali, in quanto, come la Corte europea ha più volte affermato, consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. Al diritto alla vita spetta una posizione speciale all’interno della Convenzione: il suo mancato rispetto è una delle più gravi infrazioni in materia di diritti dell’uomo, posto che senza protezione del diritto alla vita il godimento di ogni altro diritto e libertà garantito dalla CEDU è illusorio”; C. Russo, Le Droit à la vie dans le décisions de la Commission et la jurisprudence de la Cour Européenne, in Mélanges en l’honneur de Nicolas Valticos, Parigi, 1999, 509. In argomento, v. anche A. Giordano, Dignità dell’uomo e tutela effettiva. Strumenti e garanzie dal diritto sostanziale al processo, in Studi Senesi, n. 2/2010, 185.
[37] In analoghi termini, Corte Edu, 24 febbraio 2005, ric. nn. 57947/00, 57948/00 e 57949/00, Isayeva, Yusupova e Bazayeva, spec. § 168. Sulla centralità della vita nel sistema della C.e.d.u.: R. Conti, I giudici e il biodiritto, Roma, 2014, 254.
[38] Con l’ulteriore, necessitato, corollario per cui le ipotesi di cui all’art. 2, c. 2, debbano essere intese come rigorosamente tassative e, quindi, di stretta interpretazione (in merito, da ultimi, A. Allegria-D. Di Leo-F. Federici (a cura di), Commentario alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, Padova, 2019, 8-9: “In primo luogo, l’elenco delle eccezioni deve ritenersi avente carattere tassativo e ciascuna di esse è di stretta interpretazione. In secondo luogo, il requisito della necessità deve essere inteso in modo ancor più rigoroso e cogente rispetto agli artt. 8-11 CEDU: infatti, non a caso, la norma fa riferimento alla stretta necessità e non alla necessità tout court. Infine, occorre inserire, in via interpretativa, accanto al limite espresso della stretta necessità, quello aggiuntivo della proporzione nell’uso della forza in relazione alle finalità espresse dalla norma, il quale impone la gradazione della forza in relazione alla gravità del crimine commesso nell’ipotesi in cui si debba impedire l’evasione di una persona detenuta o procedere a un arresto”).
[39] S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., 36.
[40] S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., 41-42: “L’art. 2 CEDU, nella sua prima frase, prevede un obbligo di protezione della vita, a partire dal quale gli organi di Strasburgo hanno ricavato una serie di obblighi in capo agli Stati membri di adottare misure positive volte a rendere concreti ed effettivi i valori che l’art. 2 mira a tutelare. Si tratta di prescrizioni che non sono espressamente contemplate nel testo dell’articolo, ma sono ricavate implicitamente dall’art. 2, letto in congiunzione con l’obbligo generale dell’art. 1 CEDU di rispettare i diritti contemplati nella CEDU”.
[41] V., ad es., C. Edu, 8 luglio 2004, ric. n. 48787/99, Ilaşcu, § 313: “gli impegni assunti da una Parte contraente in base all’art. 1 della Convenzione implicano, oltre al dovere di astenersi da qualsiasi ingerenza nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti, obblighi positivi di adottare misure adeguate per assicurare il rispetto di tali diritti e libertà sul suo territorio”. Per la dottrina, ad es., S. Bartole-B. Conforti-G. Raimondi, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 308: “[…] sussiste interferenza non solo quando uno Stato pone in essere comportamenti attivi nei confronti di un individuo, ma anche quando le sue omissioni sono suscettibili di ledere le situazioni giuridiche che si ritengono protette”.
[42] V., in merito, le considerazioni di N. Lipari, in R. Conti, CEDU e cultura giuridica italiana. 5. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e i civilisti, in www.giustiziainsieme.it, 2020: “Certo è comunque che la Convenzione europea dei diritti umani si è venuta progressivamente affermando come un organismo vivo, capace di offrire sia alla Corte che ai giudici nazionali la possibilità di estendere la tutela anche a diritti non esplicitamente enunciati nella Convenzione”. Sull’ambiente come valore nell’ottica del diritto europeo, v., per tutti, P. Dell’Anno-E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. Principi generali, Padova, 2012; M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Riv. quadr. di diritto dell’ambiente, n. 1-2/2012, spec. 62-69.
[43] V., per tutti, Corte Edu, 9 dicembre 1994, n. 16798/90, López Ostra.
[44] Sui requisiti della “foreseeability of the risk” e del “best efforts requirement”, v. Corte Edu, 20 marzo 2008, ric. nn. 15339/02, 21166/02, 20058/02, 11673/02 e 15343/02, Budayeva e Corte Edu, 28 febbraio 2012, ric. nn. 17423/05, 20534/05 e 20678/05, Kolyadenko.
[45] Quale “diritto all’efficacia della protezione statale” dei diritti materiali (così, R. Sapienza, Il diritto ad un ricorso effettivo nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., n. 2/2001, 281).
[46] B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2006, 20.
[47] Che è un trattato internazionale sui generis (ad es., S. Mirate, Giustizia amministrativa e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’“altro” diritto europeo in Italia, Francia e Inghilterra, Napoli, 2007, 169).
[48] Cosa discendente, anzitutto, dall’art. 1 C.e.d.u.. Sulla finalità della C.e.d.u., non di soddisfare interessi specifici degli Stati, ma di tutelare i diritti degli individui lesi: S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., 11. Nel senso di una generale personalità internazionale degli individui, v. ancora B. Conforti, op. cit., 20.
[49] Su cui v. P. Tanzarella, Il margine di apprezzamento, in M. Cartabia, I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, cit., 149.
[50] Y. Arai-Takahashi, The defensibility of the margin of appreciation doctrine in the ECHR: value-pluralism in the European integration, in Revue Européenne de Droit Public, 2001, 1162.
[51] R.ST.J. Macdonald, The margin of appreciation in the jurisprudence of the European Court of Human Rights, in Collected Courses of the Academy of European Law, 1992, 95.
[52] E, quindi, sottratta al sindacato giurisdizionale: Cass. civ., sez. lav., 11 ottobre 1995, n. 10617. Sulla neutralità delle norme, nelle quali è dato veicolare ogni contenuto, v. N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004, 43.
[53] Sulla insindacabilità dell’atto espressivo della funzione legislativa, v., ad es., Cass. civ., sez. un., 19 maggio 2016, n. 10319 e Cass. civ., sez. un., 14 maggio 2014, n. 10416; sulla incompatibilità della detta libertà nei fini con l’attributo di “ingiustizia” che deve avere il danno per essere soggetto a risarcimento, v. Cass. civ., sez. III, 22 novembre 2016, n. 23730.
[54] Ad es., Corte Edu, 7 giugno 2011, ric. nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09, Agrati; Corte Edu, 31 maggio 2011, ric. nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, Maggio. Per la giurisprudenza interna, v. C. Cost., 12 luglio 2017, n. 166: “Il riferimento va, per tal ultimo profilo, alla sentenza n. 264 del 2012 (cui ha fatto seguito l’ordinanza n. 10 del 2014), con la quale questa Corte - premesso che ad essa spetta di «opera[re] una valutazione sistemica e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata» - ha ritenuto che, nel bilanciamento tra la tutela dell’interesse sotteso alla richiamata norma convenzionale (art. 6, paragrafo 1, CEDU) e la tutela degli altri interessi costituzionalmente protetti, «prevale quella degli interessi antagonisti di pari rango costituzionale, complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata, in relazione alla quale sussistono, quindi, quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva»”. Per un confronto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in punto di discrezionalità nell’adottare, modificare o sopprimere regimi di sostegno (segnatamente, alla produzione di energia da fonti rinnovabili), v., da ultima, la pronuncia C.G.U.E., 11 luglio 2019, cause riunite C-180/18, C-286/18 e C-287/18, Agrenergy S.r.l. e Fusignano Due S.r.l. (in senso consonante, per la giurisprudenza arbitrale internazionale: SCC Case No. ARB/16/132, Sunreserve Luxco Holdings s.a.r.l., Sunreserve Luxco Holdings II s.a.r.l., Sunreserve Luxco Holdings III s.a.r.l. v. Italian Republic, Final Award, 25 marzo 2020; ICSID Case No. ARB/15/40, Belenergia S.A. v. Italian Republic, Award, 17 luglio 2019; ICSID Case No. ARB/14/3, Blusun S.A., Jean-Pierre Lecorcier and Michael Stein v. Italian Republic, Final Award, 27 December 2016, recentemente confermata in appello da Blusun S.A., Jean-Pierre Lecorcier and Michael Stein v. Italian Republic, Decision on Annulment, 13 April 2020).
