ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Amministrazione di sostegno e libertà di donare (nota a Corte cost.n.114/2019)
di Eugenia Serrao
SOMMARIO: 1. La sentenza di rigetto. – 2. La giurisprudenza di legittimità in tema di amministrazione di sostegno. – 3. La libertà di donare. – 4. La donazione come atto personalissimo. – 5. L’interesse esistenziale del donante. – 6. L’interesse esistenziale del beneficiario di amministrazione di sostegno. 7. Il potere-dovere di controllo dell’amministratore di sostegno. – 8. Il compito del giudice tutelare.
1. La sentenza di rigetto.
La Corte Costituzionale ha scelto la via della sentenza di rigetto per infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.774, primo comma, primo periodo, cod. civ. promossa con ordinanza datata 19 febbraio 2018 del giudice tutelare del Tribunale di Vercelli. Il giudice a quo aveva fornito un’interpretazione secondo la quale la norma impugnata «non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte dei beneficiari di amministrazione di sostegno», precisando che la questione non era stata oggetto di specifiche pronunce della Corte di Cassazione.
2. La giurisprudenza di legittimità in tema di amministrazione di sostegno.
La pronuncia appena citata s’inserisce, peraltro, nel solco di un orientamento interpretativo, ripetutamente espresso dalla Corte di Cassazione, riguardante la sostanziale difformità di presupposti applicativi e di finalità degli istituti «incapacitanti» (interdizione ed inabilitazione), da un lato, e dell’amministrazione di sostegno, dall’altro. I primi tendenti a privare, in tutto o in parte, della capacità di agire coloro che, oltre a presentare una condizione d’infermità, non fossero in alcun modo in grado di provvedere alle proprie, pur minime, esigenze di vita; il secondo, al contrario, volto in positivo a valorizzare le residue capacità della persona, indipendentemente dal grado d’infermità (Cass. Sez.1, sent. del 26/07/2013, n.17962).
3. La libertà di donare.
Fin qui le questioni correlate alla conformità della norma ai principi espressi nella Carta costituzionale, calibrate sull’interpretazione dell’istituto sposata dalla giurisprudenza di legittimità.
4. La donazione come atto personalissimo. Occorre, qui, evidenziare che, sebbene al beneficiario di amministrazione di sostegno sia riconosciuta in linea di principio la «libertà di agire», che non spetta alla persona interdetta o inabilitata (ma non si dimentichi la capacità di testare dell’inabilitato desumibile a contrario dalla eccezionalità della norma dettata dall’art.591 cod. civ. rispetto alla regola della capacità, dunque dalla tassatività dell’elenco ivi contenuto), è anche vero che, argomentando dalla nullità del mandato a donare (art.778, primo comma, cod. civ.), la donazione è in dottrina inclusa nel novero dei cosiddetti atti personalissimi: atti giuridici, cioè, che non possono essere compiuti a mezzo di un rappresentante (cfr. art.777, primo comma, cod. civ.).
5. L’interesse esistenziale del donante. Se si supera il dualismo capacità del soggetto-interesse del soggetto, e si accede all’impostazione logica per cui i diversi profili che attengono al medesimo fatto giuridico sono tra loro concorrenti, si deve anche stabilire una gerarchia di valori. Nella gerarchia di valori di matrice costituzionale, gli interessi patrimoniali sono funzionali alla realizzazione dei valori esistenziali della persona, come in sostanza conferma la motivazione della sentenza in commento.
6. L’interesse esistenziale del beneficiario di amministrazione di sostegno.
In ogni caso, la natura non vincolante della sentenza di rigetto, in particolare della pronuncia di infondatezza non inquadrabile tra le «interpretative» di rigetto, sprona ad arare un ulteriore profilo, che merita particolare attenzione proprio con riguardo alla norma che disciplina l’incapacità di donare.
7. Il potere-dovere di controllo dell’amministratore di sostegno.
Se, dunque, si pone l’accento sul potere di controllo piuttosto che sul potere di rappresentanza o di assistenza spettanti all’amministratore, ecco che più agevole risulterà superare i suindicati punti di frizione.
8. Il compito del giudice tutelare.
L’attenzione può, ora, concentrarsi sul tema più stringente per l’interprete, al quale la sentenza in commento ha riconsegnato il compito di stabilire sulla base di quali valutazioni ed in presenza di quali presupposti di fatto il giudice tutelare debba orientarsi per decidere se al beneficiario di amministrazione di sostegno debba o meno estendersi, a norma dell’art.411, quarto comma, cod. civ., il divieto previsto dall’art.774, primo comma, cod. civ. E quale sia, in altre parole, l’interesse tutelato dalla predetta disposizione da bilanciare, ove con esso in conflitto, con l’interesse del beneficiario stesso.
Tale premessa è di fondamentale rilievo per comprendere la scelta dei giudici costituzionali di addivenire ad una sentenza di rigetto per infondatezza. La Corte Costituzionale pronuncia, infatti, la sentenza di rigetto per infondatezza quando risolve una questione di legittimità costituzionale semplice e chiara, da un lato limitandosi ad esaminare la disposizione di legge nel significato normativo individuato dal giudice a quo, dall’altro ritenendo comunque che l’interpretazione del giudice remittente non sia peregrina, inconsistente, in altre parole erronea.
La diversa strada da percorrere, ossia la pronuncia di una sentenza “interpretativa”, si sarebbe potuta intraprendere in quest’ultimo caso, per correggere l’interpretazione fornita alla norma dal giudice di merito. Ad analogo esito, si sarebbe giunti qualora la Corte Costituzionale avesse potuto fornire un’interpretazione secondo diritto vivente, correttiva dell’interpretazione della norma fornita dal giudice di merito.
Tenendo conto del fatto che, nel momento in cui la questione è stata rimessa alla decisione del giudice costituzionale, effettivamente poteva constatarsi l’assenza di un’interpretazione della norma impugnata consolidata nella giurisprudenza di legittimità, in guisa da non potersi dire già sussistente sul punto un diritto vivente ed essendo, tuttavia, già sottoposte al vaglio del giudice di legittimità questioni coinvolgenti la capacità di donare del beneficiario di amministrazione di sostegno (Cass. Sez.1, ord. del 21/05/2018, n.12460), la pronuncia della Consulta risulta apprezzabilmente rispettosa, da un lato, della funzione ermeneutica del giudice a quo e, dall’altro, della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione.
Il giudice delle leggi rigetta la richiesta di una pronuncia additiva formulata dal giudice tutelare di Vercelli, secondo il quale l’art.774, primo comma, prima parte, cod. civ. sarebbe costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno», escludendo che il divieto di donare ivi previsto si estenda al beneficiario di amministrazione di sostegno.
In difetto di espressa previsione normativa in un senso o nell’altro, la questione interpretativa s’incentrava sul significato normativo della locuzione «coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni», così essendo indicati dalla norma i soggetti destinatari del divieto in parola.
La pronuncia premette un richiamo, questa volta, al diritto vivente che ha escluso l’applicazione analogica all’amministrazione di sostegno delle disposizioni codicistiche riguardanti l’interdizione e l’inabilitazione. La Corte di Cassazione (Cass. Sez.1, sent. del 11/05/2017, n.11536) aveva, infatti, espresso a chiare lettere che «i due istituti, l’uno diretto all’incapacitazione, l’altro al sostegno, ossia alla protezione di quei barlumi di capacità, quali che siano, non compromessi, lungi dal caratterizzarsi per l’analogia dell’uno con l’altro, si collocano su piani totalmente diversi» e che «una generalizzata applicazione delle limitazioni dettate per l’interdetto, per via di analogia, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno è senz’altro da escludere», come peraltro desumibile a contrario dalla previsione dell’art.411, ultimo comma, cod.civ. In base a tale norma spetta, infatti, all’autorità giudiziaria disporre, nell’esclusivo interesse del beneficiario, talune limitazioni tipicamente previste per l’interdetto o per l’inabilitato, da ciò desumendosi che nessuna di dette limitazioni sia imposta in via generale ed astratta dal legislatore con riguardo a tale beneficiario.
La pronuncia in commento disvela l’ulteriore profilo per cui anche un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma non lascia margini di dubbio circa l’estraneità del beneficiario di amministrazione di sostegno al novero di «coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni», ferma restando la possibilità di estendergli, ove necessario, tale limitazione ai sensi dell’art.411, quarto comma, primo periodo, cod. civ. Interessante il richiamo ai diritti inviolabili espressi nell’art.2 Cost., questa volta con riferimento alla dimensione sociale dell’individuo ed all’esplicazione della «libertà della persona di donare gratuitamente il proprio tempo, le proprie energie e…ciò che le appartiene».
Il diritto vivente espresso dall’autorità giudiziaria in funzione nomofilattica è, oltretutto, in linea con lo spirito della legge efficacemente delineato dalla stessa Consulta sin dal 2005. All’indomani dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004, n.6, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.404, 405, numeri 3 e 4, 409, 413, ultimo comma, e 418, ultimo comma, cod. civ., la Corte Costituzionale aveva specificato che solo le misure dell’interdizione e dell’inabilitazione conferivano al destinatario del provvedimento «uno status di incapacità» (Corte Cost. n.440 del 9 dicembre 2005), potendosi oggi ritenere pacifico quanto ribadito nella pronuncia qui in commento a proposito del fatto che il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno «non determina uno status di incapacità delle persone, a cui debbano riconnettersi automaticamente i divieti e le incapacità che il codice civile fa discendere come necessaria conseguenza della condizione di interdetto o di inabilitato».
Frutto di una visione «basagliana» della fragilità umana, la legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno ha rivoluzionato il sistema normativo destinato a disciplinare la capacità di agire dei soggetti deboli. Nella giurisprudenza di legittimità, tale intervento riformatore è stato salutato con significativo favore e sin da subito reso accessibile a prescindere dal grado d’infermità dell’interessato (Cass. Sez.1, sent. del 12/06/2006, n.13584), fino ad intendere l’istituto quale efficace strumento di tutela della dignità della persona, ossia quale declinazione del principio espresso nell’art.2 Cost., con specifico riguardo all’idoneità della misura a conservare quanto più possibile la capacità di agire del destinatario e finanche quale espressione dell’esigenza di privilegiare, nel bilanciamento degli interessi in gioco, il principio di autodeterminazione del singolo (Cass. Sez.1, sent. del 27/09/2017, n.22602).
Con la misura dell’amministrazione di sostegno si è inteso porre in luce che, non il diritto positivo ma, soltanto gli oggettivi limiti causati da una concreta condizione di disabilità possono incidere sulla capacità della persona di compiere quelle manifestazioni di volontà, idonee a modificare la propria situazione giuridica, in cui si sostanziano gli atti giuridici, attribuendo all’autorità giudiziaria il compito istruttorio di verificare se ed in che misura la condizione limitativa dell’autonomia del singolo si debba estendere a tali atti.
Nelle more del giudizio incardinato dinanzi alla Consulta, interveniva una pronuncia della Corte di Cassazione sul tema in questione, sulla quale si tornerà infra, espressamente menzionata nella sentenza in esame (Cass. Sez.1, ord. 21/05/2018, n.12460), a conferma della linea interpretativa più volte richiamata nel corpo della motivazione e della corretta posizione assunta dal giudice costituzionale a fronte di un diritto vivente già chiaro sul generale tema della non incidenza dell’amministrazione di sostegno sullo status di capacità del beneficiario ma non ancora tale sulla specifica questione sollevata dal giudice a quo.
Ma la pronuncia in commento merita ulteriore attenzione anche per la qualificazione della capacità di donare quale espressione di una libertà riconosciuta a livello costituzionale in quanto funzionale all’adempimento dei doveri di solidarietà richiamati nell’art.2 Cost. L’affermazione per cui comprimere senza un’obiettiva necessità la libertà di donare costituirebbe un ostacolo allo sviluppo della personalità ed una violazione della dignità umana s’intreccia con il tema della solidarietà sociale per la possibilità di alimentare le relazioni sociali anche «grazie a gesti di solidarietà».
Si tratta di un’affermazione che pone in relazione la «libertà della persona di donare gratuitamente il proprio tempo, le proprie energie e, come nel caso in oggetto, ciò che le appartiene» con l’adempimento di doveri di solidarietà sociale. Il passaggio è di rilievo laddove sembra che il giudice costituzionale intenda ascrivere alla summenzionata capacità di donare, trasformata in diritto di libertà, il rango di diritto fondamentale; così, di fatto, ponendo le premesse per un giudizio di prevalenza nel bilanciamento del relativo interesse rispetto, ad esempio, ad interessi di natura patrimoniale[1]. D’altro canto, ove si volesse accedere al distinto profilo dell’adempimento di doveri di solidarietà sociale, e fatta salva la compatibilità di tale inquadramento con la costruzione dogmatica dell’atto di liberalità, la libertà del singolo cede il passo ai diritti individuali sociali in una visione tendente ad integrare l’individuo nella società in cui vive.
Tale riflessione non è nuova. Un’attenta dottrina[2] già aveva sottolineato il dovere di solidarietà familiare quale canone di matrice costituzionale del diritto ereditario, al quale la disciplina della donazione viene associata trattandosi di atti di pura attribuzione, anche per individuare la ratio della comune disciplina dell’incapacità naturale[3].
Ed anche per quanto riguarda la disposizione dell’art.774 cod.civ., si è detto, essa sarebbe ultronea ove la si interpretasse come regola che vieta la donazione a chi non ha la capacità di agire, giacchè questa è regola comune a tutti i contratti; il significato della disposizione non andrebbe, dunque, ricercato nel richiamo ai riflessi della carenza di un requisito soggettivo del negozio[4] quale la capacità di agire. Si tratta, piuttosto, di una disposizione che vieta la donazione con le forme abilitative richieste, ossia mediante la rappresentanza del tutore o l’assistenza del curatore, in ciò ponendo una regola che differenzia la donazione dagli altri contratti.
Secondo un’impostazione dottrinaria, il giudice tutelare, non potendo attribuire all’amministratore di sostegno il potere di compiere tali atti in rappresentanza del beneficiario, si troverebbe nella impossibilità di esercitare un’attività di controllo e sarebbe di fatto obbligato ad applicare al beneficiario proprio la limitazione prevista dall’art.774, primo comma, cod. civ.[5].
