ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il carcere nello specchio di un’emergenza
di Mauro Palma
sommario: 1. Guardare dentro oggi. - 2. Lo sguardo di sempre. - 3. Lo sguardo dell’urgenza.
Il rischio di contagio all’interno di un’istituzione chiusa e densa quale è il carcere e le manifestazioni anche violente che si sono sviluppate nei primi giorni di marzo costituiscono uno specchio per leggere la realtà attuale della detenzione e il recente abbandono di una effettiva progettualità nell’esecuzione delle pene. Questa premessa deve essere alla base di una implementazione significativa delle pur limitate misure di decongestione del carcere finora adottate.
Sommario: 1. Guardare dentro oggi. - 2. Lo sguardo di sempre. - 3. Lo sguardo dell’urgenza.
1. Guardare dentro oggi.
Difficile parlare del carcere in questi giorni. Tentare di descrivere la sensazione di ‘doppia detenzione’ che pervade corridoi e stanze e che aggiunge al senso di restrizione, proprio della situazione contingente dell’essere in quel luogo, quello del nemico invisibile e intangibile che il contagio rappresenta e che potrebbe entrare in quei corridoi e in quelle stanze.
Difficile, soprattutto perché la necessaria urgenza di approntare difese rispetto alla rapidità attuale del propagarsi della positività al Covid-19 deve coniugarsi con l’efficacia di ogni strumento che si intende predisporre: deve essere in grado di ridurre quella densità umana di cui il carcere è concreta rappresentazione. Una riduzione necessaria perché situazioni chiuse e dense, abitate da una popolazione che spesso – troppo spesso – è connotata dall’accentuata vulnerabilità sono luoghi di potenziale esplosione non solo del contagio, ma anche della rabbia e di una reazione che nella sua stessa violenza assume una connotazione autodistruttrice.
Questi giorni hanno visto proprio gli effetti di una rabbiosa risposta a un messaggio che è entrato in modo strisciante nei luoghi di detenzione: quello del prospettarsi di una improvvisa e stretta chiusura, con blocco delle persone che entravano e uscivano dal carcere per semilibertà o accesso al lavoro esterno e drastica interruzione dei colloqui visivi e degli apporti che associazioni e cooperative offrono alla realizzazione di programmi che diano concretezza alla finalità costituzionale della pena detentiva. Un blocco annunciato a cui si contrapponeva visibilmente l’assenza di misure volte a tutelare gli ‘interni’ dal possibile contagio prodotto dagli ‘esterni’ che continuavano a entrare negli istituti per funzioni di sicurezza o di amministrazione senza alcuna misura di controllo. Questa asimmetria prospettata – prima ancora che vissuta – ha dato la sensazione plastica di una lettura esterna del mondo detentivo non soltanto come non appartenente al complessivo quadro sociale, ma come un universo carico di una morbilità intrinseca che coinvolgeva le persone ristrette e anche quelle a loro legate.
A nessuno è sfuggito il fatto che talune proposte e qualche improvvida iniziativa locale siano andate in questa direzione prima ancora che il decreto dello scorso 8 marzo venisse emanato. Così come è stato evidente che in alcuni ambiti si sia ragionato in via analogica con la previsione del primo comma dell’articolo 41-bis, come se l’emergenza richiedesse la sospensione del trattamento. Non è sfuggito, per esempio, al Garante nazionale che un Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria già dal 24 febbraio avesse disposto la «sospensione fino al 1° marzo di ogni attività trattamentale, di natura culturale, ludico o sportiva per cui sia previsto l’accesso della comunità esterna» negli Istituti di competenza oltre che «la sospensione dei colloqui detenuti/familiari». Quasi che la comunità esterna, oltre che i congiunti delle persone detenute, fossero il solo veicolo di possibile contagio, a differenza degli operatori interni sui quali continuava a non essere eseguito alcun controllo.
Questo pre-allarme è stato uno dei fattori che ha determinato l’insorgere della violenta protesta non appena è stato firmato il decreto che sospendeva i colloqui fino al 22 marzo e che incoraggiava fortemente il ricorso all’utilizzo di strumenti di comunicazione a distanza, oltre che incentivare in durata e numero i colloqui telefonici: in fondo una misura ridotta rispetto ai rumors precedenti, ma la tensione era già alta e la notizia di un caso di contagio nell’Istituto di Modena ha avviato la più dura e cruenta protesta degli ultimi trent’anni. Ne sono stati coinvolti quarantanove Istituti e l’esito sono stati tredici morti tra le persone detenute e quasi sessanta agenti di Polizia penitenziaria feriti, in modo non grave, e un nutrito gruppo di evasi dall’Istituto di Foggia, al momento quasi tutti riportati in carcere. Ben undici delle persone decedute erano straniere: nomi e numeri a cui è difficile associare una storia e che un po’ frettolosamente sono state archiviate come decedute a seguito di loro comportamenti. Nessun elemento vi è per sostenere ipotesi diverse da quelle fin qui formulate dalle autorità che indagano, ma colpisce la rapida dimenticanza delle loro storie – a uno mancavano solo alcune settimane prima del termine dell’esecuzione penale – il loro non essere nemmeno menzionate nel riportare gli episodi al Parlamento, il loro essere solo un numero. Tredici, ben superiore anche a eventi drammatici del passato nel periodo di insorgenze carcerarie che si connettevano con una realtà esterna in sommovimento. Oggi, nella calma esterna accentuata dalle strade deserte e da quel tempo sospeso che il ritrovarsi all’interno di un contagio di cui noi stessi siamo portatori comporta, sembrano poca cosa. Forse sembra contare di più il capire se e come la criminalità organizzata si sia inserita nelle maglie di queste proteste, perché ciò attenua la nostra responsabilità rispetto a un sistema detentivo che anche senza epidemie ci interroga sulla sua compatibilità con quanto il Costituente volle definire in termini di utilità, funzionalità e, quindi, d’intrinseca legittimità dell’esecuzione penale.
2. Lo sguardo di sempre.
Quest’ultimo aspetto riporta alla descrizione del carcere precedente alla contingente emergenza. La si può analizzare seguendo tre direttrici: la prima, la più usuale, è quella dell’affollamento, oltre i parametri definiti sin dal 1975 e soprattutto in taluni Istituti oltre il tollerabile; la seconda è quella sensatezza del tempo che scorre nella privazione della libertà e la sua commensurabilità con il fluire del tempo esterno; la terza è quella del possibile recupero di una finalità rieducativa, seppure tendenziale, nel contesto attuale.
Sono tre direttrici che si intersecano tra loro e che vanno considerate come variabili di sfondo rispetto alle quali leggere la connessione con l’emergenza attuale. Per avere così una chiave di lettura anche del decreto legge che porta proprio la data di ieri, 17 marzo 2020. Perché queste tre direttrici, lette congiuntamente, aprono a una riflessione che investe il ruolo che un ordinamento democratico assegna alle pene, il loro necessario non restringersi alla detenzione, la loro continuità con lo scorrere della vita prima e dopo la commissione del reato e le modalità di espiazione della relativa sanzione. In sintesi una riflessione sulla sensatezza e sulla ‘produttività’ del sistema sanzionatorio.
L’aver posto gli apici al termine ‘produttività’ non è casuale, proprio per l’ambiguità che questo riferimento può determinare. Eppure le sanzioni penali devono corrispondere a una utilità sociale ed è giusto verificare se tale utilità si raggiunga o quantomeno si adombri nell’attuale sistema: se, quindi, l’attuale esecuzione delle pene raggiunga o meno tale obiettivo. Certamente, infatti, la risposta al reato non può restringersi alla mera simmetria – o quasi – di quanto commesso, né proporsi solo in termini di prevenzione rispetto alla reiterazione del reato o di monito per altri potenziali autori. In primo luogo, perché la tipologia prevalente dei reati commessi da chi attualmente è ristretto in carcere nel nostro paese – e analogamente in quello di altri paesi economicamente e socialmente simili – è quella della serialità: forte è la connessione con scelte soggettive, con stili di vita, spesso criminalizzati in quanto assunti come non coerenti con il modello di normalità pre-definito. È questo il caso dei reati relativi all’uso di sostanze stupefacenti, in termini sia direttamente di possesso e piccolo spaccio, sia di azioni commesse per procurarsele. Così come frequente è la presenza di autori di reati connessi alla marginalità sociale e a vite quotidianamente condotte ai limiti della legalità; situazioni numericamente accentuate negli ultimi anni col ridursi della presenza di strutture di appoggio e, di fatto, anche di orientamento verso la legalità. Tutte situazioni, queste, che determinano nell’attuale sistema detenzioni sostanzialmente brevi e frequentemente ripetute – situazioni che chiariscono il riferimento alla mancata ‘produttività’.
Qui, i numeri aiutano: alla data odierna 4567 persone scontano in carcere una pena – non un residuo di una pena maggiore – inferiore ai due anni, senza altre pendenze; di questi, 1545 scontano una pena inferiore a un anno. Questo dato per un verso ci interroga e per altro verso apre alla prospettiva che si vuole intraprendere in questo momento per venire incontro all’ineludibile esigenza di alleggerire la densità detentiva. Una densità ancora più accentuata oggi che, dopo le rivolte, più di mille posti sono divenuti indisponibili e si sono aggiunti ai quasi quattromila che già erano tali.
Il numero interroga su cosa rappresenti quel residuo interno di persone che avrebbero potuto godere di modalità alternative che l’ordinamento prevede. Rappresenta qualcosa che in primo luogo sintetizzo con il termine povertà. Povertà non solo materiale o di dimora, ma anche di strutture sociali che sostengano la difficoltà, la capacità di comprendere, la possibilità di accedere a strumenti che non rendano i diritti delle mere enunciazioni. La loro presenza in carcere è l’immagine, quindi, di altre assenze, esterne a esso. Ma, in secondo luogo, rappresenta anche la tendenza a cedere anche inconsapevolmente alle paure che negli ultimi anni sono state coltivate da più parti alla ricerca di consenso: le cautele verso le misure alternative – che se sotto il profilo normativo non si sono ampliate come si sperava, non sono neppure state ridotte – sono il rischio di un cedimento alla logica consensuale nella loro concessione. Altrimenti è difficile spiegare come mai nell’ultimo anno si sono ridotti gli ingressi in carcere dalla libertà di circa mille unità e al contempo è aumentato il numero delle presenze di milleduecento unità: si entra e non si esce.
Parallelamente, queste linee di riflessione intersecano la variabile tempo. Il legame tra tempo interno e tempo esterno va rapidamente perdendosi. Non solo perché il ritmo del secondo è fortemente accelerato, mentre quello del primo si ripete immutato, facendo sì che una unità di tempo sottratto alla libertà oggi contenga un quantitativo molto maggiore di esperienze perse di quanto non ne contenesse nel passato, quando il quantum di pena per un dato reato venne normativamente definito; determinando così una maggiore difficoltà di reinserimento effettivo ed attivo nel contesto sociale esterno. Ma anche perché il tempo nel carcere di oggi è sostanzialmente, salvo alcune lodevoli eccezioni, un contenitore di ‘intrattenimento’ più o meno adeguato, ma che sempre rimane proiettato all’oggi e al dentro senza interrogarsi sul domani e il fuori. Il carcere ha perso una ipotesi e rimane soltanto sottrazione: molti si sforzano di rendere accettabile, decorosa e rispettosa tale sottrazione, ma senza una ipotesi progettuale in grado in primo luogo di restringere la sua ampiezza ai soli casi di effettiva necessità e possibile utilità, resta una pena, appunto, meramente sottrattiva.
