ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Cashback di Stato: evidenze empiriche e inquadramento fiscale
di Carlo Amenta
Sommario: 1. Introduzione - 2. Cashless society ed effetti su evasione - 3. Il cashback: possibile inquadramento fiscale - 4. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
I commi da 288 e 290 della Legge di Bilancio per il 2020 (Legge n. 160 del 27 Dicembre 2019) hanno introdotto anche in Italia le “Misure premiali per utilizzo di strumenti di pagamento elettronici”. Si tratta del meccanismo noto come cashback con il quale il governo italiano ha fatto un passo in avanti verso il traguardo di quella cashless society che, nelle intenzioni dei promotori, dovrebbe portare alla scomparsa del contante con effetti benefici sul contrasto all’evasione e ad altre forme di illeciti di natura economica.
Le disposizioni normative, anche alla luce delle modifiche apportate dall’articolo 73 del D.L. n. 104 del 14 agosto 2020, prevedono un rimborso in denaro per le persone fisiche maggiorenni che effettuano acquisti di beni e servizi con l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici, al di fuori dell’esercizio dell’attività di impresa, arte o professione. Il sistema sarà gestito dalla società PAGOPA, partecipata dal Ministero dell’Economia e Finanze che gestisce la piattaforma dei pagamenti pubblici digitali, anche attraverso l’applicazione per i servizi pubblici IO.
Con il decreto n. 156 del 24/11/2020, conseguente all’approvazione da parte del garante della privacy delle disposizioni normative in oggetto, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha definito condizioni e modalità attuative per il sistema. I cittadini maggiorenni che vorranno aderire al programma potranno scaricare l’app IO indicando le proprie carte di debito, di credito o prepagate, registrate sul circuito Bancomat o Pagopa, da utilizzare per gli acquisti, ad esclusione quindi di quelli online. Il Ministero ha previsto un rimborso in misura percentuale agli acquisti la cui misura varierà per i periodi dal 1 gennaio 2021 al 30 Giugno 2021, dal 1 luglio 2021 al 31 Dicembre 2021 e dal primo gennaio 2022 al 30 Giugno 2022. Per ciascuno di tali periodi avranno diritto al rimborso tutti i privati consumatori che avranno effettuato almeno 50 operazioni di acquisto e la percentuale è fissata, per il primo periodo, al 10% dell’importo di ciascuna transazione, con un limite massimo di 150 € per transazione. Le transazioni superiori a tale soglia vengono considerate comunque pari a 150 € e il rimborso complessivo non potrà comunque superare quello calcolato su un valore delle transazioni pari a € 1.500,00 in ciascuno dei periodi considerati. Il rimborso sarà erogato sul conto corrente il cui IBAN indicato dall’utente in sede di registrazione entro 60 giorni dal termine di ciascuno dei periodi indicati.
Il decreto attuativo indica anche la disciplina del debutto sperimentale per il periodo che va dal primo dicembre al 31 dicembre 2020 e prevede un numero minimo di almeno 10 operazioni nel mese di dicembre, con un rimborso pari al 10% degli acquisti e con i limiti sulle singole operazioni e sul rimborso massimo ottenibile già indicati in precedenza. Il rimborso per il periodo sperimentale sarà erogato nel mese di febbraio 2021. Il decreto prevede anche un “rimborso speciale” pari a 1.500 euro ai primi centomila aderenti che, in ciascuno dei periodi di riferimento indicati dal decreto, avranno effettuato il maggior numero di transazioni regolate con strumenti di pagamento elettronici.
Si tratta, come detto, di una iniziativa finalizzata alla riduzione dell’uso del contante, basata sul presupposto che l’incremento di mezzi di pagamento tracciabili possa portare a una riduzione dell’evasione, con particolare riferimento all’IVA. Nel proseguo del presente contributo mi concentrerò su una analisi di tale presupposto facendo riferimento ad alcune iniziative già adottate in altri paesi. Proverò quindi a inquadrare il cashback da un punto di vista fiscale per capire se c’è il rischio che le somme ricevute possano o meno essere soggette a tassazione, in assenza di una esplicita disposizione normativa in tal senso. Nelle conclusioni aggiungerò qualche riflessione sulla importanza del contante e sulla necessità di preservarne comunque l’utilizzo.
2. Cashless society ed effetti su evasione
L’evasione di imposte e tasse è certamente un comportamento con rilevanti esternalità negative e il fenomeno è oggetto di misurazioni che, per quanto metodologicamente criticabili e spesso basate su presunzioni di difficile riscontro empirico, hanno contribuito a dare evidenza al fenomeno ponendolo spesso al centro dell’agenda politica.
Una stima del tax gap per l’Italia, definito come il divario tra le imposte e i contributi effettivamente versati e le imposte e i contributi che i contribuenti avrebbero dovuto versare in un regime di perfetto adempimento degli obblighi tributari e contributivi previsti a legislazione vigente, è contenuta nella “Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale contributiva”, allegata annualmente alla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza[1].
Nella relazione 2020 la Commissione incaricata della redazione ha stimato per l’Italia un tax gap complessivo, in media per il triennio 2015-2017, pari a circa 107,2 miliardi di euro, di cui 95,9 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,3 miliardi di mancate entrate contributive. Il tax gap si è ridotto nel 2018 con un peso rilevante della componente legata all’IVA.
L’incidenza del tax gap sul prodotto interno lordo per il 2018 si attesta sul 4,47% anche se è bene ricordare che l’aggregato statistico con cui misuriamo la ricchezza prodotta, contiene già una correzione per tenere conto del peso complessivo dell’economia sommersa.
In un articolo del 2016[2] l’economista americano Kenneth Rogoff sottolinea il ruolo del contante nello sviluppo della “economia criminale”, in ragione del suo utilizzo in tutte le transazioni in cui assume rilievo l’anonimità dei contraenti. Rogoff sottolinea come un crescente numero di evidenze empiriche ha dimostrato che circa il 50% del contante è utilizzato proprio per nascondere le transazioni e nota come la quantità di contante in circolazione, soprattutto nei paesi più sviluppati, ecceda di molto quello che può essere ricondotto ad un suo uso nell’ambito dell’economia legale.
Quanto evidenziato da Rogoff è stato più di recente confermato da Immordino e Russo che, in un articolo del 2018[3], hanno dimostrato, utilizzando dati europei, che l’utilizzo di carte di debito e di credito come strumenti tracciabili di pagamento è negativamente correlato all’evasione dell’IVA. Più in particolare 10 transazioni a testa in più con le carte di debito o credito sono associate a una riduzione dello 0,69 percento dell’evasione di IVA. Gli autori evidenziano come, per una nazione come l’Italia sarebbe possibile ridurre della metà l’evasione Iva con un aumento di 16 transazioni in più pro capite per anno. La media delle transazioni con carta nel nostro paese è di 26 pro capite all’anno quindi è evidente come lo sforzo non sia di poco conto e gli incentivi da dare ai cittadini debbano essere piuttosto consistenti. Se poi si guarda al valore delle transazioni invece che al loro numero, gli autori evidenziano come un incremento di 200 euro nella spesa pro-capite annua pagata con carte di credito o di debito dimezzerebbe l’evasione IVA. Anche in questo caso va evidenziato come il valore medio delle transazioni pro-capite sia intorno ai 78 euro e quindi l’aumento necessario per dimezzare l’evasione IVA è di misura molto rilevante.
Il tema degli incentivi alla riduzione dell’uso del contante e all’aumento delle transazioni con mezzi elettronici, tracciabili dalle autorità preposte ai controlli, diventa quindi centrale. È noto in letteratura il modello collaborativo di evasione delle imposte che si realizza ogni qualvolta il venditore abbia un interesse a concedere uno sconto sul prezzo in caso di utilizzo del contante, se esso è di importo inferiore al guadagno da evasione realizzabile sulla transazione posta in essere[4]. In questo modo l’interesse del venditore a evadere e quello del compratore ad acquistare a un prezzo più basso trovano un equilibrio che si realizza proprio nella conclusione della transazione “in nero”.
Lo strumento del cashback mira quindi ad aumentare il beneficio che il compratore ritrae dall’acquisto con mezzi tracciabili, al fine di rendere più elevata la soglia di “sconto” che il venditore deve concedere in caso di pagamento in contanti e senza documento fiscale, rendendo così più complicato o impossibile il raggiungimento dell’equilibrio sopra descritto. Il venditore dovrebbe infatti applicare uno sconto che comprende anche il beneficio del cashback e quindi difficilmente riuscirebbe a conservare il suo margine di profitto, trovandosi costretto ad accettare il pagamento con mezzi elettronici attraverso i quali il consumatore ottiene anche un beneficio monetario sotto forma di rimborso dallo Stato.
L’italia non è il primo paese ad avere adottato misure di incentivazione di questo tipo. Nel Rapporto “Verso la Cashless Revolution: i progressi dell’Italia e cosa resta da fare”, realizzato dalla European House Ambrosetti per il 2020 e giunto alla quinta edizione, sono raccontate nel dettaglio le esperienze di paesi come Giappone, Grecia e Portogallo. Quest’ultimo è diventato un caso di scuola in quanto ha introdotto sia lo strumento del cashback che quello della lotteria degli scontrini con il quale vengono sorteggiati premi in denaro per chi ha pagato con mezzi elettronici e ha conservato il relativo scontrino. Anche l’Italia ha introdotto tale misura che doveva prendere il via il primo Luglio 2020 ma che è stata differita dal decreto Rilancio (decreto legge n. 34/2020) al primo Gennaio 2021, in considerazione delle oggettive difficoltà degli esercenti legate all’emergenza da Coronavirus.
