ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Francesco Mauro Iacoviello: il magistrato come “uomo libero”
di Tomaso Epidendio
Quando mi è stato chiesto di tracciare un profilo di Francesco Iacoviello, per salutarlo dopo essere andato in pensione, ho immediatamente pensato che molti possono vantare una frequentazione e una conoscenza, sia dell’uomo sia del magistrato, più durature e risalenti della mia e che meglio di me avrebbero potuto farlo.
Tuttavia credo non gli dispiaccia, in coerenza con la sua personalità, che sia uno degli “ultimi venuti” alla Procura generale della Corte di cassazione a parlare di lui: d’altro canto è questa per me l’occasione per poter esprimere pubblicamente la mia gratitudine, anche a nome dei colleghi dell'Ufficio, per quanto ci ha insegnato e il raro privilegio che è stato per noi lavorare con lui e di poterlo fare in piena libertà.
Dico “lavorare con lui” perché “lavorare insieme” esprime appieno il modo in cui abbiamo percepito egli avesse inteso il nostro servizio alla Procura generale e i rapporti con i sostituti: la porta del suo ufficio di Procuratore generale aggiunto è sempre stata aperta e vi si è sempre parlato di diritto: sempre abbiamo trovato pronto consiglio e interlocuzione, sia per le piccole sia per le grandi questioni che ciascuno di noi deve affrontare nel quotidiano esercizio della magistratura.
In quell’ufficio e parlando con lui abbiamo avuto modo di apprezzare la sua figura come pensatore e magistrato, l’una non disgiunta dall’altra, e questo ci ha consentito di trarre quelle che, nella mia percezione, sono le coordinate che egli ha impresso alla sua attività lungo la sua carriera in magistratura: fiducia nella ragione, attenzione all’uomo e curiosità per il mondo.
Fiducia nella ragione
Credo che il suo impegno scientifico sul ragionamento probatorio e la tecnica dell’argomentazione dimostri una fondamentale fiducia nella ragione argomentativa come strumento per giungere a soluzioni condivise, anche e soprattutto nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto.
Questo, da un lato, spiega la sua disponibilità al confronto con tutti (poiché la ragione non conosce autoritarietà gerarchica, ma solo autorevolezza derivante dal suo reggere alle confutazioni altrui) e, dall’altro, la frequente organizzazione di riunioni per discutere la posizione dell’ufficio sulle questioni giuridiche da affrontare.
D’altro canto, la ragione non conosce padroni, non conosce ideologie e infonde il coraggio per sostenere le soluzioni cui si è giunti, attraverso il suo esercizio e l’esposizione alla confutazione altrui o dei fatti, senza preoccuparsi di dispiacere ad alcuni, di inseguire il pensiero “alla moda” o di uniformarsi alle opinioni del momento. Per questo Francesco Iacoviello è stato un magistrato “coraggioso”, che non ha mancato di esporsi anche in processi delicatissimi e di grande clamore pubblico (si pensi ad esempio al concorso esterno in associazione mafiosa o a processi per gravi disastri colposi), perché come egli stesso ha chiarito in una sua nota requisitoria, di fronte alle sirene di una “giustizia” soggettiva e relativa, il magistrato deve sempre scegliere il “diritto”. Per questo chi ha lavorato con lui ha avuto modo di apprendere l’importanza a non essere sciocco ripetitore di massime, a non fare un mero ed esteriore sfoggio conoscitivo della giurisprudenza, ma a comprendere l’importanza e la portata del precedente, e diventare propulsore della vita del diritto che, di fronte a casi sempre nuovi, deve continuamente e incessantemente confrontarsi con le loro istanze.
Esercizio della ragione argomentativa non vuol dire infatti astrattezza, vuoto gioco della mente, al contrario vuol dire mettersi sempre alla prova con i fatti, misurarsi con le conseguenze della teoria, vuol dire concretezza, vuol dire esemplificare per mettere alla prova i concetti: per questo in lui il pensatore non è mai disgiunto dal magistrato, perché – e forse troppo spesso ci dimentichiamo di questo grande privilegio – il nostro lavoro ci consente di essere sempre in contatto con la sofferta ricchezza e varietà della vita e ci mette in condizioni di pensare meglio e di essere più consapevoli.
Qui emerge tutta l’importanza della esperienza maturata da Francesco Iacoviello in lunghi anni di carriera, svolta praticando sempre il diritto e le aule di giustizia: dal processo per il disastro del porto di Ravenna, all’inchiesta per i falsi in bilancio nel gruppo Montedison-Ferruzzi, dalle indagini su Mediobanca per arrivare al processo Andreotti e, poi, al processo per l’omicidio Lima, al processo IMI-SIR, a quello per il Lodo Mondadori, per il crollo della scuola di San Giuliano, per l’alluvione di Sarno; infine il processo Telecom, quello Parmalat, quello per il G8 di Genova e il cd. Processo Eternit. Ma la sua presenza si avverte anche in procedimenti di minore clamore pubblico, eppure ricchi di delicate questioni giuridiche, come quelli in materia di parziale equiparazione del mutamento giurisprudenziale a quello normativo in sede di incidente di esecuzione. Una lunga lista, certamente incompleta e che si potrebbe ulteriormente arricchire, ma che dimostra come solo una lunga e variegata esperienza consente quella profondità di pensiero e quella capacità di ammaestrare i più inesperti, che il Presidente Iacoviello ha sempre manifestato.
Mi piace ricordare il suo costante impegno in ufficio perché il più largo numero di sostituti avesse il privilegio di partecipare ai processi davanti alle Sezioni unite della Corte di cassazione e, in generale, perché tutti avessero la più ampia possibilità di maturare quell’esperienza necessaria alla crescita professionale di ciascuno e dell’intera Procura generale nei vari e differenti servizi.
Attenzione all’uomo
Proprio la concretezza con la quale Francesco Iacoviello concepisce l’esercizio della ragione argomentativa, non gli ha mai fatto dimenticare che il diritto è per l’uomo e si applica a uomini. Da qui la sua costante attenzione per le garanzie e il garantismo.
D’altro canto proprio la concretezza del suo approccio ha fatto sì che in lui la professione di garantismo si sia sempre tradotta in una visione delle garanzie colte nell’inestricabile intreccio del loro operare insieme nel diritto sostanziale e in quello processuale.
Solo la consapevolezza che le garanzie sostanziali del diritto penale debbano essere viste in stretta connessione con le possibilità operative delle correlative garanzie processuali consente di salvaguardarne l’effettività e non ridurle a vuota quanto astratta declamazione di alti principi.
Ci è stata quindi indicata una strada per non vedere le garanzie come opposte all’efficienza del sistema, ma come salvaguardia del funzionamento del sistema che vive nella connessione pratica del diritto processuale e di quello sostanziale.
In anticipo sulle mode di questi ultimi tempi – dove sempre più spesso si sente parlare di “istituti misti”, sostanziali e processuali – c’è solo da augurarsi che la sua voce non rimanga inascoltata e che continui a farcela sentire proseguendo la sua produzione scientifica in campo giuridico.
Attenzione all’uomo vuol dire però anche attenzione all’uomo-magistrato: essere sensibile e solidale nelle difficoltà personali, agevolare i rapporti sia nell’ufficio, attraverso il confronto aperto al maggior numero di interessati, sia tra uffici. Mi piace ricordare, ad esempio, l’impegno da lui profuso per l’adozione di Protocolli organizzativi tra Procura generale e Corte di cassazione, poi realizzatisi.
Curiosità per il mondo
L’attenzione concreta all’uomo e la fiducia nella ragione non possono poi che tradursi in una naturale curiosità intellettuale verso le trasformazioni del mondo che ci circonda e di quello che questo significa per il diritto.