3. Lo sguardo dell’urgenza.
In questo panorama si inserisce lo sguardo dell’urgenza che la situazione attuale richiede. E che può paradossalmente essere un’occasione: per ridurre i numeri, per tornare a interrogarsi sul perché del carcere e sul suo limite.
C’è molto cammino da fare, andando a passo svelto perché così richiesto dall’impellenza del presente, ma anche con passo ben direzionato perché deve essere chiara la necessità di ridare sensatezza al cammino, di ricomprendere l’orientamento dei passi. In questa ipotesi il decreto di ieri è soltanto un primo piccolo passo in avanti che sarà ben direzionato se in sede applicativa saprà cogliere il senso del suo andare e non si restringerà nella timidezza.
Il decreto interviene su due istituti esistenti: il primo è la semilibertà, prevedendo la possibilità di licenza e, quindi, il non rientro in carcere di quelle 1060 persone detenute che già spendono l’intera giornata fuori di esso, così recuperando per un arco di tempo un discreto numero di posti potenzialmente utili in caso di diffondersi della necessità di spazi dove separare persone; il secondo è l’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio in una forma accelerata, che affianca quella esistente per un periodo che si suppone copra la necessità di far fronte all’epidemia, con una procedura più snella e con dei ‘paletti’ più forti proprio a compensare tale maggiore fluidità di adozione del provvedimento. Lo scontro su questi ‘paletti’ non è stato di poco conto e taluni lasciano tuttora perplessi, soprattutto relativamente all’incidenza di aspetti disciplinari sulla complessiva decisione. Questi – vale la pena ricordarlo – sono anche il frutto di timori sorti dopo le recenti insorgenze in carcere e della conseguente volontà di non apparire cedevoli di fronte alle proteste: di nuovo uno sguardo miope di fronte a una necessità di saper guardare lontano.
Resta fermo l’elemento decisionale del magistrato. Che dovrà saper comprendere il senso della norma sia nella sua prospettiva immediata di prevenire una situazione che avrebbe riflessi gravi sulla popolazione ristretta e anche su quella al di qua del muro di cinta, sia nella prospettiva di lungo periodo per riaprire una condivisione di responsabilità con i territori affinché il carcere non sia il luogo dove si addensano le contraddizioni che in essi non trovano risposta. Certamente colpisce il vincolo della disponibilità del controllo elettronico – quasi a dare all’impresa appaltatrice il perno della decisione sulla libertà – ma tranquillizzano da tempo le Sezioni unite della Cassazione che più di tre anni fa hanno chiarito come l’indisponibilità del controllo tecnologico non possa essere motivo per evitare una circostanziata valutazione e l’adozione di una misura che ne faccia a meno.
Non credo che il fatto che un passo sia considerato ancora limitato, piccolo, possa non indurre a percorrerlo con apertura verso i successivi. L’essenziale è, come sempre, la chiarezza della direzione.
Avvocati dopo il coronavirus: il cambio di paradigma.
di Cataldo Intrieri
Rispondo volentieri al gentile invito di Paola Filippi e Roberto Conti a raccontare l’esperienza di un avvocato nei giorni sospesi del Corona -virus, con l’ovvia premessa che questo è il punto di vista non della categoria ma di uno dei 200.000 e passa, tappato da due settimane in un condominio del Trieste Salario.
Oltre ad una migliore comprensione di cosa possa avere spinto in passato molti assistiti a violare i domiciliari credo che il sentimento comune sia quello di chi sta sperimentando la scossa tellurica di ciò che Thomas Kuhn chiamava un “ cambio di paradigma”. La mutazione dei parametri di riferimento sociali e lavorativi.
Passato un primo momento di illusoria fiducia in rapido ritorno alla normalità la pubblicazione del Decreto Legge Curitalia (il degrado della legislazione eè bene illustrato dalla scelta dei nomi dei provvedimenti) ci ha brutalmente messo di fronte alla realtà . Ed al futuro prossimo venturo.
Innanzitutto abbiamo capito che lo Stato non darà alcun paracadute.
Non sono previste misure ne’ facilitazioni ne’ garanzie per accesso al credito per chi si dovesse trovare in difficoltà.
Financo l’” una tantum” di 600€ non verrà corrisposta agli avvocati .
Eppure come mi racconta il collega Giulio Lazzaro responsabile dell’Osservatorio dell’Unione Camere Penali sul patrocinio dei non abbienti basterebbe che si sbloccassero in tempo rapido ed accettabile le liquidazioni dei decreti di pagamenti per le difese a carico dello Stato . Ce ne sono vecchi di due anni. Stiamo parlando per il 2019 di una spesa approvata di circa 180 mln di € per un importo pro-fattura di circa 1000,00.
L’una tantum del Curitalia costa da sola circa 3 miliardi di euro.
Soldi già stanziati e presenti nelle disponibilità degli uffici dei tribunali ma che non vengono materialmente erogati per la cronica mancanza di personale degli uffici giudiziari ed anche oggi che l’attività e’ ferma non si registra alcuna accelerazione delle procedure.
Lazzaro mi riferisce che le banche che praticano lo sconto delle fatture riconosciute procedono al pagamento dell’80% delle somme riconosciute trattenendo un aggio di ben il 20% .
Ho letto con piacere i messaggi di solidarietà di alcuni magistrati e li ho diffusi sui social dove sono stati molto apprezzati.
Sicuramente per molti colleghi sarebbe altrettanto gradito un concreto intervento dei dirigenti degli uffici, come talvolta è avvenuto e Lazzaro mi cita il presidente del Tribunale di Livorno.
Molti avvocati prestano meritoriamente la loro opera in difesa delle categorie più svantaggiate.
Non parliamo solo di ordinari frequentatori di patrie galere, oggi il patrocinio dello Stato investe la tutela di soggetti vulnerabili come le vittime di abusi ed atti di violenza oppure i migranti che chiedono asilo. Il nucleo base dei diritti umani, un aspetto fondamentale che spesso viene mortificato con liquidazioni di poche centinaia di euro. E si parla anche di giovani , bravissimi colleghi in una realtà professionale sempre più difficile.
Ma tutti noi avvocati siamo scivolati dentro l’emergenza di cui l’aspetto economico costituisce una parte ma non è tutto.
Siamo stati espulsi dai luoghi abituali in cui per decenni ci siamo mossi , dalle aule come dagli studi , e costretti ad un domicilio coatto abbiamo scoperto le potenzialità lavorative e comunicative dei mezzi di comunicazione informatici e telematici oltre l’uso sedimentato dall’abitudine e dalla frivolezza delle comunicazioni social.
Non più “ dei” mezzi di lavoro come altri ma “i” mezzi di lavoro.
Skype business e Whereby sono diventati gli unici mezzi di contatto con cui riusciamo ad organizzare il lavoro , parlare coi colleghi , coi clienti ed ora coi magistrati e gli uffici giudiziari.
Abbiamo capito nel nostro lavoro che non sarà sufficiente “ riaccendere la luce nella stanza” oppure rientrare nei tribunali come dopo un “ allarme bomba”.
Sarà lunga e difficile , potremo rientrare contingentati, entrare negli uffici a determinate ore e prenotandoci.
L’idea dei capannelli nel cortile in una bella giornata, lo struscio pigro nei corridoi , l’indugiare in sala avvocati . Abitudini scontate che oggi sembrano i segni di un’altra epoca .
Giorno dopo giorno ci chiediamo cosa succederà , cerchiamo di dare un minimo di fiducia agli assistiti ed ai familiari .
Ci sono circa 60.000 detenuti la gran parte in attesa di giudizio per cui diventa difficile fare delle previsioni. I rinvii già oggi sono per la fine dell’anno .
Ovviamente l’ideologia giustizialista ed apertamente reazionaria di un governo non legittimato da una maggioranza elettorale scarica i costi della paralisi sui nemici simbolici : i detenuti, i rifiuti, gli imputati presunti colpevoli .
Se non vogliono vedere dilatata l’attesa di un esito processuale devono farne richiesta .
È un diritto di cui lo Stato dovrebbe farsi carico ed invece è un onere per chi è accusato e limitato nella libertà .
Una situazione, va detto con estrema chiarezza, inaccettabile che pone un enorme problema di coscienza a carico dei difensori e dei magistrati.
Non sarà possibile ritornare in tempi rapidi ad una condizione di sicurezza che renda agibili come prima le aule di giustizia .
Salvo non si voglia mettere a rischio la salute oltre che degli imputati di avvocati magistrati e personale amministrativo il ricorso a modalità a distanza appare una necessità .
Alcuni miei colleghi ritengono che ciò sarebbe una grave rinuncia ai principi di oralità ed immediatezza che una serie di prassi e sentenze già stanno erodendo .
Argomentazione seria ma che deve essere soppesata con esigenze di analogo grado come il diritto ad un processo in tempi ragionevoli ed alla tutela della salute.
Si tratta di estendere una modalità oggi limitata solo ai casi di imputati detenuti.
Si può stabilire (e forse non occorre neanche una legge ma un protocollo) che la scelta sia rimessa al difensore ed all’imputato ogni qualvolta la situazione sanitaria non offra sufficienti garanzie ma non nascondiamoci dietro un dito: un contraddittorio imperfetto e’ sicuramente preferibile ad un contraddittorio negato.
La mia modesta e personale opinione si conclude con una specifica richiesta ai miei gentili interlocutori , lettori di questa rivista.
Sia ben chiaro che parlo per me stesso e da “cane sciolto “.
Rinunciate signori magistrati per quest’anno ai termini feriali. Facciamo insieme un sacrificio in nome di quella giustizia che malediciamo come irraggiungibile ma per cui molti di noi hanno impiegato la loro vita.
Sia pure in modo imperfetto, ricorrendo alla tecnica ed al processo a distanza ripartiamo quanto prima. Stabiliamo delle regole per l’emergenza , ma ripartiamo presto .
Come i medici e gli infermieri al fronte non possiamo negare ai più deboli un servizio essenziale come non possiamo negare ai più giovani e svantaggiati il diritto al lavoro, ve lo dico senza ipocrisia e così senza ipocrisia va data una risposta .
I latini direbbero : “ Hic Rhodus... più semplicemente gli eredi dicono : “ le chiacchiere stanno a zero” . Fatemi sapere .
Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020 n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1.Disposizioni emergenziali e carcere. - 2.L’esecuzione domiciliare in deroga: requisiti e preclusioni. - 3.La nuova misura alla prova del sovraffollamento e del rischio sanitario. - 4.Le licenze straordinarie per i semiliberi.
1.Disposizioni emergenziali e carcere.