In Portogallo, nel 2014 sono stati istituiti sia la lotteria degli scontrini (“fatura da sorte”) che il meccanismo cashback, con
uno sconto del 15 per cento detraibile dalla dichiarazione dei redditi. Dall’introduzione di queste misure il Vat gap del Portogallo si è ridotto dal 13,7 per cento del 2014 al 7 per cento stimato nel 2019[5]. Sebbene non sia possibile da queste mere osservazioni inferire alcuna relazione di causalità tra l’introduzione delle misure descritte e il calo dell’evasione relativa all’IVA, uno studio pubblicato nel 2019 sul caso portoghese ha mostrato che queste iniziative rafforzano certamente la volontà degli acquirenti di richiedere fattura e scontrini, supportando la tesi sulla possibile efficacia di questi incentivi monetari[6].
3. Il cashback: possibile inquadramento fiscale
Nella citata normativa italiana non è prevista una esenzione per il rimborso ottenuto in ragione degli acquisti effettuati con mezzi di pagamento elettronici. Resta quindi aperta la questione relativa alla tassabilità di questo beneficio. Lo strumento del cashback è già stato utilizzato da alcuni esercenti ed è stato classificato come uno sconto indiretto e cioè uno sconto su un acquisto, applicato in un momento successivo a quello in cui si è esaurita la transazione che lo ha generato.
Con la risoluzione n. 147/E del 10 aprile 2008, l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto a un esercente che intendeva liquidare a favore del consumatore finale, successivamente all’acquisto di un determinato prodotto oggetto della promozione, il rimborso di una somma di denaro prestabilita secondo le condizioni ed i termini del programma promozionale, la possibilità di emettere la nota di credito ai fini IVA, ai sensi di quanto previsto dall’art. 26 del DPR 633/72. Più in particolare, l’operazione descritta nell’interpello è certamente assimilabile al meccanismo del cashback in quanto dava luogo all’instaurazione dei seguenti rapporti:
1) cessione del bene da parte della società istante al soggetto rivenditore;
2) cessione del bene da parte del rivenditore all'acquirente finale;
3) rimborso, a seguito dell’adesione all’iniziativa promozionale, di una somma di denaro direttamente da parte della società istante a favore dell’acquirente finale.
L’Agenzia ha inquadrato la fattispecie come uno sconto e pertanto, sulla base del sistema adottato che consentiva di determinare in modo univoco il collegamento tra il prodotto assoggettato a sconto e la fattura di vendita originariamente emessa nei confronti del rivenditore, ha riconosciuto la possibilità di emettere la nota di variazione ai fini IVA anche in assenza di coincidenza tra il soggetto che conclude l’operazione, l’esercente, e quello che effettivamente concede lo sconto, il produttore. La risoluzione assume quindi rilevanza perché ci consente di definire come sconto i comportamenti posti in essere, a prescindere dalla identità tra l’esercente e il soggetto che eroga il beneficio.
Nella circolare n. 311 del 1997, l’Agenzia aveva già chiarito come iniziative di questa natura, con accreditamento e disponibilità per il consumatore di somme di danaro corrispondenti al valore degli sconti praticati sui prezzi di acquisto di determinati prodotti o servizi, non potessero essere ascrivibili alle categorie delle operazioni a premio, in particolare quando il valore degli sconti riconosciuti fosse accreditato su un conto personale del consumatore non vincolato ad alcuna particolare scadenza e fosse, quindi, in tal modo, assicurata l'immediata disponibilità delle somme accantonate.
Il meccanismo del cashback quindi, anche nella formulazione ipotizzata dalla legge, sembrerebbe poter essere assimilabile a una vera e propria operazione di sconto anche in assenza dell’identità tra soggetto che lo eroga, in questo caso lo Stato che comunque non assume la veste di fornitore, e l’esercente e non darebbe luogo a vincite relative a concorsi a premio, scongiurando così l’ipotesi di tassabilità delle relative somme. L’art. 67 del TUIR, relativo ai redditi diversi, assoggetta infatti a tassazione, tra l’altro: “d) le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico e i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte nonché quelli attribuiti in riconoscimento di particolari meriti artistici, scientifici o sociali;”. L’assimilazione dell’operazione a uno sconto, alla luce della prassi indicata, può quindi fare propendere per la non tassabilità dei benefici derivanti da tali operazioni.
In considerazione dell’utilizzo del termine rimborso nelle norme istitutive del meccanismo sarebbe di certo stata preferibile una esplicita previsione di esenzione, anche in considerazione della natura del soggetto che eroga il rimborso che difficilmente può essere assimilabile al produttore che è oggetto del caso discusso nella risoluzione citata. Il termine rimborso, utilizzato dalle norme istitutive del cashback, è certamente indicativo di una componente positiva e questo può dare adito a interpretazioni difformi da quella qui indicata e maggiormente inclini alla tassabilità dell’importo ricevuto come beneficio. La chiara indicazione normativa sulla natura dei soggetti che possono accedere al beneficio, le persone fisiche che non agiscono nell’esercizio di attività professionale o di impresa, mi sembra però risolvere il problema interpretativo alla radice. Il tema della tassabilità dei rimborsi come sopravvenienza appare infatti più circoscrivibile al reddito di impresa o professionale mentre, nel caso del reddito delle persone fisiche, esso è affrontato spesso in riferimento al tema del welfare aziendale e dei fringe benefit e quindi come elemento accessorio dei redditi di lavoro. Gli elementi positivi che sono sganciati dalle categorie di reddito che il TUIR elenca nei primi sei capi del Titolo I sono oggetto proprio del Capo VII del TUIR, dedicato ai “Redditi Diversi”. Negli articoli da 67 a 71, gli unici in cui un componente come il rimborso qui trattato potrebbe trovare la propria collocazione, non c’è alcun riferimento a rimborsi o a risparmi di spese assimilabili al meccanismo qui descritto. Anche per queste ragioni e considerazioni di natura più sistemica quindi, l’interpretazione qui prospettata sembra comunque la più sostenibile, anche alla luce della ratio della norma che si troverebbe certamente indebolita da una riduzione del beneficio monetario connessa alla necessità di tassarlo, con il conseguente aggravio amministrativo per il singolo consumatore che sarebbe disincentivato dal partecipare al programma per evitare onerosi adempimenti fiscali connessi alla eventuale tassabilità del beneficio ricevuto.
4. Considerazioni conclusive
L’evidenza empirica disponibile sembra confermare l’efficacia degli strumenti come il cashback e la lotteria degli scontrini per la riduzione del tax gap, con particolare riferimento all’imposta sul valore aggiunto. Il meccanismo di incentivo che mira a rendere il beneficio economico, dato dall’utilizzo di pagamenti tracciabili, maggiore dello “sconto” che l’esercente può permettersi di concedere a chi paga in contanti e senza richiedere ricevuta o scontrino, può pertanto essere uno strumento utile nella lotta all’evasione fiscale.
Appare evidente che la semplice introduzione dello strumento non può, per magia, portare gli effetti sperati se la misura dell’incentivo e il meccanismo che consente di accedervi non sono costruiti in maniera efficiente.
Da questo punto di vista il cashback all’italiana, anche riconoscendone la non tassabilità delle somme ricevute, sembra scontare qualche problema dal punto di vista della entità del beneficio monetario che è possibile ottenere dal comportamento virtuoso. La percentuale del 10% di sconto sugli acquisti è certamente adeguata ma la limitazione dell’importo massimo della singola transazione e quella sul rimborso massimo ottenibile limitano certamente il beneficio. Se queste limitazioni saranno sufficienti a rendere lo strumento inefficace lo potremo scoprire solo quando avremo dati sufficienti per le valutazioni.
Quanto al meccanismo, la necessità di una registrazione attraverso mezzi digitali come una app e le difficoltà di accesso connesse al possesso di certificazioni dell’identità come lo SPID rendono l’adesione al programma non facile, limitandone fortemente la diffusione e riservandola a fasce di popolazione con competenze non banali. Tali strumenti infatti possono essere più efficaci solo se fortemente diffusi e di facile applicazione e l’attuale configurazione non depone certo a favore di questi aspetti.
Una ultima osservazione riguarda l’atteggiamento complessivo nei confronti dell’utilizzo del contante e l’aspirazione di molti Stati occidentali a diventare delle cashless society al fine di rendere impossibile l’evasione e ridurre al minimo le attività illecite.
Il contante svolge ancora oggi funzioni essenziali per l’inclusione sociale di larghe fasce della popolazione in condizione di quasi indigenza o di grave difficoltà economica. Pensate a quanti individui vivono al margine della società con lavori saltuari e occasionali, i quali difficilmente possono accedere alla rete bancaria e a un conto su cui depositare i loro guadagni. Se ci limitiamo alla lotta alle attività criminali può avere più senso la recente proposta di eliminare i tagli di banconote più elevati che sembrano essere preferiti dai criminali nello svolgimento delle loro attività[7]. L’anonimato connesso all’utilizzo del contante non deve solo essere visto come uno strumento che favorisce le attività illecite ma anche come uno schermo dietro il quale l’individuo può esprimere la propria personalità, attraverso le scelte di acquisto, anche quando i beni o i servizi acquistati non sono facilmente accettati dalla società in ragione della loro distanza da pratiche e comportamenti comuni e accettati. Scelte che sono in contrasto con ciò che è comunemente accettato o considerato “normale” non sono necessariamente illecite o illegali; possono solo essere “sconvenienti”, ma è bene che all’individuo sia sempre lasciato uno spazio personale di espressione al riparo dal giudizio della società. degli altri individui o dell’autorità[8]. In questo senso il contante è certamente uno strumento che amplia i margini di libertà e una società in cui tutti gli acquisti siano tracciabili e controllabili da autorità e soggetti terzi, senza che ciò sia autorizzato espressamente dall’individuo o che abbia la possibilità di scegliere di non farlo, assomiglia troppo alla società che Orwell immaginò nel suo romanzo “1984”. In questo senso anche per la cashless society, di cui il cashback può forse essere considerato un primo strumento di applicazione, potrebbe valere il vecchio adagio: “Stai attento a cosa desideri: potresti ottenerlo”.