Nella prassi giurisprudenziale si rinvengono numerose pronunce che hanno ritenuto che l’amministratore di sostegno possa essere autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario atti giuridici come il consenso ad atti terapeutici (Cass. Sez.1, sent. del 7/06/2017, n.14158), il consenso al ricovero in residenza psichiatrica (Trib. Modena 28/07/2016), l’impugnazione del matrimonio (Trib. Roma 4/03/2016), la proposizione della domanda di separazione o di divorzio (Trib. Catania 15/01/2015). Si tratta, a ben vedere, di manifestazioni di volontà suscettibili di produrre effetti nella sfera esistenziale dell’interessato, ed in particolare nella sfera che più strettamente attiene al diritto alla salute, alla vita familiare, all’abitazione, in una parola a diritti riconosciuti come fondamentali sia nell’ordinamento nazionale che nella giurisprudenza di livello sovranazionale.
Senonchè, il tema qui in esame impone la soluzione di un problema ulteriore, che attiene piuttosto all’esercizio del diritto. Per la soluzione di tale problema è poco conferente stabilire se l’amministratore di sostegno possa essere autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario scelte che attengono a diritti fondamentali; si tratta, piuttosto, di sondare quale sia la ratio sottesa alle norme che vietano che taluni negozi siano compiuti a mezzo di un rappresentante.
Le persone fisiche che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni sono tradizionalmente individuate nelle tre categorie delle persone minori di età, interdette ed inabilitate. Tali persone non hanno la capacità di donare (art.774, primo comma, cod.civ.), né possono fare donazioni per il tramite del loro rappresentante legale (art.777, primo comma, cod. civ.) in ragione del carattere personale dell’animus donandi e del depauperamento che subirebbe il loro patrimonio. La donazione stipulata dalla persona incapace è annullabile, mentre è colpito con la più grave sanzione della nullità il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l’oggetto della donazione (art.778, primo comma, cod. civ.). Il mandatario, secondo lo schema tipico del relativo contratto, non potrebbe compiere per conto del donante l’attività tipica del contratto di donazione; elemento ineliminabile che connota il mandato è, infatti, l’agire del mandatario nell’interesse del mandante con lo specifico scopo di cooperare, sotto un profilo giuridico, a far conseguire a quest’ultimo il risultato da lui voluto[6]. Tale cooperazione giuridica[7] non può, evidentemente, concretizzarsi nella manifestazione dello spirito di liberalità.
Dal complesso di norme indicate deriva la considerazione dell’impossibilità di delegare ad altri la manifestazione dello spirito di liberalità e, conseguentemente, l’inclusione della donazione nella categoria dei negozi personalissimi.
Una deroga al divieto di donare imposto alla persona incapace è prevista per le donazioni in occasione di nozze dall’art.777, secondo comma, cod. civ., da estendersi alle liberalità indirette disciplinate dall’art.809 cod. civ.[8] ed un correttivo al divieto di stipulare un mandato a donare è previsto qualora al mandatario sia delegato il solo potere di scelta tra più donatari o tra più beni tra quelli designati o indicati dal mandante. In entrambi i casi la legge sembrerebbe dunque ammettere che, in talune circostanze o entro determinali limiti, la manifestazione dell’animus donandi possa essere delegata al rappresentante legale ovvero al mandatario.
La donazione nulla, d’altro canto, è suscettibile di sanatoria (art.779, cod. civ.) purchè, si ritiene, possa comunque ricondursi ad una manifestazione di volontà del donante.
La disciplina così brevemente accennata richiama l’origine storica di questo istituto.
Per gli antichi, la donazione assunse rilevanza giuridica in ragione della primaria funzione di limitare (modus) l’entità degli atti a titolo gratuito destinati a persone estranee alla cerchia dei familiari. Di tale origine storica la norma che deroga al divieto di donare posto dall’art.774, primo comma, cod. civ. conserva l’economia. La donazione è consentita purché sia fatta dal rappresentante con le forme abilitative richieste (dagli artt.374-375 cod. civ. per il tutore e dall’art.394 cod. civ. per il curatore) in occasione di nozze ed in favore di discendenti dell’interdetto o dell’inabilitato. Lo stesso art.774, primo comma, cod. civ. consente al minore ed all’inabilitato, ma in questo caso senza necessità di delega per coerenza del sistema rispetto alla capacità di contrarre matrimonio, di fare donazione nelle loro convenzioni matrimoniali (artt.165-166 cod. civ., norme che in origine derogavano al divieto di donazioni fra coniugi sancito dall’art.781 cod. civ., dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza Corte Cost. n.91 del 27 giugno 1973).
L’esigenza di porre un limite, talora correlato all’entità della donazione, talaltra all’appartenenza (rectius, alla non appartenenza) del donatario ad una determinata cerchia di persone, può ritenersi riconducibile all’elemento funzionale del negozio di cui si tratta, ove la gratuità e lo spirito liberale tendono a legarsi inscindibilmente e rilevano in quanto tali nella distinzione della donazione dagli altri atti a titolo gratuito.
Per altro verso, la nozione di liberalità «racchiude in sé l’idea di libertà, spontaneità, mancanza di qualsiasi coazione»[9]. Su tale premessa, si è detto che i doni fatti in occasione di ricorrenze o matrimoni non costituirebbero vere e proprie liberalità in quanto il vantaggio economico attribuito deriverebbe dall’esigenza di ottemperare a consuetudini o regole di buona convivenza sociale.
Preme, qui, richiamare la felice assonanza del significato di liberalità appena espresso con il passaggio della sentenza in commento laddove è sottolineata la «libertà di donare» come canale di sviluppo nella personalità e di rispetto della dignità umana; seguendo il medesimo lessico, d’altro canto, si verificherebbe una divaricazione tra princìpi espressi dalla Carta costituzionale, secondo il richiamo alla previsione dell’art.2 Cost. nella sua interezza presente nella sentenza che si annota, e sistema del diritto civile di livello ordinario, ove si negasse valore di liberalità agli atti a titolo gratuito compiuti per ottemperare a doveri di solidarietà sociale.
Se per gli antichi la donazione assumeva rilevanza giuridica per porre un limite all’atto di liberalità, ora la prospettiva è mutata e la capacità di donare è stata assunta come espressione di una libertà costituzionalmente garantita.
Il medesimo fatto giuridico riceve plurime qualificazioni ed è preso in esame dalle norme di diritto talora al fine di porre un limite, talaltra al fine di consentire l’esercizio di una libertà. La necessità della forma dell’atto pubblico ad substantiam, ad esempio, fornisce un limite all’atto di liberalità, mentre l’elemento dell’animus donandi segue l’opposta ratio della libera esplicazione dello spirito liberale dell’individuo.
Il contratto di donazione può, dunque, essere considerato dal punto di vista dell’interesse del donante, dal punto di vista dell’esercizio della libera volontà di disporre dei propri beni, dal punto di vista funzionale del depauperamento-arricchimento, dal punto di vista normativo-regolamentare come regola di condotta per i titolari degli interessi ad essa sottesi[10].
D’altro canto, per realizzare un interesse esistenziale, il titolare di diritti patrimoniali deve avere, oltre che l’interesse, la possibilità di manifestare la sua volontà mediante l’esercizio di tali diritti. Il proprietario di un bene immobile, ad esempio, può essere, e di solito è, titolare del diritto di disporne liberamente sia per realizzare un interesse di natura patrimoniale, sia per realizzare un interesse di natura esistenziale.
Un corretto inquadramento della facoltà di disporre del proprietario nella gerarchia dei valori espressi dalla Carta costituzionale consente, dunque, che il proprietario disponga di un bene in funzione del perseguimento di un interesse non patrimoniale.
Sotto altro profilo, per esercitare la predetta facoltà occorre la manifestazione di volontà di un soggetto che, per espressa previsione normativa, nel contratto di donazione non può essere altri che il titolare dell’interesse.
Profilo statico, come titolarità dell’interesse, e profilo dinamico, come manifestazione di volontà per l’esercizio del diritto, devono fare capo al medesimo soggetto. Ma la Consulta dice qualcosa di più: anche sotto il profilo funzionale il diritto di disporre di un proprio bene è riconosciuto in quanto sia consentito al titolare di realizzare fini di solidarietà sociale.
L’attività interpretativa del giudice, inclusa quella del giudice a quo, deve infatti essere condotta senza perdere contatto con il fatto e senza trascurare il confronto con il dinamismo dei comportamenti umani, fuori dal formalismo dei concetti e delle definizioni ed, anzi, immergendosi nella prassi e nella sua poliedricità al fine di ricondurla entro l’ambito della ratio del dato normativo. E se tale ratio ponga l’accento sull’interesse esistenziale piuttosto che su quello patrimoniale è questione che suscita molti dubbi, pur avendo il legislatore del 1942 dettato una disciplina peculiare per la donazione anziché limitarsi a rinviare alla disciplina dettata per il contratto in generale. Nell’art.774 cod. civ. si rinviene, infatti, la peculiare nozione di «piena capacità», a significare l’esigenza che il donante abbia la massima e più ampia sfera di capacità[11], senza alcuna distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione[12]. Senza discutere di capacità di agire, si potrebbe, tuttavia, a ragione, richiamare la necessità di segnare in questo campo alcuni limiti all’autonomia privata in funzione protettiva dei soggetti deboli; non tanto e non solo per negare loro quella libertà che il costituente garantisce nell’art.2 Cost., quanto piuttosto per garantire un’esplicazione equilibrata di tale libertà in funzione dell’eguaglianza sostanziale da promuovere ai sensi del successivo art.3 Cost.
Può affermarsi, senza tema di smentita, che l’interprete sia chiamato a rivisitare la ratio di istituti inquadrabili nella teoria generale del diritto civile, come i requisiti di forma del contratto, la rappresentanza, l’annullabilità, in ragione della peculiare condizione del beneficiario di amministrazione di sostegno. Se, in altre parole, il legislatore ha previsto che la donazione possa farsi esclusivamente per atto pubblico a pena di nullità (art.782 cod. civ.), con l’obiettivo di richiamare l’attenzione del donante sul depauperamento conseguente all’atto, vi è già nel sistema un’indicazione nel senso della necessità di proteggere la sfera patrimoniale del donante, da coniugare ora con le ulteriori finalità protettive, ed al contempo promotrici, della sfera esistenziale sottese alla disciplina dettata dagli artt.404 ss. cod. civ.
Per altro verso, la peculiare disciplina dettata in tema di annullabilità della donazione conclusa dall’incapace naturale (art.775, comma 1, cod. civ.), che risulta incondizionata, a differenza di quanto previsto dall’art.428, comma 2, cod. civ. per i contratti in generale[13], vale a rimarcare la speciale protezione che il legislatore ha inteso riconoscere agli interessi patrimoniali di colui che ponga in essere un atto puramente attributivo, da bilanciare con l’esigenza di favorire la libertà di donare del beneficiario di amministrazione di sostegno non solamente in quanto capace d’intendere e di volere, dunque in grado di manifestare un valido consenso, ma anche perchè semplicemente in grado di discernere la portata dell’atto.
Il regime normativo di un istituto come l’amministrazione di sostegno si sostanzia, peraltro, nella definitiva affermazione della funzionalizzazione dell’interesse patrimoniale agli interessi esistenziali del beneficiario, sia come singolo sia come membro di una collettività.
Non può, tuttavia, negarsi che, pur riconoscendo nell’interesse il nucleo centrale del diritto soggettivo[14], vi sia un punto di frizione tra titolarità di un diritto ed esercizio della facoltà di disporne qualora l’interessato non sia pienamente consapevole dei possibili effetti che la legge collega ad una determinata manifestazione di volontà. Basti ricordare che, tradizionalmente, il limite alla capacità di donare trovava la sua ratio nell’impossibilità per la persona inferma di mente di disporre dei propri beni con piena libertà e coscienza[15]. Al contempo, non si può negare che, pur riconoscendo la legge tutela giurisdizionale a favore di coloro che, nell’esercizio di un diritto, non siano pienamente consapevoli delle conseguenze giuridiche di una manifestazione di consenso (art.775 cod. civ.), vi è altresì un punto di frizione tra la possibilità di ottenere tutela e la previa applicazione di una misura generale di protezione quale l’amministrazione di sostegno. Anche nella prospettiva del diritto privato europeo, ove si è autorevolmente riconosciuta la centralità del valore della persona[16], si sottolinea come il principio di dignità sia il criterio di base per individuare la legittimità di interventi volti a proteggere la persona «contro se stessa», così ammettendo la necessità di un bilanciamento tra principio di autodeterminazione/consenso, da un lato, e protezione della dignità della persona, dall’altro[17].
E’ possibile, in altre parole, che il provvedimento di nomina di amministratore di sostegno che prevede il compimento di taluni atti di disposizione patrimoniale solo con l’assistenza o con la rappresentanza dell’amministratore sia intrinsecamente contraddittorio, ove non limiti al contempo la capacità del beneficiario di compiere atti di liberalità; ritenere che il beneficiario sia in grado di manifestare la sua volontà, irriducibilmente libera per definizione nell’espressione dell’animus donandi, appare inconciliabile con la previsione che il medesimo beneficiario necessiti di assistenza o addirittura di rappresentanza per il compimento di atti che, del pari, comportino manifestazioni di volontà. Unico caso in cui tale contraddizione trova composizione è quello in cui la nomina di un amministratore sia destinata a sostenere un beneficiario affetto da patologia che comporti una limitazione esclusivamente fisica.
Ci si trova, a ben vedere, in presenza di una situazione soggettiva complessa quando il titolare di un diritto che sia beneficiario di amministrazione di sostegno sia vincolato al rispetto di determinati obblighi (come ad esempio l’obbligo di richiedere l’autorizzazione al giudice tutelare ai sensi dell’art.374 cod. civ.) per poterlo esercitare ovvero, più in generale, sia assoggettato a controllo dell’amministratore di sostegno: accanto al potere di disporre di un bene si trova il potere di controllo da parte di un soggetto diverso dal titolare.