[55] Corte Edu, 21 luglio 2015, ric. nn. 18766/11 e 36030/11, Oliari, in tema di protezione giuridica offerta alle coppie dello stesso sesso.
[56] Sul principio di supremazia, scolpito dalla nota sentenza C.G.U.E., 15 luglio 1964, C-6/64, Costa c. Enel, v., ad es., L. Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2018, 313 e F. Fabbrini, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Bologna, 2018, 156; sull’obbligo di garantire la piena efficacia delle norme comunitarie mediante disapplicazione di qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale: C.G.U.E., 9 marzo 1978, C-106/77, Simmenthal.
[57] C.G.U.E., 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, su cui, ad es., L. Daniele, op. cit., 302. Più in generale, sulla parabola evolutiva della responsabilità dello Stato per violazione del diritto unionale, v. F. Ferraro, voce Responsabilità dello Stato [dir. UE], in Treccani Diritto on line (2014), § 2, che evidenzia come il risarcimento del danno integri, all’esito della sentenza Brasserie du Pêcheur, un rimedio di carattere generale, esperibile a prescindere dall’efficacia diretta o meno della norma violata. Sulla configurabilità anche di una responsabilità da legislazione incompatibile con il diritto europeo, v. Cons. St., sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124: “Il danno da “adozione di legislazione incompatibile con il diritto comunitario” è in via di principio riconoscibile: ciò però, purché si fornisca la prova della diretta scaturigine del medesimo dalla norma e lo si differenzi da quello asseritamente arrecato dal provvedimento applicativo della medesima; ché altrimenti si postulerebbe una doppia liquidazione di una medesima voce di danno, inammissibile nel sistema (per l’affermazione secondo cui “deve escludersi che dalle norme dell’ordinamento comunitario possa farsi derivare, nell’ordinamento italiano il diritto soggettivo del singolo all’esercizio del potere legislativo - che è libero nei fini e sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale”, si veda Cassazione civile , sez. lav., 11 ottobre 1995, n. 10617).”.
[58] C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 349 (diversamente, tuttavia, Cons. St., sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220, su cui, in senso critico, A. Celotto, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? (in margine alla sentenza 1220/2010 del Consiglio di Stato), in www.giustamm.it, 2010); così, del resto, la stessa Corte di Giustizia, che, nella nota sentenza C.G.U.E., 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj, ha statuito che “il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”, precisando che detto disposto “non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale Convenzione ed una norma di diritto nazionale”. Sui rapporti tra C.e.d.u. e ordinamento interno, v., da ultima, C. Feliziani, Giustizia amministrativa, amministrazione e ordinamenti giuridici. Tra diritto nazionale, diritto dell’Unione europea e Cedu, Napoli, 2018, spec. 159-164.
[59] Supra, § 1.
[60] Sul punto, la stessa giurisprudenza della Corte Edu appare consonante; v. Corte Edu, 22 maggio 2003, ric. n. 41666/98, Kyrtatos, § 52: “[…] the crucial element which must be present in determining whether, in the circumstances of a case, environmental pollution has adversely affected one of the rights safeguarded by paragraph 1 of Article 8 is the existence of a harmful effect on a person’s private or family sphere and not simply the general deterioration of the environment. Neither Article 8 nor any of the other Articles of the Convention are specifically designed to provide general protection of the environment as such”. In generale, sull’articolata quaestio della protezione degli interessi diffusi in sistemi processuali improntati alla tutela delle situazioni individuali, v., ad es., W. Giulietti, Danno ambientale e azione amministrativa, Napoli, 2012, 53.
[61] V., con riferimento al nostro ordinamento, da ultimo, il “Piano nazionale integrato per l’Energia e il Clima” del dicembre 2019, in https://www.mise.gov.it/images/stories/documenti/PNIEC_finale_17012020.pdf.
[62] Del resto, la natura ontologicamente transfrontaliera del fenomeno del riscaldamento globale fa sì che trascolori lo stesso nesso di causalità tra l’azione od omissione del singolo Stato e la violazione invocata.
[63] Che possono essere (e di norma sono) beneficiali agli scopi della mitigazione. V., supra, § 2.
[64] Indispensabili anche in relazione alla corrente emergenza epidemiologica da COVID-19, nel cui contesto il raccordo tra Stati si appalesa quanto mai opportuno, onde evitare che le misure adottate da uno Stato non siano vanificate da antitetiche o comunque distoniche politiche poste in essere dagli Stati confinanti. In generale, sulla necessità di una gestione unitaria dell’emergenza, v., pur con riferimento ai diversi centri di produzione delle norme interni allo Stato (italiano), v. Cons. St., parere 7 aprile 2020, n. 260, il quale si è espresso sulla proposta di annullamento straordinario ex art. 138 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 di una nota ordinanza del Sindaco di Messina, così, significativamente, statuendo: “In presenza di emergenze di carattere nazionale […] pur nel rispetto delle autonomie costituzionalmente tutelate, vi deve essere una gestione unitaria della crisi per evitare che interventi regionali o locali possano vanificare la strategia complessiva di gestione dell’emergenza, soprattutto in casi in cui non si tratta solo di erogare aiuti o effettuare interventi ma anche di limitare le libertà costituzionali” (§ 8.5), su cui, da ultimo, A. Celotto, Emergenza e ordinanze comunali: l’«isola della ragione nel caos delle opinioni» (a prima lettura del parere 7 aprile 2020, n. 260/2020), in www.giustizia_amministrativa.it, 2020.
[65] La cui rilevanza è stata ribadita anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale. Se è vero che – con un obiter dictum – la Corte Costituzionale ha statuito che “laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE” (C. Cost., 14 dicembre 2017, n. 269), la Corte di Giustizia appare ferma nel sancire la doverosità del rinvio ex art. 267 T.F.U.E. (C. Giust., 20 dicembre 2017, C-322/16, Global Starnet Ltd: “Occorre ricordare che un giudice nazionale investito di una controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale ritenga che una norma nazionale sia non soltanto contraria a tale diritto, ma anche inficiata da vizi di costituzionalità, non è privato della facoltà o dispensato dall’obbligo, previsti dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte questioni relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto nazionale è subordinata ad un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale. Infatti, l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se l’esistenza di un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale potesse impedire al giudice nazionale, investito di una controversia disciplinata dal suddetto diritto, di esercitare la facoltà, attribuitagli dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, al fine di permettergli di stabilire se una norma nazionale sia compatibile o no con quest’ultimo”) e la stessa Consulta ha, più di recente, ribadito che sono fatti salvi il potere (-dovere) del giudice comune di compiere il rinvio pregiudiziale su ogni questione ritenuta necessaria (C. Cost., 21 febbraio 2019, n. 20: “Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria. In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”), il dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (C. Cost., 21 marzo 2019, n. 63), il potere (-dovere) della stessa Corte Costituzionale di avviare il dialogo con la Corte di Giustizia, ove la disposizione censurata violi le garanzie riconosciute, al tempo stesso, dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali e ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme di quest’ultima (C. Cost., 10 maggio 2019, n. 117). V., per gli ulteriori riferimenti sul tema, A. Giordano, voce Pregiudiziale comunitaria, in www.ilprocessocivile.it, 5.8.2019.