Il DL “cura Italia” approvato ieri contiene, all’interno di una vasta congerie di interventi legati alle più varie necessità connesse all’emergenza che stiamo attraversando, anche alcune disposizioni relative al carcere (art. 123 e 124), che si aggiungono a quelle, per la verità di portata assai limitata, contenute nel DL 8 marzo 2020 n. 11.
2.L’esecuzione domiciliare in deroga: requisiti e preclusioni.
L’innovazione più significativa è la previsione di una misura, temporanea ed emergenziale, di detenzione domiciliare, secondo la terminologia usata nella rubrica, per i condannati a pena non superiore a 18 mesi, anche residui.
La nuova misura opera mediante alcune deroghe, previste con l’intento di incrementarne la concessione e semplificare l’istruttoria necessaria, con alcuni correttivi conseguenti, rispetto alla esecuzione domiciliare della pena non superiore a 18 mesi introdotta, anche in quel caso per ragioni emergenziali, con legge 26 novembre 2010 n. 199, poi in seguito modificata e ampliata e da ultimo stabilizzata nell’ordinamento con il D.L. 23 dicembre 2013 n. 146.
Si prevede che siano eseguite presso il domicilio o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, le pene residue non superiori a 18 mesi. Il primo fondamentale requisito per usufruire della misura è dunque la disponibilità di un domicilio. Se la pena, anche residua, supera i sei mesi, occorre applicare all’interessato un dispositivo di controllo, ed è condizione dirimente che l’interessato presti il consenso all’attivazione del dispositivo. Inoltre quando, nel corso dell’esecuzione della misura concessa, la soglia di pena espianda scende al di sotto dei sei mesi la procedura di controllo viene disattivata.
Quest’ultima scelta si collega direttamente alla consapevolezza di dover operare con strumenti di controllo insufficienti per numero, e dunque della necessità da un lato di contingentarne l’uso allo stretto indispensabile, e dall’altro di intervenire mediante un apposito provvedimento del Capo DAP d’intesa con il capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, che indirizzi le risorse verso gli istituti penitenziari maggiormente gravati e con evidenze di rischio epidemiologico più alto.
L’esecuzione in questi casi è quindi subordinata al concreto reperimento del mezzo di controllo ed è data priorità all’esecuzione in favore dei condannati che presentino un residuo pena inferiore.
Viene prevista, analogamente a quanto accade per la misura adottata ai sensi della L. 199/2010, una serie di eccezioni all’applicazione, che esclude innanzitutto i condannati per uno dei delitti inseriti nell’art. 4-bis ord. penit..
Si riproporrà, in questa sede, l’annosa querelle relativa alla possibilità di sciogliere il cumulo in caso di compresenza di titoli di condanna che comprendano quote di pena legate a reati di 4-bis e quote invece riferibili a reati comuni. La cassazione ha assunto nel tempo posizioni negative con riferimento all’esecuzione domiciliare ex L. 199 (cfr. indirizzo inaugurato con sent. Cass. 13.01.2012 n. 25046) ma larga parte della giurisprudenza di merito, sulla scorta del principio generale deducibile dall’insegnamento della cassazione (cfr. SU 30.06.1999, Ronga), lo ritiene possibile anche in questa ipotesi. Una simile strada appare percorribile pure con riferimento alla nuova misura, tanto più che, a fronte delle condizioni emergenziali che la determinano, deve ritenersi urgente darle la massima applicazione, tenendo anche conto della scelta operata dal legislatore di non esprimersi espressamente per la non operabilità dello scioglimento del cumulo (come accaduto nell’art. 41-bis co. 2 ult. parte ord. penit.) oppure di non utilizzare formule, pure leggibili in altre disposizioni in materia di misure alternative, che lo escludano (cfr. art. 94 Dpr 309/90: non concedibile ai condannati a pena superiore ai 4 anni, se relativa a “titolo esecutivo comprendente reato di cui all’art. 4-bis”; vd. anche l’orientamento della S.C. sul punto: sent. cass. 13.09.2016 n. 51882).
All’esclusione dei reati contenuti nell’elenco del 4-bis, si aggiunge, in controtendenza rispetto al proposito che la misura debba espandere l’ambito di applicabilità dell’esecuzione domiciliare, quella dei delitti di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) e di atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.), che.
Sempre similmente all’esecuzione domiciliare di cui alla L. 199, sono esclusi i destinatari di declaratoria di delinquenza abituale, professionale o per tendenza e chi sia sottoposto al regime di sorveglianza particolare, con l’aggiunta di un riferimento, che appare ultroneo, per il quale ciò non accade ove “sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge”, ipotesi nella quale evidentemente il regime non è già più in essere.
Il legislatore aggiunge con il DL 18/2020 ulteriori deroghe, che appaiono inedite: al posto del requisito di una positiva condotta penitenziaria, deducibile dalla necessità di acquisire una relazione sul punto dall’istituto penitenziario (cfr. art. 1 co. 4 sec. per. L. 199), si richiede qui che l’istante non sia stato sanzionato per una serie di fattispecie di rilevanza disciplinare per comportamenti francamente violenti: la promozione o la mera partecipazione a disordini o sommosse, l’evasione e i fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, operatori penitenziari o visitatori, fattispecie quest’ultima che forse, a differenza delle altre tre, avrebbe meritato una valutazione caso per caso e nel contesto della più generale condotta penitenziaria tenuta, piuttosto che una assoluta preclusione.
Di stretta attualità è poi l’ulteriore esclusione legata all’essere destinatari di un rapporto disciplinare per aver preso parte alle sommosse iniziate il 7 marzo 2020. Per tali episodi non si è potuto infatti ancora provvedere ai sensi dell’art. 81 reg. es., ma si voleva comunque evitare che i detenuti che avevano a tal punto perturbato l’ordine potessero beneficiare della misura oggi prevista. Deve però immaginarsi che, al di là del rapporto disciplinare, ove nelle prossime settimane il procedimento dovesse concludersi e, ad esempio, condurre alla non irrogazione di una sanzione, perché sia riconosciuto che il detenuto non ha apportato un proprio contributo alla sommossa, la preclusione dovrebbe intendersi superata da quell’accertamento. Allo stesso modo ove il magistrato di sorveglianza dovesse annullare nel merito il provvedimento disciplinare eventualmente irrogato, ove adito ai sensi degli art. 35-bis e 69 co. 6 lett. a) ord. penit.
Il magistrato di sorveglianza dispone la misura, salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla sua concessione. Si tratta di una formula di non semplice interpretazione.
Rispetto alla misura di esecuzione domiciliare ordinaria, la nuova disposizione emergenziale oggi in commento restringe infatti, per come visto, il campo di applicazione da un lato, mentre dall’altro elimina il riferimento chiave contenuto nell’art. 1 L. 199/2010 al più significativo accertamento che deve essere compiuto dal magistrato di sorveglianza in quella sede e cioè che l’esecuzione domiciliare si appalesi misura inidonea a fronte di una concreta possibilità di darsi alla fuga, oppure di recidiva nel delitto. La stessa relazione comportamentale richiesta da quella disposizione, qui può essere omessa, divenendo essenziale solo la verifica dell’assenza di sanzioni disciplinari nell’anno antecedente.
Si tratta di modifiche volte a semplificare l’istruttoria necessaria e a favorire applicazioni più celeri.
La residuale formula ostativa alla concessione della misura di cui al DL 18/2020 non può che essere quindi letta alla luce di questi espressi obbiettivi della legge, che precludono una valutazione prognostica sugli elementi appena sopra ricordati. Deve cioè trattarsi di un accertamento minimale, da compiersi allo stato degli atti, che ad esempio potrebbe riguardare la contemporanea sussistenza di provvedimenti cautelari, non solo in carcere, deducibili dalla posizione giuridica del condannato e certamente ostativi alla concessione. Sembra doversi escludere, in questa chiave, che si debbano richiedere informazioni circa carichi pendenti che comunque non hanno condotto all’irrogazione di misure cautelari, poiché si tratta di disporre misure domiciliari, dunque già di per sé significativamente contenitive, e che saranno presidiate, in particolare per le pene comprese tra i sei ed i diciotto mesi, anche mediante gli strumenti di controllo elettronici.
L’iniziativa sembra essere dell’interessato, come fa intendere il riferimento all’istanza, contenuto nel primo comma della disposizione, ma di fatto all’intera fase istruttoria provvede l’istituto penitenziario che, per consentire la più celere applicazione della misura, senza gravare sugli uffici di sorveglianza, già in grande difficoltà da tempo, ed ora ulteriormente in affanno in relazione all’emergenza sanitaria, verifica la pena residua dell’interessato, l’assenza delle preclusioni di cui abbiamo parlato, la disponibilità del condannato ad essere controllato mediante strumenti adeguati (ove con fine pena non inferiore a sei mesi) e trasmette il verbale di accertamento di idoneità del domicilio, da valutarsi anche rispetto alle esigenze di tutela della persona offesa dal reato. L’elemento di più significativa novità rispetto allo schema della Legge 199 sta nel fatto che tale ultimo accertamento è prioritariamente effettuato dalla medesima polizia penitenziaria e, solo eventualmente, da altri (ad esempio ove già presente agli atti in relazione a precedenti richieste). Nel caso di condannato sottoposto ad un programma di recupero dalla tossico o alcoldipendenza è inoltre previsto che sia allegata la documentazione richiesta dall’art. 94 Dpr 309/90.
Una speciale attenzione è infine dedicata al condannato minorenne. Per il suo caso infatti non è prevista la necessità di disporre l’uso del “braccialetto elettronico”, anche quando la pena residua da espiare sia compresa tra i sei ed i diciotto mesi, mentre l’ufficio di servizio sociale minorenni, competente per territorio in relazione al domicilio, in raccordo con l’equipe educativa dell’istituto penitenziario, provvede a redigere, in trenta giorni dalla comunicazione che la misura è in corso, un programma educativo (art. 3 Dlgs 2 ottobre 2018 n. 121) che viene portato all’attenzione del magistrato di sorveglianza per l’eventuale approvazione.
Nell’ultimo comma dell’art. 1 è previsto infine un rinvio generale alle disposizioni contenute nell’art. 1 L. 199/2010, in quanto compatibili. Quest’ultima norma, a sua volta, rinvia per il procedimento all’art. 69-bis ord. penit.
Il magistrato di sorveglianza decide quindi con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, non prima di cinque giorni dalla richiesta di parere al pubblico ministero, ed anche nell’ipotesi che lo stesso non sia emesso. E’ prevista la possibilità per il difensore, l’interessato e il pubblico ministero, di proporre, entro dieci giorni dalla comunicazione, reclamo al Tribunale di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’art. 678 cod. proc. pen.
In forza del rinvio operato, inoltre, deve ritenersi applicabile anche a questa nuova misura il divieto di cui all’art. 58- quater ord. penit., di concessione per tre anni dall’avvenuta revoca di una misura alternativa o dal momento di in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena dopo una condotta di evasione.
3.La nuova misura alla prova del sovraffollamento e del rischio sanitario.