Sebbene per talune categorie di atti sia stabilito che il beneficiario necessiti di essere rappresentato o assistito dall’amministratore di sostegno, che pertanto manifesterà in sua vece o integrerà la volontà dell’interessato, laddove un singolo atto, di volta in volta e singolarmente individuato, non possa essere compiuto se non mediante diretta manifestazione di volontà del titolare del diritto, la preesistente nomina di un amministratore di sostegno consentirà di ritenere tale atto soggetto al controllo di quest’ultimo e, in definitiva, al controllo dell’autorità giudiziaria, che valuterà se la libertà di compiere quel determinato atto sia conforme all’interesse del beneficiario (Cass. Sez.1, 11/05/2017, n.11536 in materia di matrimonio) e adotterà, se del caso, gli opportuni provvedimenti (art.410 cod. civ.). Va, in proposito, espresso dissenso da quella dottrina che collega l’attività di controllo dell’autorità giudiziaria all’apposizione di limiti alla capacità di agire del beneficiario, essendo anzi tale attività maggiormente efficace e dinamica con riferimento agli ambiti in cui il beneficiario sia lasciato libero di agire.
La situazione soggettiva che fa capo all’amministratore di sostegno è, infatti, qualificabile in termini di potestà, ossia di ufficio di diritto civile il cui esercizio è necessario nell’interesse altrui, e si concreta in una situazione complessa fatta di poteri-doveri di amministrazione di beni, cura della persona, rappresentanza. La flessibilità di questa misura alle diverse esigenze della persona consente di modulare i poteri dell’amministratore in ragione del livello di non autosufficienza del beneficiario. Tanto maggiori saranno la capacità di discernimento, la capacità di analisi, di collegamento e di autodeterminazione del beneficiario, tanto minore sarà l’esigenza di controllare i suoi atti.
Il potere di controllo dell’amministratore di sostegno può valere, per quanto qui rileva, a verificare quale sia l’interesse del beneficiario in occasione di atti donativi, diretti o indiretti, che non sarebbero suscettibili di ricevere tutela giurisdizionale ai sensi dell’art.775 cod. civ., giacchè posti in essere in condizione non qualificabile in termini di «assoluta incoscienza dei propri atti» (Cass. Sez.6, ord. 19/02/2018, n.3934; Cass. Sez.2, sent. 23/12/2014, n.27351). Ma anche con riguardo alle ipotesi più tradizionalmente ascrivibili alla categoria dell’incapacità naturale (ubriachezza, stati passionali, infermità di mente parziale), la funzione di controllo rileva ai fini della prova processuale delle condizioni cognitive e volitive del beneficiario al momento dell’atto, frequentemente difficili da dimostrare persino in caso di atto pubblico rogato dal notaio con la presenza dei testimoni (Cass. Sez.2, ord. 28/10/2019, n.27489).
S’impone, preliminarmente, un chiarimento. Se si ritiene necessario considerare preminente l’interesse alla fruttuosa gestione del patrimonio, la distinzione tra atti a titolo gratuito tipici, come il comodato, o atipici, come la locazione senza corrispettivo, e donazione tipica non ha ragion d’essere. Spesso il beneficiario di amministrazione di sostegno è una persona con limitata capacità reddituale e con esigenze di cura e di assistenza dispendiose, per cui l’interesse patrimoniale coincide con l’interesse primario del beneficiario.
Da questo punto di vista, dunque, riconoscere al beneficiario di amministrazione di sostegno la capacità di donare, intesa in senso ampio come capacità di porre in essere negozi giuridici che producano un vantaggio economico a terzi senza corrispettivo e con depauperamento del beneficiario stesso, non comporta per quest’ultimo alcun ritorno in termini di «libertà». Potrebbe, anzi, rivelarsi scelta foriera di una condizione di ristrettezza e di bisogno, di per sè privativa di autonomia e libertà.
Non può, pertanto, essere percorribile in simili, e non rare, ipotesi, per il giudice tutelare, la scelta di privilegiare in concreto la libertà di donare astrattamente prefigurata dalla Consulta.
In tal senso, l’ordinanza della Corte di Cassazione sullo specifico tema della capacità di donare (Cass. Sez.1, ord. 21/05/2018, n.12460) ha ritenuto che la dicotomia capacità-incapacità sia destinata a riemergere anche in ambito di amministrazione di sostegno «in presenza di atti, come quelli personalissimi, rispetto ai quali, a fronte di una grave compromissione delle facoltà cognitive o volitive dell’autore, non sembrano agevolmente ipotizzabili forme di intermediazione o integrazione da parte di terzi, a meno che le stesse non si traducano nella prestazione di un consenso al compimento dell’atto, la cui necessità si porrebbe però in stridente contrasto con il carattere personale dello stesso e con la valorizzazione della capacità del beneficiario, cui tende l’istituto in esame».
La chiara finalità dell’istituto è, come detto, la funzionalizzazione del patrimonio alla realizzazione di interessi esistenziali dell’individuo, secondo una scala di valori che preveda al livello minimo la garanzia di condizioni di vita dignitose ed al livello massimo l’integrazione del beneficiario nella comunità sociale, anche mediante l’adempimento di doveri di solidarietà. Gli interessi esistenziali del beneficiario potranno pertanto essere soddisfatti, in linea generale, in proporzione alle sue disponibilità patrimoniali ed in rapporto alle sue «facoltà cognitive e volitive». A tal fine, sembra necessario divaricare la disciplina delle liberalità donative da quella delle liberalità non donative (art.809 cod. civ.), se non sotto il profilo del comune assoggettamento al limite posto dall’art.774 cod. civ. quantomeno sotto il profilo della possibilità che talune liberalità indirette siano compiute con l’assistenza dell’amministratore di sostegno.
Molto più impegnativo rimarrà, tuttavia, il compito (non agevolato dalla pronuncia da ultimo citata) di gestire l’interesse esistenziale in relazione a situazioni ambivalenti o di difficile emersione dovute a condizioni di fragilità psichica del beneficiario derivanti dall'età o da anomale dinamiche relazionali che ne potrebbero ridurre l’autodeterminazione o l’autonomia di critica e di giudizio.
[1] G.Pino, Il costituzionalismo dei diritti, Bologna, 2017, 116 ss.
[2] P. Perlingieri, La funzione sociale del diritto successorio, in Rassegna di diritto civile,1, 2009, 132.
[3] V. Pietrobon, Gli atti e i contratti dell’incapace naturale, in Contratto e impresa, 1987,773.
[4] Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1983,130.
[5] G. Bonilini, Commento all’art.591 cod. civ., in G.F. Basini-G.Bonilini-M.Confortini, Codice di famiglia,minori,soggetti deboli, Torino, 2014,I.
[6] G. Bavetta, voce Mandato, EdD XXV, 340.
[7] Pugliatti, Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza, in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 196.
[8] Biondi, Le donazioni, in Tratt.dir.civ. diretto da F. Vassalli, XII-4. Torino, 1961.
[9] R. Casulli, voce Donazione in EdD XIII,968.
[10] P.Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, 248.
[11] C. Scognamiglio, Capacità di disporre per donazione, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, I, Cedam, 258.
[12] B. Biondi, Le donazioni, cit., 193.
[13] V. Pietrobon, Gli atti e i contratti dell’incapace naturale, in Contratto e impresa 1987, 765 ss.
[14] Perlingieri, cit. p.253.
[15] Degni, Della capacità di disporre per testamento, in Comm. al cod. civ., Libro delle successioni a causa di morte e delle donazioni, diretto da M. D’Amelio, Firenze, 1941.
[16] S.Rodotà, La persona, in Manuale di diritto privato europeo di C. Castronovo, 2007,I.
[17] P.Perlingieri, Il diritto privato europeo tra riduzionismo economico e dignità della persona, Europa e diritto privato, 2, 2010, 345.
Il diritto alla salute ai tempi del coronavirus e la scomparsa di una generazione tradita di Laura Cocucci.
recensione a “L’Ovulo Rosso nel Sottobosco” di Nico Cocucci
L’11 aprile 2020 sarebbe stato il suo compleanno, ma la crudeltà del coronavirus che qualche giorno prima gli aveva già portato via la moglie, gli ha impedito di superarlo.
“L’Ovulo Rosso nel Sottobosco” è il suo viaggio fantastico, lungo 100 anni e più.
Mio padre Nico Cocucci era un medico nato nel 1932, come tanti di questa generazione falcidiata dal virus, con i piedi nell’Ancien Regime e ha messo la testa, dato uno sguardo, nel futuro liquido, istantaneo, frammentato e pauroso dei Millennials.
Il Secolo lungo. Un inno alla vita. Al vorace bisogno di vita. Raccontare da dove veniamo e di cosa siamo stati e siamo testimoni, per essere ancora piu’ affamati.
Ci ha insegnato che la vita è misteriosa, paurosa e sempre bellissima. Anche nella morte. E se in questo viaggio - “turgido” si potrebbe dire – il pudore dà alle ultime pagine qualcosa di crepuscolare, sappiamo che in realtà non è mai stato così. Era un giacobino inguaribile. “Non sarò mai un moderato!” E allora…“Allons Enfant !”.
A causa della pandemia l’Italia si ritrova improvvisamente orfana di una intera generazione che se ne è andata in silenzio. Centinaia di anziani sono morti senza un saluto, senza un abbraccio, senza una carezza negli ospedali, nelle residenze sociosanitarie o in solitudine nelle proprie case, senza avere il tempo di raccontare la loro vita.
A differenza di quella dei nostri padri e dei nostri nonni la mia è stata invece una generazione felice. Siamo nati nel boom economico degli anni ‘60, abbiamo vissuto un lungo periodo di pace, abbiamo conosciuto benessere e serenità, abbiamo vissuto la piena attuazione della Carta Costituzionale italiana che riconosce il diritto alla salute come un diritto fondamentale dell’individuo.
Solo qualche giorno prima il Presidente Mattarella, in occasione del 70^ Anniversario della Giornata Mondiale della Salute, aveva pronunciato un discorso nel quale aveva affermato che tanti lutti e sofferenze hanno reso ancor più evidente il valore della salute componente essenziale del diritto alla vita. Aveva ribadito che “la qualità della vita e gli stessi diritti fondamentali della persona sono strettamente legati alla capacità e all’universalità del servizio alla salute” e aveva riconosciuto con autorevolezza che “i Servizi Sanitari Nazionali costituiscono capisaldi essenziali della comunità”.
Nel libro mio padre parla anche del suo impegno politico dedicato all’amministrazione dei principali ospedali milanesi che lo impegnò per circa venti anni. Con orgoglio espresso in forma dubitativa afferma “per tanti anni credo di avere contribuito alla trasformazione e alla costruzione della sanità pubblica a Milano”.
Spiega poi della decisione di interrompere questo impegno definito un servizio, a metà degli anni settanta con l’entrata in vigore della L. nr. 833/78, esprimendo feroci critiche sulla lottizzazione delle cariche nel sistema sanitario che negli anni a seguire portarono al sistema diffuso di corruzione politica disvelato da Tangentopoli.
Non vi è dubbio che la salute debba essere un diritto per tutti. Il bilanciamento tra diritto alla tutela della salute e criteri di economicità motivati dall’esigenza di contenimento delle spese e delle risorse non può essere inteso in maniera assoluta.
Verso un nuovo modello di tutela del diritto alla salute la Corte Costituzionale ha più volte affermato che l’ambito della garanzia costituzionale del “nucleo essenziale del diritto alla salute” copre la pretesa ad accedere a prestazioni indispensabili per dare risposta ad esigenze terapeutiche urgenti ed indifferibili.
Una società moderna, democratica e solidale dovrebbe sapersi prendere cura degli anziani anche in situazioni di emergenza garantendo tempi e qualità delle “prestazioni sanitarie”.
Senza dubbio dobbiamo coralmente ed incondizionatamente ringraziare gli straordinari medici, infermieri e tutto il personale sanitario che, con elevatissima professionalità ed incredibile spirito di servizio, hanno fatto l’impossibile per garantire il diritto alla salute e per salvare vite umane, in molti casi mettendo a rischio la propria vita.
Non va però dimenticato che, durante l’emergenza della pandemia, vi sono stati giorni in cui non vi erano sufficienti ambulanze per portare gli anziani in ospedale, le ambulanze disponibili arrivavano con comprensibile ritardo, i servizi di pronto soccorso ricevevano centinaia di pazienti ed in alcuni casi i medici sono stati costretti a decidere quali pazienti curare in terapia intensiva ed infine in molte residenze socio sanitarie il numero dei decessi ha raggiunto livelli allarmanti.
Sono molti i temi sui quali la società civile dovrà avviare una riflessione collettiva a partire dai tagli al sistema del welfare degli ultimi venti anni, al rapporto tra sanità pubblica e privata, ai rapporti tra Servizio Sanitario Nazionale e Sanità Regionale.
Ci ha lasciato una generazione di anziani che beneficiava di una aspettativa di vita altissima e che è stata “tradita” da un eccessivo ottimismo sulle capacità del nostro servizio sanitario.
Queste “Memorie Sparse” mio padre aveva chiesto a noi figli di farle conoscere. Questo è una edizione riveduta e corretta del suo manoscritto originale. C’è la sua storia che è poi la storia degli uomini che con le loro passioni, i loro ideali di libertà, di partecipazione e di giustizia sociale nel dopoguerra hanno contribuito alla crescita dell’Italia...ci sono le mie radici...le radici degli uomini che seppero dare libertà e dignità al nostro Paese.
Leggetelo se avete voglia e consideratelo come un “vaccino benefico”.
L' ovulo rosso del sottobosco
Atti urgenti d’indagine e sospensione dei termini della fase delle indagini preliminari di cui al d.l. 18/2020, intercettazione e altro.
di Francesca Urbani
sommario: 1. Decreto n. 18/20, sospensione dei termini e indifferibile urgenza - 2. Una lettura possibile - 3. Conclusioni.
1. Decreto n. 18/20, sospensione dei termini e indifferibile urgenza.
In questo momento di forte crisi nazionale determinata dal diffondersi dell’epidemia da “coronavirus”, il legislatore è intervenuto al fine di regolare uno dei settori più sensibili dell’ordinamento, ossia la giustizia. Questa, quale servizio pubblico essenziale preposto alla tutela di diritti fondamentali, ha richiesto un intervento che ne regolasse il funzionamento minimo-necessario, senza tuttavia porsi da ostacolo rispetto all’adozione delle misure di doveroso contenimento attualmente in vigore.