[66] Secondo cui “Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente […] possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli”; in tema, R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in Consulta Online, 2014; O. Pollicino, La Corte costituzionale è una “alta giurisdizione nazionale” ai fini della richiesta di parere alla Corte EDU ex Protocollo 16?, in www.forumcostituzionale.it, 2014; A. Ruggeri, Ragionando sui possibili sviluppi dei rapporti tra le corti europee e i giudici nazionali (con specifico riguardo all’adesione dell’Unione alla CEDU e all’entrata in vigore del Prot. 16), in Rivista AIC, 1, 2014.
Coronavirus e carcere di Giovanni Maria Pavarin
Nella sezione delle aree tematiche della Gazzetta Ufficiale denominata “Coronavirus” figurano, dal 31 gennaio 2020 ad oggi, ben 12 tra decreti-legge, leggi e d.p.c.m. riguardanti le misure urgenti fin qui adottate.
Il carcere fa in essi capolino solo col d.p.c.m. 25 febbraio, che si è preoccupato che i nuovi ingressi in istituto non siano occasione di contagio [lett. m) dell’art. 1).
La preoccupazione è stata ribadita tal quale 5 giorni dopo [lett. h) dell’art. 4 d.p.c.m. 1 marzo 2020].
E’ solo il giorno successivo che il Governo interviene sopprimendo di fatto il diritto ai colloqui visivi (art. 18 legge n. 354/1975) col prevedere che gli stessi, negli istituti in allora appartenenti alla cd. “zona rossa”, fossero “svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria”, ovvero “surrogando” tale diritto con la possibilità di ottenere l’aumento del numero delle telefonate consentite ex art. 39 d.p.r. n. 230/2000 (art. 10, 14° comma d.l. 2 marzo 2020, n. 9) (le telefonate in esubero restano comunque assoggettate al potere discrezionale dl Direttore).
Immediata deve essere stata a mio giudizio la ricaduta pratica di tale disposizione sul fronte del penitenziario, se è vero che appena sei giorni dopo il d.p.c.m. 8 marzo 2020 innesta una parziale retromarcia con la previsione secondo cui “in casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri” [art. 2, lett. u)].
Molto interessante l’altra disposizione contenuta nella stessa lett. u), laddove - in relazione ai “casi sintomatici dei nuovi ingressi negli istituti penitenziari” - viene prevista la “condizione di isolamento” dagli altri detenuti “raccomandando di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.
Si tratta, all’evidenza, di raccomandazione rivolta agli organi dell’Amministrazione penitenziaria, che sono legittimati a chiedere alla magistratura di sorveglianza i benefici penitenziari (art. 57 l.n. 354/1975): chiara la volontà di evitare che il virus entri in carcere e che, una volta entratovi, vi si propaghi.
L’ultima parte della stessa norma concerne la raccomandazione di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri”: anche in questa ipotesi, evidente essendo che il Governo non può di certo “raccomandare” nulla alla giurisdizione, l’invito appare rivolto ai Direttori degli istituti, competenti a rilasciare il parere sulla concessione dei permessi premio ed a modulare il programma di trattamento dei semiliberi (art. 101 d.p.r. n. 230/2000), altro significato non potendo attribuirsi all’infelice ed atecnico richiamo alla libertà vigilata.
La sera dello stesso 8 marzo la Gazzetta Ufficiale pubblicava però il d.l. n. 11/2020, il cui art. 2, 8° comma interviene ad estendere a tutti gli istituti di pena (e prima ancora che l’intero paese divenisse “zona rossa”) la norma limitativa (rectius: soppressiva) del diritto ai colloqui, ignorando però la facoltà di deroga in casi eccezionali prevista qualche ora prima dal d.p.c.m. appena richiamato.
Dal che si dovrebbe far discendere, per incompatibilità del decreto-legge, fonte primaria di grado poziore e posteriore, rispetto a quella precedente e di grado inferiore (d.p.c.m.), il venir meno della facoltà concessa ai direttori degli istituti di pena di derogare in casi eccezionali alla norma impeditiva dei colloqui.
Il successivo 9° comma dello stesso art. 2 contiene poi una disposizione (per la verità alquanto eccentrica) che prevede che la magistratura di sorveglianza possa sospendere la concessione dei permessi premio e della semilibertà “tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria”.
Qui si assiste ad una specie di tentativo (già leggibile in nuce nel d.p.c.m. 8 marzo 2020) del potere politico di “indirizzare” la giurisdizione: si tratta, infatti, di una norma del tutto pleonastica, evidente essendo che i magistrati di sorveglianza, facendo uso della discrezionalità loro concessa dalla più parte delle norme di ordinamento penitenziario, dispongono già del potere di sospendere la concessione dei permessi (o di non concedere la semilibertà) per motivi oggettivi (che non dipendono cioè da un giudizio di meritevolezza del condannato).
Inutile però negare la “suggestione” che la norma è destinata ad operare: ci saranno, e ci sono, magistrati di sorveglianza che sospenderanno in via generalizzata i permessi premio in corso di fruizione, altri che non ne concederanno di ulteriori, altri ancora che approveranno rimodulazioni dei programmi di trattamento della semilibertà in senso oltremodo restrittivo; altri magistrati effettueranno invece valutazioni caso per caso a seconda del tasso di rischio connesso al pericolo di importare il virus all’interno dell’istituto, ad esempio consentendo ai semiliberi di pernottare presso le loro abitazioni e computando le relative ore nel montante annuo delle licenze consentite dall’art. 52 l.n. 354/1975.
Va a tal proposito considerato che l’ambiente carcere non può essere considerato al riparo dal rischio epidemiologico solo perché si prevede una restrizione delle uscite: ogni giorno i detenuti, infatti, toccano cose (le merci, il cibo, i generi sopravittuari, ecc.) che vengono dall’esterno e vivono e respirano con persone (gli operatori penitenziari) che vengono dall’esterno.
Si deve dunque convenire che il rischio della propagazione all’interno degli istituti del coronavirus non è direttamente correlabile né all’abolizione dei colloqui né al giro di vite dei benefici penitenziari.
C’è di più: il detenuto non appare per definizione in grado di rispettare le norme comportamentali sul distanziamento sociale, essendo anzi obbligato a condividere numerose ore al giorno i propri spazi di vita con molte altre persone; del pari non è di certo applicabile ai detenuti il divieto di assembramento di cui all’art. 1, 2° comma del d.p.c.m. 9 marzo 2020, emanato quando tutta Italia è divenuta “zona rossa”.
Ma tant’è: il rebound nel pianeta carcere (non propriamente popolato da fini giuristi) di tali disposizioni, assommato a mille preesistenti motivi di tensione, è sfociato negli episodi di violenza, se non in vere e proprie sommosse ed evasioni di cui i media danno ogni giorno notizia e che ci restituiscono immagini del tutte inedite e non conosciute nemmeno all’epoca del terrorismo.
I preesistenti motivi di tensione sono noti a tutti: la sola parzialissima realizzazione delle riforme di sistema previste dalla legge Orlando, avendo i decreti legislativi delegati deluso le attese di molti detenuti; gli annunci “liberatori” seguiti ad alcune pronunce della Corte costituzionale e della Cedu in materia di ergastolo ostativo e di ammissibilità dell’istanza di permesso-premio anche in difetto di collaborazione con la giustizia da parte dei condannati per reati di cui all’art. 4 bis l.n. 35471975; l’inedito viaggio dei giudici della Corte costituzionale nelle carceri (con relativa regia di un film), che può aver creato un clima di fiducia nell’inizio di un costruttivo dialogo con le istituzioni; l’incremento, lento ma costante, del tasso di sovraffollamento; l’assenza di provvedimenti di clemenza da ben 14 anni; il clima sociale pervaso dallo slogan della pena effettiva e certa, che rende obiettivamente più difficoltosi i percorsi di reinserimento sociale e che disturba maledettamente tutti gli addetti al cammino rieducativo.