[1] https://www.finanze.gov.it/export/sites/finanze/.galleries/Documenti/Varie/Relazione_evasione_fiscale_e_contributiva_-Allegato-_NADEF_2020.pdf
[2] Rogoff K.S. (2016), “Cost And Benefits To Phasing Out Paper Currency”, Working paper 20126, NBER Working Paper Series
[3] Immordino G., Russo F. F. (2018). “Cashless payments and tax evasion”. European Journal of Political Economy 55, 36-43
[4] Cfr. Immordino, Giovanni, Russo, Francesco F., 2017. Fighting Tax Evasion by Discouraging the Use of Cash? Forthcoming Fiscal Studies.
[5] Rizzo L. e Taddei M. (2020), “Cashback di Stato per ridurre l’evasione.”. LaVoce.info del 9/11/2020.
[6] Wilks D., Cruz J. e Sousa P. ““Please give me an invoice”: VAT evasion and the Portuguese tax lottery”, International Journal of Sociology and Social Policy, Vol. 39, No. 5/6, pag. 412-426
[7] Cfr. Sands P.(2016), “Making it Harder for the Bad Guys: The Case for Eliminating High Denomination Notes”, M-RCBG Associate Working Paper Series – No. 52. Harvard Kennedy School, Mossavar-Rahmani Center for Business and Government
[8] Per una disamina delle ragioni contrarie all’eliminazione del contante cfr.: John Cochrane, “Cancel Currency?”, Blog “The Grumpy Economist” del 30 Dicembre 2014; John Cochrane, “A World without cash”, Blog “The Grumpy Economist” del 8 Agosto 2016; Hummel J.R. (2018), “Should Government Restrict Cash?”. Policy Analisys. Numer 855. Cato Institute – Center for Monetary and inancial Alternatives.
Ripensare la (neuro)scienza e la sua influenza sul Diritto penale*[1]
di José Antonio Ramos Vázquez
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il ragionamento neurodeterminista - 3. Neuroscienziati che giocano a fare i penalisti - 4. Problemi metodologici e mereologici del neurodeterminismo - 5. I problemi della Scienza con la “S” maiuscola - 6. Verso una scienza con la “s” minuscola - 7. Conclusioni: il dialogo delle (neuro)scienze con il Diritto penale.
1. Introduzione
In tempo di pandemia, molte persone hanno riscoperto l’imprescindibile ruolo che la scienza (che le scienze) occupa nella nostra società. Abbiamo anche potuto apprezzare l’impatto che, per la salute di tutta la popolazione, deriva dalla presenza di parti dell’opinione pubblica che non si fidano della scienza ed optano per lo scetticismo, se non addirittura per il cospirazionismo.
Stiamo, pertanto, vivendo un’epoca nella quale chiediamo alla scienza di accorrere, ancora una volta, in nostro aiuto. Ed è questo, esattamente, il suo ruolo: aiutare l’essere umano a capirsi meglio per sopravvivere nelle condizioni migliori.
Tuttavia, non conviene sopravalutare la scienza, né convertirla nel faro della nostra vita comunitaria. Qualcosa del genere sta succedendo nell’ambito del Diritto penale quando si parla di neuroscienze. Infatti, durante gli ultimi 15 anni abbiamo assistito ad un crescente interesse per l’impatto delle neuroscienze nella nostra materia, tanto a livello teorico che a livello pratico.
Ad un livello macro, la “divinizzazione della neuroscienza” [2] ha prodotto un ritorno inquietante: quella dell’idea di determinismo. Ad un livello micro, i progressi nelle neuroscienze hanno concentrato il dibattito sul suo valore di prova nel processo penale.
Tutto ciò è stato ampiamente studiato dalla dottrina italiana[3]. Ed ancora, probabilmente, è proprio la dottrina italiana quella che, di più, ha affrontato queste tematiche (soprattutto perché la prassi giurisprudenziale italiana è stata molto più aperta alla prova neuroscientifica di quanto lo è stata, per esempio, quella spagnola[4]). Con il presente lavoro non pretendo, pertanto, di entrare in questioni che sono state dibattute, con grande efficacia e spessore, dalla dottrina italiana, ma si cercherà di contribuire al dibattito da una prospettiva diversa: quella della filosofia del linguaggio e quella della filosofia della scienza.
Infatti, dalla pionieristica opera di Vives Antón[5], parte della dottrina spagnola utilizza (utilizziamo) la filosofia del linguaggio come metodo per ripensare i problemi teorici del Diritto penale (e la sfida neuroscientifica, senza dubbio, è foriera di problemi nella nostra disciplina). Dal suo punto di vista, la filosofia della scienza può offrirci interessanti spunti che ci possano aiutare a comprendere meglio la posizione che proprio la scienza deve occupare nella nostra società. E, naturalmente, tutto ciò si riflette anche sul ruolo che deve avere nel Diritto penale e processuale penale.
Pertanto, nelle prossime pagine, utilizzerò un doppio punto di vista: quello della filosofia del linguaggio, per contrastare l’idea del determinismo neuroscientifico e quella della filosofia della scienza per tentare di (ri)collocare il pensiero scientifico nella nostra società e nella nostra cultura, tratteggiando, infine, una serie di conclusioni che considero di interesse per la riflessione teorica sul Diritto penale e per la pratica giudiziale.
2. Il ragionamento neurodeterminista
Molti neuroscienziati hanno sostenuto che la nostra vita di esseri umani liberi è illusoria e che, in realtà, siamo controllati dal nostro cervello e dalle sue connessioni sinaptiche. Se questo fosse vero, ci troveremmo di fronte a un'idea inquietante, quella di essere “semplici giocattoli di forze esterne”[6]: in questo modo, ogni essere umano sarebbe “una macchina, un grande e sciocco orologio che ha l’impressione di muoversi liberamente, i cui movimenti, però, sono completamente controllati dagli ingranaggi che ha dentro”[7].
Per quello che in questa sede interessa, il determinismo infrange integralmente l’etica ed il Diritto (penale)[8], perché, in fin dei conti, il vero problema della libertà come concetto è “il problema della responsabilità. Come facciamo a capire che possiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni ed incolparci a vicenda?”[9].
Questo dibattito sulla libertà, Diritto penale e neuroscienza ha avuto luogo, in maniera pionieristica in Germania[10], con l'irruzione dei lavori di studiosi come Singer[11], Prinz[12], e Roth[13] che focalizzarono l’attenzione sulla questione del determinismo neuroscientifico e sulla sua possibile influenza nel Diritto penale
Molto sinteticamente, Singer afferma che le percezioni dell’essere umano sono il risultato di processi costruttivi[14] e che la scienza dimostra che non esiste nessuna differenza sostanziale tra il cervello degli uomini e quello degli animali (che l’autore considera chiaramente determinati). Per questo, la conclusione è che, nonostante per ora non sia possibile, nel futuro potremo ridurre il comportamento umano a funzioni cerebrali, perché siamo soggetti alle leggi deterministe che reggono i processi psico-chimici[15].
Per quanto concerne Prinz, costui postula che la libertà non sia scientificamente dimostrabile, e pertanto ci troveremmo di fronte ad una mera istituzione sociale[16], un costrutto che, pur avendo indiscutibili conseguenze sociali (cosa che l’autore espressamente riconosce), non smette di essere una mera produzione culturale.
Da ultimo, Roth, sostiene che l’essere umano non agisce mai liberamente, ma è il cervello a controllare il nostro comportamento. Si tratterebbe di una specie di catena di comando nella quale l’essere umano crederà di essere – per un autoinganno – libero, pur, in realtà, non essendolo assolutamente[17]. E questo perché, come sintetizza Demetrio Crespo, “per lui, la rappresentazione tradizionale secondo la quale la volontà si trasforma nei fatti concreti attraverso un’azione volontaria diretta da un IO cosciente non è che un’illusione, dovuta al fatto della conseguenza della concatenazione dell’amigdala, dell’ippocampo e del nodo ventrale e dorsale, la memoria emozionale dell’esperienza (che lavora in modo incosciente), ha la prima e l’ultima parola su quello che concerne la comparsa dei desideri e delle intenzioni, di modo che le decisioni assunte si formino nel sistema limbico uno o due secondi prima di quando possiamo percepirle in maniera cosciente”[18].
Quest’ultima conclusione di Roth è collegata al celebre esperimento di Libet[19], che era giunto alla conclusione per cui qualunque azione umana cosciente è preceduta da un’attività cerebrale incosciente e non controllata dal soggetto[20]. Di questo esperimento, parlerò brevemente nel paragrafo quattro: a questo punto, una volta condensata in poche righe la posizione scientifica di detti autori, bisogna notare che alcuni di loro sono andati oltre ed hanno tratto conseguenze per il Diritto penale.
3. Neuroscienziati che giocano a fare i penalisti
Singer (che, a proposito, ha palesato le sue perplessità per “lo scarso stupore che hanno mostrato i giuristi” in relazione ai presunti progressi deterministici nelle neuroscienze[21]) ritiene opportuno mantenere la punibilità delle condotte deviante per ragioni di opportunità sociale o, per dir meglio, per ragioni di “autocomprensione della società”. Di fatto, il menzionato autore non crede che sia essenziale smettere di utilizzare concetti come “libertà”, “colpevolezza”, “pena”, etc., proponendo, però, misure educative come sanzione. Per questa ragione, Singer ritiene che, in realtà, si tratta di rendere “più gradevole ciò che già avviene. Muta soltanto l’approccio”[22].