Questo spiega l’eccezionale versatilità del suo impegno nelle diverse attività dell’ufficio della Procura generale: Francesco Iacoviello, infatti, è stato anche avvocato generale delegato al settore civile e al settore affari internazionali, dove è stato corrispondente nazionale per il terrorismo e delegato per l’ufficio nazionale del Forum dei procuratori generali dell’Unione europea; noto poi è il suo impegno in relazione alla materia dei contrasti tra uffici del pubblico ministero e nei rapporti con le Procure di merito.
Soprattutto è significativa la sua pionieristica attenzione alle fonti sovranazionali e alle attività della Corte europea dei diritti dell’uomo, da un lato, e di quella della Corte di giustizia dell’Unione europea, dall’altro, quando ancora poco se ne parlava e il “diritto giurisprudenziale” era considerato un concetto esoterico o comunque da trattare con sospetto.
Penso alla sua attenzione per le opportunità offerte dalla tecnologia nel nostro lavoro e all’impegno profuso nell’assicurare, attraverso la rete informatica, la più ampia circolazione di idee ed esperienze tra colleghi, anche attraverso la richiesta di schemi scritti di requisitoria da far circolare con il mezzo informatico tra i vari sostituti.
Da lui abbiamo imparato che un buon magistrato deve essere culturalmente attento a cogliere le trasformazioni che avvengono nel mondo, fuori e dentro il diritto, cosa che non è possibile fare se ci si rinchiude in stretti settori o ci si limita ai propri ristretti interessi giuridici.
Magistrato-pensatore e un uomo libero
Ho già scritto troppo contravvenendo, forse per eccesso di gratitudine e affetto, proprio ai precetti di chi si è sforzato di insegnarmi che, anche nella redazione degli atti, bisogna togliere l’ovvio e lasciare solo il significativo.
Aggiungo allora solo due chiose finali che, nella mia percezione, connotano la figura di Francesco Iacoviello ponendola come modello di magistrato.
La prima concerne il fatto che se, come è stato detto, lo scultore che pensa deve pensare nel marmo, allora credo che il magistrato che pensa deve pensare nella pratica del diritto: in questo senso, credo che Iacoviello incarni una icastica figura di “magistrato-pensatore”, esempio per noi tutti.
La seconda riguarda il nostro modo di essere magistrati in questo momenti storico, in cui l’uomo moderno non soffre più per l’eccesso di proibizioni, ma per l’eccesso di possibilità, che lo spingono a costruirsi da solo le gabbie di cui resta prigioniero: ebbene, credo che, talvolta, anche noi magistrati – che pure per disposizione costituzionale siamo soggetti soltanto alla legge e ci distinguiamo solo per diversità di funzioni, e non per grado, e che dunque godiamo delle più ampie garanzie di libertà – quali uomini moderni ci dimentichiamo del grande privilegio di cui godiamo e ci costruiamo da soli gabbie che ci impediscono di essere uomini completamente liberi.
Francesco Iacoviello ci ha indicato come fare i magistrati da uomini davvero liberi e soprattutto per questo suo esempio lo ringrazio.
Grazie Francesco del privilegio di averci fatto lavorare insieme a te e perdonami se ho travisato quello che tu hai trasmesso: continua ad occuparti di diritto perché il tuo lavoro non è finito.
Alleghiamo alcuni link di interventi di Francesco Mauro Iacoviello
Bilancio di Responsabilità Sociale - Illustrazione dell'attività della Procura generale della Corte di Cassazione
Roma, 5.12.19 Suprema Corte di Cassazione https://www.radioradicale.it/scheda/568420/bilancio-di-responsabilita-sociale-illustrazione-dellattivita-della-procura-generale?i=3963328
Il burocrate creativo. La crescente intraprendenza interpretativa della giurisprudenza penale
Firenze,16.7.16, Camera penale di Firenze https://www.radioradicale.it/scheda/486323/il-burocrate-creativo-la-crescente-intraprendenza-interpretativa-della-giurisprudenza?i=3606960
Il fenomeno della criminalità organizzata tra storia, economia e sociologia - prima giornata
Roma,1.3.17, Scuola superiore della magistratura
Normazione emergenziale e ‹‹buon senso›› interpretativo
di Antonio Scarpa
Che valore ha il “criterio del buonsenso” nella interpretazione della legislazione sulla emergenza epidemiologica da COVID-19?
E’ capitato assai spesso che, nei commenti fatti (a ‹‹prima›› o a ‹‹seconda lettura››) sull’abbondante normazione emergenziale da Covid-19, si leggesse un richiamo ad un meditato criterio interpretativo di “buon senso” (o “buonsenso”, come ormai si scrive in modo più diffuso e corretto): la forza di tale regola operazionale di “buonsenso” tende ad essere, per tali commentatori emergenziali, talmente dirompente da privare di decisività gli indici letterali delle norme e da indurre a conclusioni diverse da quelle derivanti dalla piana lettura dei testi.
Il rispetto delle restrizioni personali imposte dalla situazione sanitaria costituirebbe, infatti, lo scopo travalicante rispetto ad ogni altro criterio di interpretazione delle leggi.
In una parola, si suppone implicitamente che, in questi due mesi ed oltre di frenetica nomopoiesi, sia stato riscritto pure l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, il quale ora, sulla base di questi nuovi principi etici, funzionerebbe più o meno così: nell’applicare la legge si deve tener conto prioritariamente non del senso fatto palese dal significato proprio delle parole, ma del “buonsenso” derivante essenzialmente dall’osservanza delle sovraordinate indicazioni igienicosanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri.
L’idea dell’interpretazione della legge “secondo buonsenso”, com’è noto, non è volutamente eversiva. Essa nacque dall’intimo e puro convincimento che l’uomo sia per sua natura buono e giusto, e sappia perciò discernere ciò che è lecito e ciò che non lo è. Il bon sens, good sense, gesunder Mensschenversand, era la “norma ideale” kantiana, la “chose du monde la mieux partagées” per Cartesio dei Discours de la Méthode, giacché espressione del “bien juger” e del “distinguer le vrai d’avec le faux” (Weinrich).
Il buon senso cartesiano equivaleva, dunque, all’uso della ragione. Ma già nel secolo successivo, il buonsenso si allontanò dal suo significato intimamente correlato all’idea della innata razionalità umana, per divenire sinonimo del senso comune, il quale costituisce, piuttosto, soltanto espressione dell’opinione dominante, e, cioè, un ambito “premio di maggioranza”. Così, oggi, professare una “interpretazione della legge secondo buonsenso” rischia di teorizzare l’opportunità di una interpretazione normativa modulata sull’opinione avvertita dalla maggioranza, e in tal modo flettere il diritto secondo il dogma di divinizzazione del popolo espresso dalla massima vox populi, vox dei (G. Zagrebelsky).
Chi, brandendo il “buonsenso”, interpreta le leggi dirette a contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, anche quelle in materia di giurisdizione, come le norme processuali, o di ordinamento civile e penale, non soltanto nel rispetto della Costituzione e dei vincoli comunitari o internazionali, ma intendendo il “Divieto di assembramento” quale nuovo e dominante principio generale dell’ordinamento giuridico dello Stato, dichiara apertamente di voler considerare e “concettualizzare” una realtà più ampia di quella di volta in volta regolata dal legislatore nella singola norma (Gorla).
Il rischio della generalizzazione della “interpretazione secondo buonsenso” può, però, presagire anche il ritorno alla figura di Dahm del “ladro nella sua essenza”, che serviva a giustificare l’assoluzione del membro della Hitler-Jugend.