Non sta certamente a me dare consigli, fornire ricette o indicare le possibili vie d’uscita, né alimentare le polemiche insorte tra i colleghi sulla bontà e l’opportunità dei rimedi possibili.
Una sola cosa mi sembra chiara: quanto sta succedendo in questi giorni in carcere esige una risposta (quale che sia) caratterizzata dall’urgenza: solo una risposta celere e risolutiva sarà in grado di placare il clima di tensione e di far cessare definitivamente gli inauditi episodi di violenza e di morte.
Solo due osservazioni: quanto alla liberazione anticipata speciale (ipotesi avanzata dall’ottimo Riccardo De Vito, uno tra i più valenti ed apprezzati colleghi della sorveglianza), ricordo (solo a chi non ne avesse memoria) che è stato proprio questo istituto a consentire al nostro Paese di salvarsi da ulteriori pesanti condanne da parte della Cedu.
Quanto all’abolizione dei colloqui, il divieto ben potrebbe essere rivisto e rimodulato, prevedendo ad esempio gli opportuni controlli nei confronti di chi ha diritto di accedervi.
Come magistrato mi sento solo di ricordare che il compito che la legge affida alla giurisdizione di sorveglianza è quello di dare alla pena l’unico senso possibile, che è quello della rieducazione: castigo sì, retribuzione sì, ma anche speranza nella riabilitazione e nel riscatto attraverso la costante e spesso affannosa ricerca di percorsi di reinserimento.
Come magistrato mi sento solo di ricordare a me stesso che il principio della pena effettiva e certa non può essere usato come uno slogan.
Esso evoca semplicemente una delle principali conquiste del moderno Stato di diritto: esso altro non significa che il principio di legalità (art. 25, 2° comma Cost.), il quale implica il divieto di punire se non in base ad una legge certa (sul reato e sulla pena) entrata in vigore prima del fatto commesso.
Per questo il carcere, per chi ha la sorte di finirci, va concepito come un trampolino di partenza verso l’inizio di una nuova vita: si tratta di un obiettivo che va perseguito con l'apertura massima alle misure alternative alla detenzione, tutte le volte - beninteso - in cui ciò sia possibile senza ledere il diritto della collettività alla sua sicurezza.
Da ultimo, e sempre riguardo al sovraffollamento, si tratta solo di far alloggiare dignitosamente poco più di 60.000 persone: credo non sfugga a nessuno che l’impegno economico necessario alla risoluzione del problema pare quasi irrilevante se raffrontato alle cifre che sono state impiegate per affrontare le altre dolorose piaghe delle quali lo Stato è stato costretto ad occuparsi, impegnando importanti risorse finanziarie (penso ai terremotati, ai cassintegrati, ai malati, ai disabili, a tutti quei soggetti, insomma, nei cui confronti le parole come Stato sociale e welfare hanno ancora un senso).
L’udienza civile ai tempi del coronavirus. Comparizione figurata e trattazione scritta (art. 2, comma 2, lettera h, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11).
di Franco Caroleo e Riccardo Ionta
Il presente scritto è relativo alla possibilità prevista dall’art. 2, comma 2, lettera h) decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 di trattazione scritta della cause civili. Quella avanzata è solo una delle possibili ipotesi per l’utilizzo di uno strumento, aderente alla realtà delle cose, utile a scongiurare il rinvio di molte cause, e quindi l’aggravio della giustizia che verrà, e a rimediare alle iniziali difficoltà dell’udienza con sistemi da remoto.
Completano l’articolo alcune proposte schematiche modellate sui diversi riti processuali.
Sommario: I. Il flagello. II. Salute pubblica e giustizia. III. Il potere emergenziale del dirigente. IV. Il potere in merito allo svolgimento delle udienze: il rinvio e la disciplina delle modalità di svolgimento e partecipazione. V. Il potere-dovere di disciplina dello svolgimento delle udienze e della partecipazione alle udienze come limite al potere di rinvio. VI. Un sistema alternativo per la partecipazione alle udienze. VII. Comparizione e trattazione. VIII. Comparizione figurata e trattazione in forma scritta (lettera h). IX. Le regole generali per la comparizione figurata e la trattazione scritta. X. Il rito ordinario. XI. Il rito sommario di cognizione. XII. Il rito del lavoro. XIII. Il rito cautelare e camerale.
I. Il flagello
“I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come lo erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com'egli sia stato diviso tra l'inquietudine e la speranza. Quando scoppia una guerra, la gente dice: «Non durerà, è cosa troppo stupida». E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”. E quella peste che, ad Orano, pur sembrava interminabile, alla fine terminò. L’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa, scrive Albert Camus.
Nel libro “La peste” c’è anche un magistrato e si chiama Othon. Giudice istruttore, ha un ruolo marginale e appare di riflesso. È di certo vicino alle idee assolutiste di Padre Paneloux. Afferma che non è la legge a contare. Conta solo la sentenza. Tarrou, deluso figlio di un pubblico ministero, lo definisce, per questo, il nemico pubblico numero uno. Il personaggio, dopo la malattia del figlio, supera la burocratica indifferenza per il flagello e si presta ad aiutare, sino alla morte, il dottor Rieux.
II. Salute pubblica e giustizia
Il decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 attribuisce un ruolo da protagonista al magistrato, in particolar modo al dirigente dell’ufficio, chiamato a gestire l’emergenza odierna della giustizia e a progettare, in queste settimane, la giustizia di domani. “Almeno, adesso, la situazione era chiara: il flagello riguardava tutti”, scrive ancora Camus.
Il decreto ha la finalità generale e immediata - comune alla recentissima normativa d’urgenza - di contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Le finalità specifiche e mediate, perlomeno quelle più evidenti, sono due.
La prima è quella di contenere l’incidenza negativa, sul sistema giurisdizionale, delle misure restrittive soggettive, imposte o suggerite, sia dal medesimo decreto, sia dall’ulteriore normativa emergenziale in vigore o prossima ad esserlo. La seconda e parallela finalità è quella di implementare le misure restrittive stesse. Il presupposto di partenza è che gli uffici giudiziari sono luoghi di un’intensa circolazione e presenza, da limitare. Il vizio di fondo, da correggere, è che le udienze sono (ancora e purtroppo) momenti di assembramento, e comunque di facile occasione di trasmissione, da regolamentare.
La disciplina della libertà, ovvero della necessità, di circolazione e presenza negli uffici giudiziari e la disciplina dell’onere di partecipazione delle udienze rappresentano quindi il fine ultimo del testo.
III. Il potere emergenziale del dirigente
L’art. 2 conferisce ai dirigenti degli uffici giudiziari il potere discrezionale - mediato dall’interlocuzione con i soggetti istituzionali indicati al comma 1 e vincolato dal fine della normativa emergenziale - di disciplinare la circolazione e presenza negli uffici, e lo svolgimento delle udienze, nella direzione espressa dal decreto legge.
Una precisazione appare necessaria. Il potere del dirigente, per quanto discrezionale, deve esser comunque esercitato nell’ambito del contesto normativo ordinamentale e quindi, salvo esigenze emergenziali, interloquendo anche con i magistrati del proprio ufficio.
Il senso che emerge dalla lettura delle diverse lettere che strutturano l’art. 2, comma 2, è quello della necessità di modificare le modalità di svolgimento delle attività che si tengono nelle cancellerie e nelle aule d’udienza, consentendo la partecipazione fisica dei soggetti esterni all’amministrazione e alla magistratura solo ove non altrimenti ovviabile, anche al fine di rendere concreto, per l’amministrazione stessa, il c.d. lavoro agile (smart working).