In un’ottica di bilanciamento, quindi, l’art. 83 del decreto legge 18/2020, nel disciplinare “Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare” prevede al comma 2 che: Dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali...”.
Se non sussistono particolari problemi in relazione agli atti non urgenti dei quali è sospesa l’esecuzione, più intricata risulta la questione relativa alla possibilità di compiere atti urgenti, considerato che il decreto-legge non prevede deroghe espresse alla disciplina della sospensione in relazione agli atti urgenti da assumere nel corso del procedimento, si pensi a titolo esemplificativo alle intercettazioni, alla possibilità di svolgere indagini per i reati di cui al c.d. “codice rosso” o ancora ai reati di “criminalità organizzata” non espressamente menzionati. 2. Una lettura possibile.
La soluzione a tale quesito richiede necessariamente da un lato un’analisi comparata con la disciplina prevista dall'art. 240 bis, successivamente modificato dal D.L. 8.6.1992, n. 306, conv. in L. 7.8.1992, n. 356 relativa alla sospensione dei termini nel periodo feriale, stante l’analogia di istituti; dall’altro lato una lettura complessiva della norma, e in particolare il riferimento di cui al comma 3 lett. c). Sotto il primo profilo, si osserva come l’art. 240 bis disp.att.c.p.p. preveda, in materia penale, la sospensione dei termini procedurali, compresi quelli previsti per le indagini preliminari, nel periodo tra il 1° agosto e il 31 agosto di ciascun anno. Come è noto, il riferimento generico ai “termini” impone di non operare alcuna distinzione fra termini dilatori, perentori ed ordinatori. Tanto premesso, è pacifico che tale sospensione dei termini riguardi, quanto ai soggetti, anche l'attività del pubblico ministero, sicchè sono sospesi i termini di durata massima delle indagini preliminari e quelli per il compimento delle indagini stesse di cui all'art. 407 c.p.p. (Cass. Pen. sez. IV, 14 luglio 2009, n. 32976, in Cass. pen. 2010, 12, p. 4310; Conf. Cass. Pen. sez. I, 16 dicembre 2004, n. 2837, in C.E.D. Cass., n. 230783; sez. V, 6 dicembre 1991, n. 2156, Rella, in C.E.D. Cass., n. 189546.). Tale “blocco” tuttavia è temperato dalla previsione contenuta nel quarto comma dell'art. 2, L. 7.10.1969, n. 742, con cui si è previsto che, “qualora nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero ritenga di dover procedere con la massima urgenza al compimento di atti che potrebbero essere sospesi, in conseguenza della sospensione feriale dei termini, può chiedere al giudice delle indagini preliminari di pronunciare ordinanza specificando le ragioni della massima urgenza e la natura dell'atto da compiere”. Il pubblico ministero, inoltre, può direttamente provvedere con decreto motivato alla declaratoria di urgenza, tutte le volte in cui debba compiere uno degli atti previsti dall'art. 360 c.p.p. Dello stesso potere sono dotati anche il difensore e l’imputato. È quindi rimessa alle parti, nei cui confronti sono riconosciuti i termini, la possibilità di derogare alla sospensione quando sussistano le predette ragioni di urgenza.
La ratio dell'istituto in esame è, infatti, quella di garantire agli avvocati e alle parti il libero godimento delle ferie ( A. Galati - Zappalà, in Diritto processuale penale, p. 313), evitando così la compressione dei diritti difensivi (Fois, 610). E in questo senso, si comprende l’affermazione di chi ha sostenuto che “tale sospensione non concerne tutti i termini processuali, ma soltanto quei termini a cui sia correlato l’esercizio di un’attività difensiva” (Gilberto Lozzi, in Lezioni di procedura penale, p. 166).
D’altronde anche la Cassazione, nel rigettare il ricorso della difesa nel quale lamentava l’assenza di presupposti per l’emanazione per l’ordinanza di urgenza nel periodo feriale ha affermato che “Come è noto tale provvedimento – (rectius ordinanza ex art. 240 bis disp.att.c.p.p.) non è impugnabile, ma deve essere notificato al difensore per consentirgli di preparare la difesa e garantire la presenza al processo. La omessa notifica della ordinanza comporta nullità di ordine generale, perché si riflette sulla assistenza e rappresentanza della difesa (vedi Cass. 2 aprile 1993, Pinzelli in Cass. Pen. 1994, 1921). Analogo discorso non può essere fatto nel caso in cui la notifica della ordinanza di urgenza sia rituale, ma siano discutibili i presupposti per la emissione del provvedimento. In tal caso, infatti, i diritti della difesa non vengono compromessi, poiché l'unico danno ravvisabile è il rientro anticipato dalle ferie del difensore. La possibilità di difesa non viene in siffatte situazioni affatto compromessa. Non essendo ravvisabile pertanto una ipotesi di nullità di ordine generale, la mancata previsione di una specifica nullità per le valutazioni errate in ordine alla sussistenza dei presupposti che legittimano la emissione del provvedimento ex art. 240 bis delle norme di coordinamento - valutazioni che non sono sindacabili perché il provvedimento non è impugnabile - non comporta la nullità eccepita.” (cfr. Cass. penale sez. V, 16/03/2001, (ud. 16/03/2001, dep. 24/05/2001), n.21243). Tale affermazione, quindi, è apprezzabile nella misura in cui, attraverso una lettura sostanziale dell’istituto della sospensione feriale, non ritiene sussista un divieto assoluto di svolgere atti di indagine, ma si imponga solo il rispetto delle formalità procedurali atte a garantire la partecipazione del difensore. Nel senso che non sia preclusi tutti gli atti di indagine si richiama un’importante pronuncia di merito che, analizzando nello specifico la questione, ha affermato che “La sospensione feriale dei termini non ha intrinsecamente a che vedere con la possibilità di svolgere indagini (quali audizioni di testimoni, perquisizioni, intercettazioni, acquisizione di atti e così via) ponendo solo un limite allo svolgimento di alcuni atti (sostanzialmente l'interrogatorio dell'indagato) ed altre scansioni temporali quali, ad esempio, le incombenze di cui all'art. 415 bis c.p.p. o il decorrere dei termini per una impugnazione. Si tratta infatti di una sospensione di attività volta a facilitare la difesa degli indagati e che comunque essenzialmente non preclude l'inizio o lo sviluppo delle indagini (Tribunale Milano sez. uff. indagini prel., 08/06/2006, in Foro ambrosiano 2006, 3, 330). Da ultimo si osserva come, a ulteriore conferma di come le esigenze che sottintendono la sospensione siano derogabili – anche in via interpretativa – in presenza di urgenza, la giurisprudenza di legittimità abbia unanimemente ritenuto che, pur in assenza di espressa previsione legislativa, la sospensione feriale non operi per i termini di convalida dell'arresto e del fermo, in considerazione della natura del procedimento: l'udienza di convalida costituisce, infatti, «un procedimento necessitato, composto da una pluralità di attività procedurali, da compiersi nell'osservanza rigorosa di strettissimi termini processuali» (Cass. pen., sez. I, 12.11.1990, Dragonetti, in ANPP 1991, p. 471). Inoltre, la disciplina in esame non trova applicazione neanche con riferimento al giudizio direttissimo, stante la specialità del rito, anche in assenza di espressa rinuncia (C., Sez. III, 20.4.2011, Alì, in Mass. Uff., 250388; C., Sez. IV, 5.11.2002, Russo, ivi, 223942; C., Sez. II, 3.5.1991, Rotili e altri, ivi, 188135. Contra: C., Sez. V, 16.2.1996, De Vita, in Mass. Uff., 204488). La disciplina della sospensione feriale, quindi, contempera due esigenze da un lato il principio costituzionale del diritto alle ferie di cui all’art. 36 Cost, dall’altro lato quella di garantire la continuità della giustizia, quale servizio essenziale per l’intera collettività a tutela di altrettanti diritti fondamentali, nei casi di “massima urgenza”.
È sotto questo ultimo profilo che, anche alla luce dell’analisi fatta, deve interpretarsi l’art. 83 D.L. 18/2020 che, da un lato prevede la possibilità per l’imputato o il difensore di rinunciare alla sospensione, dall’altro non prevede espressamente che tale facoltà possa essere esercitata da p.m. in fase di indagine in caso di urgenza. Tuttavia, operando una lettura costituzionalmente orientata della norma, anche in questo caso si deve ritenere che la stessa intenda contemperare l’esigenza della salute pubblica da un lato, e il corretto svolgimento della giustizia d’altro. D’altronde, come sopra richiamato le ipotesi di deroga della sospensione feriale sono state estese anche in via giurisprudenziale, laddove sussistevano ragioni di indifferibilità e urgenza tali da richiedere l’immediato svolgimento dell’atto e/o dell’udienza.
L’art. 83, D.L. 83/2020, infatti, non ha inteso paralizzare del tutto l’attività degli uffici giudiziari, ponendo solo il limite dell’assoluta urgenza, onde evitare il dilagarsi dell’epidemia da COVID-19. Non sarebbe altrimenti ragionevole ritenere che la salute pubblica di cui all’art. 32 Cost. possa essere un limite invalicabile anche in presenza di situazioni di assoluta urgenza per la tutela di beni costituzionali altrettanto importanti, quali quello dell’incolumità individuale, della libertà personale, della vita o della sicurezza pubblica. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai reati regolati dal c.d. “codice rosso” rispetto ai quali, in alcuni casi, il tempestivo intervento delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria è elemento chiave per evitare il protrarsi delle conseguenze del reato. Inoltre, nel caso di maltrattamenti gravi o violenza sessuale da parte di persona convivente l’escussione della persona offesa, nei casi di particolare gravità, deve avvenire immediatamente senza che, in senso contrario, possa rilevare l’attuale stato epidemico. Né può opporsi che in questi casi si debba necessariamente procedere con incidente probatorio, di cui alla lett. c) dell’art. 83 co. 3, perché si imporrebbe al pubblico ministero una scelta investigativa che potrebbe anche pregiudicare in maniera irreversibile la tenuta probatoria dell’indagine.
Ad analoga conclusione si deve pervenire anche per ciò che concerne la possibilità di svolgere attività di intercettazione. E infatti, da un lato l’atto in questione non è partecipato e quindi in alcun modo potrebbe avere conseguenze negative in relazione allo scopo perseguito dal legislatore con il recente decreto, dall’altro lato la necessità di acquisire elementi probatori non altrimenti acquisibili (il cui presupposto è tra l’altro l’indispensabilità) non può essere pregiudicata dall’attuale situazione, laddove sussistano elementi da cui trarre l’urgenza nell’adottare i provvedimenti in questione.
Analizzato alla luce del regime della sospensione feriale e riconosciuta la possibilità di un’estensione di deroghe in via interpretativa, sotto altro profilo il comma 2, deve essere letto in combinato disposto con il comma 3, e in questo senso quest’ultima disposizione nel disciplinare le ipotesi in cui non opera la sospensione, alla lett. c), prevede che sono esclusi “i procedimenti che presentano carattere di urgenza, per la necessità di assumere prove indifferibili, nei casi di cui all’articolo 392 del codice di procedura penale. La dichiarazione di urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile”.
Si deve, quindi, ritenere che il concetto di “procedimenti che presentano carattere di urgenza” debba essere inteso nel senso di procedimenti che in generale, anche nella fase delle indagini preliminari, richiedano adozione di atti urgenti perché non altrimenti differibili con conseguenza che il riferimento all’art. 392 c.p.p. sia all’ambito applicativo e non alla “modalità di assunzione della prova”, che può avvenire anche in forme differenti. D’altronde, milita in questo senso il riferimento “al presidente del collegio”, senza tuttavia fare riferimento all’art. 467 c.p.p. Sussiste quindi la possibilità di adottare tutti gli atti anche di indagine ogni qual volta sussista una situazione oggettiva di periculum in mora, che postula la preminenza di un interesse superiore che è insito fisiologicamente per lo svolgimento dell’atto con la massima urgenza. Le ipotesi di esclusione della sospensione indicate dall’art. 83 D.L. 18/2020, quindi, non devono ritenersi tassative, ben potendo essere estese anche in via interpretativa, sussistendone i presupposti comuni.
Ciò a maggior ragione alla luce dell’omessa deroga espressa (prevista invece in tema di sospensione feriale) per i reati di cui all’art. 51 co. 3-bis c.p.p. per i quali, la particolare delicatezza impone che il sistema non si arresti automaticamente come altrimenti si arriverebbe a sostenere.
Osservando tra l’altro il recente D.L. 73/2018 in tema di “Sospensione dei termini e dei procedimenti penali pendenti dinanzi al Tribunale di Bari”, si può constatare alcune analogie. In particolare, anche nel decreto da ultimo citato non si prevede espressamente una procedura da seguire per poter comunque compiere atti urgenti nel corso delle indagini preliminari in caso di urgenza, tuttavia, analogamente a quanto sta accadendo in questi giorni, si è cercato di interpretare le norme alla luce della ratio ispiratrice che, lungi dal bloccare l’attività giurisdizionale tout court, trova il fondamento nell’ “assicurare il regolare e ordinato svolgimento dei procedimenti e dei processi penali nel periodo necessario a consentire interventi di edilizia giudiziaria per il Tribunale di Bari e la Procura della Repubblica presso il medesimo tribunale” trovando una soluzione alla “oggettiva impossibilità di celebrazione delle udienze penali derivante dalla sopravvenuta indisponibilità dei luoghi di svolgimento delle stesse”. In questo senso sarebbe stato del tutto ragionevole interpretare le disposizioni volte a garantire il buon funzionamento del sistema, in termini di blocco assoluto. 3. Conclusioni.
In conclusione, a prescindere da una valutazione in astratto sia per categoria di reati che per tipologia di atto, e ferma la necessità di sospendere in questo momento di forte crisi tutti gli atti differibili onde evitare il contagio da COVID-19 – sicuramente in questo momento esigenza assolutamente prioritaria –, si ritiene che sia comunque rimessa al pubblico ministero, analogamente a quanto avviene anche nel periodo feriale, la possibilità di svolgere tutti gli atti di indagini che presentino carattere di assoluta urgenza, ciò a maggior ragione laddove non si richieda la partecipazione della difesa, qualora questi siano posti a tutela di altrettanti interessi costituzionalmente protetti.