Senonché, l’oggetto della scienza del diritto è la norma, non la realtà che il legislatore disciplina: l’attività legislativa è volizione astratta, e l’interprete abusa della sua funzione se, sulla base della sua intuizione, concettualizza l’ambiente sociale in cui essa deve operare. Né appartiene alla scienza del diritto la ricerca di massime di esperienza sul prevalente contegno dei legislatori di fronte a determinati problemi (Gorla).
Se il legislatore ha valutato determinati comportamenti umani secondo criteri di doverosità, liceità o illiceità, e così attribuito «situazioni» di dovere, facoltà o potere, ed ha dettato norme che disciplinano l’attività dei soggetti del processo per apprestare i mezzi di tutela giurisdizionale, non spetta all’interprete ricercare e spiegare, con concetti empirici, l’esistenza di interessi primari, che nella specie sarebbero poi dettati dalle misure amministrative di contenimento e di gestione dell’emergenza epidemiologica in atto, salvo ripiombare nelle oscurità della Interessenjurisprudenz.
Dunque, le norme che attribuiscono e tutelano diritti non possono interpretarsi, “secondo buonsenso”, in nome del divieto amministrativo di assembramento. A meno di intendere che il giurista debba rinvenire il diritto positivo non in quello dettato dall’autorità legislativa, ma nel fatto della vita per come narrato dalla voce della comunità, della quale si renda intermediatore (Grossi), e, in questa contingenza, per come esplicitato in provvedimenti amministrativi, arrivando fino al punto che ogni interpretazione della legge debba essere funzionale all’esigenza organizzativa di evitare contatti ravvicinati tra persone. E’ da comprendere, come affermò Manzoni, condividendo i dubbi del Muratori, che nessuno sia “abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico”. Anche a quel tempo, “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Gli atti concorrenziali nella prospettiva delle Sezioni Unite penali. Nota a Cass., S.U. n.13178/2020.
di Maria Cristina Amoroso
Sommario: 1. Le ragioni del contrasto. 2. Le posizioni della giurisprudenza di legittimità. 3. La risposta delle Sezioni Unite. 4. La libertà di concorrenza. 5. Il significato di atti concorrenziali. 6. Il bene giuridico protetto. I caratteri della fattispecie. 7. Conclusioni.
Le Sezioni Unite con la decisione n. 13178, depositata il 28 aprile 2020, hanno posto fine al contrasto delineatosi in tema di illecita concorrenza con minaccia o violenza di cui all’art. art. 513 -bis cod. pen.
Investito dalla Terza Sezione penale, con ordinanza n. 26870 del 19 aprile 2019, del quesito: «se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente il compimento di atti di violenza o minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza sia solo la mira teleologica dell’agente», il Supremo Consesso ha affermato il principio di diritto secondo cui «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis c.p. è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente».
1.Le ragioni del contrasto.
Il contrasto prende le mosse dalla palese divergenza tra la ratio della previsione normativa e l’ambito di incidenza della sua tipicità, delineata con tratti identificativi sostanzialmente diversi da quelli preannunciati. Come ricordato dalla Suprema Corte, l’introduzione dell’art. 513 - bis cod. pen. - che sanziona con la reclusione da due a sei anni chiunque nell'esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia - è avvenuta per opera della legge 13 dicembre 1982, n. 646 (cd. Rognoni-La Torre), recante disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, sulla spinta dell’urgenza, particolarmente sentita in quello specifico momento storico, di prevedere una fattispecie ad hoc per la repressione dei comportamenti tipici della mafia che, quale nuova e illegale “forza imprenditrice”, scoraggiava la concorrenza con esplosione di ordigni, danneggiamenti e violenza sulle persone; condotte rispetto alle quali le tradizionali fattispecie dell’estorsione e della turbata libertà dell'industria o del commercio mal si prestavano ad accordare un’efficace tutela.
Nonostante la dichiarata volontà legislativa, la disposizione non è stata plasmata in relazione ai contesti mafiosi, il riferimento a “chiunque”, sia pure nell'esercizio di un’attività commerciale, industriale o produttiva, ne ha, per certi versi, ridelineato la portata, così come la collocazione della disposizione tra i delitti contro l'economia pubblica, l’industria e il commercio (nel Capo II del Titolo VIII) ha di fatto allontanato l’area della oggettività giuridica della previsione dal complesso delle fattispecie incriminatrici poste a tutela dell’ordine pubblico.
Queste circostanze, unitamente al riferimento contenuto nella fattispecie tipica alla realizzazione di “atti di concorrenza”, senza alcuna ulteriore specificazione, hanno dato vita a letture giurisprudenziali non univoche.
2.Le posizioni della giurisprudenza di legittimità.
Superato un orientamento più risalente nel tempo che aveva inizialmente limitato l’incidenza della disposizione al solo contrasto di forme d’intimidazione mafiosa tese a scoraggiare la regolare dinamica dell’agire imprenditoriale, la giurisprudenza più recente è concorde nell’escludere la necessaria realizzazione della condotta nell’ambito della criminalità organizzata, ma si presenta divisa circa il significato da attribuire alla generica locuzione “atti di concorrenza”.
Spinta dallo sforzo di restituire alla fattispecie una maggiore determinatezza, una parte della giurisprudenza di legittimità, individuata nella tutela della libera concorrenza la ratio della norma, ha ritenuto costituissero “atti di concorrenza” soltanto le condotte concorrenziali tipiche, quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc., desumibili dalle pertinenti disposizioni del codice civile, realizzate con metodi di coartazione volti ad ostacolare la normale dinamica imprenditoriale nei confronti di altri soggetti economici tendenzialmente operanti nello stesso settore.
In questa prospettiva la disposizione è stata ritenuta inapplicabile agli atti di violenza o minaccia non sostanziatisi in comportamenti competitivi nel senso tecnico-giuridico, quand’anche la finalità perseguita dall'agente si fosse identificata con la limitazione della libertà di concorrenza, ferma restando, tuttavia, l’eventuale riconducibilità della fattispecie concreta ad altre ipotesi di reato (quali quelle di estorsione o di concussione); una interpretazione difforme da quella proposta, secondo i fautori di questa tesi, contrasterebbe con la ratio della norma e determinerebbe una inevitabile «violazione del principio di tassatività, a fronte di un enunciato normativo la cui formulazione intende invece isolare, dalla generalità degli atti violenti, gli specifici atti di concorrenza, pur commessi con quella particolare modalità».
Di avviso contrario è, invece, la contrapposta giurisprudenza teleologicamente orientata che contesta l’attribuzione di rilievo alla sola commissione di atti tipici di concorrenza, e ritiene la disposizione applicabile in tutti i casi di realizzazione di attività violente e minacciose che, proprio per le loro caratteristiche di fatto, configurano una concorrenza illecita mirando a controllare le attività commerciali, o comunque a condizionarne il libero esercizio.
Per questa linea ermeneutica alla nozione “atti di concorrenza” va attribuito un significato più ampio di quello desumibile dalle disposizioni del codice civile, in quanto il bene giuridico tutelato consiste non solo nel buon funzionamento dell'intero sistema economico, ma anche nella libertà della persona di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
Alle due letture se ne affianca una terza che, nel tentativo di individuare una definizione di “atti di concorrenza” meno restrittiva, ma al contempo più determinata, prospetta la possibilità di attribuire un significato a tale concetto facendo ricorso alla ratio della norma incriminatrice e tenendo conto della più recente normativa italiana ed europea in tema di tutela della concorrenza.
Per tale impostazione gli atti concorrenziali di cui alla fattispecie sono integrati da tutti i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, contenuti ai numeri 1) e 2) dall’art. 2958 cod. civ. ma anche da tutti gli atti inclusi nella disposizione di chiusura di cui al numero 3) dello stesso articolo, secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai princìpi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda.