IV. Il potere in merito allo svolgimento delle udienze: il rinvio e la disciplina delle modalità di svolgimento e partecipazione
Il potere del dirigente in merito allo svolgimento delle udienze - riservato dal codice di procedura civile al magistrato ovvero al presidente del collegio - riguarda sia la possibilità di disciplinarne il rinvio, sia la possibilità di disciplinarne le modalità di svolgimento e partecipazione.
L’art. 2, comma 2, lettera g) consente al dirigente “la previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 31 maggio 2020 nei procedimenti civili e penali”.
Le disposizioni invece relative alla disciplina dello svolgimento e partecipazione sono quattro.
La lettera d) consente “l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze”.
La lettera e) consente “la celebrazione a porte chiuse…ai sensi dell’articolo 128 del codice di procedura civile, delle udienze civili pubbliche”.
La lettera f) consente “la previsione dello svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Lo svolgimento dell’udienza deve in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Prima dell’udienza il giudice fa comunicare ai procuratori delle parti ed al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, giorno, ora e modalità di collegamento. All’udienza il giudice dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà. Di tutte le ulteriori operazioni è dato atto nel processo verbale”.
La lettera h) consente “lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice”.
V. Il potere-dovere di disciplina dello svolgimento delle udienze e della partecipazione alle udienze come limite al potere di rinvio
Il potere di rinvio dei procedimenti è quello che, ad una lettura immediata, per primo risalta. Uno strumento tanto agevole per la giustizia di oggi quanto problematico per la giustizia di domani e dopodomani.
Il primo e immediato limite al potere di rinvio è quello prescritto dal numero 1 dell’art. 2, comma 2, lettera g) che indica i procedimenti esclusi in quanto valutati in astratto, o in concreto, come urgenti.
Il potere di rinvio del dirigente incontra un altro e generale limite che si deduce - oltre che dalla finalità normativa di “contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria” - dalle richiamate disposizioni che attribuiscono allo stesso il potere di disciplinare lo svolgimento delle udienze prevedendo specifiche modalità di partecipazione e trattazione.
Un’interpretazione diretta in modo stringente al fine - riduzione al minimo delle occasioni di contagio e preservazione al massimo delle normali attività giudiziarie - consente di affermare che è un potere-dovere del dirigente l’individuazione delle modalità alternative di partecipazione alle udienze.
Orientando in modo diverso la sintesi dei poteri attribuiti al dirigente può affermarsi che il primo potere-dovere allo stesso attribuito è quello di individuare le modalità alternative di svolgimento delle udienze e dei procedimenti e ciò al duplice fine di evitare, nei limiti del possibile, la partecipazione fisica nei procedimenti urgenti, e di evitare, il più possibile, il rinvio dei procedimenti non urgenti.
VI. Un sistema alternativo per la partecipazione alle udienze
L’interpretazione proposta consente di sistematizzare gli strumenti offerti dal decreto legge secondo la logica del miglior contemperamento tra l’esigenza della minor partecipazione orale e l’esigenza della massima continuità dell’attività giurisdizionale.
La sistematizzazione tiene altresì conto che allo stato non sempre gli uffici giudiziari, ovvero i difensori, sono adeguatamente forniti di strumenti e conoscenze utili allo svolgimento dell’udienza da remoto, modalità in astratto preferibile.
La modalità di svolgimento dell’udienza che, in concreto, per prima rileva - e che verrà trattata in questa sede - è quella che consente di tenere un’udienza figurata con partecipazione in forma scritta delle parti a mezzo dei soli difensori (lettera h). Laddove non sussistano i presupposti per fare ricorso a questa modalità, ovvero sia necessaria la presenza sia di parti che di difensori, rileva lo strumento della partecipazione da remoto (lettera f). Nel caso in cui non sussistano i presupposti, ovvero le condizioni, per l’utilizzo delle due modalità, l’udienza seguirà il modello codicistico con la possibilità di escluderne la pubblicità e di prevedere in modo specifico l’orario e le modalità di trattazione (lettere d-e). Nulla vieta che tali modalità siano combinabili.
VII. Comparizione e trattazione.
La trattazione della causa richiede la comparizione delle parti. L’art. 181 c.p.c. indica che la comparizione - concetto diverso dalla costituzione in giudizio - si concretizza nella presenza effettiva all’udienza della parte costituita, a mezzo di difensore. Presenza che è espressione dell’onere di partecipazione all’udienza, per la trattazione della causa, il cui riferimento normativo è nell’art. 176, secondo comma, c.p.c.
La trattazione della causa è orale, recita l’art. 180 c.p.c. Per trattazione il linguaggio del codice intende, in senso ampio, tutta l’attività che conduce al giudizio, dalla prima udienza sino a quella di precisazione delle conclusioni, ad esclusione della eventuale fase istruttoria. L’oralità della causa, con redazione del processo verbale, sta nella prevalenza di tale forma espressiva rispetto alla scrittura, dice Chiovenda, senza escludere quest’ultima. E sta ancora nella forma in cui i protagonisti del processo, dice Mandrioli, comunicano tra loro.
La trattazione della causa scritta - normativamente esclusa dalla soppressione della disposizione che prevedeva la possibilità per il giudice di autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell'art. 170, ultimo comma, c.p.c. - è stata inclusa nella prassi dello scambio di memorie, che parte della dottrina fonda sui poteri ex art. 175 c.p.c., utile ad evitare lunghe discussioni e interminabili verbalizzazioni.
Nel disegno codicistico quindi, almeno in tendenza, l’onere della partecipazione all’udienza è soddisfatto con la comparizione reale della parte (a mezzo di difensore, anche da remoto) che sola può consentire la trattazione orale della causa e quindi l’immediatezza e concentrazione della stessa.
La lettera h) cambia, ad oggi, il paradigma, perché l’onere della partecipazione può essere soddisfatto con una trattazione della causa in forma scritta che sola può favorire una comparizione figurata. In tal ordine di senso l’art. 83 bis disp. att. c.p.c., mai abrogato - secondo cui il giudice “quando autorizza la trattazione scritta della causa, a norma dell'articolo 180 primo comma del Codice [nella formulazione oggi abrogata], può stabilire quale delle parti deve comunicare per prima la propria comparsa, ed il termine entro il quale l'altra parte deve rispondere” - può tornare ad avere una ragione.
VIII. Comparizione figurata e trattazione in forma scritta
La lettera h) consente “lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice”.
La disposizione, come annunciato, si presta ad una interpretazione che esclude totalmente la trattazione orale in favore di una trattazione solo scritta.
Nelle udienze fissate per adempimenti in cui non è necessaria - anche perché non disposta - la presenza di soggetti processuali diversi dai difensori, il giudice ha la possibilità di provvedere senza che si sia svolta l’udienza con la comparizione reale dei difensori e quindi la relativa attività orale. L’onere di partecipazione, o meglio la sua soddisfazione, è assicurato garantendo la possibilità di uno scambio, con deposito telematico, di note scritte contenenti le medesime istanze e conclusioni proponibili oralmente. La comparizione è figurata, così come l’udienza, e il termine per provvedere decorre dalla data della stessa.
Una diversa e contenuta interpretazione - secondo cui per dette udienze sarebbe possibile escludere la presenza di tutti i soggetti del processo, salvo i difensori (con una limitazione ulteriore quindi rispetto a quella della lettera e), chiamati solo a “riportarsi” a quanto già dedotto per forma scritta - appare incongrua con gli scopi emergenziali, se non in contrasto con gli stessi, inducendo i difensori a frequentare le udienze per attività spesso superflue.