Protezione della salute pubblica, restrizioni della libertà personale e caos normativo
di Antonio d’Andrea
Sommario: 1. Il tempo del Coronavirus - 2. La necessaria normativa statale per restringere legittimamente la libertà personale 3. Le buone ragioni delle Regioni e il rispetto della riserva di legge statale: due esigenze costituzionali
1. Il tempo del Coronavirus
Per cercare di orientarsi nella mole di disposizioni statali e regionali introdotte nell’ordinamento a partire dal d.l. 24 febbraio 2020 n. 6 così da cercare di contenere gli effetti della grave pandemia che nel nostro Paese si sono disvelati con dati impressionanti nella loro drammatica progressività nell’ultimo mese, bisogna, in primo luogo, riconoscere l’insidiosità rappresentata dalla modalità di propagazione del contagio (il tema è quello dei “portatori sani” e inconsapevoli della loro positività) e ricordare l’assenza, al momento, di cure specifiche che lo possano prevenire e in ogni caso consentire il superamento delle forme più acute della patologia che cagiona. Queste semplici considerazioni di contesto sono utili per richiamare come dal mondo medico-scientifico più accreditato – e al di là di quanto sperimentato, si dice con efficacia, in Cina da dove l’epidemia diffusiva è partita ed è stata poi esportata – si sia insistito sulla necessità da parte delle autorità pubbliche di “governare” questa emergenza, almeno nell’immediato, con drastiche misure di riduzione dei contatti sociali tra le persone (molte delle quali veicoli involontari della diffusione dell’infezione) a partire dalla loro libera circolazione nel territorio nazionale. Lo scopo di tali misure sarebbe quello di ridurre il più possibile il numero dei contagi così da consentire al personale delle strutture sanitarie di dedicarsi con maggiori probabilità di successo all’assistenza di ammalati che nei casi più gravi (si tratta, com’è noto, spesso anche se non solo, di soggetti affetti da precedenti patologie e comunque indeboliti, ad esempio, dall’età avanzata) presuppone lunghe degenze in reparti dotati di sofisticate tecnologie (ad esempio i respiratori artificiali) e che poterebbero, dilagando il virus, non essere sufficienti, come in parte verificatosi, per fronteggiare la montante emergenza sanitaria.
Un altro dato preliminare da richiamare è l’immediata emersione nel territorio nazionale di “zone rosse” nelle quali si è da subito manifestato una peculiare e intensa diffusione del contagio registrandosi un’alta percentuale di ricoveri e decessi così concentrati prevalentemente in Lombardia e in alcune zone del Nord del Paese: dapprima, in alcuni Comuni del Lodigiano e del basso Veneto sino poi a spingersi con rapidità impressionante in una fascia più estesa che oramai coinvolge buona parte delle Provincie di Cremona, Bergamo, Brescia e della stessa Emilia. Ciò al contrario di quanto inizialmente è accaduto in altre Regioni, che sembrano perciò “preservate” dal dilagare del contagio e che, pur essendosi modificate le condizioni inziali, ancora adesso non affrontano emergenze sanitarie di quella portata pur avvertendone gli echi, drammatici ma territorialmente distanziati. Questo solo per ricordare come, in tale caso, la differente posizione delle tre Regioni ordinarie Lombardia, Veneto, Emila Romagna (che da tempo spingono per ottenere, ai sensi dell’art. 116 co 3, Cost., una più avanzata autonomia rispetto alle altre), deve in effetti essere valutata come peculiare per tragici motivi oggettivi che hanno indotto i rispettivi Presidenti, insieme alle altre autorità di governo locale (si pensi ai Sindaci coinvolti), a mettere in atto forme di intensa interlocuzione istituzionale, per certi versi inevitabilmente conflittuale, tanto con il livello di governo centrale quanto con gli altri Presidenti di Regioni nelle quali l’epidemia era ed è meno dilagante, la cui preoccupazione adesso sembra essere piuttosto quella di evitare gli ingressi di cittadini che si trovano nelle zone di maggior diffusione del contagio, propensi – si potrebbe dire istintivamente – in molti casi a ritornare nei luoghi di provenienza o di origine considerati, non si sa quanto a ragione, più sicuri (certo non per i familiari che li hanno accolti, per come purtroppo si è già dimostrato).
2. La necessaria normativa statale per restringere legittimamente la libertà personale
A parte l’attuale, richiamata diseguale distribuzione del contagio sul territorio nazionale, sono inevitabilmente “uniche” le coordinate costituzionali che dovrebbero consentire di affrontare con equilibrio, ma soprattutto legittimamente il tema delle misure restrittive della libertà personale dei consociati per fronteggiare al meglio la grave emergenza sanitaria. L’evoluzione dell’epidemia su scala planetaria non può ovviamente che essere affrontata nell'ordinamento italiano come una cruciale questione di rilievo nazionale.
Si parte dunque dalla necessità di osservare da parte delle autorità politiche statali il rigoroso rispetto della c.d. riserva di legge che necessariamente accompagna qualsiasi limitazione dei diritti di libertà individuale, a partire da quello che viene immediatamente in considerazione del caso di specie e che incide sulla libertà di muoversi liberamente su tutto il territorio nazionale e perfino di uscire e rientrare dal Paese, quale che sia la motivazione che induce il soggetto a lasciare il luogo di residenza o di domicilio per raggiungerne altro, da solo o in compagnia, da un comune all’altro, da una Provincia o da una Regione, percorrendo da Nord a Sud e viceversa, con qualsiasi mezzo privato o pubblico che sia, il territorio statale. Da questo punto di vista è solo la legge parlamentare a stabilire “in via generale per motivo di sanità e sicurezza” (art. 16, co 1, Cost.) le limitazioni di circolazione e soggiorno che interessano le persone, anche eventualmente avendo riguardo di preservare questo o quel territorio e così circoscrivendo, ove ritenuto utile, il diffondersi dell’epidemia. Egualmente è la legge statale ad obbligare – proprio perché la salute costituisce non solo un diritto individuale ma un interesse della collettività – le persone a sottoporsi, ai sensi dell’art. 32, co 2, Cost., ad un “determinato trattamento sanitario (alludo eventualmente alla "prova" imposta del c.d. tampone per accertare la positività al virus e perciò la contagiosità dei soggetti da obbligare a restrizioni più stringenti di movimento) così come ricade pur sempre nella piena responsabilità del legislatore statale e non già regionale, ai sensi dell’art. 117, co 2, lett.h, Cost., disporre in materia di “ordine pubblico e sicurezza” (si pensi alla "chiusura" di determinate attività produttive, alla riduzione dei trasporti e di tutto quanto venga ritenuto utile al miglioramento della salute collettiva).
Quando vengono in questione, per ragioni certo contemplate dalla stessa normativa costituzionale, limiti che toccano la libera (e di per sé lecita) determinazione comportamentale di ciascun individuo – che coinvolge non solo la libertà di muoversi, ma anche di svolgere attività di impresa, di commercio e altro ancora – come pure ogni qualvolta si attenuano le garanzie individuali non è, in linea di principio, legittimo prevedere una statuizione regionale fatalmente produttiva di effetti limitati in questo o quel territorio (del tipo, per semplificare “non si entra e non si esce” dalla Regione) neppure ove si deleghi la facoltà di disporre in tal senso in forza di una (illegittima) norma legislativa statale. Non a caso è previsto che la Regione non possa “adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni” (art. 120, co 1, Cost.)
3. Le buone ragioni delle Regioni e il rispetto della riserva di legge statale: due esigenze costituzionali
Nel contempo è bene che nessuno, a partire dalle istituzioni statali, sottovaluti la concorrente competenza legislativa regionale garantita costituzionalmente (art. 117, co 3, Cost.) concernente la "tutela della salute", la "protezione civile", il "governo del territorio" così come la loro esclusiva competenza regolamentare, dunque di carattere secondario, in queste stesse materie.
Le Regioni, in generale, sono evidentemente gravate di diretta responsabilità anche nel governo dell'emergenza sanitaria in atto sebbene prevalentemente con implicazioni nella sfera della gestione amministrativa del fenomeno più che non nella scelta di indirizzi politici strategici o di fondo (affrontare e cercare di risolvere l'emergenza sanitaria è, come detto, primariamente una questione nazionale). Tuttavia, e anzi proprio per questo, lo Stato non solo non è affatto esentato dal supportare logisticamente e finanziariamente il gravoso compito gestionale che ricade, al momento, sulle principali Regioni del Nord del Paese ma dovrebbe, prima di tutto secondo buon senso, provare a condividere almeno con queste stesse le strategie di contrasto dell'epidemia in nome di quella leale collaborazione che spesso viene evocata a sproposito ma che, al contrario, nelle relazioni Stato-Regioni ha sempre trovato la sua vera ragion d'essere e oramai persino la sua stessa "cristallizzazione" costituzionale (art. 120, co 2, Cost). Il coinvolgimento nelle scelte politiche nazionali degli Enti locali toccati da vicino dall'epidemia e dunque in prima linea nell'affrontare l'emergenza sanitaria è anche l'unica strada che potrebbe scongiurare ulteriori "fughe" in avanti di tali Regioni che certamente ci sono già state, incalzate peraltro da una pressante domanda al loro interno di "fare qualcosa" per invertire la maledetta curva dei contagi e dei morti. Inoltre solo dal "centro" sembra potersi irradiare un senso effettivo e non solo caricaturale (tra balli e canzoni) di appartenenza nazionale che consolidi vincoli comunitari che altre realtà regionali, sorprendentemente ma comunque illegittimamente, dimostrano di aver dimenticato innalzando, a loro volta, "muri interni" che oltretutto non potrebbero, da soli, evitare il propagarsi dell'epidemia partita dalla Cina e purtroppo annidata ovunque nel mondo.
Resta tuttavia prioritario chiedersi anche sul piano logico se la costituzionalmente indispensabile normativa statale di rango primario (non certo i convulsi numerosi decreti del Presidente del Consiglio - DPCM - così come pure le ordinanze ministeriali del responsabile del dicastero della Salute piuttosto che di quello dell'Interno in qualche caso persino contestuali o sfalsati di qualche ora l'uno dall'altra) contenuta essenzialmente nel d.l.n. 6/2020, subitaneamente convertito nella legge n. 13/2020, abbia davvero soddisfatto il richiamato e noto requisito della riserva di legge, sia pure relativa, disciplinando compiutamente le restrizioni che ormai si spingono, in definitiva, ad impedire alle persone, tranne le sempre più circostanziate eccezioni, di "uscire di casa"; in secondo luogo ci può interrogare, naturalmente retoricamente, se la normativa statuale richiamata sia in effetti considerata dalle Regioni, specie quelle in prima linea nel fronteggiare l'epidemia, come un'apprezzata e accettata "base legale " da rispettare e da implementare. Per le considerazioni peraltro da subito richiamate è facile rispondere che l'attivazione normativa regionale contenuta in improbabili - sul piano della sistematica delle fonti - ordinanze dei rispettivi Presidenti (da "tutti a casa", "tutto chiuso", "nessun arrivo") finisce per essere, almeno spero, niente altro che lo stimolo provocatorio nei confronti del Governo affinché affronti con il maggiore rigore possibile il tema del "distanziamento sociale". Quel che è certo è che proprio recentemente, tra sabato 21 e domenica 22 marzo, a distanza di poche ore da quanto deliberato dal Presidente della Regione Lombardia, è in effetti arrivato un nuovo, ennesimo DPCM che ha finito per irrigidire le precedenti misure restrittive generali, valide sull'intero territorio nazionale, circa "lo stare fuori casa" (ad esempio per svolgere attività fisica) nella direzione reclamata dai governi regionali e in particolare da quello lombardo che, invertendo la ratio del c.d.potere sostitutivo, aveva ritenuto di poter disporre in autonomia la "blindatura" del territorio regionale (egualmente aveva così proceduto in quel frangente la stessa Regione Calabria).
Ad onor del vero a me pare comunque poco in linea con l'ortodossia costituzionale non tanto l'uso dello strumento della decretazione d'urgenza per fronteggiare l'emergenza sanitaria in atto - la dottrina ha sostenuto autorevolmente la fungibilità a certe condizioni del decreto legge rispetto alla legge ordinaria - quanto l'auto-delega prevista nel citato decreto convertito in legge in favore del solo Presidente del Consiglio (senza perciò l'emanazione del Capo dello Stato prevista per i regolamenti governativi adottati dall'organo governativo collegiale) affinché, attraverso norme di rango sub-secondario, si possa dare sostanza normativa alle impalpabili disposizioni primarie che quella sostanza non hanno per nulla. Non solo questo in verità; nel testo del decreto legge n. 6 si introduce una sorta di "delega" a generiche "autorità istituzionali" (inclusi i Presidenti delle Regioni?), cosicché, pur non essendo questo il tempo dei sofismi e dei distinguo, si ricava la disarmante impressione che "il governo" della grave emergenza sanitaria che sicuramente suggerisce drastici e opportuni mutamenti comportamentali di ciascuno di noi e un inevitabile affievolimento della nostra libertà personale, finisce per essere lasciato, certo non proprio in sintonia con il dettato costituzionale vigente, nella indeterminatezza di regole cangianti rapidamente e rimesse in esclusiva al solo Presidente del Consiglio (ma il Parlamento è, in tali delicati frangenti, in grado di funzionare?) e a chi lo affianca "tecnicamente" ma, verrebbe da pensare, consegnate principalmente al buon senso di ciascuno e di quanti sono chiamati a fare rispettare i confusi divieti e a comminare sanzioni. Speriamo che almeno basti e che ci si possano presto consentire toni meno concilianti per stigmatizzare le evidenti deroghe "emergenziali" all'applicazione dei precetti costituzionali vigenti.