In quest’ottica assumerebbero rilievo sia quei comportamenti che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, risultano “idonei a falsare il mercato” e a consentire l'acquisizione, in danno dell'imprenditore minacciato, di illegittime posizioni di vantaggio senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (come nel caso tipico dell'intimidazione esercitata da parte di un imprenditore nei confronti di un altro, rispetto a lavori appaltati ma rivendicati come propri), sia le condotte contrarie ai principi della correttezza professionale, intese come “qualunque comportamento violento o minatorio” posto in essere nell'esercizio dell'attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante sul mercato non correlata alla capacità operativa dell'impresa o comunque diretto ad alterare l'ordinario e libero rapportarsi degli operatori in una economia di mercato.
3. La risposta delle Sezioni Unite.
Il terzo degli orientamenti esposti viene considerato dalla Sezioni Unite quello maggiormente utile ai fini della risoluzione del quesito.
Del primo si critica l’eccessiva limitazione della potenzialità applicativa e la ridotta capacità di tutela, poichè restringe l'incidenza dell’art. 513- bis cod. pen. ad isolate forme di comportamento competitivo «senza esplorare appieno la possibilità di un’interpretazione che si faccia carico di collocare la norma incriminatrice e il bene giuridico da essa tutelato all'interno di una visione complessiva dei presupposti della libertà di concorrenza nel sistema interno e nella sua più ampia dimensione euro-unitaria» rendendo la norma sostanzialmente inapplicabile se non in casi assai limitati.
Quanto al secondo, si osserva che da un lato esso rischia di rafforzare del tutto impropriamente l'incidenza dell’elemento psicologico del reato poiché, al di fuori di condotte intimidatorie poste in essere nell'esercizio dell’attività concorrenziale, il fine dei comportamenti illeciti dovrà comunque dirigersi verso il contrasto dell’altrui libertà di concorrenza; dall'altro rischia di imporre una rivisitazione del contenuto dell’oggettività giuridica, dal momento che la norma verrebbe a tutelare situazioni ed attività non riconducibili esclusivamente al libero autodeterminarsi dell'imprenditore nella sua attività d'impresa, oltrepassando l’esigenza di protezione della sfera dell'economia pubblica, dell’industria e del commercio, per indirizzarsi di fatto verso la difesa di esigenze proprie dell’ordine pubblico.
Nella lunga ed articolata parte motiva della decisione le Sezioni Unite giungono alla soluzione del quesito sviluppando un percorso idealmente frazionabile in più parti. L’incipit è costituito dalla lucida rappresentazione del contesto multilivello relativo alla libertà di concorrenza; la parte centrale è costituita dall’attribuzione al sintagma "atti di concorrenza" di un significato svincolato dall’originario contesto normativo in cui la fattispecie di cui all’art. 513 - bis è stata introdotta e più aderente alla sopravvenuta normativa interna ed euro-unitaria; la terza parte analizza le ragioni e le finalità di tutela che hanno determinato la genesi della norma.
Delineati nei suoi contorni la fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen., la sentenza si conclude con la distinzione di tale previsione dai delitti contigui di cui agli artt. 513 e 629 cod. pen.
4. La libertà di concorrenza.
A livello Costituzionale la Corte individua nell’art. 41, primo comma, la disposizione a presidio della tutela della libertà di concorrenza.
Sebbene la disposizione non contenga alcuna menzione in proposito e si limiti ad affermare che l’iniziativa economica privata è libera fatti salvi i limiti espressamente indicati nel secondo comma, il costante processo di integrazione europea, l’incidenza delle numerose regole di concorrenza stabilite dall’Unione europea e la scelta di campo espressa in favore di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” (ex artt. 119 par. l e 120 TFUE, in relazione all'art. 3, par. 3, TUE) hanno impresso a tale principio connotazioni in parte nuove.
La libertà di concorrenza, si evidenzia, è divenuta progressivamente una delle naturali espressioni della libertà di iniziativa economica privata a causa di una pluralità di disposizioni quali l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul riconoscimento della libertà d'impresa; gli artt. 3, par. 3 e 21, par. 2, lett. e), TUE; gli artt. 3, par. l, lett. b), 32, lett. c), 34 ss., 101-109, 119, par. l, 120 TFUE, che dettano le norme sostanziali in materia di tutela della concorrenza; e il Protocollo n. 27 allegato ai Trattati, là dove si afferma che «il mercato interno ai sensi dell'articolo 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata».
La libertà di concorrenza ha trovato espresso rilievo costituzionale nell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., introdotto nell'ordinamento a seguito della modifica operata dall'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ne assegna la tutela, nell'ambito della nuova ripartizione delle competenze fra i diversi livelli territoriali di governo, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, che deve esercitarla «nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
La stretta connessione fra libertà dell’iniziativa economica privata e la tutela delle regole della concorrenza, anche nella più ampia dimensione del mercato comunitario, è tema oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale nelle quali da un lato si afferma che la nozione di concorrenza di cui all’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario, dall’altro che attraverso la tutela della concorrenza si perseguono altresì finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta di beni e di servizi.
In ambito europeo il favor per la tutela di questa libertà si manifesta, in particolare, oltre che nell’insieme di divieti posti dai già citati artt. 101 e 102 TFUE (e in precedenza stabiliti negli artt. 81 e 82 TCE) nella affermazione, contenuta nell’art. 16 CDFUE, secondo la quale la libertà d'impresa deve essere esercitata “conformemente al diritto dell'Unione”, così includendovi le regole di diritto derivato che governano in maniera specifica e dettagliata i meccanismi di funzionamento della concorrenza.
Quanto alle pertinenti disposizioni interne, la tutela del mercato concorrenziale è affidata agli artt. 2 e 3 della legge 12 ottobre 1990, n. 287, dal contenuto analogo alle disposizioni europee in tema di intese restrittive della libertà di concorrenza, abuso di posizione dominante e concentrazioni fra imprese; le situazioni vietate sono individuate assumendo quale modello di riferimento il contenuto delle corrispondenti disposizioni dell’ordinamento euro- unitario e l’art. l, comma 4) enuncia espressamente il criterio secondo cui le regole interne vanno interpretate «...in base ai principi dell'ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza».
Nella stessa ottica le previsioni della legge 11 novembre 2011, n. 180, hanno inteso definire lo statuto delle imprese e dell’imprenditore al fine di assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d’impresa e al contempo garantire la libertà di iniziativa economica privata in conformità agli articoli 35 e 41 della Costituzione.
La Corte fa riferimento anche alle disposizioni civilistiche volte ad assicurare l’ordinato e corretto svolgimento della libertà di concorrenza impedendo, sul piano giuridico, il determinarsi di situazioni di monopolio e quasi - monopolio ( 2596 cod. pen.) ovvero comportamenti illeciti che di fatto alterino o, addirittura, stravolgano il regolare funzionamento del mercato attraverso la repressione degli atti di concorrenza sleale (artt. 2598- 2601 cod. civ.).
Tra le previsioni del codice civile le Sezioni Unite si soffermano, in particolare su quella contenuta al n. 3 dell’art. 2598, secondo la quale si considera concorrenza sleale «ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda».
Rifacendosi ai principi enunciati dalle Sezioni Civili, le Sezioni Unite affermano che il carattere residuale della norma rispetto alle condotte tipizzate nei numeri 1) e 2) impone la necessità di esaminare caso per caso se il comportamento allegato costituisce illecito, dia esso luogo, o meno, anche a violazione di norme pubblicistiche. La disposizione, pertanto, appare riferibile a qualsiasi atto che, alla luce dei principi fondamentali e delle previsioni nazionali ed europee in tema di mercato concorrenziale, risulti contrario ai canoni di etica professionale generalmente accettati e seguiti nel mondo degli affari, ovvero nello specifico settore cui appartengono le attività imprenditoriali in rapporto concorrenziale e che al contempo sia idoneo a recare danno all’altrui azienda.