Dal suo punto di vista, Roth, molto più interessato allo specifico settore del Diritto penale (in particolar modo a seguito delle sue collaborazioni con Merkel[23]) sembra sostenere una concezione della sanzione penale quale sostegno all’effettività della norma alla Jakobs, ed afferma che la società “deve in realtà essere capace di infondere nei suoi membri un sentimento di responsabilità verso le proprie azioni; ed in particolare muovendo dall’idea che, senza un tale sentimento di responsabilità , la convivenza sociale viene danneggiata in modo duraturo”[24].
In questo modo, “la proposta politico-criminale di questi autori” – segnala Feijoo Sánchez, riferendosi a Roth/Merkel – “si è concretizzata in una teoria della prevenzione generale positiva, al cui interno, l’apporto delle neuroscienze consentirà di ampliare le possibilità di alternative con fini di prevenzione speciale (per esempio, come alternativa all’ingresso in carcere, un trattamento in centri specializzati per autori violenti, previo consenso del condannato)”[25].
Infatti, la prevenzione e le misure di trattamento sono le idee di base intorno le quali ruota l’idea del Diritto penale dei neuroscienziati deterministi. Cosi, sintetizza Demetrio Crespo, costoro “argomentano la prospettiva di un imprescindibile mantenimento dell’ordine normativo, a prescindere totalmente dall’essere o meno determinati, perché lo Stato deve garantire un minimo di reciproco affidamento, nel senso della prevenzione generale positiva sostenuta da Günther Jakobs, motivo per cui risulta decisivo non tanto se si può (o se è legittimo) sanzionare, ma come farlo. In questo senso, gli autori considerano un’obbligazione morale e giuridica offrire al un ampio ventaglio di misure di trattamento che, nel rispetto del fondamentale diritto alla dignità umana, potranno essere accettate soltanto in maniera volontaria, e non imposte. Solo nel caso in cui non fossero accettate volontariamente, l’alternativa consisterebbe nella pena della multa o della privazione della libertà, esattamente come funziona adesso”[26].
Queste idee preventiviste sono oggetto di critica di una parte della dottrina tedesca. Così, Hirsch, con particolare forza, mette in rilievo che “se si sostituirà la punizione con misure di cura, come si sostiene in un’ottica puramente determinista, non si potranno escludere conseguentemente la sterilizzazione e la castrazione nei delitti sessuali, trattamenti sanitari per indebolire permanentemente gli autori di reati violenti e predatori, interventi chirurgici al cervello, etc. I danni di carattere fisico e psichico in estenuanti campi di prigionia, ampiamenti utilizzati dalle dittature del ventesimo secolo, ci danno un’idea della proposta dei neuroscienziati”[27].
Dal mio punto di vista, vorrei segnalare che non è da escludere che i postulati neurodeterministi in materia penale vadano nella direzione della neutralizzazione o della prevenzione speciale positiva: infatti, eliminata la libertà di azione (e l’io, cioè, la persona come soggetto individuale) come asse prioritario del Diritto penale, ciò che resta è soltanto il sistema, la stabilità e la segregazione.
Questa armonica convivenza tra le idee di neutralizzazione che campeggiano nella politica criminale dei nostri giorni e la Neuroscienza sembra provare la limitata innocenza ideologica di questo eterno ritorno al determinismo. Al contrario, di seguito, cercherò di dimostrare che l’essere umano non è determinato, non è una macchina, non è un elemento in più di un sistema termodinamico. Senza l’affermazione della libertà, non solo collassa il nostro mondo, ma inoltre viene meno l’attesa di un Diritto penale rispettoso dei principi illuministici. E questa affermazione della libertà può realizzarsi perfettamente dal punto di vista della filosofia del linguaggio.
4. Problemi metodologici e mereologici del neurodeterminismo
Dato che l’esperimento di LIBET è il simbolo, per così dire, della negazione della libertà nella neuroscienza attuale, comincerò questo paragrafo, dedicato ai problemi metodologici che pone la visione neurodeterminista, segnalando che proprio il Libet non era determinista ed aveva sempre rinnegato le visioni anti libertarie dei suoi esperimenti (che sono proprio questo, esperimenti scientifici e non teorie sull’essere umano).
Infatti, il problema fondamentale delle conclusioni che si è soliti trarre dall’esperimento di Libet non è se ci sono – o meno – concrete condizioni neuronali che ci indicano l’esistenza o no della volontà, ma se possiamo trarne una conclusione determinista. Inoltre, in un lavoro del 1999, detto scienziato fa una serie di puntualizzazioni sui lavori anteriori che ci servono, tra l’altro, per dimostrare che nemmeno lui si sarebbe citato come base per una concezione determinista dell’essere umano. Di fatto, l’autore sostiene che il determinismo è una credenza speculativa, non una proposizione scientifica dimostrata e che l’esistenza della libertà d’azione “è un’opzione scientifica valida almeno quanto, se non di più, della sua negazione da parte della teoria determinista”[28].
Ciò detto, vorrei premettere in primo luogo, sorvolando altri problemi metodologici, che esiste una confusione di fondo nel dibattito sul neurodeterminismo. Utilizzerei, a questo punto, un ampio passaggio di Bennett e Hacker che, a mio avviso, riporta la discussione nei suoi giusti termini:
“Le domande empiriche sul sistema nervoso sono il campo della neuroscienza. Il compito di questa è stabilire gli accadimenti relativi alle strutture ed alle operazioni neurali. È funzione della neuroscienza cognitiva spiegare le condizioni neurali che rendono possibile le funzioni percettive, cognitive, cogitative, affettive e volitive. Le indagini sperimentali confermano o mettono in discussioni tali teorie esplicative. Al contrario, le domande concettuali (quelle che, per esempio, si riferiscono ai concetti della mente o memoria, pensiero o immaginazione), la descrizione delle relazioni logiche tra i concetti (come quelle che esistono tra i concetti di percezione e sensazione o tra coscienza ed autocoscienza) e l’esame delle relazioni strutturali all’interno dei diversi campi concettuali (per esempio, in quello psicologico e neurale o in quello mentale e del comportamento), sono il campo di discussione proprio della filosofia.
Le domande concettuali precedono le questioni di verità o falsità. Sono domande che riguardano le nostre forme di rappresentazione, non la verità o la falsità delle affermazioni empiriche. Queste forme sono presupposte nelle affermazioni scientifiche veritiere (ed in quelle false) e nelle teorie scientifiche corrette (o sbagliate). Non determinano ciò che è empiricamente valido, ma ciò che ha senso e ciò che non lo ha. Da qui le domande concettuali non sono rilevanti né nella ricerca e sperimentazione scientifica, né nella teorizzazione scientifica, perché queste ricerche e teorizzazioni presuppongono i concetti e le relazioni concettuali in questione”[29].
Infatti, non è che esista un conflitto tra le conclusioni delle due discipline, ma due logiche di ricerca diverse, ove quella filosofica stabilisce, in qualche modo, le regole del gioco di quella scientifica.
In questo senso, un’affermazione chiara e categorica come “credo che l’essere umano sia libero”, ha due opzioni di risposta: “In base a quali prove?” o “libero, ma in che senso?”. La prima, ovviamente, esige la presentazione di qualche tipo di evidenza empirica. La seconda richiederebbe, in cambio, un chiarimento concettuale.
Ma la libertà implica una certa immagine del mondo, di modo che “mal potrebbe affermarsi o negarsi a partire da dati empirici, dal momento che si tratta di vedere il mondo in un modo o in un altro”[30]. Di tal modo, se la neuroscienza pretende di svelare il “mistero” della libertà, credo che incorra in un equivoco, perché non esiste tale “mistero” e, se dovesse esistere, non sarebbe risolvibile scientificamente, in quanto non è possibile un riscontro empirico. Credo che nessuno ritenga seriamente di poter dire “solo se si scopre una cosa o l’altra sono libero” (o al contrario: “sono libero finché la scienza non mi dimostra il contrario”). Non è la scienza che può dimostrare la libertà. Né, tantomeno, la non-libertà.
Per esempio, tornando all’esperimento di Libet, al quale sistematicamente si ricorre come “prova” del fatto che non esiste la decisione volontaria, non si rinviene nulla che, dal mio punto di vista, costituisca un criterio per stabilire se l’uomo sia libero o no. E nemmeno su cosa significa “prendere una decisione”. Impulsi cerebrali o connessioni sinaptiche non possono essere chiamati comprensibilmente “decisioni”. Non è questa la grammatica del “decidere”[31].
Detto questo, e come chiaro esempio, a mio avviso, dei problemi concettuali che pone la visione dell’essere umano che ci offrono i neuroscienziati, si può dire che in molte occasioni, la maggior fonte di mistificazione nonché uno dei più sediziosi misteri del cervello, è quello di ascrivere attributi psicologici al cervello in sé stesso considerato, invece che all’essere umano.
Infatti, molti neuroscienziati attribuiscono al cervello o, anche, a sue parti, qualità che usualmente attribuiamo soltanto all’essere umano. Alcuni esempi:
“Quello che vedi non è realmente quello che esiste: è ciò che il cervello crede che esista (…) Il cervello elabora la migliore interpretazione che può d’accordo con la sua esperienza pregressa e la limitata ed ambigua informazione che gli occhi gli forniscono”[32].
“Tali neuroni possiedono la conoscenza. Possiedono l’intelligenza, ed inoltre sono capaci di calcolare la probabilità degli eventi esterni”[33].
“Possiamo considerare l’atto di vedere come una ricerca continua di risposte a domande formulate dal cervello. I segnali che provengono dalla retina sono messaggi che trasmettono risposte. Successivamente, il cervello utilizza questa informazione per costruire ipotesi adeguate in merito”[34].
Come vediamo, il cervello ci inganna, interpreta, cerca, costruisce ipotesi etc. Questa parte del nostro corpo ha, pertanto, secondo questa prospettiva, qualità che normalmente applichiamo all’essere umano nel suo insieme. Ed inoltre, anche le parti di detto organo (i neuroni), hanno conoscenza ed intelligenza.