Diritto di informazione e dovere di verità al tempo di COVID-19
di Giovanni Magrì
Sommario: 1. Nuove tecnologie e dimensione “orizzontale” del diritto di informazione - 2. Il dibattito sui “diritti aletici”: una rassegna- 3. Un esempio dal coronavirus: “fatti”, teorie, decisioni politiche
1. Nuove tecnologie e dimensione “orizzontale” del diritto di informazione
È quasi un luogo comune della filosofia politica e del diritto pubblico comparato: nella tradizione liberale (diciamo, semplificando: soprattutto anglosassone) i natural rights, e più tardi i fundamental rights, vengono sanciti e fatti valere essenzialmente nei confronti del potere; più precisamente del potere politico, che – costituito per stabilire (con le leggi) e conservare (con il monopolio della forza legittima) un ordine entro cui a ciascuno sia garantita la sicurezza della vita e a tutti la pace, onde meglio perseguire i propri interessi individuali – rischia di contraddire il suo stesso fondamento di legittimazione se, in nome dell’ordine e della pace sociale, nega e comprime quelle stesse libertà individuali, cui ordine e pace dovevano in ultima analisi essere funzionali. È, in buona sostanza, lo spauracchio del potere assoluto, che opera tanto al cuore dello stesso meccanismo logico e giuridico liberale di legittimazione del potere (il contrattualismo), quanto nella memoria storica dei popoli anglosassoni, degli inglesi come degli americani.
È di meno immediata comprensione, entro quella tradizione politico-culturale, l’idea che i diritti fondamentali possano essere lesi, e perciò meritino di essere protetti, anche da altri soggetti privati che tengano comportamenti i quali peraltro, rientrando nella loro sfera di libertà rispetto al potere politico, in prima approssimazione dovrebbero essere inquadrati come atti di esercizio di un loro diritto. Insomma: «se è riconosciuto ad un diritto fondamentale effetto diretto, tale riconoscimento dovrebbe essere caratterizzato da una doppia dimensione: quella verticale (autorità vs. libertà) e quella orizzontale (nei rapporti tra privati)»[1]; ma le Corti anglosassoni tradizionalmente resistono a trarre le conseguenze applicative del riconoscimento di tale ultima dimensione “orizzontale”, nell’assunto che «the judicialisation of relations between private persons [is] as an intolerable intrusion of the state into the sphere of private autonomy»[2].
L’assunto è arcinoto, discusso e studiato da diverse prospettive (di diritto costituzionale, di diritto internazionale e, da ultimo, anche di diritto civile). Ad abundantiam, valga la testimonianza autorevole di un intellettuale che, pure, non ha una formazione giuridica. Circa vent’anni fa, Jürgen Habermas, il grande sociologo e filosofo tedesco epigono della Scuola di Francoforte, cominciò a formulare le sue tesi su “i rischi di una genetica liberale” ed ebbe l’occasione di discuterle nel seminario di “Law, Philosophy & Social Theory” diretto da due altrettanto illustri colleghi, Ronald Dworkin e Thomas Nagel, presso la New York University Law School. Ne riportò l’impressione di una «differenza interessante» tra l’approccio dei filosofi tedeschi e quello dei colleghi americani[3], e ipotizzò che essa derivasse «da una fiducia ininterrotta nello sviluppo scientifico e tecnico, nonché dall’ottica di una tradizione liberale che risale a John Locke. La tutela delle libertà individuali dei soggetti di diritto viene fatta valere contro le interferenze dello stato, mentre – nell’analisi di ogni nuova sfida – si sottolineano soprattutto le minacce portate alla libertà nelle relazioni che collegano verticalmente i membri privati della società al potere dello stato. Di fronte al pericolo principale di una illecita invadenza del potere politico, passa in secondo piano la paura dell’abusivo potere esercitabile da privati contro privati nella dimensione orizzontale delle loro relazioni. Il diritto del liberalismo classico è estraneo all’idea di un “effetto su terzi” (Drittwirkung), ossia all’idea di un’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali nei confronti di soggetti privati»[4].
Credo di non sbagliare se dico che un analogo “strabismo” si sarebbe potuto osservare, fino a poco tempo fa, anche nella discussione pubblica intorno al diritto/dovere di informazione. In proposito, la prima “minaccia” a cui tutti per decenni abbiamo pensato è stata quella della censura, o più in genere della limitazione o manipolazione delle informazioni da parte del potere politico; ci siamo rappresentati come caso-limite le modalità operative seguite da Goebbles nella Germania nazista[5] e abbiamo guardato con ironia alla testata sovietica Pravda (letteralmente, la “Verità”) o ai dazibao o tazebao maoisti. I più avvertiti tra noi hanno sempre saputo che, almeno in tempi di guerra, anche i regimi democratici non si astengono dall’esercitare un certo controllo sull’informazione, sulla divulgazione culturale e persino sull’intrattenimento; ma hanno anche sperato che, in tempo di pace, la libertà di informazione (appunto: libertà “verticale”, dalla censura e dal controllo del potere politico), insieme con il pluralismo delle fonti, fosse un antidoto sufficiente a quella “inclinazione” apparentemente irrefrenabile di qualsiasi potere politico.
La dimensione “orizzontale” della tutela del diritto di informazione è stata per lo più circoscritta, invece, alla protezione, anche in sede civile, dei diritti della personalità (nome, immagine, integrità morale, onore e reputazione, più avanti identità personale e riservatezza) nei confronti di chi sia individuato come civilmente responsabile dei danni cagionati diffondendo informazioni false o riservate. Tutti abbiamo studiato, fin dall’inizio dei nostri percorsi di formazione giuridica, le posizioni rispettive del “direttore responsabile” e dell’editore di una testata giornalistica, come destinatari di provvedimenti di tutela preventiva (inibitoria, rettifica) e successiva (risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale) dei diritti della personalità eventualmente lesi, o posti in pericolo, da un’attività “imprenditoriale” o comunque “professionale” nell’ambito dell’informazione[6].
Anche in questa materia, le nuove tecnologie hanno recato con sé un cambiamento radicale. Il “tradizionale” pluralismo delle fonti, infatti, muta essenzialmente di portata (e, per evocare di nuovo e per l’ultima volta Mao, la quantità si trasforma in qualità), laddove ogni privato cittadino può diventare “fonte di informazione”, a vario titolo: di solito perché la riceve e la reinvia (ai suoi “contatti” sociali, in una connessione di “rete”), abbastanza spesso anche perché la rielabora e, volendo, la “manipola”, infine (relativamente meno di frequente, forse) perché la produce, in qualità di vera e propria “sorgente” (nella terminologia canonica di Shannon e Weaver), creando un messaggio del tutto nuovo. In ognuna di queste eventualità, ciascuno di noi può incidere sulla forza di propagazione e sulla credibilità del messaggio, se non altro perché tutte le sue azioni in rete vengono computate dagli algoritmi che fanno funzionare i cd. motori di ricerca e così ci restituiscono, in un certo ordine, le informazioni che cerchiamo tra quelle rese disponibili sul web (ma i meccanismi di selezione delle “notizie” sui social network, coi relativi algoritmi, hanno reso le cose ancor più complicate e potenzialmente pericolose).
Ora, la tradizione giuridica liberale si è comportata davanti a questi nuovi fenomeni… esattamente come ci si poteva aspettare che si comportasse. Attrezzatissima a difendere il diritto di informazione del singolo dalle ingerenze “verticali” del potere politico, per il resto ha trattato per lo più l’emissione indiscriminata di informazioni in rete come una radicalizzazione delle vecchie questioni di giustizia che si erano già poste ai tempi dei giornali di carta e, tutt’al più, dei network televisivi privati. Negli Stati Uniti, il principio generale seguito dalla Corte Suprema è rimasto quello per cui «con particolare riferimento al I Emendamento che riconosce la libertà di espressione (right to free speech), l’efficacia orizzontale (inter privatos) dello stesso è negata dall’applicazione della c.d. state action doctrine, in forza della quale le garanzie previste dai diritti sanciti dal Bill of Rights federale possono essere fatte valere soltanto nei confronti dei poteri pubblici e non dei privati»[7]. Perciò, ricordiamo tutti che a lungo uno dei problemi giuridici più dibattuti è stato se Facebook, nella persona del suo co-fondatore e CEO Mark Zuckerberg, potesse o no essere considerato responsabile (alla stregua di “editore”) delle notizie che circolano sul network; e la risposta è stata per molti anni negativa, dovendosi considerare Facebook un ambiente libero e completamente “orizzontale” (paritario, “P2P”), in cui ogni singolo utente decide (ed è responsabile) dell’attendibilità e delle conseguenze delle notizie che “posta” e condivide.
In tutto questo, è sfuggito a lungo che i diritti della personalità non sono gli unici “contro-valori” in gioco nella produzione e diffusione di informazioni; che la circolazione, e l’amplificazione nelle “camere di risonanza” virtuali[8], di informazioni false può limitare altresì l’esercizio di fondamentali diritti civili e politici, alterare l’esito di consultazioni elettorali, indurre a scelte errate e dannose per la convivenza[9] e, ad esempio – ma l’esempio non è mai stato così pertinente come in questi giorni –, per il diritto alla salute.
2. Il dibattito sui “diritti aletici”: una rassegna
Poi, ovviamente, anche su questo piano qualcosa è cambiato, sia nel dibattito pubblico, sia in sede teorica e dottrinale. Vorrei portare senza indugi l’attenzione sulla proposta di una filosofa, Franca D’Agostini, che, a partire da un articolo uscito sulle pagine di “Biblioteca della libertà”, ha elaborato una teoria complessiva dei cd. “diritti aletici”[10]. Questi sarebbero da intendere, in prima approssimazione, come articolazioni e specificazioni di un presunto e generalmente accettato «diritto alla verità» degli individui e dei popoli, necessarie per evitare che l’appello a quel diritto «valga solo come un accenno generico o un ”retorico strumento salvifico”»[11]. Per D’Agostini, dunque, «non si tratta soltanto del diritto di conoscere la verità, o di essere informati in modo veridico, ma di un gruppo di beni e valori diversi, tutti riportabili al rapporto di adeguatezza (o corrispondenza) tra le credenze e la realtà che esprimiamo con il predicato “è vero”». A titolo indicativo, l’autrice propone di isolare sei “diritti aletici”: essi «riguardano tre aree in cui il bene verità si rivela essere un bene socialmente importante: l’area dell’informazione, l’area della scienza e della conoscenza condivisa, l’area della cultura»; e sono, secondo D’Agostini, «progressivamente correttivi, nel senso che la salvaguardia dell’uno serve a correggere o limitare la sproporzionata osservanza dei precedenti»[12]. Tanto premesso, questi sono i sei diritti aletici proposti da D’Agostini: 1. «diritto di essere informati in modo veridico»; 2. «diritto di essere nelle condizioni di giudicare e cercare la verità»; 3. «diritto di essere riconosciuti come fonti affidabili di verità»; 4. «diritto di disporre di autorità aletiche affidabili, dunque di avere un sistema scientifico i cui criteri di valutazione sono truth-oriented»; 5. «diritto di vivere in una società che favorisca e salvaguardi ove necessario l’acquisizione della verità»; 6. «il diritto di vivere in una cultura (e una società) in cui è riconosciuta l’importanza della verità (in positivo e in negativo) per la vita privata e pubblica degli agenti sociali»[13].
Franca D’Agostini è una filosofa, con un particolare interesse per la logica e la filosofia della scienza. Non è una giurista. E non lo sono neanche alcuni di coloro che, sullo stesso fascicolo di “Biblioteca della libertà”, hanno discusso la sua proposta. Così, non deve stupire una qualche incertezza nell’identificare i “diritti aletici” come situazioni giuridiche soggettive con un preciso standard di tutela: nei commenti si oscilla tra la posizione “minimalista” di Elisabetta Galeotti, secondo cui «c’è un diritto collettivo, nel senso di un interesse generale fondamentale, a non avere informazioni false, manipolate e tendenziose»[14], e la posizione “massimalista” di Maurizio Ferrera, il quale interpreta il testo di D’Agostini nel senso per cui diritto aletico è una regola «che titola un attore sociale a pretendere giustificatamente verità dagli altri attori sociali (asse orizzontale) e dalle autorità politiche (asse verticale)»; ma nota che questa è un’accezione «debole» del concetto, mentre l’accezione forte configurerebbe «i diritti come poteri garantiti», cioè provvisti di «enforcement autoritativo»[15]. L’autrice sembra confermare l’interpretazione di Ferrera, sia pure con una riserva («non parlerei esattamente di ‘pretendere’ verità»[16]) di cui non chiarisce il senso.
Tuttavia, alcuni degli interlocutori di Franca D’Agostini hanno invece una formazione giuridica, e non possono che essere portatori di una nozione scientificamente determinata di “diritto” (soggettivo): non è un caso, dunque, se siano proprio costoro che, anziché chiedersi cosa intenda l’autrice per “diritti” aletici, sollevano dubbi per lo più fondati sull’opportunità, e sulla perseguibilità “tecnica”, di una strategia di “giuridificazione” così pervasiva della materia della “verità” nell’informazione. Come riferisce la stessa D’Agostini, «la perplessità più ovvia riguarda il fatto che non sempre si vuole sapere la verità e non sempre è giusto e utile saperla o ricordarla, da cui segue che un “diritto incondizionato alla verità” non è difendibile. Rodotà[17] segnala precisamente questa difficoltà, che è alla base di almeno due ordini di diritti opposti ai DA: il diritto individuale alla privacy, o a non conoscere verità sgradevoli; e il diritto collettivo alla pace sociale, dunque a dimenticare verità che potrebbero generare conflitto. In secondo luogo, frode, calunnia, falsa testimonianza sono tipiche fattispecie che coinvolgono la verità: ma è difficile isolare l’atto di “far credere” il falso o il non vero come un crimine, comportante un danno di per sé. Un caso esemplare è la legge sul “plagio” nel codice italiano (art. 603 del C.p.)»[18].