5. Il significato di “atti concorrenziali”.
Alla luce di quanto rappresentato, le Sezioni Unite affermano che la nozione di “atti concorrenziali” va inquadrata sia con riferimento al superiore divieto di ordine costituzionale posto dall'art. 41, secondo comma, Cost. - secondo cui qualsiasi forma di competizione concorrenziale riconducibile alla libera estrinsecazione dell'iniziativa economica privata non può svolgersi “in modo da recare danno” ad una serie di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate (come i diritti di libertà, sicurezza e dignità umana) - sia tenendo conto dell'esigenza di rispetto dei limiti stabiliti dalla legge ordinaria (ex art. 2595 cod. civ.) per lo svolgimento della libera concorrenza risultanti dal raccordo fra diversi livelli della normativa euro-unitaria, e delle disposizioni contenute nel codice civile nella legislazione speciale (in primo luogo, nella legge n. 287 del 1990).
Nel definire l’ambito di operatività della fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen., la Suprema Corte specifica che il soggetto attivo e quello passivo del reato devono trovarsi in una dinamica concorrenziale e pertanto, almeno tendenzialmente, offrire nello stesso ambito di mercato beni o servizi che siano destinati a soddisfare, anche in via succedanea, lo stesso bisogno dei consumatori o, comunque, bisogni complementari o affini, tenendo conto del fatto che il rapporto di concorrenza si instaura anche fra operatori che agiscono a livelli economici diversi (ad es.: produttore-rivenditore o grossista dettagliante), coinvolgendo «tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni».
La delimitazione dei soggetti attivi o passivi del reato non va intesa in senso meramente formale, in quanto non occorre la qualità di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente l'espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva a prescindere dai requisiti di professionalità ed organizzazione tipici della figura civilistica dell'imprenditore e fatte salve, le ipotesi di compartecipazione criminosa dell'extraneus a conoscenza della qualità di intraneus del soggetto agente.
Infine, non si ritiene necessario che gli atti di concorrenza illecita siano necessariamente diretti nei confronti dell'imprenditore concorrente, potendo essere rivolti anche nei confronti di terzi.
6. Il bene giuridico protetto. I caratteri della fattispecie.
Relativamente al bene giuridico protetto dalla norma, le Sezioni Unite considerano tale non solo la tutela di un più ampio interesse al corretto funzionamento del sistema economico, inteso come bene finale, ma anche la protezione di un diverso interesse, da intendersi quale bene strumentale, più direttamente inerente ad una esigenza di garanzia della sfera soggettiva della libertà di ciascuno di autodeterminarsi nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva.
In sintesi, tenuto conto della normativa euro-unitaria e nazionale, le Sezioni unite concludono che la fattispecie ex art. 513 - bis cod. pen. è riferibile a tutti i comportamenti competitivi, sia attivi che impeditivi della libertà altrui, connotati dal ricorso ai mezzi della violenza o della minaccia, idonei a favorire, o a consentire, l’illecita acquisizione, in pregiudizio del concorrente minacciato o coartato, di posizioni di vantaggio ovvero di predominio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva, pur non essendo necessaria la reale intimidazione del soggetto passivo ovvero un’effettiva alterazione degli equilibri di mercato.
La delineata tipicità della fattispecie in esame, conclude la Corte, consente di distinguerla agevolmente dal contiguo reato di cui all’art. 513 cod. pen., che contempla l’uso della violenza sulle cose per impedire o turbare l’esercizio di un’industria o un commercio e prevede quale alternativa il ricorso a mezzi fraudolenti per le medesime finalità; e di ritenerla non assorbita nella più grave fattispecie di estorsione trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, sicché, ricorrendo gli elementi costitutivi di entrambi i delitti è configurabile il concorso formale.
Nel caso di specie le Sezioni Unite hanno ritenuto che la condotta violenta nei confronti dell’operatore economico concorrente, attivo nella medesima zona territoriale, esercitata con calci, pugni e sputi per farlo desistere dallo svolgimento delle operazioni di spurgo e sversamento di rifiuti prodotti da una clinica sanitaria e nello screditarne l’immagine commerciale, rivendicando una sorta di competenza esclusiva nella zona, integra la fattispecie di cui all’art. 513 - bis cod. pen.
7. Conclusioni.
Le Sezioni Unite Guadagni hanno compiutamente elaborato una nozione penalistica di “atti concorrenza”, andando forse oltre l’interpretazione data a tale concetto dall’orientamento pur espressamente condiviso.
Il passo ulteriore compiuto dalla decisione in commento sembra, infatti, essere l’abbandono della prospettiva caratterizzante il terzo orientamento “intermedio” che, pur facendo riferimento alla necessità di attribuire alla previsione contenuta nel numero 3 dell’art. 2598 cod. civ. una lettura più moderna alla luce del contesto normativo e nazionale ed europeo, ha comunque sempre attribuito a tale disposizione un “ruolo chiave” nell’interpretazione dell’art. 513-bis., anche quando ha comunque chiarito che «nel momento in cui una disposizione prevista dall'ordinamento giuridico per disciplinare un fenomeno in campo civile sia utilizzata a fini ermeneutici per dare significato ad un concetto utilizzato in ambito penale, salvo una diversa indicazione normativa, detta disposizione non possa essere riduttivamente letta secondo l'ermeneusi seguita nell'applicazione giurisprudenziale in quello specifico settore del diritto (nella specie, civile), che - per definizione - è destinato a regolare il rapporto o l'accadimento sotto un'ottica completamente diversa da quella penalistica».
Le Sezioni Unite sembrano aver considerato la citata disposizione civilistica solo uno dei molteplici tasselli dell’articolato sistema normativo di diritto comunitario e nazionale cui far ricorso ai fini di una corretta lettura dell’art. 513 - bis cod. pen.
Interrotta la necessaria consequenzialità fra gli atti di concorrenza sleale ex art. 2598 cod. civ. e le condotte punite ex art. 513-bis cod. pen., sarà particolarmente interessante monitorare la futura applicazione della disposizione al fine di verificare se il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite arricchirà la casistica degli “atti di concorrenza” di nuove tipologie.
Il processo a distanza e l’esame dei testimoni. La tecnologia come soluzione finale dei problemi della giustizia?
di Santo Di Nuovo
La ‘conversione’ al digitale e al telematico di tante delle attività che in genere si svolgono in presenza - dalla didattica ai processi - è stata accelerata e spesso obbligata dalla contingenza della epidemia, ma in realtà si basa su pratiche già in parte sperimentate e validate.
La giustizia, come altri àmbiti, può avvalersi con profitto delle tecnologie informatiche e di modalità telematiche, che offrono un supporto ‘intelligente’ e programmabile con intelligenza, specie nei casi e nelle situazioni difficili. Però non possono essere considerate una soluzione globale e definitiva per le procedure giudiziarie, come si comincia a ipotizzare (anche per altre condizioni quali la didattica, la formazione e il lavoro, addirittura per la consulenza psicoterapeutica). E questa soluzione attrae le critiche di quanti non condividono di considerare ‘normali’ di condizioni che sono dei surrogati per le emergenze, e tali devono restare.
Un supporto utile come la telematica può fare da ‘supplente’ al bisogno, come durante la fase di distanziamento sociale per l’epidemia, ma anche in condizioni particolari per cui l’esame processuale a distanza è già stato utilizzato in precedenza: testimoni sotto protezione, o residenti in paesi lontani, o impossibilitati per ragioni di salute, difficoltà di traduzione di detenuti, altre ragioni di opportunità. Ma il sistema giudiziario in condizioni ‘normali’ ha bisogno di altre dimensioni e condizioni che sono particolarmente pregnanti in certi ambiti e in certi procedimenti, specie quelli che prevedono l’esame di testimoni.