Il discostamento della misura in deroga dallo schema di cui alla L. 199/2010 (in rubrica per altro denominata detenzione domiciliare, con una scelta non operata, a ragione, in quella sede, per distinguerla opportunamente dalla misura alternativa in senso proprio, che richiede la sussistenza di ben altri requisiti, tra i quali una valutazione legata ai risultati dell’osservazione di personalità condotta in istituto penitenziario), appare comunque esiguo perché possa dal nuovo istituto derivare una sensibile implementazione delle uscite dal sistema penitenziario, oggi prioritaria per ripristinare migliori condizioni detentive e, riducendo il tasso di sovraffollamento, rendere meno grave il pericolo di diffusione del contagio negli stabilimenti penitenziari, in cui c’è il rischio che non possa garantirsi il distanziamento sociale minimo che è oggi imposto a tutti i cittadini.
C’è però da attendersi qualche passo avanti dall’affidamento alla polizia penitenziaria dell’istruttoria sin qui resa più complessa dalla pluralità di attori normalmente coinvolti e dalla rarefazione, specialmente nel presente periodo emergenziale, delle forze in campo (si pensi agli uffici esecuzione penale ma anche ai molteplici impegni delle forze di polizia sul territorio).
E c’è da immaginare che, così come avvenne dopo l’introduzione della legge 199/2010, vi sia una risposta immediata da parte degli istituti penitenziari in grado di consentire un primo, anche se limitato, numero di scarcerazioni, quasi che una nuova norma, pur sovrapponibile in larga parte ad un’altra già esistente, fosse per questo più cogente. In realtà già oggi le direzioni degli istituti penitenziari dovrebbero, non solo a istanza di parte, istruire richieste di esecuzione domiciliare delle pene detentive non superiori a diciotto mesi e, se ciò in alcuni casi non è più di recente accaduto, deve ritenersi un ulteriore frutto amaro dei tassi di sovraffollamento che da tempo affliggono di nuovo il sistema penitenziario e che l’attuale situazione epidemiologica sta ulteriormente evidenziando.
D’altra parte sembra anche urgente prendere atto che il mondo penitenziario, nel tempo dell’emergenza sanitaria, vede progressivamente ridursi la sua capacità di contribuire alla risocializzazione del reo, poiché ciò che normalmente riempie la giornata del condannato, ove anche tutto funzioni normalmente per il meglio, è oggi di fatto sospeso (scuola, attività svolte dai volontari, percorsi terapeutici intramurari, sostegno psichiatrico, persino, almeno in alcuni istituti), per non aggravare il già elevato rischio di portare dentro il carcere il contagio, e ciò conduce con sé inevitabilmente un rarefarsi delle attività di osservazione e trattamento. Elementi in grado di incidere, più in generale, anche sul requisito del grave pregiudizio derivante dal protrarsi della detenzione che, sorregge i provvedimenti provvisori emessi dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 47 co. 4 ord. penit.
La misura sin qui descritta, per come detto di natura emergenziale è destinata a durare dall’entrata in vigore del decreto al prossimo 30 giugno 2020. La formula è analoga a quella che fu utilizzata con la L. 199/2010, nel periodo in cui la stessa era concepita come misura temporanea. Deve quindi intendersi che sino a quella data potranno essere concesse misure domiciliari al maturare dei requisiti e che le stesse resteranno in vigore anche oltre e sino al fine pena, salvo comportamenti negativi del condannato destinatario.
Il DL 18/2020 prevede comunque mere deroghe all’ormai ordinaria esecuzione domiciliare di cui alla L. 199/2010, che continua a rimanere una opzione percorribile per quei casi che non possano rientrare nella previsione di cui al DL varato ieri. Si pensi all’ipotesi di indisponibilità dei dispositivi di controllo, quando dalla documentazione il magistrato di sorveglianza sia comunque in grado di escludere la sussistenza concreta del pericolo di fuga o di reiterazione del delitto.
4.Le licenze straordinarie per i semiliberi.
Si inserisce nel solco delle disposizioni già contenute nel DL n. 11 dell’8 marzo 2020 quanto previsto nell’art. 124.
Con il primo DL citato, infatti, si consentiva alla magistratura di sorveglianza di sospendere, sino al 30 giugno 2020, la concessione di permessi premio e del regime di semilibertà, tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria. Nel DPCM varato in pari data, inoltre, all’art. 2 (misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus COVID-19), co. 1 lett. u) venivano consegnate indicazioni in materia di protocolli sanitari per i nuovi giunti, modalità di effettuazione dei colloqui con i familiari sostitutivi dei visivi, sino al permanere del divieto di effettuarli in relazione all’emergenza, e si raccomandava, infine, di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.
Quest’ultimo periodo della lett. u) appariva da subito segnato dall’uso di termini atecnici (il riferimento alla libertà vigilata forse rimanda al regime applicabile al semilibero in licenza ex art. 52 co. 2 ord. penit.) e da una difficoltà di riconoscerne i destinatari, se non le finalità, all’evidenza di limitare il rischio di contagio derivante dai frequenti rientri dall’esterno all’interno di persone per ciò solo maggiormente esposte.
Da quel compendio di disposizioni si è comunque tratta la convinzione che i programmi di trattamento dei semiliberi, ma anche degli ammessi al lavoro in art. 21 ord. penit., non ricordati dalle norme, ma in posizione assolutamente identica quanto alla quotidianità penitenziaria, dovessero essere sottoposti a verifica e, alla luce del susseguirsi di disposizioni emergenziali ormai estese a tutto il territorio nazionale, condurre alla eventuale sospensione, in particolare ove le attività lavorative svolte fossero comunque interrotte, come previsto dal DPCM 11 marzo 2020, perché non essenziali.
Per evitare il rientro in carcere di chi potesse continuare a svolgere l’attività lavorativa sono state sperimentate in vari uffici di sorveglianza concessioni di licenze della durata di 15 giorni e, per i detenuti in art. 21, permessi ugualmente di 15 giorni (il massimo consentito dal disposto dell’art. 30- ter co. 1 ord. penit.).
Tali provvedimenti, tuttavia, si scontrano inevitabilmente con la realtà di una epidemia che richiede maggior tempo per essere riassorbita e con una normativa che prevede comunque un tetto massimo di giorni di permesso premio o di licenza fissato in 45 annui.
La disposizione oggi introdotta consente di superare questo ostacolo, prevedendo che le licenze concesse al semilibero possano durare sino al prossimo 30 giugno, anche in deroga al limite complessivo fissato dall’art. 52 co 1.
L’obbiettivo della norma è, ancora una volta, di ridurre i frequenti rientri in istituto penitenziario e si apprezza anche perché consente di non compromettere i percorsi risocializzanti, mediante il lavoro, che una eventuale sospensione del regime di semilibertà altrimenti comporterebbe.
Sembra che le licenze che si possono chiedere non debbano essere necessariamente continuative e tuttavia, per realizzare il massimo contenimento del rischio, la soluzione di continuità appare decisamente da evitare.
Resta invece non risolto il nodo relativo alla concessione dei permessi premio, per i quali, come si è visto, il DL n. 11/2020 prevedeva una opportuna valutazione da parte del magistrato di sorveglianza ai fini di una eventuale sospensione. Lo strumento però avrebbe potuto, ove se ne fosse estesa la concedibilità a periodi superiori ai 45 giorni annui, almeno in casi valutati individualmente dall’a.g., costituire, come la licenza, un’altra valvola di uscita, seppur temporanea, da un carcere sovraffollato e perciò meno utile alla costruzione di percorsi rieducativi e oggi a più forte rischio di diffusione del contagio.
L’impatto sulla giustizia penale dell’emergenza da COVID-19: affinamenti delle contromisure legislative
- note a prima lettura del d.l. n. 18 –
Di Giuseppe Santalucia
Sommario: 1. Il rapporto con il precedente decreto legge. -2. Il provvedimento di rinvio.- 3. Udienze soggette a rinvio. - 4. La sospensione di ogni termine.- 5. I termini con computo a ritroso. - 6. La sospensione della prescrizione e dei termini di durata massima della custodia cautelare e delle diverse misure. - 7. I casi tassativi di deroga a sospensione dei termini e rinvio delle udienze.- 8. Termini ed effetti delle richieste di parte. - 9. Ulteriore deroga al rinvio: le esigenze indifferibili di prova.- 10. Determinazioni organizzative nei procedimenti non sospesi - 11. Il potere presidenziale di rinvio delle udienze. - 12. Rinvio delle udienze e la durata ragionevole dei processi. - 13. Le misure organizzative dei dirigenti degli uffici nella seconda fase dell’emergenza. - 14. Partecipazione a distanza di detenuti e internati.- 15. Comunicazioni e notificazioni
1. Il rapporto con il precedente decreto legge. Il nuovo decreto legge – n. 18 del 17 marzo 2020 – è stato emesso, almeno per quanto attiene al settore dell’attività giudiziaria, sull’ovvio presupposto che ogni aggiustamento del precedente, n. 11 dell’8 marzo scorso, sarebbe stato misura poco utile, per la necessità di attendere, ai fini della vigenza delle modifiche, i tempi – troppo lunghi in caso di emergenza – della conversione in legge.
È questa la ragione per la quale il nuovo decreto ha novato i contenuti del precedente, facendo chiarezza su alcuni aspetti che, forse ingiustamente, avevano suscitato perplessità in sede interpretativa. Ha così previsto l’espressa abrogazione dei corrispondenti articoli, 1 e 2, del decreto-legge 8 marzo 2020, n. 11.
2. Il provvedimento di rinvio. Il comma 1 dell’articolo 83, dedicato proprio alla disciplina degli effetti dell’emergenza sanitaria sull’attività giudiziaria, prescrive il rinvio delle udienze in tutti i procedimenti penali pendenti in tutti gli uffici giudiziari.
Il rinvio avviene d’ufficio a data successiva al 15 aprile prossimo, data entro cui, secondo questo nuovo provvedimento d’urgenza, potrebbe cessare la fase più acuta dell’emergenza che sulla base del precedente decreto avrebbe invece dovuto avere fine al 22 marzo.
Il decreto legge precisa che il rinvio avviene d’ufficio, il che non sembra voler dire ex lege, automaticamente, e quindi senza necessità di un previo provvedimento ad hoc. A tal fine può essere sufficiente un provvedimento presidenziale, di tipo organizzativo e non giurisdizionale, che abbia ad oggetto, anche per blocchi, i procedimenti le cui udienze debbano essere rinviate.
3. Udienze soggette a rinvio. Il rinvio riguarda sì tutti i procedimenti pendenti, ovviamente tali alla data di entrata in vigore del decreto, ma è limitato alle udienze che siano state fissate nel periodo individuato dal legislatore, che va dal 9 marzo, giorno dal quale hanno avuto efficacia le omologhe disposizioni del precedente decreto, al 15 aprile prossimo, nuovo termine finale, come detto, di presumibile cessazione dell’emergenza, almeno per il settore della giustizia.
Le udienze che, alla data di entrata in vigore del decreto, risultino già fissate ma fuori dell’arco temporale appena prima indicato, non sono soggette ad alcun provvedimento di rinvio motivato dalle ragioni dell’emergenza.