Il problema di questa visione è che incorre nell’errore mereologico, lo stesso che già Aristotele, denunciava nel IV secolo a.C.[35], ovvero l’errore consistente nell’attribuzione alle parti di qualità che sono esclusive del tutto.
In questo senso, ritengo fondamentale precisare che l’ascrizione di attributi psicologici al cervello non ha senso, è concettualmente inappropriata e fonte di importanti confusioni metodologiche.
Sottolineano, per esempio Bennett e Hacker: “Chiameremo “principio mereologico” nelle neuroscienze il principio per cui i predicati psicologici applicabili unicamente ad un essere umano (o ad altro animale) nella sua totalità non si possono applicare, in maniera intellegibile alle sue parti, per esempio, al cervello (...) i predicati psicologici si applicano paradigmaticamente all’essere umano (o animale) come un tutto e non al corpo ed alle sue parti”[36].
Ad esempio, conviene sottolineare come molte espressioni, tra le quali spiccano i termini psicologici, sono attribuibili stricto sensu solo agli esseri umani e questo per la semplice ragione che i criteri di applicazione di tali espressioni sono determinati comportamenti in contesti specifici analizzati dal punto di vista di un complesso e ramificato background manifestato nel comportamento.
Un corollario evidente di questa premessa è che non ha senso attribuire sentimenti, pensieri, capacità sensoriali etc. – tranne, ovviamente, nell’ipotesi di un uso metaforico o metonimico del linguaggio – né ad esseri inanimati né al proprio corpo umano né ad alcuna delle sue parti (ed in particolare il cervello), né, a fortiori, alle parti delle parti (per esempio i neuroni).
“Solo di ciò che si comporta come un essere umano” – ci dice Wittgenstein – “si può dire che prova dolore”[37]. E questo è un principio, come ben sottolinea Hacker, grammaticale, “non una generalizzazione empirica o una necessità metafisica”[38].
Infatti, non è un fatto empirico che sia la persona ad avere fame e no, ad esempio, il suo stomaco. Non è nemmeno un principio metafisico, derivante dall’essenza del corpo umano che è la persona che ragiona e non il suo cervello. Ad escludere l’attribuzione della presa delle decisioni al cervello è la grammatica: non esistono condizioni di applicazione per l’uso corretto de “il suo cervello ha preso una decisione”.
Applicando questo concetto alla neuroscienza ed alle sue scoperte, la conclusione è evidente: la comprensione di un testo, il calcolo, la percezione del mondo reale e, ciò che qui interessa, la decisione volontaria, sono, ci viene detto, “operazioni cerebrali”, però ha poco senso dire “la mia mente ha mal di denti” così come che il mio cervello percepisce la realtà, costruisce ipotesi o prende decisioni 800 millisecondi prima che lo faccia io. Questi sono predicati riferiti agli esseri umani, applicati sulla base di un comportamento sofisticato e presupponendo capacità complesse.
Il cervello non “vede” più di ciò che “vede” la mente, perché sono io che vedo. Qualcuno può dire: “aspetta un attimo e ti do la risposta”, però non potrà dire “aspetta un attimo che il mio cervello mi dà la risposta e, dopo, io la do a te”[39]. E nemmeno avrebbe senso che Lei, caro lettore, dicesse “il mio cervello sta leggendo questo lavoro” o “il cervello del Professor Ramos mi sta annoiando” (o che io dicessi che il mio cervello ha deciso da solo di scrivere questo lavoro ed io gli sto obbedendo).
Per questo, come accennavo poc’anzi, vorrei avvertire del pericolo di considerare il cervello come una specie di entità che riunisce una serie di capacità che non ha. E, insisto, non le ha non perché ho una scoperta scientifica da rivelare in questo momento, ma perché non è concettualmente corretto affermarlo. E i problemi sono maggiori di quanto sembrano: enunciare frasi come “il cervello decide in ogni momento quali azioni realizziamo” significa attribuire al cervello qualità che non ha, ed all’essere umano un’essenza che non è la sua.
In sintesi, il cervello non è un soggetto logicamente appropriato per attribuirgli predicati come, per quanto qui di interesse, il “decidere”. E, ovviamente, tanto questa attribuzione quanto l’idea che decida per noi (stabilendo una cesura tra noi ed i nostri cervelli) o che ci inganni sono forme degenerate di cartesianesimo.
Ancora, tenendo in conto che la peculiarità dell’agire umano non è qualcosa di fisico, ma di contestuale, sembra chiaro che né un determinato stato cerebrale può assurgere a criterio di un determinato comportamento, né il linguaggio dei termini psicologici è quello della neurofisiologia. Quindi, sebbene i fenomeni psicologici possano essere dedotti da quelli neurologici, non potranno da questi essere spiegati[40], perché ciò che attribuisce un significato a qualsiasi prodotto del mio cervello è qualcosa che ne è completamente esterno[41].
In questo senso, quando i neuroscienziati affermano che quando una persona prende una decisione qualcosa succede nel suo cervello e che, pertanto, ciò costituisce un criterio del “decidere”, stanno palesando, secondo me, un’enorme confusione sul concetto di comportamento in generale e sui criteri per agire e per prendere una decisione in particolare.
Ciò detto, devo aggiungere che, in realtà, il problema di fondo è ritenere che la scienza sia capace di offrirci verità assolute. Infatti, abbiamo convertito la scienza nella “nostra religione preferita”[42]. Per questo, in secondo luogo, mi pare opportuno approcciarsi, dal punto di vista della filosofia della scienza, a come collocare la scienza nell’ambito dei molteplici modi che noi uomini abbiamo di intendere il mondo. E ciò perché, come disse addirittura Einstein: “La scienza senza epistemologia è primitiva e confusa”[43].
5. I problemi della Scienza con la “S” maiuscola
Certamente, non è facile da catturare l’essenza di questo “organismo complesso e cangiante”[44] che chiamiamo scienza, soprattutto perché “l’indagine scientifica è la ricerca di un ideale irraggiungibile: l’ideale di una scienza perfetta, che ci consente una versione veritiera e completamente adeguata di come funzionano le cose nel mondo”[45].
Il mio scopo in questo paragrafo è negare l’esistenza di detta scienza perfetta (con la “S” maiuscola) e, come non potrebbe essere altrimenti, dovrò far riferimento, in primo luogo a Thomas S. Kuhn, che, in qualche modo, ha innescato la discussione sul concetto di scienza e su come si svolge il lavoro scientifico con la sua opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (pubblicata originariamente nel 1962), affermando come la scienza sia altamente permeabile a considerazioni ideologiche, quando non solo di convenienza o di estetica.
Kuhn, infatti, sostiene che – dopo il periodo prescientifico –, la Storia della Scienza ci dimostra che esistono due fasi: la fase della scienza normale, cioè, quel periodo nel quale c’è una “ricerca basata saldamente su uno o più conquiste scientifiche passate, conquiste che qualche particolare comunità scientifica riconosce, per un certo tempo, come fondamento della sua pratica successiva”[46], e i periodi di crisi, che portano a rivoluzioni scientifiche (che, a loro volta danno luogo ad un nuovo periodo di scienza normale).
I periodi di scienza normale sono, pertanto, quelli che conformano la maggior parte dell’attività scientifica, ed in questi periodi i lavori di ricerca si sviluppano sotto un paradigma. Un paradigma è, innanzi tutto, un modello teorico che risolve alcuni problemi scientifici di rilievo e che serve come esempio per tentare di risolvere altri problemi diversi. Ma, in senso più ampio, i paradigmi includono “altri componenti di tipo assiologico, metodologico e ontologico che sono il segno distintivo di una comunità scientifica”[47]. Così, insomma, “un paradigma è ciò che i membri di una comunità scientifica condividono e, a sua volta, una comunità scientifica è composta da uomini che condividono un paradigma”[48].
Tuttavia, quando non tutti i fenomeni sono spiegabili in maniera coerente con il paradigma, quando questo non è capace di assorbire ulteriori anomalie, la scienza normale entra in crisi: la comunità scientifica smette di intendere il paradigma come un dogma, rivede i presupposti del suo lavoro e sorge la scienza rivoluzionaria.
Le crisi, pertanto sono una condizione pregressa e necessaria per la nascita di nuove teorie ed il cambio del paradigma è una sorta di battaglia tra gruppi di scienziati che cercano di imporre un nuovo paradigma – da un lato – o di evitare l’abbandono del vecchio – dall’altro.
Quando nasce un nuovo paradigma, quando infine scalza quello vecchio, si produce la rivoluzione scientifica, che altera il modo stesso di pensare degli scienziati, poiché queste nuove scoperte devono esprimersi in concetti non articolabili nel vecchio paradigma. Per lo stesso motivo, “la violazione o la distorsione di un linguaggio scientifico che prima non era problematica è la pietra di paragone di un cambiamento rivoluzionario”[49].
Ma il cambiamento rivoluzionario porta con sé una modifica ancora più importante del corso normale del lavoro scientifico: se nei periodi di scienza normale esiste una crescita, un’aggiunta cumulativa di conoscenza, la scienza rivoluzionaria non è cumulativa. Il progresso scientifico, pertanto, si genera attraverso queste rivoluzioni (e non in modo cumulativo, come se fosse una linea ininterrotta di progresso), quando avviene la sostituzione di un paradigma con un altro, valutando nuove problematiche, nuovi metodi e nuove concezioni del mondo[50].
Di conseguenza, il recepimento di un nuovo paradigma, frequentemente, rende necessaria una ridefinizione della scienza corrispondente. Taluni problemi antichi possono essere relegati ad un’altra scienza o esser dichiarati, completamente, privi di scientificità. Altri che prima erano banali o inesistenti, possono divenire, con un nuovo paradigma, gli archetipi stessi della conquista scientifica. E, mutando i problemi, allo stesso tempo mutano, spesso, le regole che servono per distinguere una soluzione scientifica reale da una semplice speculazione metafisica, da un gioco di parole, da un gioco matematico. Così, afferma Kuhn, “la tradizione scientifica normale che nasce da una rivoluzione scientifica è non solo incompatibile ma, spesso, anche davvero incomparabile con quella che esisteva prima”[51].