È certamente più facile usare forme di interrogatorio telematico nei processi civili o nelle cause di lavoro; meno lo è nelle procedure di diritto familiare dove è necessario sentire coppie e minorenni in interazione fra loro per valutare le dinamiche intercorrenti e utili per il giudizio. Ancor meno indicato è l’interrogatorio a distanza nel processo penale il cui ‘dibattimento’ mal si concilia con una discussione a distanza attraverso il piccolo riquadro di uno schermo, magari con un audio disturbato e poco comprensibile.
Vi è difficoltà a organizzare un contraddittorio, se richiesto dalle esigenze processuali, e quindi di assicurare l’interattività essenziale in un dibattimento. Vi è l’impossibilità di avvalersi pienamente di quella essenziale componente della valutazione del testimone come persona - e non solo delle sue parole - che è la comunicazione non-verbale nei suoi molteplici aspetti: posture, mimica, gestualità, sfumature della voce, ecc. Aspetti che consentono di andare oltre il ‘detto’ e cogliere significati reconditi che per via telematica è quasi impossibile interpretare e quindi integrare nella valutazione.
Come detto, la peculiarità della fattispecie è determinante per decidere quanto queste componenti non individuabili per via telematica depauperano la conoscenza processuale. Il testimone di uno stupro o di un omicidio risponde in condizioni emotive diverse da quello di un processo per un incidente stradale o sul lavoro. Se il testimone è un tutore dell’ordine o un perito si può presumere che sia sufficientemente attendibile interrogarlo a distanza. Se invece l’interrogato in via telematica è l’imputato o un sospettato, l’incidenza dei fattori emotivi e comportamentali è particolarmente rilevante, ed è più riduttivo accontentarsi delle sole risposte verbali. Tanto più se nel dibattimento possono essere presenti controparti o parti offese: altro è rispondere in loro presenza, altro a distanza e dietro uno schermo senza contatto oculare diretto.
In tutte le procedure in cui si richiede una valutazione di persone (interrogazioni scolastiche, esami universitari, prove di selezione, processi) l’intervento a distanza può essere un surrogato utile, se come tale viene percepito e usato dagli operatori interessati.
Nel campo della giustizia, affinché le tecnologie siano utili, bisogna evitare due tendenze opposte, entrambe pregiudiziali. L’atteggiamento di giudici e avvocati deve superare le remore che tecnologia e telematica ‘spersonalizzino’ sempre e comunque il processo. Ma bisogna anche evitare, al contrario, una accettazione acritica che delega a queste modalità la soluzione di problemi della giustizia non altrimenti affrontabili.
Esistono problemi tecnici e problemi operativi che vanno analizzati e ponderati con cautela.
I primi riguardano la implementazione e modernizzazione dei sistemi informatici di cui la giustizia è dotata. Le tecnologie devono essere avere caratteristiche di facile ‘usabilità’ e di ‘accettabilità’ dagli attori del diritto (magistrati, avvocati, cancellieri, utenti della giustizia), che inoltre devono essere formati a sfruttarle in modo corretto. Ma devono anche essere flessibili per poter essere utilizzate non in modo standard e uguale in tutte le situazioni, bensì in modo diverso per rispondere a specifici bisogni. E anche su questo aspetto di flessibilità è necessaria una adeguata formazione e supervisione di chi deve usarle.
Sul piano operativo, bisogna accuratamente studiare le condizioni in cui il processo può essere attendibilmente condotto in modalità telematica: assenza di interferenze logistiche (altro è ascoltare un testimone di presenza, seppur dietro ad un paravento per celarlo al pubblico, altro in un carcere, o nel proprio domicilio) evitando interventi occulti di terzi, o pressioni non individuabili, o lettura di appunti preconfezionati, che l’ambente da cui il testimone si collega potrebbe consentire o addirittura favorire.
Sempre sul piano pratico, occorre individuare le condizioni in cui gli aspetti peculiari della escussione in presenza risultano invece utile e preferibile.
Questo studio delle condizioni di fattibilità è essenziale per definire se e in che misura il ‘surrogato’ è ritenuto approssimarsi alle condizioni standard previste dai codici e dai diritti della accusa e della difesa. In questa analisi le componenti del sistema giudiziario, in particolare i magistrati e gli avvocati, dovrebbero essere attivamente coinvolti: sono loro infatti a conoscere – di diritto e di fatto - le esigenze giuridiche che vanno rispettate e le specificità che per ciascuna situazione vanno considerate, proprio per rendere flessibile e proficuo nelle diverse condizioni l’apporto delle tecnologie telematiche. La conclusione è che la tecnologia può offrire – specie in situazioni peculiari ben circoscritte - un supporto valido e utile se ben studiato e adattato ai bisogni. Non è la soluzione finale dei problemi della giustizia, ma può essere un aiuto per affrontarli.
[1] Professore di psicologia nell’Università di Catania. Presidente della Associazione Nazionale di Psicologia.
L’art. 42, secondo comma, d.c.p.m. 17 marzo 2020, in contesto di polizza infortuni, osservazioni di un medico
di Enrico Pedoja
L’equiparazione tecnica medico legale del concetto di “causa virulenta” con “causa violenta” in contesto di polizza infortuni alla luce del recente indirizzo normativo e conseguentemente applicativo dell’ Inail. Applicabilità del concetto di “infortunio indennizzabile “in ambito di contratto di polizza infortuni privata, secondo i costanti orientamenti della Letteratura scientifica Medico legale, con spunti interpretativi relativi alle clausole contrattuali.
Sommario: 1. Riferimenti normativi - 2. Presupposti contrattuali di indennizzabilità dell’infezione virale Covid 19 in polizza infortuni privata - 3. Evoluzione delle condizioni contrattuali di polizza infortuni - 4. La costante dottrina medico legale “assicurativa” in tema “ infezione” - 5. La stima tecnica medico legale delle conseguenze indennizzabili
1. Riferimenti normativi
L’art. 42 del recente DCPM del 17 marzo 2020 * ( cui ha fatto seguito l’operatività della Circolare dell‘Inail ) ha ribadito i già noti concetti interpretativi, di rilevanza Contrattuale di Polizza Infortuni/ Malattia , in tema di “Infezione” : soprattutto in relazione al valore dell’interesse tutelato per il contraente che attiene alla perdita o diminuzione temporanea e/o permanente della capacita lavorativa.
La “ ratio” giuridica della recente Normativa è dunque inquadrabile nel contesto di una “tutela compensativa del reddito”, che non può escludere differenti ipotesi indennizzative , anche di ordine Privatistico , ove il soggetto assicurato non rientri nelle fasce protette dall’ Inail.
In tale contesto va ricordato , peraltro, che il significato sociale dell’assicurazione per gli infortuni sul lavoro e malattie professionali è completamente differente rispetto al contratto privato di polizza infortuni.
Ricordiamo che la tutela INAIL in realtà è la soluzione, su base politica, del problema della responsabilità oggettiva del datore di lavoro e per questo nasce. Quindi è un problema di responsabilità civile, con criterio non di colpa ma di responsabilità oggettiva, nel contesto del quale di fatto l’unica problematica è la presenza di nesso di causa tra l’evento avverso e l’attività lavorativa. Di fatto non esistono clausole di esclusione e limitazione delle disgrazie accidentali, se non la concentrazione cronologica (causa violenta) e l’occasione di lavoro.
Anche volendo ritenere l’istituto dell’INAIL un istituto di tipo mutualistico, in cui gli iscritti versando dei denari si tutelano nei confronti di talune disgrazie accidentali, le regole sono fissate dagli iscritti, mediate dalle leggi di Stato, non da un imprenditore che con un contratto garantisce una determinata prestazione al contraente al realizzarsi di un evento.