4. La sospensione di ogni termine. Con disposizione del tutto autonoma – comma 2 dell’articolo 83 – il legislatore del decreto ha chiarito che, per una durata pari al periodo individuato per selezionare le udienze da rinviare, restano sospesi, a prescindere dal fatto che il rinvio sia disposto o meno, tutti i termini prescritti per il compimento di qualsiasi atto del procedimento. Nella disposizione è contenuta una elencazione, non esaustiva, dei termini che restano sospesi: quelli delle indagini preliminari, e cioè quelli valevoli per la fase, comprensivi dei termini di durata che di quelli posti per il compimento dei singoli atti; quelli prescritti per l’adozione di provvedimenti del giudice, ivi compresi i termini per il deposito, con particolare riferimento ai provvedimenti che non hanno motivazione contestuale; quelli relativi alla proposizione delle impugnazioni e quelli propri della fase esecutiva.
Con formula di chiusura onnicomprensiva si specifica infine che la sospensione attiene a tutti i termini procedurali. Si ribadisce poi la regola, già contenuta nel precedente decreto, per la quale, ove il termine abbia inizio nel periodo di sospensione, il dies a quo di decorrenza è differito alla cessazione del predetto periodo e quindi al 16 aprile.
5. I termini con computo a ritroso. Una ulteriore e importante precisazione riguarda i termini con computo a ritroso (ad es: fino a quindici giorni prima dell’udienza …, di cui all’art. 611 c.p.p. sul procedimento camerale di cassazione): per essi si prevede che, ove esso scada nel periodo di sospensione, l’udienza o, in generale, l’attività a cui è commisurato è differita in modo da consentire il rispetto del termine stesso.
Ciò significa, a voler rimanere all’esempio appena fatto dei procedimenti camerali di cassazione, che le udienze ad essi relative devono essere oggetto di rinvio pur quando non ricadano nel periodo interessato dalla sospensione – siano cioè originariamente fissare oltre il 15 aprile prossimo –, ove in detto periodo scadano i termini con computo a ritroso per il compimento di adempimenti strumentali allo svolgimento delle udienze medesime.
Ulteriore implicazione operativa è che le udienze oggetto di rinvio devono essere fissate in altra data in modo da assicurare che il termine con computo a ritroso possa essere interamente sfruttato, tenendo conto a tal fine della porzione di esso eventualmente trascorsa al di fuori del periodo di sospensione.
6. La sospensione della prescrizione e dei termini di durata massima della custodia cautelare e delle diverse misure. Il comma 4 dell’articolo in esame – art. 83 – contiene una disposizione fortemente innovativa rispetto all’assetto del precedente decreto. Stabilisce infatti che nei procedimenti in cui opera la misura della sospensione dei termini, e quindi in tutti i procedimenti pendenti, alla data di entrata in vigore del decreto legge, in tutti gli uffici giudiziari, si abbia o meno un provvedimento di rinvio dell’udienza, restano sospesi per lo stesso periodo, ossia dal 9 marzo al 15 aprile 2020, sia il corso della prescrizione che i termini di cui agli articoli 303 e 308 cod. proc. pen.
Secondo la precedente disciplina, invece, il corso della prescrizione e i termini massimi di custodia cautelare – il decreto n. 11 non faceva menzione dei termini delle misure cautelari diverse da quella custodiale – restavano sospesi “per il tempo in cui il procedimento è rinviato …e, in ogni caso, non oltre il 31 maggio 2020”.
Ora, invece, sospensione della prescrizione e sospensione dei termini massimi delle misure cautelari operano automaticamente, senza necessità che sia adottato un provvedimento a cui agganciare le due sospensioni.
7. I casi tassativi di deroga a sospensione dei termini e rinvio delle udienze. Il legislatore dell’ultimo decreto prevede ipotesi di deroga sia alla misura della sospensione dei termini che a quella del rinvio delle udienze.
Va evidenziato che, quando non opera la sospensione dei termini, per le ipotesi che di seguito si richiamano, sono inibiti gli altri concorrenti meccanismi sospensivi, del corso della prescrizione e dei termini massimi delle misure cautelari.
Siccome le ipotesi impeditive della sospensione dei termini e del rinvio delle udienze sono le stesse, il riferimento non è più alle udienze, come all’articolo 2 del precedente decreto, ma ai procedimenti.
Si ha così che non possono essere sospesi i termini e rinviate le udienze:
Non può più ipotizzarsi ora che sospensione dei termini e rinvio delle udienze siano misure inibite nei casi in cui la richiesta non sia stata accolta o la misura, pure in precedenza applicata, sia stata successivamente revocata o sia comunque cessata.
La conclusione è che sospensione dei termini e rinvio delle udienze non operano solo quando la misura di sicurezza detentiva sia in atto applicata oppure la relativa richiesta sia ancora al vaglio del giudice.
Non sono invece più menzionati, tra i procedimenti che a richiesta possono essere sottratti alle misure di sospensione dei termini e di rinvio delle udienze, quelli a carico di imputati minorenni.
8. Termini ed effetti delle richieste di parte. Il decreto legge in esame non ha chiarito un aspetto su cui in questi giorni di applicazione del precedente decreto si sono avute perplessità. Non ha infatti indicato un termine entro cui le parti possano avanzare richiesta di trattazione. In assenza di indicazione legislativa pare allora che la richiesta di parte possa essere valutata solo se intervenga prima dell’adozione del provvedimento di rinvio, che va adottato in applicazione della regola generale per la quale, tranne alcune eccezioni, tutti i procedimenti devono essere rinviate. Non sono così in linea con le previsioni del decreto d’urgenza, come di quello precedente, determinazioni organizzative degli uffici che riservino un termine – ovviamente, per scelta ampiamente discrezionale – per dare modo alle parti di fare richiesta di trattazione.
Va poi osservato che la richiesta dei soggetti abilitati può intervenire non soltanto per lo svolgimento dell’udienza, ma anche per l’adempimento di ogni altro incombente regolato dal termine che, in via generale, resta sospeso.
La richiesta, infatti, giova non soltanto a evitare il rinvio delle udienze ma anche la sospensione dei termini per il compimento di ogni attività procedimentale, comprese quelle di emissione e deposito dei provvedimenti giudiziari.
9. Ulteriore deroga al rinvio: le esigenze indifferibili di prova. Il decreto legge conferma la scelta del precedente e sottrae alla regola del rinvio, e della sospensione dei termini, i procedimenti in cui si renda necessario, per esigenze indifferibili, assumere prove non rinviabili, secondo il modulo di cui all’art. 392 cod. proc. pen. in punto di incidente probatorio. Come giù osservato in occasione del commento al precedente decreto, la previsione pecca per difetto, per l’omesso richiamo alla disposizione di cui all’art. 467 cod. proc. pen., che autorizza l’assunzione di prove urgenti nella fase degli atti preliminari al giudizio nei casi in cui si abbiano a verificarsi i presupposti per l’incidente probatorio. Ma la mancata previsione non si ritiene possa essere d’ostacolo a interpretazioni estensive in sede applicativa. In tutte queste ipotesi occorre che il giudice o, se questo è collegiale, il presidente dichiarino l’urgenza a provvedere, con provvedimento che dia conto dell’indifferibilità dell’assunzione della prova, comunque non impugnabile.
10. Determinazioni organizzative nei procedimenti non sospesi. Nel periodo in cui opera la sospensione di ogni termine i dirigenti degli uffici giudiziari sono autorizzati ad adottare, in riguardo all’attività giudiziaria eccezionalmente non sospesa, alcune misure organizzative che il decreto legge ha cura di elencare al comma 7 dell’articolo 83.
Si tratta degli accorgimenti organizzativi già previsti dal precedente decreto in punto di modalità di accesso del pubblico con prescrizioni volte a limitarne l’afflusso, a condizione comunque di rispettare l’esigenza del compimento di attività non rinviabili, anche per quanto attiene agli orari giornalieri di apertura, con possibilità addirittura di disporre la chiusura di alcuni servizi al pubblico, sempre che non interessati dalla prestazione di servizi a carattere di urgenza.
Siccome uno degli obiettivi principali è di evitare l’assembramento di persone, evenienza che agevola il rischio di contagi, i dirigenti degli uffici possono imporre prescrizioni per regolare la convocazione degli utenti del servizio giudiziario, anche mediante il modulo della prenotazione per l’accesso ad orari fissi; e soprattutto possono imporre ai singoli giudici direttive vincolanti in punto di fissazione e modalità di trattazione delle udienze.
Anche il decreto legge in esame, come quello precedente, autorizza i dirigenti degli uffici, con previsione direttamente incidente sui poteri organizzativi dei giudici nei singoli processi, a disporre lo svolgimento dei dibattimenti a porte chiuse per esigenze di pubblico igiene, e quindi di salute pubblica, di tutte o di taluna delle udienze da tenere comunque.
11. Il potere presidenziale di rinvio delle udienze. Fuori dei casi in cui opera la previsione del rinvio obbligatorio per il periodo che va dal 9 marzo al 15 aprile 2020, i dirigenti degli uffici giudiziari, si intende degli uffici giudicanti, sono autorizzati – comma 7, lett. g), art. 83 – a disporre per il periodo immediatamente successivo, ossia dal 16 aprile e sino al 30 giugno 2020, il rinvio delle udienze in ogni procedimento penale, con le eccezioni però che già valgono per il periodo precedente.
In questa seconda fase temporale non si ha, come invece nel periodo immediatamente precedente, la sospensione di ogni termine.
Per specifica previsione del decreto – comma 9 dell’art. 83 – nei soli procedimenti in cui interviene il provvedimento presidenziale di rinvio delle udienze, si verificano i seguenti effetti sospensivi su alcuni termini.
In particolare, restano sospesi, per il tempo in cui il procedimento è rinviato, e in ogni caso non oltre il 30 giugno 2020:
- i termini di prescrizione dei reati per i quali si procede;
- i termini massimi di custodia cautelare di cui all’art. 303 cod. proc. pen., e specificamente i termini di fase e i termini complessivi, fermi restando però i termini massimi di fase e il termine massimo finale, di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., che non è fatto oggetto di richiamo; e i termini di durata massima delle misure cautelari diverse, di cui all’art. 308 cod. proc. pen.
- i termini di proposizione della richiesta di riesame, evidentemente per i casi in cui l’imputato in stato di restrizione cautelare non abbia fatto espressa richiesta di trattazione del procedimento;
- i termini (trenta giorni dalla ricezione degli atti) entro i quali la Corte di cassazione deve decidere sui ricorsi avverso i provvedimenti del Tribunale del riesame e del Tribunale dell’appello cautelare;
- i termini entro i quali il giudice del rinvio, in caso di annullamento dell’ordinanza applicativa della misura coercitiva oggetto di riesame, deve decidere (dieci giorni dalla ricezione degli atti) e deve depositare l’ordinanza (trenta giorni dalla decisione);
- i termini entro i quali, in caso di riesame del decreto di sequestro, deve essere proposta la richiesta, e l’impugnazione deve essere decisa, pur quando l’interessato ne abbia chiesto il differimento;
- per i procedimenti di prevenzione, i termini entro cui deve essere emesso il provvedimento di confisca, a far data dall’immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario, e la Corte di appello, in caso di impugnazione del decreto di confisca, deve pronunciarsi dal deposito del ricorso.