Le udienze escluse dalla comparizione figurata
Una lettura rigida della norma tesa ad escludere dal novero delle udienze “che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti”, quindi a comparizione figurata, tutte quelle in cui è ammessa la presenza delle parti personalmente impedirebbe la sua applicazione a tutte le udienze civili, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 84 disp. att. c.p.c., le parti possono partecipare a qualsiasi udienza inerente la loro causa (purché assistano in silenzio).
Al contrario, proprio al fine di attribuire una qualche operatività alla disposizione in commento, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto fare riferimento a quelle udienze per il cui svolgimento è sufficiente la presenza dei difensori.
Di conseguenza, le udienze escluse dalla possibilità di partecipazione scritta sono di certo:
a) le udienze in cui è richiesta la comparizione personale delle parti (ad esempio: udienza di tentativo di conciliazione ex art. 185 c.p.c.; udienza davanti al presidente nei procedimenti di separazione e divorzio);
b) le udienze di escussione dei testimoni e di espletamento dell’interrogatorio formale;
c) le udienze di giuramento del c.t.u. ex art. 193 c.p.c. e quelle in cui il c.t.u. comunque interviene su disposizione del giudice ai sensi dell’art. 197 c.p.c. (tenuto peraltro conto che in queste occasioni possono presenziare anche i consulenti tecnici di parte ex art. 201 c.p.c.);
d) comunque tutte quelle udienze che necessitino, ex lege o per ordine del giudice, la partecipazione di soggetti ulteriori rispetto ai difensori della parti muniti di valida procura ad litem.
La ratio legislativa del limite così imposto si comprende: da un lato, in ragione della frustrazione dell’utilità processuale di alcuni istituti (un interrogatorio formale reso per iscritto sarebbe decisamente privo di significato); da un altro lato, con la difficoltà oggettiva per i soggetti diversi dai difensori di prendere parte all’udienza a mezzo di scritti (appare quanto mai complicato tentare la conciliazione dei coniugi separandi/divorziandi sulla base di una loro semplice deposizione scritta); da un altro lato ancora, alla luce delle dinamiche processuali che possono scaturire da udienze più partecipate (si pensi, ad esempio, alle eccezioni e alle istanze che possono essere avanzate all’esito di una testimonianza o una volta ascoltati i chiarimenti resi dal c.t.u.), che necessitano della contestualità e non potrebbero essere agevolmente condensate in una nota scritta nemmeno dai difensori.
Gli strumenti dell’attività difensionale
L’attività propria dell’udienza figurata avviene “mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte”.
Lo spazio di manovra difensionale è dunque concentrato nello scambio e nel deposito telematico di note scritte.
Quanto allo scambio, non vengono specificate le modalità in cui questo debba esplicarsi. Tuttavia, lungi dal ritenere che il legislatore emergenziale abbia inteso rievocare lo scambio di memorie disciplinato dagli artt. 164 e ss. del codice di procedura civile del 1865 (con notifica all’uffizio del procuratore della controparte certificata dall’usciere), è immaginabile che, alla luce della piena operatività del processo civile telematico, scambio e deposito siano attività da intendere congiuntamente; e ciò perché il deposito telematico di un documento ha il duplice effetto di perfezionare la sua acquisizione agli atti del fascicolo telematico e consentirne la ricezione nella sfera di conoscenza della controparte (che può agilmente prenderne visione in via telematica).
Peraltro, per non svuotare totalmente di contenuto il riferimento all’operazione di “scambio”, è pure prospettabile che la disposizione suggerisca di regolare cronologicamente il deposito delle note difensive (ad esempio con la concessione di termini sfalsati) in modo da garantire una più efficace interlocuzione tra le parti.
Il principio di sintesi e lo scopo delle note scritte
Le note depositabili in vista dell’udienza a comparizione figurata non possono essere altro che scritti “contenenti le sole istanze e conclusioni”. Nel concetto di istanze possono intendersi incluse domande ed eccezioni.
Previdentemente, la norma circoscrive il contenuto delle note, vietando così che le stesse possano surrettiziamente integrare nuovi atti processuali esorbitanti le istanze e le conclusioni che possono prospettarsi in un’udienza di rito.
Il provvedimento del giudice
Una volta assicurato lo scambio/deposito delle note scritte, le difese delle parti hanno trovato la loro compiuta cristallizzazione e sull’udienza può calare il sipario con il provvedimento del giudice.
La lettera h) parla di “adozione fuori udienza del provvedimento” ma, a ben vedere, se lo stesso legislatore ricollega i passaggi citati in un unico composito “svolgimento” dell’udienza, bisognerebbe riconoscere che il provvedimento del giudice possa anche avvenire in udienza: vale a dire, il giorno stesso fissato per l’udienza, alla luce delle note scritte depositate dalle parti. Alternativamente, il giudice, al pari di una riserva, potrà statuire sulle istanze e sulle eccezioni delle parti successivamente (e allora sì che emetterà un provvedimento fuori udienza).
IX. Le regole generali per la comparizione figurata e la trattazione scritta
Prima di esaminare le modalità di trattazione secondo i vari riti, appare utile riassumere qui di seguito le regole pratiche che potrebbero governare l’udienza a comparizione figurata.
1) Le udienze che richiedono la presenza di soggetti ulteriori rispetto ai difensori – ad esempio, testimoni, parte interroganda, parte per gli adempimenti ex art. 420 c.p.c., ausiliare giudiziale - sono escluse dalla comparizione figurata e dalla trattazione scritta.
2) La data di udienza è quella fissata a norma di legge per la prima comparizione (artt. 168 bis, 415, 702 bis c.p.c.) o quella giudizialmente stabilita per il rinvio. Il luogo dell’udienza rimane l’aula allo scopo destinata, in cui il magistrato è presente personalmente.
3) Il giudice, prima della data di udienza, con provvedimento d’ufficio (ovvero nel decreto di differimento, se trattasi di udienza di prima comparizione, ovvero nel decreto di fissazione, in caso di ricorso): invita le parti al deposito di note scritte congiunte per l’udienza fino a quattro giorni prima della stessa; assegna alle parti, in subordine al mancato accordo sul deposito di note congiunte, i termini (preferibilmente sfalsati) per lo scambio/deposito delle note scritte ai fini della prima udienza; fornisce eventuali indicazioni sullo svolgimento dell’udienza a comparizione figurata.
Se il giudice non provvede, le parti sono comunque autorizzate alla comparizione figurata con il deposito di note scritte. Se le note sono congiunte il termine è fino a quattro giorni prima dell’udienza. Se le note sono disgiunte il termine per l’attore è fino a quattro giorni prima dell’udienza e per il convenuto è fino a due giorni prima.
4) Le parti, entro i termini assegnati o previsti, provvedono al deposito telematico delle note scritte.
È preferibile, nel solco del principio di leale collaborazione, che i difensori depositino un’unica nota congiunta (alla stregua delle “Note di udienza” di cui al sito note.didirittopratico.it, già in uso da tempo presso alcuni tribunali) in cui dare già conto dello sviluppo alternato delle rispettive difese (ad esempio: “L’avv. Tizio per parte attrice disconosce il documento n. 1 allegato alla comparsa di controparte. L’avv. Caio per parte convenuta, preso atto del disconoscimento, ne chiede la verificazione con ammissione di c.t.u. grafologica. L’avv. Tizio si oppone e, in caso di accoglimento dell’istanza di verificazione, chiede termine per poter articolare mezzi di prova sul punto”).
Le parti, benché la condotta possa risultare distonica rispetto alla leale collaborazione, restano comunque libere di depositare note scritte sino al giorno di udienza, nel termine orario fissato per la trattazione della causa più un’ora (così se l’udienza è fissata per le 9.15, il termine scade alle ore 10.15).
5) Le note scritte per la comparizione figurata sono esclusivamente relative all’attività d’udienza. Esse devono contenere, sinteticamente, solo istanze (domande ed eccezioni; ad esempio: “l’Avv. Tizio eccepisce l’improcedibilità della domanda di controparte per violazione dell’art. X”), conclusioni (“l’Avv. Caio precisa le conclusioni riportandosi all’atto di citazione”) o deduzioni discussionali, in caso di udienza di discussione (“l’Avv. Sempronio discute la causa riportandosi ai precedenti scritti difensivi”).