2.Presupposti Contrattuali di Indennizzabilità dell’infezione Virale Covid 19 in Polizza Infortuni Privata
I Contratti di Polizza Infortuni sono regolati dal Codice Civile, in particolare nel Libro IV, ove si dedica un capo alla disciplina giuridica dell'interpretazione del contratto e il riferimento normativo si integra negli articoli da 1362 a 1371 del Codice Civile.
Il problema in discussione è, in sintesi, se un’infezione acutamente contratta, virulenta, come l’infezione da Covid-19, rientri negli eventi indennizzabili nel contesto di un contratto di polizza privata infortuni. , considerato che il Rischio assicurato , secondo quanto emerge in tema di Covid 19 dalle attuali statistiche sanitarie ( pandemia riconosciuta dall’ OMS il giorno 11 marzo 2020), appare, di per sè, già limitato per due aspetti sostanziali:
-La stragrande maggioranza dei soggetti che hanno manifestato complicane gravi, esitate con il decesso ( evento morte indennizzabile) ha età superiore ai 70 anni , cioè persone di fatto “ non assicurabili” o assicurabili esclusivamente con “ patto speciale “ e ,quindi , con premio assicurativo necessariamente già incrementato per il maggior “ rischio assicurato”
-Inoltre le conseguenze di danno permanente alla capacità lavorativa ( calcolata secondo tabella di Contratto) saranno comunque soggette ad adeguate verifiche “ indennizzative” in relazione alla oggettiva efficienza causale dell’evento “ esterno” nel determinismo delle varie poste “assicurative” di interesse contrattuale ( condizione che di fatto delinea un ulteriore decremento sugli effettivi impegni di copertura assicurativa )
Il presupposto indennizzativo medico legale – ora sostanzialmente confermato per legge – si impernia quindi esclusivamente sul differente concetto di Infortunio ancorato ai presupposti di causa “ violenta, esterna e fortuita” rispetto al concetto di “Malattia” ove la condizione “causale” si basa sul presupposto eziopatogenetico di causalità “ interiore” e “diluizione nel tempo della vis lesiva” : si pensi ad esempio a tutte le patologie degenerative, a quelle tumorali, a quelle dismetaboliche ecc.. Motivo per cui si realizzano spesso, per questa fattispecie( c.d. contratti di polizza malattie) problematiche liquidative ancorate sostanzialmente all’effettiva epoca di manifestazione clinica della infermità rispetto alla data di stipula del contratto.
La questione attuale è dunque quella di valutare se un’infezione acutamente contratta, virulenta, come l’infezione da Covid-19, rientri negli eventi indennizzabili nel contesto di un contratto di polizza privata infortuni.
Va premesso che i contratti di polizza infortuni, che in passato erano sostanzialmente uguali tra Compagnie, sono invece ora differenti l’uno dall’altro per molti aspetti, pur rimanendo sostanzialmente eguale, per tutti ,la definizione di infortunio e la definizione di malattia quali indicate nelle Condizioni Generali di Polizza.
Le polizze attuali hanno tutte un capitolo iniziale di “definizioni“ ovvero un glossario in cui si chiarifica l’oggetto dell’assicurazione:
-L’infortunio è quell’evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna che produca lesioni corporali obiettivamente constatabili, le quali abbiano per conseguenza la morte, un’invalidità permanente o un’inabilità temporanea.
-La malattia è ciò che non è infortunio.
Nel memento in cui si afferma cos’è infortunio e distintamente si afferma che malattia è ciò che non è infortunio, non si può sostenere che una cosa che sia infortunio sia malattia, se non violando il principio di non contraddizione.
Venendo al “ nocciolo “ della questione dobbiamo quindi verificare se un’infezione virale acuta ( virulenta come definite dall’INAIL ) ,quale quella da Covid-19, sia un infortunio ,nel senso che rientri o meno nella definizione di “infortunio” prevista dei contratti di polizza: cioè evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna.
-L’infezione virale è chiaramente fortuita, non è certamente un atto volontario entrare a contatto con persona infetta e non può esserci un comportamento imprudente : questo nelle polizze non esclude l’indennizzabilità, essendo infatti ammessi anche i comportamenti colposi. Ad esempio non è escluso dall’indennizzo affrontare in auto una curva a 200 all’ora.
-L’infezione virale è chiaramente esterna (il virus non è una malattia degenerativa del corpo, come una arteriosclerosi coronarica che produce infarto ma è un fattore lesivo che viene dall’esterno).
-L’infezione virale è una causa violenta perché il contatto infettante con il virus non è dilatato nel tempo, ma concentrato cronologicamente. Non si tratta ad esempio dell’effetto lesivo cronico di un fattore ambientale ma necessariamente deve esistere un momento concentrato singolo in cui l’infezione viene contratta. È quindi intrinseco alla patologia che la causa sia violenta cioè concentrata cronologicamente.
Il concetto di “violenza” per l’infezione da COVID 19 (ma di fatto estensibile ad altre infezioni similari) va quindi ancorato ai casi in cui l’agente ”infettante” (cioè esterno) abbia avuto una carica infettiva di per sè idonea a determinare nei termini di rilevanza contrattuale conseguenze di lesione corporali obiettivabili, che possano tradursi in un danno alla capacita’ lavorativa dell’Assicurato.
D’altra parte, proprio considerando l’etimologia del termine “virulenza“ ( che deriva -secondo fonte Treccani- dal termine “virus” che significa “veleno” ), ben si comprende come qualsiasi contratto di Polizza che preveda l’indennizzo per gli infortuni conseguenti ad avvelenamenti (che possono manifestarsi anche con un relativo lasso di tempo rispetto all’epoca del preciso momento causale lesivo) deve -in via analogica contrattuale -riconoscere l’indennizzabilita’ anche delle conseguenze di infortunio dovuto ad “Infezione” nei termini cronologici contrattualmente previsti (in genere entro i due anni dall’epoca di denuncia) indipendentemente dalle modalità dell’azione lesiva” dell’agente “esterno” sempre che l’evento lesivo sia documentabile e non sia prevista una clausola di esclusione.
Peraltro prassi o procedure poste in essere da una delle Parti non possono essere interpretate come norme contrattuali : una determinata clausola di “esclusione“ di indennizzo deve essere sempre richiamata nel contratto.
La necessità che l’evento deve essere chiaro non ha nessun supporto contrattuale. Il fatto che serva la denuncia non vuol dire che l’evento, se certamente c’è stato perché non può non esserci stato, non sia indennizzabile, secondo le previsioni dell’art 1915 c.c.( confermato nell’Ordinanza della terza Sezione della Cassazione Civile n.24210 /2019)
Che l’evento infezione produca delle lesioni corporali è evidentemente fuor di dubbio, per fortuna non in tutti i casi. Non c’è nessuna norma contrattuale che dica che la lesione corporale debba essere “immediata” ed esistono molteplici fattispecie in cui la lesione corporale indennizzabile si manifesta con una certa latenza temporale rispetto all’evento infortunio (basti pensare ad esempio alla manifestazione clinica di un ematoma sub durale cronico post traumatico, alla rottura post traumatica tardiva di milza..ecc) .Ciò ‘che cambia è solo la modalità con cui la natura biologica del singolo fattore lesivo dotato di “violenza causale“ si estrinseca in modo oggettivamente constatabile, ovvero con una certa latenza o con un vero e proprio “intervallo libero” asintomatico.
Quindi al medico-legale o al medico in genere a cui venga chiesto se un’infezione virale acuta, virulenta, rientri nella definizione di infortunio, la risposta all’assicuratore non può che essere affermativa.