12. Rinvio delle udienze e la durata ragionevole dei processi. Ulteriore conseguenza del rinvio, ma ciò vale anche quando il rinvio è obbligatorio ed è quindi disposto nella prima fase dell’emergenza, è che il periodo di forzata stasi procedimentale non può essere computato ai fini della determinazione del tempo irragionevole del processo ai fini della domanda di equa riparazione, ai sensi dell’art. 2, l. n. 89 del 2001.
13. Le misure organizzative dei dirigenti degli uffici nella seconda fase dell’emergenza. Sulla falsariga di quanto già prescritto dal precedente decreto, quello in esame stabilisce che i dirigenti degli uffici giudiziari, per contrastare l’emergenza e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria, sono autorizzati, per il periodo compreso tra il 16 aprile e il 30 giugno 2020, ad attore le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, che siano necessarie per consentire l’osservanza delle indicazioni igienico-sanitarie delle Autorità preposte. Tali misure organizzative devono essere adottate sentita l’Autorità sanitaria regionale, per il tramite del presidente della Giunta regionale, e il Consiglio dell’ordine degli avvocati; e, per gli uffici diversi dalla Corte di cassazione e dalla Procura generale presso detta Corte, d’intesa con il presidente della Corte di appello e con il Procuratore generale presso la Corte di appello.
Si tratta, nei contenuti, delle misure che già sono state sommariamente indicate nel descrivere i poteri organizzativi esercitabili durante il primo periodo in riferimento ai procedimenti.
Spicca, tra le varie previsioni, quella che autorizza i dirigenti all’adozione di “linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze”, perché la formula normativa è ampia e sembra legittimare un ampio ventaglio di interventi a contenuto vincolante per l’esercizio dei poteri organizzativi dei giudici nella trattazione dei singoli affari.
14. Partecipazione a distanza di detenuti e internati. Il decreto legge prescrive ancora – comma 12 dell’art. 83 – che, ferma restando la previsione del codice circa il dibattimento a porte chiuse per ragioni di igiene e sanità pubblica, nell’intero periodo dell’emergenza, ossia dal 9 marzo 2020 al 30 giugno 2020, la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto, che devono essere individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia, facendo applicazione, in quanto compatibili, delle disposizioni che in via ordinaria regolano la partecipazione al dibattimento a distanza delle persone che si trovino in stato di detenzione – art. 146bis disp. att. cod. proc. pen. –.
15. Comunicazioni e notificazioni. Comunicazioni e notificazioni devono essere effettuate per via telematica – comma 13 dell’art. 83 –. Quelle destinate agli imputati e alle altre parti - comma 14 dell’art. 83 – devono essere eseguite mediante invio all’indirizzo di posta elettronica certificata di sistema del difensore di fiducia, ferme restando le notifiche che per legge si effettuano presso il difensore d’ufficio.
Si stabilisce poi – comma 15 dell’art. 83 – che tutti gli uffici giudiziari sono autorizzati all’utilizzo del Sistema di notificazioni e comunicazioni telematiche penali per le comunicazioni e le notificazioni di avvisi e provvedimenti senza necessità di ulteriore verifica o accertamento di cui all’articolo 16, comma 10, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221. A norma dell’art, 16, comma 10, appena citato, è bene ricordare, si stabilisce che “con uno o più decreti aventi natura non regolamentare … il Ministro della giustizia, previa verifica, accerta la funzionalità dei servizi di comunicazione, e individua, tra l’altro, gli uffici giudiziari in cui le disposizioni su comunicazioni e notificazioni per via telematica operano “per le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma degli articoli 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, del codice di procedura penale”.
La giustizia in animazione sospesa: la legislazione di emergenza nel processo civile
(note a lettura immediata all’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020)
di Franco De Stefano
Sommario: 1. L’intervento normativo e la conferma delle due fasi. - 2. L’ambito di applicazione della fase uno. - 3. Le eccezioni. - 4. Uno sguardo alla fase due.
1. L’intervento normativo e la conferma delle due fasi.
L’epidemia dilaga: a situazione nuova ed eccezionale, nuova ed eccezionale sospensione, di portata ampia ed indifferenziata; un’autentica stasi dell’attività giudiziaria, almeno per il civile, che ricorda gli stati di animazione sospesa indotti farmacologicamente, con garanzia delle sole funzioni vitali, per evitare danni peggiori ed in attesa che facciano effetto le cure massicce poste in essere.
È stato pubblicato, nella notte tra il 17 e il 18 marzo e con edizione straordinaria della Gazzetta, sul sito www.gazzettaufficiale.it il decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (“Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19. (20G00034) (GU Serie Generale n.70 del 17-03-2020)”), il cui art. 83 interviene, riscrivendola (ed abrogando espressamente i corrispondenti artt. 1 e 2 del d.l. 11 del 2020, tuttora in attesa di conversione), sulla normativa emergenziale del precedente decreto legge n. 11 del 2020, per adeguarla al rapidissimo mutamento del quadro epidemiologico in atto.
In estrema sintesi, le due fasi sono mantenute, ma la prima è prorogata fino al 15 aprile e la seconda fino al 30 giugno 2020.
È confermata la ripartizione dell’immediato futuro in due fasi: la fase uno, di contrasto immediato al dilagare del contagio o di pronto od immediato intervento; la fase due, che modulerà un vero e proprio regime emergenziale o derogatorio, in deroga a quello ordinario, ma tendenzialmente durevole o comunque da modellarsi in ragione delle esigenze via via individuate e, così, in ragione pure dello sviluppo, purtroppo allo stato ancora imprevedibile per la vaghezza e lo stato delle stesse cognizioni scientifiche al riguardo, dell’epidemia e delle sue ricadute cumulative sulla vita di tutti i giorni.
Prima di ogni altra cosa, si impone la necessità ed urgenza di prorogare il termine di sospensione originariamente fissato (al 22 marzo, ormai pericolosamente vicino) per la fase uno, con ogni evidenza non più funzionale ad un efficace contrasto dell’emergenza sanitaria dell’epidemia: ma si tratta di una sospensione sui generis, che, benché riferita testualmente ai soli termini processuali, comprende in concreto tutte le attività processuali tout court e quelle connesse, nel loro complesso.
La nuova norma interviene dopo i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 e dell’11 marzo 2020, che hanno esteso all’intero territorio nazionale il regime di contenimento rafforzato (o, come comunemente si dice, che hanno infine chiuso l’intero Paese) e, quindi, in un momento successivo all’instaurazione del regime di più stretta emergenza, in vigore con previsione almeno fino al 25 marzo[1]: e costituiscono una sorta di naturale evoluzione e di adeguamento dell’emergenza della giustizia a quella del Paese, a mano a mano che quest’ultima progredisce e si trasforma.
La modifica si è resa necessaria non solo, quindi, per adeguare i tempi al mutato e più negativo quadro epidemiologico complessivo, ma anche per chiarire e rafforzare il regime della prima delle due fasi, quella di immediato intervento, mantenendo l’ottica di una differenziazione di periodi ispirata ad un ammirevole ottimismo della volontà ed alla conseguente fiducia nella possibilità di un sollecito recupero della normale attività anche nel settore del Giustizia.
In primo luogo, il riferimento temporale muta e si dilata, in modo del resto inevitabile per l’imprevedibilità dell’evoluzione di un fenomeno epidemico senza precedenti nella Storia recente: se l’8 marzo si poteva prevedere che la fase acuta o di assorbimento dello sfondamento poteva fissarsi fino al 22 successivo e cioè a quindici giorni, oggi lo stato della diffusione del contagio ed i rilievi dell’efficacia delle misure di contenimento sono tali da rendere irrealistico quel termine e da imporre la protrazione di questo periodo di congelamento – una sorta di animazione sospesa con eccezione delle funzioni giudiziarie vitali, insomma un coma farmacologico indotto – per ora fino al 15 aprile (mercoledì dopo Pasqua).
In secondo luogo, si adottano una serie di precisazioni, che la stessa relazione illustrativa riferisce indotte da un “fiorire di dubbi interpretativi e prassi applicative sostanzialmente elusive del contenuto della previsione o comunque non adeguatamente sensibili rispetto all’evidente dato teleologico della norma, costituito dalla duplice esigenza di sospendere tutte le attività processuali allo scopo di ridurre al minimo quelle forme di contatto personale che favoriscono il propagarsi dell’epidemia, da un lato, e di neutralizzare ogni effetto negativo che il massivo differimento delle attività processuali disposto al comma 1 avrebbe potuto dispiegare sulla tutela dei diritti per effetto del potenziale decorso dei termini processuali, dall’altro”.
La necessaria attenzione al dato teleologico, anche in prevalenza su quello testuale o formale, era stata già posta in luce dai primi commenti, ma effettivamente svalutata in molti dei primi provvedimenti applicativi, incentrati su logiche ermeneutiche di stampo per lo più formalistico, assolutamente inadeguate all’eccezionalità della situazione[2].
Una tale attenzione che non è mancata, almeno, nel provvedimento adottato dal Primo Presidente della Corte di cassazione, che, con decreto n. 36 del 13 marzo 2020, ha chiaramente disposto, per il settore civile, il rinvio a nuovo ruolo di tutte le udienze ed anche di tutte le adunanze camerali fissate nel periodo dal 23 marzo al 10 aprile 2020 [salve le eccezioni di cui alla lett. g) dell’art. 2, comma 2, del ripetuto decreto legge n. 11 del 2020, all’epoca vigente], in un momento in cui era ancora invariata la scadenza del primo periodo di emergenza acuta al 22 marzo, sul presupposto proprio che, per quelle, i termini di presentazione delle memorie difensive – e quindi per l’espletamento dell’attività processuale ancora riservata alla parte pure nel giudizio di legittimità – sarebbero andati a scadere nel periodo 9-22 marzo, nel quale, in base al comma 2 dell’art. 1 del richiamato d.l. 11 del 2020, sono sospesi i termini per il “compimento di qualsiasi atto”[3].
Significativo è infine, benché ricognitivo pure in considerazione della sua posizione istituzionale, l’intervento del C.S.M., che, con sua delibera 11/03/2020 (trasmessa agli Uffici con nota 4511/2020), ha ribadito, per il settore civile, non solo e non tanto l’invito all’adozione dei rinvii con modalità telematiche, ma soprattutto, quanto alle modalità di celebrazione delle udienze, l’opportunità dell’adozione, per quanto possibile, delle modalità da remoto: le quali anzi si auspicano oggetto di particolare incentivazione quale modalità prioritaria di esercizio delle funzioni giudiziarie, salva l’assoluta impossibilità tecnica; e tanto da invitare il Ministero, la Scuola Superiore della Magistratura e la DGSIA (Direzione generale per i servizi informativi automatizzati, il cui Direttore ha già adottato alcuni provvedimenti, tra cui quello del 10/03/2020, di individuazione delle prime modalità operative) a predisporre urgenti corsi di e-learning sulle relative tecniche ed a fornire gli applicativi necessari, con la correlata attività di assistenza tecnica dedicata, “con effettività ed urgenza”.