Pertanto, i cambi di paradigma (le rivoluzioni) nascono dallo scontento e si impongono per la forza persuasiva dei loro sostenitori dentro la comunità scientifica stabilita. E, una volta imposto il nuovo paradigma, modificando tutta la cosmovisione associata al passato, entrambe le teorie divengono incommensurabili, cioè, dato che il significato di un termine scientifico viene dato dal ruolo che occupa in una data teoria e dal sistema di relazioni concettuali che si stabilisce tra detto termine e i restanti termini del paradigma, non esiste una base puramente osservazionale che serva come fondamento neutrale per dirimere la lotta tra paradigmi, poiché ogni osservazione presuppone la validità della teoria data. Vale a dire, è impossibile comparare in modo dettagliato, oggettivo e neutrale il contenuto delle teorie in funzione dell’evidenza empirica, con il fine di determinare quale sia definitivamente superiore o più veritiera[52].
Nonostante Kuhn abbia poi chiarito molto la sua posizione originaria, l’impatto di queste idee è stato enorme nella discussione filosofica e scientifica della seconda metà del XX secolo.
Infatti, l’opera di Kuhn pone in una posizione molto delicata non solo il dogma del superamento delle teorie per la loro migliore corrispondenza ai fatti, ma la stessa razionalità dell’impresa scientifica. Rispetto al primo profilo, ricorderemo che i paradigmi sono incommensurabili e non c’è modo di comprendere quale di loro spieghi meglio il mondo. Inoltre, il proprio mondo cambia in ogni paradigma, nel senso che gli scienziati di diversi paradigmi guardano il medesimo mondo, però vedono cose diverse. Rispetto al secondo profilo, questa ombra di irrazionalità sussiste nel fatto che è il condizionamento personale dei componenti della comunità scientifica che, alla fine, determina la vittoria di uno o dell’altro paradigma. I tentativi di Kuhn per puntualizzare questa affermazione non convincono: la sua idea che le teorie scientifiche successive siano migliori nel risolvere enigmi è contradditoria con la sua idea che ciò che si intende come enigma dipende dal paradigma[53].
Nella mia opinione, Kuhn individuò correttamente – d’accordo con quanto la Storia ci dimostra – il carattere poliedrico dell’impresa scientifica e dei cambi del paradigma. Ma non riuscendo a trovare una logica razionale a tutto questo, sembra, infatti, che ci immerga in un mondo di relativismo e irrazionalità.
6. Verso una scienza con la “s” minuscola
Si è soliti postulare una Scienza con la S maiuscola dalla quale gli scienziati (e non solo loro, ma anche molte persone comuni) pretendono di trarre conclusioni assolute sull’esistente e sui noi stessi. Però la Storia non ci dimostra questo, né l’idea di una scienza assoluta (per chiamarla così) si può sostenere razionalmente, al punto che non esiste un accordo sufficientemente consolidato su cosa sia la scienza.
Diceva Wittgenstein: “quello da cui mi difendo è il concetto di un’esattezza ideale che ci sarebbe stata data a priori, per così dire. In epoche diverse son diverse le nostre idee sull’esattezza: e nessuna è quella superiore”[54]. Noi, in cambio, rimaniamo ancora dell’idea – ereditata dall’emergere della meccanica newtoniana – della precisione assoluta, del sapere globale, del progresso illimitato; idea che trova la sua origine nella “illusione trascendentale” kantiana, ovvero che è possibile una conoscenza assolutamente oggettiva, indipendente dal contesto e dalla prospettiva del soggetto che conosce – e che questa sedicente conoscenza oggettiva la può offrire la scienza[55]- E, da lì, affermano Jáuregui Balenciaga e Méndez Gallo nasce l’idea che la scienza “è indipendente dall’essere, si trova al di sopra di lui. In altre parole, la scienza è la nuova forma di trascendenza, di religiosità, di spiritualità”[56].
Tutto questo, però, non è per dire che la scienza non contribuisca in modo decisivo alla conoscenza umana, né che è impossibile determinare quali teorie contribuiscano maggiormente a questo obiettivo e quali meno. Però, in tutti i casi, il lavoro scientifico e il suo status epistemologico devono essere intesi nei loro giusti termini come, credo, faccia Toulmin. Afferma detto autore, come premessa, che “gli uomini dimostrano la loro razionalità, non ordinando i propri concetti e convincimenti in rigide strutture formali, ma per la predisposizione a rispondere a situazioni nuove con spirito aperto, riconoscendo i difetti delle proprie procedure e superandole. Qui, nuovamente, le nozioni fondamentali sono quelle di “adattamento” ed “esigenza”, piuttosto che quelle di “forma” e “validità””[57].
Vale a dire, l’attività scientifica è una delle nostre imprese collettive di conoscenza ed il problema della razionalità non deve essere collocato nell’argomentazione logica o nei sistemi concettuali, ma nel contesto delle attività umane.
Infatti, “invece di essere i concetti sociali e politici totalmente diversi dai concetti delle scienze naturali, come inizialmente si potrebbe supporre, le relazioni tra teoria e pratica nella scienza e nella politica sono molto simili. In entrambi i casi, l’insorgere di un nuovo concetto importante è preceduto dal riconoscimento di nuovi problemi ed è associata all’introduzione di nuove procedure per affrontare questi problemi. In entrambi i campi, i cambiamenti successivi nell’applicazione di questi concetti vanno associati al progressivo affinamento o alla crescente complicazione del suo significato. E, in entrambi i campi, la “razionalità” dell’insieme delle procedure o delle istituzioni esistenti dipende dal margine che esiste per criticarli e modificarli dall’interno della medesima impresa”[58].
Ciò detto, Toulmin attacca l’idea per cui i termini utilizzati nelle teorie scientifiche si riferiscono direttamente a classi di oggetti naturali e che le sue proposizioni generali affermano o implicano direttamente “generalizzazioni empiriche universali” su detti oggetti naturali. Infatti “la conoscenza empirica che una teoria scientifica ci fornisce è sempre la conoscenza che qualche procedura generale di spiegazione, descrizione o rappresentazione (specificata in termini astratti, teorici), può essere applicata con successo (in modo specifico e con un particolare grado di precisione, discriminazione o accuratezza) ad una classe particolare di casi (precisati in termini concreti, empirici)” in modo che “nella scienza, il significato è mostrato dal carattere di una procedura esplicativa; e la verità, dal successo degli uomini nel trovare applicazioni per questa procedura”[59].
Quest’ultimo argomento mi risulta particolarmente suggestivo, perché ci conduce dalla ragione teorica alla ragione pratica, che è dove – credo – debba risiedere tutta l’attività scientifica (e, in generale, qualsiasi tentativo di migliorare la nostra conoscenza dell’essere umano). Dopo tutto “ragione e pratica non sono due realtà diverse, ma sono parte di un unico processo dialettico”[60].
In conclusione, Toulmin propone di sostituire la razionalità classica per l’atteggiamento di ragionevolezza, ponendo in relazione questa attitudine con l’esame delle basi della conoscenza. Così che “ciò che qualifica come razionale il lavoro di uno scienziato non è la sua competenza nella gestione formale dei concetti e degli argomenti stabiliti, ma la sua disposizione a concepire, esplorare e criticare nuovi concetti, argomenti e tecniche di rappresentazione, come modi di affrontare i problemi principali della scienza di cui si occupa”[61].
Per riassumere: argomentare, giustificare e ragionare criticamente sono le attività basiche di qualunque scienziato che prende seriamente il proprio lavoro. E questo significa: uno scienziato lo è realmente nella misura in cui è capace di mettere in discussione le verità assunte nel suo contesto storico. Galileo e Copernico sono passati alla Storia per aver annientato il geocentrismo dell’epoca, ma non fu un processo facile, né ebbero la comprensione dei loro contemporanei (di fatti, molti secoli prima Aristarco aveva già proposto l’eliocentrismo, senza risultato); Newton passò alla Storia per la posa delle basi della scienza moderna, ed Einstein per liquidarla. Se chiunque di loro avesse creduto che la scienza fornisse verità universali, oggettive ed eterni, non avremmo avuto alcun progresso scientifico negli ultimi 500 anni.
7. Conclusioni: il dialogo delle (neuro)scienze con il Diritto penale
Come appena visto, il problema dell’ideologia scientifica (perché la scienza è anche ideologia) risiede nella sua pretesa di costituirsi come un metadiscorso (al di sopra della conoscenza, delle ideologie e delle opinioni particolari). Ciò nonostante, nella mia opinione, procedure, ragionevolezza, argomentazione e giustificazione (e no oggettività, verità, ecc.) devono essere le linee guida di tutto ciò che aspira ad essere considerato scienza.
Deve essere rifiutata, pertanto, con fermezza, la pretesa degli scienziati di imporre un’asserita superiorità epistemologica della scienza e di sottomettere tutto il ragionamento ad una sedicente verità scientifica. La scienza non è uno stato univoco del sapere umano, ma un conglomerato di teorie che sono scartate o accettate in una determinata epoca.
Questo, credo, si possa osservare molto bene al giorno d’oggi, in un anno, il 2020, nel quale stiamo vivendo una pandemia della quale la scienza ci ha detto gradualmente le caratteristiche, però con contraddizioni ed errori (come, difatti, è proprio del funzionamento della scienza): si trasmette via aerosol o tramite le superfici? Chi guarisce dal Covid-19 è immunizzato per sempre o solo per un periodo limitato? Ci sono gruppi sanguigni più propensi a contrarre la malattia?