3.Evoluzione delle Condizioni Contrattuali di Polizza Infortuni
Nei contratti di polizza infortuni – basati sulla comune volontà delle parti - vi è stata nel corso degli anni una significativa evoluzione. Sono mutate molte clausole ed è quindi variata la comune volontà delle parti nell’ammettere o nell’ escludere condizioni di indennizzabilità dell’Infortunio.
La comune volontà delle parti per il passato è desumibile dalla lettura dei contratti , che oltre alla definizione di infortunio prevedevano molte clausole di esclusione.
Fino alla fine degli anni 90’ nelle Condizioni Generali di Polizza vi era un comma specifico per le infezioni, che escludeva le infezioni, a meno che non derivassero da ferite, cioè da altra lesione corporale traumatica obiettivamente constatabile.
Questo significa che per gli estensori della polizze dell’epoca le “infezioni” sarebbero state infortunio , a meno che non fossero state escluse con una clausola particolare. In caso contrario la clausola non sarebbe stata necessaria !
E sufficiente – al riguardo – riportare il testo delle Condizioni Generali di un Assicurazione per Polizza Infortuni in vigore negli anni ‘80(di derivazione ANIA) che afferma:
“Sono esclusi dall’ assicurazione …. Le infezioni che non abbiano per causa diretta ed esclusiva una lesione ai sensi dell articolo 1 (definizione di infortunio).[1]
Quindi, non erano escluse perché non rientravano nella definizione di infortunio bensì perché al riguardo vi era una clausola di esclusione specifica.
La semplice necessarietà di una clausola di esclusione specifica è dimostrativa del fatto che l’infezione contratta acutamente rientra nella definizione generale di infortunio. Altrimenti non sarebbe necessaria.
4.La costante dottrina medico legale ” assicurativa” in tema “ infezione”
La letteratura Medico – giuridica – di fatto è sempre stata sostanzialmente univoca nel senso di ammettere l’indennizzabilita’ dell’infezione come “infortunio”
Il Durante [2]scriveva nel 1974, che molte delle esclusioni potrebbero dirsi implicite, conseguenze ovvie della definizione di infortunio, tanto che qualche impresa si astiene dall’elencarle partitamente. L’autore si esprime riguardo alle infezioni:”che sono anch’esse escluse, eccetto quelle che abbiano per causa diretta ed esclusiva una lesione .”.Fa cioè anche Egli riferimento ad una precisa clausola presente nelle polizze dell’epoca. Conclude affermando “ le infezioni sono infortuni se ne presentano le caratteristiche “.
Ancora il Borri, Trattato di Medicina Legale, da Amleto Loro[3], “l’infortunio si verifica ogni qualvolta avvenga accidentalmente l’incontro dell’essere uomo con una causa lesiva svolgendosi nell’ambiente esterno”.
Ancora il Palmieri,[4] “evento accidentale che, ripercuotendosi dall’esterno in tempo assai breve, determina un danno al corpo o alla salute”.
Ancora il Cazzaniga ,Programma di Medicina Legale ,Milano 1937, “l’immissione di germi patogeni che dia luogo ad infezione è considerata causa violenta, sempre che si realizzi in breve spazio di tempo( carbonchio, tetano ecc.) con che si identifica la causa virulenta con la causa violenta”.
E ancora il Di Luca[5] , nel argomentare di causa fortuita violenta ed esterna, "il carattere dell’esteriorità , infine, si riferisce al rapporto tra antecedente causale ed organismo umano. La causa della lesione deve essere estranea alla persona dell’Assicurato e deve provenire dall’esterno rispetto al suo organismo”.
Nel manuale “Guida alla valutazione del danno in ambito di infortunistica privata”[6], a commento di variazioni realizzatesi nella polizza “tipo” dell’ANIA, viene segnalato come siano state in questa, rispetto alle precedenti, descritti degli eventi inclusi,(pag.13) “che a rigore potrebbero essere equiparati senza esplicita menzione all’infortunio. Si tratta di una precisazione che è da ricondursi a precedenti esplicite esclusioni, che gli estensori della polizza hanno ritenuto di menzionare in omaggio alle esigenze di chiarezza nei confronti dell’assicurato.” Gli autori precisano, riguardo al requisito dell’esteriorità della causa che “l’azione fortuita e violenta provenga dall’esterno agendo sul soggetto assicurato, per escludere quegli eventi che possono avere carattere fortuito violento ma di origine endogena all’organismo umano. In sostanza per escludere dalla garanzia patologie riconducibili ad una malattia”. Un’infezione virale come il Covid-19 non ha certamente caratteristiche endogene.
In conclusione si può ritenere che tutti gli Autori ritenevano che le infezioni caratterizzate da virulenza potessero essere escluse dall’indennizzabilità per la presenza di una clausola di esclusione, e non perché non rientrassero nel concetto di fortuito violento ed esterno.
Le polizze attuali non prevedono questa esclusione. Nelle Condizioni Generali di Assicurazioni delle attuali Polizze Infortuni il capitolo esclusioni normalmente nulla si dice riguardo alle infezioni. Si parla di scalate, di gare, di guerra ma non di infezioni come esclusioni in deroga.
Il dato di fatto è che in assenza di una specifica esclusione le infezioni acute virulente che provengono dall’esterno soddisfano la definizione di infortunio. L’infezione da Covid-19 ha queste caratteristiche e pertanto deve essere ritenuto infortunio.
Le polizze odierne – in vero – possono avere differenti clausole e quindi la richiesta di attivazione indennizzativa andrà verificata in rapporto alla sussistenza o meno di specifica e chiara clausola di “esclusione“ per conseguenze dirette ed esclusiva di “Infezione” , tenendo conto che nei casi di “dubbio o vaghezza interpretativa“ si dovrà prevedere il ricorso all’art 1370c.c. a protezione della parte più debole.
5.La stima tecnica medico legale delle conseguenze indennizzabili
Per lo Specialista medico legale sarà comunque poi necessario un esame accurato ,dal punto di vista medico, della specifica vicenda, perché , una volta ammessa la natura di infortunio, le conseguenze andranno considerate alla luce dell’articolo sui criteri di indennizzabilità e cioè verificando, caso per caso, se l’infezione da Covid-19 sia stata la causa non solo necessaria ma anche sufficiente alla produzione del danno, che sia la morte , una invalidità permanente, una inabilità temporanea o altro rischio assicurato.
Aspetto che andrà necessariamente considerato con opportuna attenzione, a fronte delle eventuali preesistenze o comorbilità che potrebbero ,qualora presenti, comportare – ove provate oggettivamente dall’Assicuratore - l’esclusione o la riduzione dell’indennizzo
* Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati. Cass. civ., sez. lav., 28-10-2004, n. 20941 (.in tema di Infezione virale/microbica) “In materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, si configura la causa violenta anche nell'azione di fattori microbici o virali i quali, penetrando nell'organismo umano, ne determinino l'alterazione dell'equilibrio anatomo-fisiologico, purché tale azione, anche se gli effetti si manifestino dopo un certo lasso di tempo, sia in rapporto con lo svolgimento della attività lavorativa anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell'infezione.”
[1] Una per tutte , Polizza infortuni Unipol , mod.1/10/08
[2] Il contratto per l’assicurazione privata contro gli infortuni, Aldo Durante ,Giuffrè ed. 1974
[3] L’assicurazione privata contro gli infortuni nei suoi aspetti medico legali, Amleto Loro ,Giuffrè ed 1970
[4] Medicina Forense , Palmieri ,Morano ed. 1964
[5] L’infortunio nella assicurazione privata. Natale Mario Di Luca ,Giuffrè ed 1992
[6] Guida alla valutazione del danno in ambito dell’infortunistica privata, G.Bruno-L.Cattinelli-P.Cortivo-A.Farneti-A.Fiori-L.Mastroroberto. Giuffrè ed.1998
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.