2. L’ambito di applicazione della fase uno.
Prima di ogni altra cosa, si chiarisce che la sospensione generalizzata, dal 9 marzo a tutto il 15 aprile, di qualunque attività si riferisce a tutti i procedimenti civili e penali (ma pure tributari e della magistratura militare), introducendosi – ma solo al comma 3 – eccezioni sostanzialmente corrispondenti a quelle di cui alla lett. g) dell’art. 2 del d.l. 11 del 2020.
Questa modifica vuole, nell’intenzione del legislatore di urgenza, rendere finalmente evidente il carattere sostanzialmente indifferenziato della sospensione prevista, da riferirsi cioè a tutti i procedimenti civili e penali e non certo ai soli procedimenti in cui sia stato disposto il rinvio dell’udienza; ma tende anche ad estendere la stasi, “considerata la straordinaria emergenza che l’aggravamento della situazione epidemica in atto sta producendo anche sulla funzionalità degli uffici”, oltre i confini della “pendenza” – in senso stretto – del procedimento.
Si tratta di una figura nuova di sospensione, molto più ampia di quella tradizionale ed anche di quella tipica del regime feriale, che può definirsi assoluta ed assimilabile ad un’autentica stasi generalizzata del diritto di azione e di ogni suo ammennicolo processuale, con le sole eccezioni (ope legis e ope iudicis) in modo espresso previste, sia pure, almeno quanto alle seconde, coi relativi problemi di individuazione dell’ambito di applicazione indotti anche dalla necessità di un provvedimento del giudice almeno ricognitivo o dichiarativo della natura dell’affare. Insomma, non siamo in ferie: siamo davvero tutti fermi davanti all’emergenza, salve le sole poche eccezioni previste.
La norma, con opportuna indicazione esemplificativa (co. 2, secondo periodo), specifica che “si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali”.
Pertanto, la sospensione riguarda anche non solo i termini per l’impugnazione delle sentenze (benché già solamente in via ermeneutica, in effetti, ad essi potesse estendersi il concetto di pendenza, identificabile nell’intervallo segnato, da un lato, dall’atto introduttivo del giudizio o, per i procedimenti penali, dall’iscrizione della notizia di reato e, dall’altro, dalla definitività del provvedimento conclusivo del procedimento), ma pure quelli per l’instaurazione del giudizio o del procedimento e quindi per la formazione o la notificazione degli atti introduttivi del giudizio, “ove per il loro compimento sia previsto un termine”.
Tanto consente di estendere la sospensione assoluta anche ai termini di proposizione di impugnazioni giudiziali di atti originariamente stragiudiziali; e di mantenere esclusi soltanto gli atti negoziali in senso stretto, oppure quelli che, per la loro stessa validità, possono essere compiuti anche in via stragiudiziale.
La seconda delle modifiche sostanziali alla disciplina del d.l. 11 del 2020 riguarda i termini “a ritroso” ed il loro computo, opportunamente estendendola a quelli imposti non già solo con riferimento ad un’udienza, ma a tutti quelli relativi a qualunque tipo di attività processuale: con un meccanismo simile a quello previsto dal terzo comma dell’art. 164 cod. proc. civ., si prevede ora espressamente che, quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto, “in modo da far decorrere il suddetto termine ex novo ed integralmente al di fuori del periodo di sospensione”.
Sono al riguardo prese in considerazione non solo le udienze, ma anche – se non per assimilazione ad essa, quanto meno in quanto riconducibili al concetto di “attività” processuale – le altre forme di espletamento dell’attività processuale, tra cui le adunanze camerali, partecipate o meno non dovrebbe più rilevare, o le attività de plano: sicché, ove, ad esempio, per tutte queste siano previsti termini dilatori per l’invio di avvisi o simili comunicazioni da parte della cancelleria o della segreteria – o, per molti degli atti del processo civile, delle parti stesse in estrinsecazione del loro diritto di difesa – e tali termini cadano in un periodo compreso fino al 15 aprile 2020, le stesse udienze ed altre attività si intendono ope legis differite e quindi non solo legittimamente tenute pure in tempo successivo, ma illegittime se mantenute correlate al termine a ritroso in scadenza nel periodo di sospensione.
Per la tassatività del tenore testuale il relativo provvedimento del Capo dell’Ufficio o del singolo magistrato dovrebbe intendersi meramente ricognitivo di tale fattispecie, da intendersi generalizzata e quindi da reputarsi ricorrente sempre o per default, se non diversamente previsto; ma un provvedimento esplicito diviene di decisiva importanza ai fini dell’individuazione della ricomprensione o meno della fattispecie nell’eccezione alla sospensione.
Per udienze ed adunanze nessun problema pratico dovrebbe porsi, perché esse andranno poi rifissate, cosicché sarà dalla data rifissata che decorrerà, sempre a ritroso, il nuovo termine e fino alla rifissazione la parte potrà confidare sulla non decorrenza di termini a suo danno. Se è vero che nulla impedisce che, con lo stesso provvedimento, si identifichi fin d’ora anche una nuova data per l’udienza o l’adunanza rinviata, potrebbe invece apparire miglior partito, per il grande disorientamento tuttora imperante sull’effettività dei tempi di recupero di una minima funzionalità del sistema, comunque riservare ad una fase successiva, quanto meno di relativa stabilizzazione dell’emergenza, l’identificazione della nuova data.
Qualche problema in più si può porre per le “attività” processuali, riguardo alle quali potrebbe predicarsi l’immediata ripresa del decorso del termine una volta scaduto il periodo di sospensione: anche in tal caso parrebbe opportuno un provvedimento ricognitivo del magistrato o, semmai, accingersi fin d’ora a valutare con maggiore larghezza di quella normalmente dovuta la nozione di causa non imputabile rilevante ai fini di future istanze di rimessioni in termini.
Le altre modifiche sono più specificamente relative al settore penale: a partire dall’introduzione di una esplicita previsione di sospensione del corso della prescrizione per tutta la durata di quella dei termini, ma soprattutto quanto alla funzionalità delle corti di assise e di assise di appello e delle notificazioni in quel processo, con interventi anche fortemente innovativi; ad essi va doverosamente riservato un separato e dedicato approfondimento.
Per espressa disposizione (comma 20 dell’art. 83 in commento), infine, la sospensione dei termini si estende, anch’essa per il periodo fino al 15 aprile 2020, a quelli per lo svolgimento di qualunque attività nei procedimenti di mediazione prevista dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, nei procedimenti di negoziazione assistita ai sensi del d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162), nonché in tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti, quando i predetti procedimenti siano stati promossi entro il 9 marzo 2020 e costituiscono condizione di procedibilità della domanda giudiziale; il tutto con conseguente sospensione dei termini di durata massima dei medesimi procedimenti.
3. Le eccezioni.
Le eccezioni al regime di sospensione sono ora disciplinate dal comma 3 dell’art. 83 e, per il settore civile, dal n. 1) di detta disposizione.
Il tenore testuale della norma conferma la prima impressione, già illustrata in sede di primissimo commento al d.l. 11 del 2020, sulla necessaria applicazione generalizzata della sospensione ad ogni attività giurisdizionale e di quelle ad essa connesse o ancillari o funzionali, tranne le sole eccezioni espressamente previste: la necessità di differire anche nel processo civile e penale tutte le attività che comunque implichino quelle forme di contatto personale che favoriscano il propagarsi dell’epidemia è di per sé idonea a giustificare la stasi indifferenziata di ogni attività diversa da quelle espressamente previste prima nella lett. g) del comma 2 del d.l. 11 del 2020 e, ora, dal comma 3 dell’art. 83 del d.l. in commento.
Neppure potrebbe valere a giustificare l’incentivazione del mantenimento delle attività al di fuori dei locali degli uffici giudiziari la considerazione della possibilità di sfruttare le modalità da remoto. Infatti, al di fuori delle eccezioni espressamente previste e quindi delle sole attività espressamente menzionate come esenti dalla sospensione, tutte le altre devono fare i conti anche con il momento di forte perturbazione sociale ed economica che rientra nelle nozioni di comune esperienza ed integra un fatto nuovo, incolpevolmente esterno alla stessa previsione delle parti, di alterazione del normale andamento delle dinamiche processuali pure – se non a maggior ragione – nei settori in cui viene istituzionalmente sollecitato l’apporto o l’intervento dei terzi. È questo il caso delle liberazioni degli immobili pignorati e pure delle vendite giudiziarie, anche se operate esclusivamente da remoto, attesa la peculiare incertezza che caratterizza il mercato in questi momenti e l’inopportunità che il sistema giustizia contribuisca, senza tenere conto dell’eccezionalità della situazione, a sperequazioni o a disagi, magari producendo risultati incongrui perché imprevedibili e non rispondenti alle ordinarie dinamiche del mercato.
Le difficoltà o incertezze interpretative della lettera della norma sulle eccezioni possono poi superarsi con opzioni ermeneutiche che privilegino la certezza e la chiarezza delle ricadute applicative, ispirate al risultato della stasi generalizzata quale regola ed all’eccezionalità e letteralità delle deroghe.
Non dovrebbero sorgere particolari problemi quando queste siano descritte in modo univoco da parte del legislatore di urgenza: tanto accade col riferimento formale alla individuazione dell’oggetto ed è il caso dei procedimenti ai sensi degli artt. 281, 351 e 373 cod. proc. civ., ma anche dei procedimenti di convalida dei trattamenti sanitari obbligatori o delle interruzioni volontarie di gravidanza, o di quei particolari procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni o del giudice tutelare in tema di capacità della persona, o ancora di quei procedimenti di convalida dell’espulsione, allontanamento e trattenimento di cittadini di paesi terzi e dell’Unione europea, oppure di protezione contro gli abusi familiari.
Può auspicarsi invece che, ove manchino indicazioni univoche, sia il giudice a soccorrere le parti mediante la specificazione, per quanto possibile, dei termini entro i quali la singola udienza o adunanza o, all’interno o indipendentemente da essa, il singolo procedimento o affare sia da qualificarsi urgente: o con provvedimento generale, per udienze o adunanze o blocchi di procedimenti o affari, o, all’occorrenza, per un singolo affare. Se del caso, anche qui indicando il criterio generale, per il quale, in difetto di espresso riconoscimento dell’operatività della deroga, varrà la regola generale della sospensione.
È il caso dei diritti fondamentali della persona e dei provvedimenti cautelari che li hanno ad oggetto: qui si impone una valutazione caso per caso, ma pur sempre riferita ad affidabili parametri costituzionali, soprattutto se corroborati da quelli sovranazionali; e, nonostante le diatribe insorte tra gli interpreti, è il caso pure delle cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, evidentemente di difficile generalizzazione[4].