Chiedere alla scienza che, da subito, dia risposte chiare ed incontrovertibili ad una pandemia è chiedere troppo. I suoi risultati sono provvisori, soggetti a dibattito, possono cambiare, come il nostro mondo. Non è affatto come quella scienza contemporanea che, molte volte, produce un discorso privo di ogni traccia di umanità, di dialogo, di retorica, di intersoggettività. E quando la scienza ha pretese eccessive, porta con sé il germe di un totalitarismo potenziale. Cioè, “non è che la scienza è totalitaria, però va in quella direzione soprattutto perché il metodo scientifico rafforza la confusione tra il mondo della scienza e il mondo della vita (…) Inscriversi nel discorso scientifico è perdere la connessione dell’essere umano con il mondo, con l’esperienza”[62]. Però è possibile recuperare questa connessione della scienza con l’essere umano, anche nel contesto qui trattato, quello della neuroscienza.
Quindi, ricapitolando:
i) Le neuroscienze fiorirono alla fine del XX secolo, con una serie di scienziati che mantennero “atteggiamenti entusiastici che hanno preannunciato prematuramente l'avvento di un progresso che non si è visto”[63]. Fra queste affermazioni entusiaste, c’era quella che aveva scoperto che l’essere umano è determinato a causa del suo cervello e, pertanto, mai prende decisioni libere (paragrafi 1 e 2).
ii) A parte detto ottimismo circoscritto all’ambito strettamente scientifico, molti neuroscienziati traslarono detta conclusione (quella del determinismo) nell’ambito del Diritto penale, proponendo l’eliminazione del concetto di azione libera e un Diritto penale basato sulla neutralizzazione e sulla prevenzione generale positiva (paragrafo 3).
iii) ciò nonostante, il determinismo neuroscientifico non si può sostenere dal punto di vista della filosofia del linguaggio. Affermare che il cervello prende decisioni prima che noi o che i nostri neuroni ci dominino, equivale a commettere un errore mereologico (paragrafo 4).
iv) Il neurodeterminismo parte da una precisa idea di scienza che lo considera un metodo per trovare verità oggettive, incontrovertibili e permanenti, quando la riflessione teorica dell’ultimo secolo sulla scienza scarta completamente l’idea che questa sia capace di offrire dette verità (paragrafo 5).
v) La scienza, in realtà, è una delle molte strade che l’essere umano ha per ottenere la conoscenza, d’accordo con i suoi interessi e con le peculiarità della sua forma di vita. Un modo di spiegare non già la realtà immutabile ed oggettiva, ma la nostra realtà contestualizzata e mutevole (paragrafo 6).
Per questo, una volta escluso che le neuroscienze siano in grado di giungere alla conclusione che noi siamo determinati dal nostro cervello, e ridimensionato il suo ruolo, credo che debbano svolgere un compito più modesto, però, senza dubbio, molto utile nel Diritto (processuale) penale.
Così, in un recente articolo intitolato “Responsabilità penale e neuroscienza: ancora non c’è stata la rivoluzione”[64], Bigenwald e Chambon concludono in questi termini: “lontane dall’essere una rivoluzione, le neuroscienze dimostrano di apportare più benefici quando entrano in uno sfumato dialogo con il Diritto per aiutare i tribunali nella loro funzione di ricerca della verità (...) Sebbene Neurolaw evoca spesso una neuroscientificazione del Diritto, può, più correttamente, riferirsi ad una giuridicizzazione della neuroscienza, cioè, un ragionamento giuridico che integrerebbe ed applicherebbe scoperte scientifiche nella giustizia penale ”[65].
Condivido questa opinione e vorrei trarne una conclusione molto simile: le neuroscienze non possono arrogarsi la capacità di cancellare il Diritto penale con le loro sedicenti scoperte deterministe. Né i neuroscienziati devono giocare a fare i penalisti o gli ideatori della politica criminale (allo stesso modo in cui nessun giurista indica agli scienziati come raggiungere i suoi obiettivi della ricerca). Però possono e devono essere d’aiuto, nel processo, e con gli scopi propri del Diritto penale, per aiutare a comprendere meglio la condotta del soggetto giudicato e la sua riconducibilità o meno all’interno dei parametri concettuali che i giuristi utilizzano (colpevolezza, dolo, imputabilità, etc.). E questa funzione non è affatto di minor rilievo, perché presuppone, né più né meno, di collaborare in una delle più importanti funzioni della nostra vita sociale: accertare i fatti ed affermare la responsabilità che un soggetto ha a causa delle proprie azioni di fronte alla collettività.
Ai (neuro)scienziati a cui tutto ciò sembra poco, vorrei ricordare l’opinione di uno scienziato di spessore come fu Erwin Schrödinger:
“Quindi, qual è, per Te, il valore della scienza naturale? Rispondo: il suo scopo, portata e valore sono gli stessi di qualunque altro ambito dell’essere umano. Però nessuno di loro da solo, ha uno scopo o un valore se non procedono unitamente. E questo valore ha una definizione molto semplice: obbedire al comando della divinità delfica conosci te stesso”[66].
* Traduzione di Giuseppe Amara – Procura Modena;
[1] Il presente lavoro si inserisce nel progetto di ricerca “Diritto penale e comportamento umano” (RTI2018-097838-B-I00) patrocinato dal Ministero della Scienza, Innovazione ed Università della Spagna (IP: Prof. Dr. Eduardo Demetrio Crespo). https://blog.uclm.es/proyectodpch/
[2] BENNETT, M., “Neurociencia y filosofía”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, p. 74.
[3] Il lettore italiano conoscerà, senza dubbio, molto meglio del Sottoscritto, le seguenti opere per le quali, si rimanda senz’altro a GRANDI, C., Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappichelli, Torino, 2016; più recentemente, con la medesima efficacia: GRANDI, C., “Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, Diritto penale e uomo, 4/2019; GRANDI, C., “Neuroscienze e capacità di intendere e volere: un percorso giurisprudenziale”, Diritto penale e proceso, 2020-1, pp. 24 y ss. In tali opere, il lettore troverà, non solo un ampio elenco bibliografico, ma anche un’esposizione dettagliata e ricca dei problemi che le neuroscienze incontrano nel diritto penale.
[4] Per la dottrina spagnola rinvio, senza dubbio al volume DEMETRIO CRESPO, E. (dir.), Neurociencias y Derecho penal: Nuevas perspectivas en el ámbito de la culpabilidad y del tratamiento jurídico-penal de la peligrosidad, Edisofer / BdeF, Madrid / Buenos Aires, 2013, dove si trovano riferimenti ad opere di neuroscienziati e penalisti tedeschi e spagnoli.
[5] VIVES ANTÓN, T. S., Fundamentos del sistema penal, Tirant lo Blanch, Valencia, 1999.
[6] NOZICK, R., Philosophical explanations, Harvard University Press, Cambridge, 1981, p. 291.
[7] BLANSHARD, B., “En defensa del determinismo”, en HOOK, S. (ed.), Determinismo y libertad, Fontanella, Barcelona, 1969, p. 25.
[8] In questo senso, GAZZANIGA (in GAZZANIGA, M. S., “La neurociencia en el sistema judicial”, Investigación y ciencia, 60, julio 2011, pp. 24 y ss.) afferma che l’inesistenza della libertà (che crede conseguenza necessaria delle ultime scoperte neuroscientifiche) deve portarci ad un ripensamento di tutto il Diritto penale e dei nostri criteri per accertare le responsabilità ed irrogare pene (GAZZANIGA, “La neurociencia en el sistema judicial”, cit., p. 28).
[9] TUGENDHAT, E., Antropología en vez de metafísica, Gedisa, Barcelona, 2008, pp. 39 y 40.
[10] Per quanto riguarda la dottrina tedesca, cfr., per esempio, GÜNTHER, K., “Hirnsforschung und strafrechtlicher Schuldbegriff”, KJ, 39, 2006, pp. 116 y ss.; HASSEMER, W., “Haltet den geborenen Dieb!”, Frankfurter Allgemeiner Zeitung (15.06.2010) – che invita a resistere ai "canti delle sirene" delle neuroscienze -; KRAUß, D., “Neue Hirnforschung – Neues Strafrecht?”, en MÜLLER-DIETZ, H. (ed.), Festschrift für Heike Jung, Nomos, Baden-Baden, 2007, pp. 411 y ss.; LÜDERSSEN, K., “Ändert die Hirnforschung das Strafrecht?”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 98 y ss.; MERKEL, G., “Hirnforschung, Sprache und Recht”, en PUTZKE, H. (ed.), Strafrecht zwischen System und Telos. Festchrift für Rolf Dietrich Herzberg, Mohr Siebeck, Tübingen, 2008, pp. 3 y ss.; MERKEL, R., Willensfreiheit und rechtliche Schuld, Nomos, Baden-Baden, 2008; PAUEN, M. Illusion Freiheit? Mögliche und unmögliche Konsequenzen der Hirnforschung, 2ª ed., S. Fischer, Frankfurt am Main, 2004; STRENG, F. “Schuldbegriff und Hirnforschung”, en PAWLIK, M / Zaczyk, R. (eds.), Festschrift für Günther Jakobs, Heymann, Köln/Berlin/München, 2007, pp. 675 y ss., etc.
[11] Cfr., per esempio, SINGER, W., Ein neues Menschenbild? Gespräche über Hirnforschung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003 y SINGER, W., “Verschaltungen legen uns fest: wir sollten aufhören von Freiheit zu sprechen”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 30 y ss.
[12] PRINZ, W., “Der Mensch ist nicht frei. Ein Gespräch”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 20 y ss.
[13] Ya en ROTH, G., Das Gehirn und seine Wirklichkeit, 6ª ed., Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001.
[14] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 31.
[15] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 37.
[16] Prinz, W., “Kritik des freien Willens: Bemerkungen über eine soziale Institution”, Psychologische Rundschau, (55/4), 2004, p. 198.