Se intuisco bene, vanno in una direzione convergente con questa i rilievi critici di Alessandra Facchi. La quale esordisce mettendo in chiaro qualcosa che, per noi giuristi, dovrebbe essere abbastanza ovvio: «che la verità costituisca un bene danneggiabile e espropriabile non implica che questo bene possa tradursi in un diritto soggettivo alla verità, inteso come pretesa legittimata e garantita in norme giuridiche. Non soltanto non è necessario ricorrere ai diritti individuali per sostenere un interesse collettivo, ma quest’ultimo non è sufficiente per sostenere un diritto soggettivo: ci vogliono bisogni e interessi individuali»[19]. Poi, però, Facchi si sposta sul terreno “epistemologico” più proprio di D’Agostini: «Innanzitutto mi pare importante circoscrivere l’oggetto del diritto: su cosa può vertere il diritto alla verità? Correttezza, esaustività, sincerità… rispetto a quali proposizioni o rappresentazioni possono essere giuridicamente tutelate?». E risponde: «A me pare che un ipotetico diritto alla verità come riferimento per giudici e legislatori possa vertere su proposizioni falsificabili. Si può cioè pretendere di sapere se è vera o falsa in modo giuridicamente rilevante l’affermazione che qualcosa si è verificato o si verificherà o no e con quali caratteri, o l’affermazione che un’opinione è stata espressa o no, in quali contesti e in quali forme; o l’affermazione che una norma – giuridica e/o sociale – esiste (è valida e/o vincolante). In tutti questi casi si tratta di fatti. Di una norma giuridica non si può dire se è vera, ma solo se è valida, cioè se esiste secondo i criteri dell’ordinamento in cui è inserita. Di un’espressione di fede non si può dire se è vera ma solo se esiste all’interno di un sistema di credenze». E Facchi conclude (questa parte del ragionamento) con una domanda che non può non richiamare alla memoria di tutti noi la fondazione “hobbesiana” del diritto positivo moderno: «Possiamo auspicare un ordinamento che in nome del diritto alla verità punisca o anche solo ostacoli una fede assumendola falsa, indipendentemente da altri danni che ha provocato o può provocare? È facile immaginare come potrebbe finire»[20].
Non me ne vorranno i lettori se abbandono qui la cronaca del dibattito. I testi sono tutti disponibili in rete, sul sito web del Centro Einaudi. Ai nostri fini, però, abbiamo già molta carne al fuoco. Tutt’al più, può essere utile riportare un’ultima affermazione di Franca D’Agostini, la quale, proprio in risposta ad Alessandra Facchi, coglie puntualmente un’esigenza teoretica assai stringente quando scrive, forse un po’ temerariamente, che «il fatto che la falsificazione di credenze complesse non sia facile non vuol dire che sia impossibile; il fatto che verità sottodeterminate non siano valutabili come verità categoriche non significa che non abbiano nessun valore di verità»[21]. E, soprattutto, vale la pena di riferire un ultimo passaggio di Alessandra Facchi, che, nel concedere a D’Agostini una premessa comune, afferma: «Correttezza, sincerità, esaustività, trasparenza hanno un ruolo centrale nella comunicazione, nella fiducia e nella cooperazione sociale, nella partecipazione democratica, nella salvaguardia della dignità e dell’autodeterminazione delle persone […] credenze condivise e stabili nel tempo contribuiscono all’integrazione sociale. Dal punto di vista soggettivo la verità è strettamente legata alla sicurezza, sapere di conoscere la verità ha una funzione di stabilità sociale e benessere individuale»[22]. Ecco una bella esemplificazione di tutti quei beni, interessi, valori, eccedenti la tutela in senso stretto di un diritto della personalità, che potrebbero meritare di essere tutelati non solo nei confronti del potere politico, ma anche in una “dimensione orizzontale”, di rapporti tra soggetti privati e pari ordinati. Ed ecco, soprattutto, un’ottima rassegna (compilata in tempi non sospetti, come si dice!) di tutti i profili del “bene giuridico” informazione (o, se si vuole: verità nell’informazione) che in qualche modo sono venuti in gioco nella recente vicenda dell’epidemia da COVID-19.
3. Un esempio dal coronavirus: “fatti”, teorie, decisioni politiche
Infatti, nel selezionare testi, opinioni, argomenti, ho avuto finora davanti sempre l’attuale stato delle cose, e del dibattito, intorno alla “corretta” informazione sul coronavirus. Di questo dibattito ora, a volo d’uccello, richiamerò alcuni profili, ritengo noti a tutti. In un primo momento, si è tornati a discutere del controllo politico sull’informazione: dei danni globali (ma, anche, ad avviso di qualcuno, dei vantaggi comparativi su scala nazionale) ascrivibili alla censura cinese; della strategia informativa seguita dall’amministrazione tedesca, che secondo alcune fonti di stampa avrebbe iniziato ad adottare provvedimenti restrittivi locali senza dare evidenza generale ai primi contagi, evitando in questo modo che all’emergenza sanitaria si sommasse fin da subito un’emergenza economica; o, ancora, dei “casi” rappresentati dalla Corea del Nord, dall’Iran, in misura diversa dalla Russia (in paesi connotati da una così scarsa trasparenza informativa, è possibile credere ai dati ufficiali sulla diffusione del virus?). In un secondo momento, si è iniziata una – difficile – operazione di fact checking sulle notizie immesse e condivise in rete da (sempre più numerosi) privati cittadini senza particolare competenza né scientifica né istituzionale, e lo si è fatto soprattutto con l’intento di persuadere la generalità degli “utenti” a conformarsi alle indicazioni delle autorità sanitarie e amministrative, senza lasciarsi fuorviare da fake news più o meno interessate. Sullo sfondo, tuttavia, è rimasta la generica convinzione che “loro sanno, e non ci dicono tutto quel che sanno”, via via specificantesi in svariate, e tra loro contraddittorie, “teorie del complotto” (virus prodotto in laboratorio per obiettivi strategici cinesi, e sfuggito di mano? Virus prodotto in laboratorio dagli Stati Uniti, o per loro conto da Israele, per ostacolare le strategie “imperiali” di Pechino? Virus diffuso dal “capitale internazionale” per piegare alcune economie nazionali, per completare il passaggio dall’industria manifatturiera all’economia digitale, per conculcare le libertà civili? E così via).
Vorrei allora isolare, e discutere brevemente, un esempio, che ritengo possa consentirmi di porre in evidenza i fondamentali problemi, sia epistemologici, sia giuridico-sociali, cui il dibattito teorico che ho riportato continuamente allude, ma che forse meritano di essere messi ancora più precisamente a fuoco.
L’esempio riguarda le politiche seguite, fino a pochi giorni fa, dal governo britannico presieduto da Boris Johnson. Mi pare che, ad oggi (20 marzo), nel Regno Unito non siano ancora state adottate misure coercitive di cd. “distanziamento sociale” per arginare la diffusione del coronavirus. Ma hanno fatto scalpore alcune dichiarazioni del premier, rilasciate lo scorso 12 marzo in conferenza stampa a Downing Street: l’ormai tristemente famoso «molte famiglie perderanno i loro cari», punta d’iceberg di un ragionamento più articolato secondo cui «il Paese si trova di fronte alla più seria emergenza sanitaria in una generazione» e tuttavia «prendere misure “draconiane” non farebbe grande differenza e potrebbe addirittura risultare controproducente»[23]. Il ragionamento sembrava chiarirsi alla luce della tesi espressa l’indomani a Sky News da Sir Patrick Vallance, medico, membro della Royal Society ma, soprattutto, Consigliere scientifico capo del governo del Regno Unito: secondo cui il Covid-19 «è una brutta malattia ma nella maggioranza dei casi ha soltanto sintomi lievi, […] il virus sarà stagionale e tornerebbe anche il prossimo inverno. Per questo è importante sviluppare un’immunità di gregge, per tenere sotto controllo il virus a lungo termine» e «con il 60% della popolazione infetta dal virus, avremmo una immunità di gregge»[24].
Nei giorni successivi, per lo meno in Italia, è stato tutto un mettere in discussione, nella comunità scientifica, la fondatezza delle tesi del dottor Vallance, evidenziando come il 60% di contagi ipotizzato per sviluppare l’immunità di gregge sia una percentuale del tutto aleatoria, in presenza di un virus del quale ancora non conosciamo il comportamento nel lungo periodo, che l’organismo umano non ha ancora mai imparato a riconoscere e contro il quale non disponiamo, ad oggi, di alcun vaccino; e come, d’altra parte, il numero di decessi cui si andrebbe incontro, mentre si attende di conseguire quella percentuale di contagi stimata utile per l’immunità di gregge, sia a tutti gli effetti incalcolabile, e forse molto superiore a quello che la popolazione britannica sarebbe disposta a tollerare.
Dibattito scientificamente del tutto legittimo, interessantissimo e molto utile; ma, questa è la mia impressione, dibattito che ha pochissimo a che vedere con una qualsiasi declinazione giuridica del tema della correttezza dell’informazione, o con il contenuto di un qualsiasi “diritto alla verità” della stregua di quelli ipotizzati da Franca D’Agostini. Per due ordini di motivi. Il primo: i “dati” presentati da Vallance non sono stati oggetto di una rilevazione empirica, ma sono stati generati da modelli matematici che presuppongono una “teoria” scientifica sull’evoluzione dell’epidemia. Ebbene, nei suoi aspetti “qualitativi” la teoria presupposta da Vallance (ed evidentemente accolta, almeno in un primo momento, dall’amministrazione Johnson) è pressoché identica a quella presupposta dagli scienziati di molte altre parti del mondo: secondo cui la curva del numero dei contagi può essere più “ripida” se non si adottano misure di cosiddetto “lockdown” (da noi, “quarantena”) ed esserlo molto meno se si adottano quelle misure; ma il numero complessivo delle persone che dovranno essere contagiate prima che l’epidemia raggiunga il suo “picco” non varia, mentre varierà il tempo occorrente per raggiungerlo, molto più lungo nel secondo caso, con evidenti effetti positivi per le capacità di cura del sistema sanitario ed evidenti effetti negativi per le capacità produttive della comunità nazionale (oltre che per l’esercizio delle libertà individuali). È in virtù di questa stessa (forma generale della) teoria, che l’OMS già da molte settimane ha raccomandato di adottare misure di contenimento per “rallentare” il contagio o “ritardare” il raggiungimento del picco, perché altrimenti i sistemi sanitari nazionali rischierebbero di non reggere all’impatto di troppe richieste di presa in cura e dovrebbero negare l’assistenza ad alcuni, o a molti. Rispetto a quest’ultimo punto, che è quello cruciale per la valutazione politica richiesta alle società democratiche, è certamente vero che con più tempo a disposizione si potrebbero escogitare e sperimentare protocolli terapeutici e di vaccinazione, o che il clima più caldo potrebbe mitigare la virulenza dell’epidemia: ma su entrambi questi aspetti ci troviamo attualmente in una situazione di assoluta incertezza, in cui (per definizione) è impossibile assegnare un valore numerico alla probabilità che gli eventi sperati si verifichino[25], e perciò è corretto non tenerne conto nell’elaborare una teoria scientifica con ambizioni predittive. In conclusione: quella che Vallance ha presentato è in buona sostanza una teoria, e come tale può e deve, in effetti, essere comunicata. E le teorie scientifiche si verificano (secondo l’epistemologia neo-empirista o neo-positivista, ancora in buona parte seguita nelle prassi della “comunità scientifica” in medicina o in biologia), ovvero si falsificano (secondo l’impostazione popperiana), ovvero, ancora, resistono finché ha presa nella società un insieme più generale di rappresentazioni con cui quelle teorie sono solidali, e che chiamiamo, con Thomas Kuhn, paradigma. Ma, allo stato attuale, nelle grandi linee, nulla di “definitivo” sappiamo della teoria corrente sulla propagazione del Covid-19; sicché non c’è materia per lamentare la violazione di un diritto alla verità dell’informazione, fino a quando le tesi di Vallance sono presentate, appunto, come dipendenti da una teoria. Purché l’utente (o meglio, dal mio punto di vista, il cittadino) sia preparato a capire cosa sia e che valore abbia, appunto, una “teoria”: ed è questo ciò di cui, semmai, si può e si deve dubitare.
Quel che ho detto finora, circa il sostanziale consenso sulle linee “qualitative” della teoria, non toglie che invece molto si possa discutere dei suoi aspetti “quantitativi”: che un’immunità di gregge prevista al 60 o al 90% di contagiati possa fare molta differenza, così come certamente la fa un numero atteso di 80, 8mila o 8 milioni di morti. Ma, così, veniamo al secondo ordine di motivi per cui il problema della “verità”, o anche solo della “trasparenza”, dell’informazione in questo caso è assolutamente marginale o, così come lo si vuole impostare abitualmente, è fuorviante. Ed è che, come sopra ho accennato, vi è una scelta politica la cui responsabilità grava sui governi e, indirettamente, sull’opinione pubblica delle società democratiche: ma questa scelta non è immediatamente tra economia e salute, o tra più morti probabili e meno morti sicuri. Piuttosto, se su un piatto della bilancia c’è la facile previsione di un forte rallentamento del ciclo economico, addirittura di un depauperamento della capacità produttiva dei paesi in termini di capitale umano e di infrastrutture, sull’altro piatto della bilancia c’è, se vogliamo limitarci a quel che possiamo razionalmente prevedere, la deliberata scelta (o quanto meno l’assunzione consapevole di un rischio elevato) di mettersi nella situazione in cui dover negare a qualcuno quel diritto all’assistenza sanitaria che, nelle nostre Costituzioni e nelle nostre culture civili, è configurato come diritto universale. Poiché i diritti, e specialmente quelli cd. “sociali”, hanno sempre un costo, ed è fattualmente possibile trovarsi in una situazione di scarsità di risorse, affermare che un diritto è universale significa orientare le politiche pubbliche in modo che ci siano sempre risorse per soddisfare le pretese di chiunque, derivanti dal riconoscimento di quel diritto (“pretese”, e non “aspettative”, è dunque il termine appropriato, con buona pace di Franca D’Agostini). E un diritto sancito come universale è violato quando anche una sola persona rimane senza cura per una scelta amministrativa discrezionale, sia pure dovuta ad obiettiva scarsità di risorse. Non importa quale aspettativa di vita abbia quell’unica persona. Non importa se alla scelta seguirà o no la morte di quell’unica persona. Non importa se a quella persona ne seguiranno altri milioni, o non ne seguirà nessun’altra. È questo, nella sua purezza, il conflitto di valori che ci si para davanti, in cui siamo chiamati a scegliere se rimanere fedeli alla nostra identità, costituzionale e culturale, ovvero optare per nuovi equilibri. I criteri di cui possiamo servirci per “inquadrare” l’alternativa, e scioglierla, si ritrovano nella tradizione secolare dell’etica normativa (penso, ad esempio, alla distinzione tra “uccidere” e “lasciar morire”) come del diritto della responsabilità civile e penale (penso, ad esempio, all’ardua distinzione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”). Nella prassi, è perfino ovvio che gli aspetti quantitativi di una previsione possibile incidono, eccome, sulla nostra scelta; che più numerosi, e più vicini a noi, saranno i morti, più inclineremo a dare peso, nel bilanciamento, alla tutela del diritto all’assistenza sanitaria come diritto universale; che nessun diritto “sociale” può mai essere coerentemente tutelato in universale e che qualsiasi società si fa carico del rischio (calcolabile) di un certo numero di morti in nome della prosperità economica e del libero accesso dei più a beni anche voluttuari[26]. Ma, in linea di principio, i numeri in cui si concretano le capacità di previsione di una teoria “scientifica” non fanno alcuna differenza, rispetto all’opzione di valore che Johnson e i cittadini britannici (ma, anche e specularmente: Conte e i cittadini italiani) si stanno trovando a dover adottare. E, di nuovo, l’informazione è “corretta” se riesce ad isolare e ad evidenziare quest’opzione di valore, che una conoscenza dei “fatti” la più ampia possibile può supportare, ma dalla responsabilità della quale nessuna “notizia” ci può esonerare.