Il criterio guida può essere ricavato dalla seconda tipologia di eccezioni, quella definita ope iudicis, per la quale cioè è il giudice del caso singolo che rileva il rischio, da intendersi come elevata probabilità (sia pure, ovviamente, con prognosi postuma e quindi sulla base degli elementi a sua disposizione o forniti ad hoc da una delle parti interessate) di un grave pregiudizio per almeno una delle parti quale conseguenza di una trattazione ritardata ad oltre il periodo di differimento, da intendersi quello dell’emergenza generalizzata (e quindi quello fino al 22 marzo prima e, ora, fino al 15 aprile)
Qui la valutazione è eminentemente casistica. Quale criterio guida può solo suggerirsi una valutazione attenta della gravità del pregiudizio, al fine di rendere adeguatamente flessibile la risposta di giustizia e riservarla ai casi di effettiva necessità di un suo conseguimento proprio durante il periodo di sospensione (con esposizione al rischio sia della controparte che dei lavoratori coinvolti nel servizio, tra cui giudici e cancellieri, ove non sia operativa o possibile, anche solo in concreto, una modalità di tenuta dell’udienza o adunanza da remoto o equivalente), attesa l’imperativa priorità del contenimento del contagio e quindi la tendenziale generalizzazione della stasi: in definitiva, anche la gravità del pregiudizio, tale da fondare l’esenzione dalla sospensione generalizzata, dovrebbe essere valutata alla stregua dell’eccezionalità del momento e dei valori costituzionali in gioco, soprattutto quello della salute della collettività e della funzionalità del sistema sanitario nazionale, solo a garantire l’indifferenziato accesso alle cure a tutti (senza distinzione nemmeno di effettiva e corretta contribuzione ai relativi costi con l’assolvimento puntuale dei propri obblighi fiscali).
In attesa di una più compiuta disamina delle misure per il periodo di ricostruzione, cioè la fase due (successiva alla presente di massimo impatto emergenziale o di primo intervento), è ora espressamente prevista la possibilità di un’immediata applicazione delle misure alternative di celebrazione delle udienze, formalmente previste solo dal precedente art. 2, lett. f) ed h) ed ora dalle corrispondenti lettere del comma 7 dell’articolo in commento: ai sensi del co. 5 di quest’ultimo, nel periodo di sospensione dei termini e limitatamente all’attività non sospesa possono essere adottate, con una sorta di anticipazione, le misure del regime emergenziale di secondo livello tutte previste dal comma 7.
Il successivo comma 8 prevede espressamente che, per il periodo di efficacia dei provvedimenti di cui ai commi 5 e 6 (quelli del secondo periodo, dal 16 aprile al 30 giugno) che precludano la presentazione della domanda giudiziale, è sospesa la decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti medesimi. Ed è ribadita la sterilizzazione, ai fini del computo dei periodi rilevanti per la c.d. legge Pinto (legge 24 marzo 2001, n. 89), dei periodi di sospensione disposti con la norma eccezionale: non potranno cioè essere valutati a danno dello Stato nella determinazione della durata del procedimento giudiziario che abbia violato i limiti di durata ragionevole.
4. Uno sguardo alla fase due.
Insomma, cessato il periodo di sospensione generalizzata (ferme le eccezioni previste), viene consegnato ai dirigenti degli uffici giudiziari il compito e la responsabilità, previa interlocuzione con l’autorità sanitaria e l’avvocatura, di adottare misure organizzative, anche incidenti sulla trattazione dei procedimenti, caso per caso valutate necessarie sulla scorta delle emergenze epidemiologiche certificate nel territorio di riferimento.
Devono confermarsi le perplessità suscitate dai rischi di una frammentazione così ampia degli interventi di vera e propria riprogettazione o ricostruzione post-emergenziale del sistema Giustizia: e certamente va respinta l’idea semplicistica che l’effetto parrebbe essere quella di affidare ad una pletora di ufficiali intermedi il compito di gestire alla bell’e meglio le ostilità, salvo il moderato coordinamento che l’intesa col presidente della corte d’appello potrebbe almeno tentare di instaurare.
La necessaria diversificazione degli interventi ben potrebbe essere adottata appunto a livello almeno regionale per uniformità ed omogeneità coi centri decisionali in materia sanitaria, affidando un compito non solo di coordinamento, ma di diretta decisione dopo avere sentito i dirigenti dei singoli uffici, ai presidenti delle corti di appello (o i procuratori generali presso le medesime) aventi sede nel capoluogo di Regione (con l’eccezione della Valle d’Aosta, dove l’interlocuzione dovrebbe aver luogo necessariamente col presidente del tribunale di quel capoluogo, d’intesa col presidente della corte d’appello territorialmente competente ma avente sede, come è noto, in altra Regione e cioè a Torino; e fermo restando il carattere autocefalo della competenza di Corte suprema di Cassazione e Procura generale della Repubblica presso la stessa, semmai riconsiderandolo pure per il Tribunale superiore delle acque pubbliche, anch’esso giurisdizione superiore ma cui si imporrebbe un incongruo raccordo con la corte d’appello).
Comunque, le misure affidate ai dirigenti degli uffici giudiziari, destinate ad operare in un periodo molto più ampio (e cioè, allo stato, fino al 30 giugno 2020), sono caratterizzate da una notevole elasticità, al fine di evitare, ove non indispensabile e non richiesto dalla condizione sanitaria contingente, l’interruzione dell’attività giudiziaria.
All’adozione delle misure dovrà farsi precedere la valutazione delle emergenze epidemiologiche da parte dell’autorità sanitaria regionale e nazionale, il cui previo parere è obbligatorio, insieme a quello . Per tale motivo viene previsto che quest’ultima autorità, a livello regionale, debba essere sentita unitamente alla rappresentanza dell’avvocatura.
I capi degli uffici – almeno auspicabilmente, su coordinamento dei Capi di corte – potranno, per il civile:
a) limitare l’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, garantendo comunque l’accesso alle persone che debbono svolgervi attività urgenti;
b) limitare, sentito il dirigente amministrativo, l’orario di apertura al pubblico degli uffici anche in deroga a quanto disposto dall’articolo 162 della legge 23 ottobre 1960, n. 1196 ovvero, in via residuale e solo per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico;
c) regolamentare l’accesso ai servizi, previa prenotazione, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, nonché adottare ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento;
d) adottare linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze;
e) disporre la celebrazione a porte chiuse, ai sensi dell’articolo 472, comma 3, cod. proc. pen., di tutte le udienze penali pubbliche o di singole udienze e, ai sensi dell’articolo 128 cod. proc. civ., delle udienze civili pubbliche;
f) prevedere lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori e dalle parti mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia; a condizione che l’udienza si svolga in ogni caso avvenire con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e con l’effettiva partecipazione delle parti; e comunque prevedendosi che il giudice disponga - prima dell’udienza - la comunicazione ai procuratori delle parti ed al pubblico ministero, se è prevista la sua partecipazione, del giorno, dell’ora e della modalità di collegamento, per poi dare atto, all’udienza, a verbale delle modalità con cui si accerta dell’identità dei soggetti partecipanti e, ove trattasi di parti, della loro libera volontà, con operazioni tutte menzionate adeguatamente nel processo verbale;
g) disporre il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3;
h) disporre lo svolgimento delle udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, con successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice.
I margini sono amplissimi e ancora indifferenziati. Al di là di pochi principi generali, riconducibili in buona sostanza all’effettività del diritto di difesa ed al principio di libertà ed idoneità delle forme (cardini da sempre del processo civile, nonostante le eccezioni e le tendenziali disapplicazioni), c’è spazio per una grande progettualità, auspicabilmente di intesa con le parti del processo, ma, in difetto o in attesa di quella, affidata all’iniziativa del singolo ufficio giudiziario.
Una simile flessibilità, se ispirata dalla sincera tensione al recupero di funzionalità del sistema, sarebbe preziosa: e potrebbe estrinsecarsi già dal momento dell’avvio dell’attività non sospesa, con una cooperazione con le parti che non gravi sulle cancellerie, già oberate dalle difficoltà della presenza in loco dei dipendenti indispensabili, ad esempio ipotizzando uno scambio di atti in copie di cortesia in formato digitale negli uffici (non pochi: e comunque tra i quali la Cassazione) in cui non funziona ancora il PCT; o comunque incentivando, anche con adeguate sperimentazioni, l’uso delle piattaforme e degli applicativi già a disposizione o anche di altri da acquisire, se più agili e fruibili; superando di slancio, con interpretazioni ampie e comprensive, le difficoltà applicative al fine di rendere operative le condizioni di funzionamento delle attività giudiziarie.
Molto dipenderà dalla disponibilità dei singoli e dei singoli capi degli uffici, visto che a ciascuno di questi loro è – per quanto forse non del tutto congruamente, come sopra notato – rimessa l’adozione delle misure organizzative; ma è importante che lo spirito sia quello di volere contribuire, anche di propria iniziativa e senza attendere alcun Godot o deus ex machina, fattivamente alla ricostruzione ed alla ripresa, nel tentativo di riconquistare una normalità riprogettata, su basi certamente nuove, perché esposte a circostanze ignote e senza precedenti, ma pur sempre una normalità, che ambisca a restituire alla Giustizia la sua funzione, di tutela dei diritti di tutti.
Dopo questo secondo capitolo di questa saga dell’emergenza, occorrerà attendere i successivi … ma si vuol credere ancora condivisibile e forte l’auspicio che una sciagura come questa possa trasformarsi almeno in un’opportunità di modernizzazione ed in un’occasione di riscatto.
[1] Art. 2 D.P.C.M. 11 marzo 2020 (20A01605) (GU Serie Generale n.64 del 11-03-2020). Per un primo commento, tra molti altri, si veda: Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19, in Forum quad. cost., 2020, accessibile (ultimo accesso 17/03/2020) all’URL http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/03/candido-covid.pdf; G.L. Gatta, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, accessibile all'URL (ultimo accesso 17/03/2020) https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/coronavisus-covid-19-diritti-liberta-fondamentali-diritto-penale-legalita
[2] Può essere utile un richiamo ancora una volta al Manzoni, che, nei Promessi Sposi, al cap. XXXVII, così riferisce della morte di quell’intellettuale, tipico del Seicento, che era Don Ferrante:
… al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione;non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.– In rerum natura, – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente,verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci...?– Tutte corbellerie, – scappò fuori una volta un tale. – No, no, – riprese don Ferrante: – non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano. Qui cominciavano i guai anche per don Ferrante. Finche non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l’errore di que’ medici non consisteva già nell’affermare che ci fosse un male terribile e generale; ma nell’assegnarne la cagione; allora (parlo de’ primi tempi, in cui non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d’orecchi, trovava lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
La c’è pur troppo la vera cagione, – diceva; – e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria ... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! Brucerete Giove? Brucerete Saturno?
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
[3] Il decreto è pubblicato sul sito istituzionale della Corte ed è reperibile (ultimo accesso 17/03/2020) all’URL http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/dettaglio_ecs.page;jsessionid=BB46E56D4EA4C9A14BC33A44C4F5234A.jvm1?contentId=ECS23841
[4] Dinanzi alle critiche dei commentatori, la relazione al d.l. si vede costretta a precisare che “il riferimento alle ‘obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità’ è locuzione ripresa dalle indicazioni eurounitarie e, in particolare, dal Regolamento 4/2009/CE (art. 1), per non limitare la trattazione alle sole controversie alimentari stricto sensu il cui ambito può essere interpretato in modo più ristretto”.
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