6) Il giudice può:
6.1.) redigere il verbale, il giorno dell’udienza, in cui prende atto della comparizione mediante il deposito delle note scritte pervenute ai fini di udienza e riservarsi o disporre per il prosieguo su quanto richiesto;
6.2.) non redigere il verbale (la cui necessità non è sancita espressamente dall’art. 2, co. 2, lett. h, decreto legge 8 marzo 2020, n. 11) ed emettere il giorno dell’udienza il proprio provvedimento in cui, preliminarmente, dà atto delle note scritte pervenute ai fini di udienza.
6.3.) non redigere il verbale ed emettere fuori udienza il proprio provvedimento sempre dando atto, preliminarmente, della comparizione delle parti mediante note scritte. Il termine per il deposito del provvedimento è quello previsto per ciascuna tipologia di riserva o atto decisorio.
7) Il mancato deposito della nota scritta, entro il termine stabilito o al più tardi entro il giorno dell’udienza (nel termine orario fissato per la trattazione della causa più un’ora) equivale alla non comparizione; sicché, qualora nessuna delle parti abbia depositato le note scritte, si procederà ai sensi dell’art. 309 c.p.c.
8) Nel rito ordinario, nel caso in cui il giudice, all’esito dell’udienza di precisazione delle conclusioni, intenda procedere ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., ordina la discussione orale e fissa all’uopo un’udienza successiva, assegnando alle parti un termine per il deposito di note contenenti le deduzioni discussionali. In alternativa, nel provvedimento con cui il giudice fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni, può già ordinare la discussione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. (eventualmente dando alle parti i termini per il deposito di memorie conclusionali, ad esempio 30 giorni prima dell’udienza). All’udienza così fissata le parti potranno comparire in modo figurato depositando note scritte contenti le deduzioni discussionali.
9) Nel rito del lavoro, per garantire l’effettività della discussione ex art. 429 c.p.c., le parti, prima dell’udienza, depositano note contenenti le rispettive deduzioni discussionali entro il termine stabilito dal giudice (fatta salva comunque per il giudice la possibilità di concedere alle parti un altro termine per il deposito di memorie scritte).
X. Il rito ordinario
L’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. rientra certamente tra quelle che possono svolgersi virtualmente.
Il deposito di una nota congiunta delle parti è la modalità preferibile. In caso di mancanza della nota congiunta è auspicabile che vengano assegnati termini sfalsati; ma questo solamente nell’ipotesi in cui la costituzione del convenuto sia avvenuta tempestivamente nel termine di cui all’art. 167 c.p.c. o comunque entro un termine tale da consentire all’attore di preparare delle minime repliche per iscritto. In tal caso, la scansione dei termini può avvenire con l’assegnazione:
- di un primo termine (ad esempio, quattro giorni prima dell’udienza) all’attore per depositare la propria nota in cui, oltre a poter precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, potrà prendere posizione in ordine alle difese del convenuto, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ex art. 183, comma 5, c.p.c.;
- di un termine successivo (ad esempio, due giorni prima dell’udienza) al convenuto per depositare la propria nota in cui, oltre a poter precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, potrà replicare alle deduzioni ed eccezioni dell’attore.
Nelle cause contumaciali o in quelle in cui la costituzione del convenuto avvenga troppo a ridosso dell’udienza o per la stessa, il termine per il deposito delle note non potrà che corrispondere al giorno di udienza. In quest’ultimo caso, e comunque ogni qual volta ritenga le difese spiegate dalle parti richiedano un’ulteriore interlocuzione nel contraddittorio, il giudice può rinviare ad altra udienza fissando nuovi termini per note deduttive.
Il giudice, quindi, con provvedimento in udienza o successivo alla stessa (entro trenta giorni ex art. 183, comma 7, c.p.c.), provvederà sulle istanze e richieste dedotte-
L’udienza di ammissione dei mezzi istruttori
L’udienza di ammissione dei mezzi istruttori è quella che più si presta alla trattazione scritta in commento.
Infatti, prima dell’udienza (ad esempio, quattro giorni prima), le parti procederanno al deposito delle proprie note con cui potranno riportarsi alle memorie istruttorie e muovere contestazione (sintetica) delle sole (eventuali) istanze avversarie formulate nella terza memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.
Il giudice, quindi, con provvedimento in udienza o successivo alla stessa (entro trenta giorni ex art. 183, comma 7, c.p.c.), provvederà sulle richieste istruttorie fissando l’udienza di cui all’art. 184 per l’assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti.
L’udienza di precisazione delle conclusioni
Come per l’udienza di ammissione dei mezzi istruttori, anche quella di precisazione delle conclusioni non trova grandi ostacoli nella comparizione figurata: prima dell’udienza (ad esempio, tre giorni prima), le parti procederanno al deposito delle note contenenti le rispettive conclusioni.
Il giudice, quindi, con provvedimento in udienza (virtuale) o successivo alla stessa, stabilirà se:
- trattenere la causa in decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.;
- procedere nelle forme e nei termini dell’art. 281 quinquies, comma 2, c.p.c., dovendo allora assegnare alle parti un ulteriore termine (rispetto a quello per il deposito delle comparse conclusionali), a ridosso dell’udienza (ad esempio, tre giorni prima), per depositare note di udienza contenenti le deduzioni discussionali;
- ordinare la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c.; in tal caso, non potrà procedere al deposito della sentenza ma fisserà un’udienza successiva, assegnando alle parti un termine per il deposito di note contenenti le deduzioni discussionali; solo all’esito di questa successiva udienza, soddisfatta l’attività discussionale (figurata), potrà depositare la sentenza con sottoscrizione del verbale ex art. 281, comma 2, sexies c.p.c. In alternativa, nel provvedimento con cui il giudice fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni, può già ordinare la discussione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. (eventualmente dando alle parti i termini per il deposito di memorie conclusionali, ad esempio 30 giorni prima dell’udienza). All’udienza così fissata le parti potranno comparire in modo figurato depositando note scritte contenenti le deduzioni discussionali.
XI. Il rito sommario di cognizione
Alla trattazione scritta delle udienze previste nel rito sommario di cognizione potrà procedersi sulla falsariga di quanto avviene nel rito ordinario.
Così, all’udienza di prima comparizione, a meno che le parti non depositino una nota congiunta, è preferibile che vengano assegnati termini sfalsati; nell’ipotesi in cui la costituzione del convenuto sia avvenuta tempestivamente nel termine di cui all’art. 702 bis, co. 2, c.p.c. o comunque entro un termine tale da consentire all’attore di preparare delle minime repliche per iscritto. In tal caso, la scansione dei termini può avvenire con l’assegnazione:
- di un primo termine (ad esempio, quattro giorni prima dell’udienza) all’attore per depositare la propria nota in cui, oltre a poter precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, potrà prendere posizione in ordine alle difese del convenuto, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo;
- di un termine successivo (ad esempio, due giorni prima dell’udienza) al convenuto per depositare la propria nota in cui, oltre a poter precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, potrà replicare alle deduzioni ed eccezioni dell’attore.
Nelle cause contumaciali o in quelle in cui la costituzione del convenuto avvenga troppo a ridosso dell’udienza, il termine per il deposito delle note non potrà che corrispondere al giorno di udienza.
In quest’ultimo caso, e comunque ogni qual volta ritenga le difese spiegate dalle parti richiedano un’ulteriore interlocuzione nel contraddittorio, il giudice può rinviare ad altra udienza fissando nuovi termini per note deduttive.
Per l’udienza di assunzione dei mezzi di prova non può trovare applicazione la modalità di comparizione figurata in commento.