Per riassumere: oggi il capo del Governo presenta alla cittadinanza uno scenario prevedibile e le decisioni politiche che intende adottare (o non adottare) in vista di quello scenario; domani il suo consigliere scientifico presenta delle ragioni teoriche che sembrano suffragare la previsione di quello scenario, e indirettamente l’adozione di quelle decisioni politiche. Quanto ai profili della veridicità e della trasparenza, il dovere di una fonte di informazione è di presentare la seconda comunicazione come una teoria, con l’autorevolezza e i limiti di una teoria; e la prima come una decisione, che non è mai (per definizione, proprio in quanto è “decisione”) la conseguenza automatica di una teoria scientifica, ma il frutto di un bilanciamento di valori; e di chiarire quali siano questi valori, cioè quale sia, come si dice, la posta in gioco. Che queste distinzioni vengano recepite dai destinatari dell’informazione, sembra molto difficile, in virtù di una nostra tendenza spontanea a cercare “risposte” definitive che ci sollevino dall’onere di interpretare il messaggio e di attribuire (sotto la nostra responsabilità) un “peso” e un “valore” alle diverse possibilità. Ma non è una difficoltà che si superi attraverso l’istituzionalizzazione di una pretesa azionabile alla verità dei contenuti informativi.
Ce n’è abbastanza per abbozzare qualche conclusione. Credo che abbia perfettamente ragione Alessandra Facchi: un ipotetico diritto alla verità come riferimento per giudici e legislatori può vertere solo su proposizioni falsificabili. E non credo che colga nel segno Franca D’Agostini, quando obietta che «il fatto che la falsificazione di credenze complesse non sia facile non vuol dire che sia impossibile»[27]. Sul piano teoretico, io sarei ancor più prudente di quanto lo sia Facchi: non solo tra le credenze “complesse”, ma anche tra quelle più “semplici”, sono pochissime quelle rigorosamente “falsificabili” e, al tempo stesso, ricche di contenuto informativo. Ma, in più, direi che il piano su cui siamo invitati a discutere non è tanto quello teoretico, ma quello normativo: non si tratta di “cosa c’è davvero” (ed eventualmente di “com’è fatto quel che c’è”), ma di quali ragioni (più o meno forti o valide e coerenti) abbiamo per qualificare normativamente una proposizione, attribuendole la modalità deontica del vietato o dell’obbligatorio o del facoltativo, attraverso le specifiche sanzioni. Ora, tra i professionisti intellettuali che lavorano con il linguaggio, il giurista è probabilmente, per formazione e per esperienza, il più attrezzato a comprendere due tesi (in sé non strettamente giuridiche, ma di filosofia teoretica), di cui sono profondamente convinto, e che adesso enuncerò. La prima: che è molto più facile determinare (tipizzare, per il giurista; semantizzare, per il logico) cosa sia “dire il falso”, e sanzionarlo per il danno che, eventualmente, può produrre, piuttosto che determinare cosa sia “dire il vero”; e questo, tra l’altro, perché non tutte le proposizioni che non sono false sono allora, per ciò solo, vere, dato che esiste un gran numero di proposizioni, in ogni momento nel tempo, che non sono né (sicuramente) false né (sicuramente) vere (per esempio, secondo Facchi «si può pretendere di sapere se è vera o falsa in modo giuridicamente rilevante l’affermazione che qualcosa […] si verificherà o no», ma il vecchio problema metafisico dei “futuri contingenti”, discusso già da Aristotele, dovrebbe dimostrare il contrario, e il molto più recente paradosso quantistico del “gatto di Schrödinger” dovrebbe dare il colpo di grazia a questa pretesa). Ed ecco la seconda tesi: nella vita sociale i “fatti”[28], o gli “stati di cose”, su cui vertono le proposizioni puramente descrittive (cd. verofunzionali), si intrecciano continuamente con livelli molteplici di qualificazione, o di attribuzione di senso, che possono essere “interpretativi” (i concetti e i relativi “piani di immanenza concettuale”, di cui parla Deleuze; le “teorie”; le “rappresentazioni”; in fin dei conti, qualsiasi vera “informazione”, in quanto messa-in-forma[29]) o “prescrittivi” (i giudizi di valore o di disvalore su certi comportamenti, cui si imputano normativamente determinate conseguenze); da questi molteplici livelli di qualificazione i fatti non saranno magari “inestricabili”, ma, senza di essi, sono ben poco interessanti, ben poco utili e per lo più, a dire il vero, anche ben poco dannosi.
Proprio da queste due tesi derivano come conseguenza logica, a me pare, due conclusioni, che in ultimo sottopongo alla discussione: che la strategia dei doveri negativi (di punire chi, dicendo il falso, arreca un danno) sia giuridicamente più percorribile rispetto alla strategia dei diritti (di pretendere la verità delle comunicazioni cui siamo esposti, in via generale e astratta); e che un’eccessiva enfasi sui fatti e sulla loro comunicazione veritiera rischia di indebolire l’appello alla responsabilità degli utenti-cittadini per i giudizi che, a partire dalle informazioni ricevute, essi sono chiamati a formulare, facendosene carico, senza che nessuno possa somministrare loro soluzioni preconfezionate, sull’assunto (falsamente) fattualistico che “non c’è alternativa”.
[1] O. Pollicino, L’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali previsti dalla Carta. La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di digital privacy come osservatorio privilegiato, in MediaLaws – Rivista dir. media, 3, 2018, pp. 138-163, qui p. 139 con riferimento a R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, tr. it. Il Mulino, Bologna 2012, pp. 570 s.; ma nello stesso testo si può trovare un’ampia bibliografia, rappresentativa del più recente dibattito (specie in lingua inglese) su un tema fondamentale del diritto costituzionale comparato.
[2] M. Tushnet, Shelley v. Kraemer and Theories of Equality, in New York Law School Law Review, 33, 1988, pp. 383 ss.
[3] «Mentre i filosofi tedeschi, facendo uso di un concetto di persona normativamente saturo e di un concetto di natura metafisicamente sostanzioso, discutono con un certo scetticismo se sia il caso di sviluppare ulteriormente la tecnica genetica (soprattutto per quanto riguarda la coltivazione di organi e la medicina riproduttiva), i colleghi americani si preoccupano invece di come si possa implementare uno sviluppo che in linea di principio non viene più messo in discussione e che, passando per le terapie genetiche, sembra destinato a sfociare nello “shopping in the genetic supermarket”. Queste tecnologie produrranno senz’altro interferenze sconvolgenti nel nesso delle generazioni. Ma agli occhi dei colleghi americani – che la pensano in modo pragmatico – le nuove pratiche, lungi dal sollevare questioni di tipo inedito, si limitano a radicalizzare vecchie questioni di giustizia distributiva».
[4] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, tr. it. Einaudi, Torino 2002, pp. 77 s. Sulla «teoria di matrice tedesca» della Drittwirkung dei diritti fondamentali, che «dopo aver preso il via dalla giurisprudenza coraggiosa, appunto, delle corti tedesche a partire dagli anni ’50, è diventata familiare anche per altre corti costituzionali europee ma anche per la Corte europea dei diritti dell’uomo nonché […] per la Corte di giustizia dell’Unione europea» (O. Pollicino, op. cit., p. 140), v. ora, in italiano, almeno gli Atti del Convegno a cura di E. Navarretta, Effettività e Drittwirkung. Idee a confronto, Pisa, 24-25 febbraio 2017, Giappichelli, Torino 2017.
[5] Ma nel nostro dibattito storico-politico si è affermata come formula emblematica quella del “MinCulPop”, abbreviazione per il “Ministero per la Cultura Popolare”, succeduto nel 1937 al Ministero per la Stampa e la Propaganda ed affidato a lungo ad Alessandro Pavolini.
[6] Nel diritto civile italiano, i riferimenti sono, da un lato, l’art. 21 Cost., dall’altro gli artt. 7-10 cod. civ., la l. 22 aprile 1941, n. 633 (sul diritto d’autore), la l. 8 febbraio 1948, n. 47 (sulla stampa), la l. 3 febbraio 1963, n. 69 (sull’ordinamento della professione di giornalista), con i successivi aggiornamenti; v., per un primo e generalissimo inquadramento, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, Napoli 200310, pp. 175-189. A partire dal D. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (recante il “Codice in materia di protezione dei dati personali”), si è poi aggiunta una legislazione copiosa ed eterogenea sul “diritto alla privacy”.
[7] O. Pollicino, op. cit., p. 139.
[8] Sugli effetti di quei fenomeni che nella letteratura anglosassone si chiamano “echo chambers” e “filter bubbles” v., in prima approssimazione, S. Bentivegna-G. Boccia Artieri, Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale, Laterza, Roma-Bari 2019; importanti prospettive critiche in P. Dominici, Dentro la società interconnessa. La cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica, FrancoAngeli, Milano 20192.
[9] Per alcuni esempi in questa direzione, in una bibliografia vastissima mi piace suggerire il breve e puntuale articolo di S. Panero, Libertà di stampa e responsabilità dei media, postato il 25 novembre 2019 sul sito del Movimento Studentesco per l’Organizzazione Internazionale: v. https://www.msoithepost.org/2019/11/25/liberta-di-stampa-e-responsabilita-dei-media.
[10] F. D’Agostini, Diritti aletici, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 5-42; v. anche Ead., Risposte, chiarimenti e ipotesi, ivi, pp. 89-126.
[11] Ead., Diritti aletici, cit., p. 6, con riferimento a S. Rodotà, “Il diritto alla verità”, in Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 211-231, qui 217.
[12] Ead., Diritti aletici, cit., pp. 14 s.
[13] Ivi, pp. 15-25.
[14] A. E. Galeotti, La difficile convivenza di veritò e inganno, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 81-87, qui p. 84.
[15] M. Ferrera, L’anima aletica della democrazia liberale, ivi, pp. 67-79, qui p. 74.
[16] F. D’Agostini, Risposte, chiarimenti e ipotesi, cit., p. 101.
[17] Il riferimento è a S. Rodotà, “Il diritto alla verità”, cit., pp. 226 e ss.
[18] F. D’Agostini, Diritti aletici, pp. 7 s.
[19] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 51-65, qui p. 53.
[20] Ivi, pp. 55 s.
[21] F. D’Agostini, Risposte, chiarimenti e ipotesi, cit., p. 102.
[22] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, cit., p. 51.
[23] Così la corrispondenza di Luigi Ippolito sul “Corriere della Sera” del 14 marzo 2020.
[24] I virgolettati sono tratti dalla corrispondenza di Antonello Guerrera su “La Repubblica” del 13 marzo 2020.
[25] Sulla distinzione tra “rischio” e “incertezza”, fissata dall’economista F. H. Knight nel 1921, v. dal punto di vista epistemologico almeno S. O. Funtowicz-J. R. Ravetz, Uncertainty and Quality in Science for Policy, Kluwer, Dordrecht 1990, nonché, degli stessi autori, Uncertainty, complexity and post-normal science, “Environmental Toxicology and Chemistry”, vol. 13, n. 12, 1994, pp. 1881-1885.
[26] Lo ha dimostrato Guido Calabresi in due libri fondamentali, Scelte tragiche (Tragic Choices, con Philip Bobbitt, W.W. Norton & Company, New York 1978; tr. it. Giuffrè, Milano 1986), e soprattutto Il dono dello spirito maligno (“The gift of the Evil Deity”, in Ideals, Beliefs, Attitudes and Law, Syracuse University Press, New York 1985; tr. it. Giuffrè, Milano 1996; un’interessante ripresa è in S. Amato, Coazione, coesistenza, compassione, Giappichelli, Torino 2002). Sulla situazione attuale v. lo scritto breve ma folgorante di Luciano Sesta, Conte per l’epidemia, Johnson per la tabaccheria, disponibile all’indirizzo https://sfero.me/article/conte-epidemia-johnson-tabaccheria.
[27] Sulle buone ragioni teoretiche che inducono Franca D’Agostini a questa replica v., oltre ai suoi scritti (in particolare, e in prima approssimazione, Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011), il dibattito contenuto in M. De Caro-M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012 in cui sono discusse molte cose interessanti e che trova forse il suo punto filosoficamente meno soddisfacente proprio nel contributo di Maurizio Ferraris (del quale comunque v., proprio sul nostro tema, Postverità e altri enigmi, Il Mulino 2017).
[28] Uso le virgolette, per alludere alla tesi (che sostengo) per cui la stessa “empiricità” del fatto è sempre frutto di un’interpretazione. Questo, nessuno lo sa bene come i giudici; ma, nella letteratura filosofica, v. per esempio le lezioni di Wilfrid Sellars del 1956, The Myth of the Given, poi in Empiricism and Philosophy of Mind (1963), ora con introduzione di R. Rorty e un saggio di R. Brandom, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1997; tr. it. Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004. V. anche D. Sacchi, Evidenza e interpretazione. Argomenti per una riflessione sulla struttura originaria del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1988; e, per un approfondimento storico, i due testi epocali di M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1977, e A. G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975.
[29] Come ha ricordato Bruno Montanari nel suo contributo di una settimana fa a “Giustiziainsieme”, Informazione e comunicazione: tra reattività e riflessione.Giovanni Magrì
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