Ai fini dell’udienza eventualmente fissata per la discussione conclusiva, il giudice assegnerà alle parti un termine (ad esempio, quattro giorni prima dell’udienza) per il deposito di note scritte contenenti le conclusioni.
XII. Il rito del lavoro
Il rito lavoristico, quantomeno per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c., si presta con minor favore alle ipotesi di comparizione figurata e di trattazione scritta della lettera h. Il rito realizza difatti con vigore i principi di oralità, immediatezza e concentrazione e vede la presenza personale della parte come un elemento tendenzialmente coessenziale, non solo per gli adempimenti previsti dall’art. 420 c.p.c. Per il processo previdenziale, almeno tendenzialmente, le problematiche di una trattazione scritta sono minori.
La trattazione delle cause di lavoro quindi non potrà esser scritta, e la comparizione non potrà esser figurata, poiché l’interrogatorio libero, e un’efficace tentativo di conciliazione, richiedono la comparizione reale della parte personalmente. Un margine di possibilità è per quelle cause in cui l’interrogatorio libero non ha peculiare valore ovvero in cui il tentativo di conciliazione è tendenzialmente fallimentare (come avviene ad esempio, per l’uno e l’altro caso, in molte delle cause di pubblico impiego). Per tali ipotesi - ferma restando la possibilità per il giudice di formulare per iscritto la proposta conciliativa all’esito della prima udienza - la trattazione scritta è possibile se entrambe le parti rinunciano preventivamente all’interrogatorio libero, fatta salva comunque la diversa determinazione del giudice che le convocherà nell’udienza ordinaria.
La trattazione scritta della causa con comparizione figurata ha comunque dei margini di concrete possibilità, considerando che, con frequenza, le cause di lavoro non si esauriscono in una sola udienza.
In relazione alla prima udienza - che tendenzialmente termina con la decisione o la riserva in merito all’ammissione dei mezzi istruttori o con il rinvio per la discussione - la trattazione è possibile solo nei limiti prima descritti.
Per l’udienza successiva alla prima, ossia quella di discussione (essendo esclusa l’udienza dedicata all’assunzione dei mezzi istruttori) la trattazione scritta della causa con comparizione figurata non presenta particolari ostacoli. Le parti, prima dell’udienza, depositano note contenenti le rispettive deduzioni discussionali entro il termine stabilito dal giudice (fatta salva comunque per il giudice la possibilità di concedere alle parti un altro termine per il deposito di memorie scritte).
XIII. Il rito cautelare e camerale
Per le udienze previste nel procedimento cautelare ex art. 669 sexies c.p.c. e nel procedimento camerale ex artt. 737 e ss. c.p.c. (che disciplina anche la fase di reclamo cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c.) ci si può modellare sullo schema già elaborato con riferimento all’udienza di prima comparizione nel rito ordinario.
Pertanto, a meno che le parti non depositino una nota congiunta, è preferibile che vengano assegnati termini sfalsati; nell’ipotesi in cui la costituzione del resistente sia avvenuta tempestivamente nel termine fissato dal giudice o comunque entro un termine tale da consentire al ricorrente di preparare delle minime repliche per iscritto. In tal caso, la scansione dei termini può avvenire con l’assegnazione:
- di un primo termine (ad esempio, cinque giorni prima dell’udienza) al ricorrente per depositare la propria nota in cui potrà prendere posizione in ordine alle difese del resistente;
- di un termine successivo (ad esempio, due giorni prima dell’udienza) al resistente per depositare la propria nota in cui potrà replicare alle deduzioni ed eccezioni del ricorrente.
Nelle cause contumaciali o in quelle in cui la costituzione del resistente avvenga troppo a ridosso dell’udienza, il termine per il deposito delle note non potrà che corrispondere al giorno di udienza.
In quest’ultimo caso, e comunque ogni qual volta ritenga le difese spiegate dalle parti richiedano un’ulteriore interlocuzione nel contraddittorio, il giudice può rinviare ad altra udienza fissando nuovi termini per note deduttive.
Per l’udienza di assunzione di eventuali mezzi di prova (qualora, ad esempio, nell’ambito di un procedimento ex art. 700 c.p.c., si disponga l’audizione di informatori o la nomina di un c.t.u.) non può trovare applicazione la modalità di trattazione scritta in commento.
Ai fini dell’udienza eventualmente fissata per la discussione conclusiva, il giudice assegnerà alle parti un termine (ad esempio, quattro giorni prima dell’udienza) per il deposito di note scritte contenenti le conclusioni.
RITO ORDINARIO
Udienza |
Comparizione figurata
|
Modalità e termini*
|
prima comparizione (183 c.p.c.)
|
SÌ |
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) termini sfalsati entro 4 giorni e entro 2 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti e il convenuto si costituisce tempestivamente)
C) note entro il giorno di udienza (se non c’è accordo tra le parti e il convenuto non si costituisce tempestivamente).
|
ammissione dei mezzi istruttori |
SÌ
|
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) note separate entro 4 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti)
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assunzione mezzi di prova (184 c.p.c.)
|
NO |
|
giuramento c.t.u. (193 c.p.c.)
|
NO |
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precisazione delle conclusioni (189 c.p.c.)
|
SÌ
|
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) note separate entro 4 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti)
|
|
|
* In ogni caso, le parti sono libere di depositare note separate entro il giorno di udienza. Il termine orario è un’ora dopo l’orario fissato per l’udienza (se l’udienza è fissata per le ore 9.30, il termine è per le ore 10.30)
|
RITO SOMMARIO DI COGNIZIONE
Udienza |
Comparizione figurata
|
Modalità e termini*
|
prima comparizione
|
SÌ |
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) termini sfalsati entro 4 giorni e entro 2 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti e il convenuto si costituisce tempestivamente)
C) note entro il giorno di udienza (se non c’è accordo tra le parti e il convenuto non si costituisce tempestivamente). |
assunzione mezzi di prova/ giuramento c.t.u.
|
NO |
|
discussione conclusiva
|
SÌ
|
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) note separate entro 4 giorni prima (se c’è non accordo tra le parti)
|
|
|
* In ogni caso, le parti sono libere di depositare note separate entro il giorno di udienza. Il termine orario è un’ora dopo l’orario fissato per l’udienza (se l’udienza è fissata per le ore 9.30, il termine è per le ore 10.30) |
RITO LAVORO
Udienza |
Comparizione figurata
|
Modalità e termini*
|
discussione (420 c.p.c.)
|
NO |
|
assunzione mezzi di prova/ giuramento c.t.u.
|
NO |
|
discussione (429 c.p.c.)
|
SÌ
|
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) note separate entro 4 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti)
|
|
|
* In ogni caso, le parti sono libere di depositare note separate entro il giorno di udienza. Il termine orario è un’ora dopo l’orario fissato per l’udienza (se l’udienza è fissata per le ore 9.30, il termine è per le ore 10.30) |
RITO CAUTELARE E RITO CAMERALE
Udienza |
Comparizione figurata
|
Modalità e termini*
|
trattazione
|
SÌ |
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) termini sfalsati entro 4 giorni e entro 2 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti e il convenuto si costituisce tempestivamente)
C) note entro il giorno di udienza (se non c’è accordo tra le parti e il convenuto non si costituisce tempestivamente). |
assunzione mezzi di prova/ giuramento c.t.u. |
NO |
|
discussione conclusiva
|
SÌ
|
A) nota congiunta entro 4 giorni prima (se c’è accordo tra le parti)
B) note separate entro 4 giorni prima (se non c’è accordo tra le parti)
|
|
|
* In ogni caso, le parti sono libere di depositare note separate entro il giorno di udienza. Il termine orario è un’ora dopo l’orario fissato per l’udienza (se l’udienza è fissata per le ore 9.30, il termine è per le ore 10.30) |
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