[17] ROTH, G., Fühlen, Denken, Handeln. Wie das Gehirn unser Verhalten steuert, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003, p. 553.
[18] DEMETRIO CRESPO, E., “Libertad de voluntad, investigación sobre el cerebro y responsabilidad penal”: aproximación a los fundamentos del moderno debate sobre Neurociencias y Derecho penal”, InDret, abril de 2011, (http://www.indret.com/pdf/807.pdf).p. 6.
[19] LIBET, B., “Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action”, Behaviour and brain sciences, 8, 1985, pp. 529 y ss.
[20] Per un spiegazioen sintetica ed in italiano, GRANDI (“Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, cit., p. 4) se remite a M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, La frontiera mobile della libertà, in id. (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice edizioni, 2010, pp. XI ss.
[21] SINGER, W., “Ein Frontalangriff auf unser Selbstverständnis und unsere Menschenwürde”, Gehirn und Geist, 4, 2002, pp. 32 y ss..
[22] SINGER, Ein neues Menschenbild?, cit., p. 34.
[23] Vid. Merkel, G. / Roth, G., “Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe”, en Grün, K. J. / Friedman, F. / Roth, G. (eds.), Entmoralisierung des Rechts. Maβstäbe der Hirnforschung für das Strafrecht, Vandenhoeck & Ruprech, Göttingen, 2008, pp. 77 y ss. y Merkel, G. / Roth, G., “Bestrafung oder Therapie? Möglichkeiten und Grenzen staatlicher Sanktion unter Berücksichtigung der Hirnforschung”, en AA. VV., Hirnforschung-Chancen und Risiken für das Recht: Recht, Ethik, Naturwissenschaften, Rechtswissenschaftliche Fakultät der Universität Zürich, Zürich, 2008, pp. 36 y ss.
[24] ROTH, Fühlen, Denken, Handeln, cit., p. 554.
[25] FEIJOO SÁNCHEZ, “Culpabilidad jurídico-penal y neurociencias”, cit.
[26] DEMETRIO CRESPO, “Libertad de voluntad”, cit., p. 16.
[27] HIRSCH, “Acerca de la actual discusión alemana”, cit.
[28] LIBET, B., “Do we have free will?”, Journal of consciousness studies, 6, 1999, pp. 55 y 56.
[29] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, pp. 16 y 17.
[30] VIVES ANTÓN, Fundamentos del sistema penal, cit., p. 325.
[31] Utilizzo qui il termine “grammatica” nel senso di “grammatica profonda” del linguaggio che parte dall’opera di WITTGENSTEIN. In questo senso, bisogna ricordare che il filosofo austriaco distingue tra una “grammatica superficiale” (Oberflächengrammatik) ed una “grammatica profonda” (Tiefengrammatik) del linguaggio.
[32] CRICK, F., The atonishing hipothesis, Touchstone Books, Londres, 1995, p. 30.
[33] BLAKEMORE, C., Mechanics of the mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, p. 91.
[34] YOUNG, J. Z., Programs of the brain, Oxford University Press, Oxford, 1978, p. 119.
[35] ARISTÓTELES, Acerca del alma, Gredos, Madrid, 1978, p. 178.
[36] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, cit., p. 38.
[37] Wittgenstein, L., Investigaciones Filosóficas, Crítica, Barcelona, 1988, parágrafo 283.
[38] Hacker, P. M. S., Wittgenstein: meaning and mind. (vol. III of an analytical commentary on the Philosophical Investigations), Basil Blackwell, Oxford / Cambridge, 1990, p. 147.
[39] Hacker, Wittgenstein: meaning and mind, cit., p. 162.
[40] MARTÍNEZ FREIRE, P. F., La nueva filosofía de la mente, Gedisa, Barcelona, 1995, p. 84.
[41] KENNY, A., La metafísica de la mente: filosofía, psicología, lingüística, Paidós, Barcelona, 2000, p. 204 y ss.
[42] FEYERABEND, P. K., Diálogo sobre el método, Cátedra, Madrid, 2000, p. 25.
[43] EINSTEIN, A., “Remarks concerning the essays brought together in this cooperative volume”, en SCHILPP, P. A., (coord.), Albert Einstein, philosopher-scientist, Library of living philosophers, Evanston, 1949, p. 684.
[44] WOOLGAR, S., Ciencia: abriendo la caja negra, Barcelona, Anthropos, 1991, p. 31.
[45] RESCHNER, N., Razón y valores en la era científico-tecnológica, Paidós, Barcelona, 1999, p. 59.
[46] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, Fondo de Cultura Económica, Madrid, 2005, p. 33.
[47] DIÉGUEZ LUCENA, A., Filosofía de la ciencia, Biblioteca nueva, Madrid, 1998, p. 174.
[48] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 271.
[49] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 93.
[50] GARCÍA JIMÉNEZ, L., “Aproximación epistemológica al concepto de ciencia: una propuesta básica a partir de Kuhn, Popper, Lakatos y Feyerabend”, Andamios. Revista de investigación social. vol. 4, núm. 8, 2008, p. 192.
[51] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., pp. 149 y ss..
[52] DIÉGUEZ LUCENA, Filosofía de la ciencia, cit., p. 201.
[53] CHALMERS, A., ¿Qué es esa cosa llamada ciencia?, Siglo XXI, Madrid, 2003, p. 110.
[54] WITTGENSTEIN, L., Aforismos: cultura y valor, Austral, Madrid, 1995, p. 85.
[55] PUTNAM, H., Realism with a human face, Harvard University Press, Cambridge, 1990, p. 162.
[56] Jauregui Balenciaga, I. / Méndez Gallo, P., Modernidad y delirio, Escalera, Madrid, 2009, p. 67.
[57] TOULMIN, S., La comprensión humana, Alianza editorial, Madrid, 1977, p. 11.
[58] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 176.
[59] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 182.
[60] FEYERABEND, P. K., La ciencia en una sociedad libre, Siglo XXI, México D. F., 1998, p. 23.
[61] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 375.
[62] Jauregui Balenciaga / Méndez Gallo, Modernidad y delirio, cit., p. 91.
[63] SÁNCHEZ ANDRÉS, J. V., “El espacio de la libertad en el determinismo”, Revista de occidente, 356, 2011, p. 72.
[64] BIGENWALD, A. / CHAMBON, V., “Criminal responsibility and neuroscience: no revolution yet”, Frontiers in psychology, 10, 2019.
[65] BIGENWALD / CHAMBON, “Criminal responsibility”, cit., p. 16.
[66] SCHRÖDINGER, E., Ciencia y humanismo, 2ª edición, Tusquets, Barcelona, 1998, p. 14.
Repensando la (neuro)ciencia y su influencia en el Derecho penal*
di José Antonio Ramos Vázquez
Sumario: 1. Introducción - 2. El pensamiento neurodeterminista - 3. Neurocientíficos jugando a ser penalistas - 4. Problemas metodológicos y mereológicos del neurodeterminismo - 5. Los problemas de la Ciencia con la “C” mayúscula - 6. Hacia una ciencia con la “c” minúscula - 7. Conclusiones: el diálogo de las (neuro)ciencias con el Derecho penal.
1. Introducción
En tiempos de pandemia, muchas personas han redescubierto el imprescindible papel que la ciencia (que las ciencias) ocupa en nuestras sociedades. También hemos podido apreciar el impacto que, para la salud de toda la población, tiene el hecho de que haya sectores de la población que no confían en la ciencia y optan por el escepticismo, cuando no en lo que se ha dado en llamar conspiranoia.
Estamos, por tanto, viviendo una época en la que le pedimos a la ciencia que acuda, una vez más, en nuestra ayuda. Y es, precisamente, ése su papel: ayudar al ser humano a entenderse mejor y a sobrevivir en mejores condiciones.
Sin embargo, no conviene sobrevalorar la ciencia, ni convertirla en el eje de nuestra vida en comunidad. Y algo de esto está sucediendo en el ámbito del Derecho penal cuando hablamos de neurociencias. En efecto, durante los últimos 15 años hemos asistido a un creciente interés por el impacto que las neurociencias puedan tener en nuestra disciplina, tanto a nivel teórico como a nivel práctico.
A nivel macro, el “endiosamiento de las neurociencias”[1] ha producido un retorno inquietante: el de la idea de determinismo. A nivel micro, los avances en neurociencias han conllevado el debate sobre sus efectos como prueba en el proceso penal.
Todo ello ha sido estudiado ampliamente por la doctrina italiana[2]. Es más, probablemente sea la doctrina italiana la que mejor ha trabajado estas cuestiones (sobre todo porque la praxis jurisprudencial italiana ha sido mucho más receptiva a la prueba neurocientífica de lo que lo haya sido, por ejemplo, la española[3]). No pretendo con este trabajo, por tanto, entrar en cuestiones que ya han sido debatidas, con gran solvencia y altura, por la doctrina italiana, sino aportar a este debate una perspectiva distinta: la de la filosofía del lenguaje y la de la filosofía de la ciencia.
En efecto, desde el pionero trabajo de Vives Antón[4], parte de la doctrina española utiliza (utilizamos) la filosofía del lenguaje como método para replantear los problemas teóricos del Derecho penal (y el reto neurocientífico, sin duda, es problemático en nuestra disciplina). Por su parte, la filosofía de la ciencia puede ofrecernos interesantes matices que puedan ayudarnos a entender mejor la posición que la propia ciencia debe ocupar en nuestra sociedad. Y, naturalmente, eso significa, también, la posición que deba ocupar en el Derecho penal y procesal penal.
Por tanto, en las próximas páginas utilizaré un doble punto de vista: el de la filosofía del lenguaje, para combatir la idea del determinismo neurocientífico, y el de la filosofía de la ciencia para intentar (re)situar el pensamiento científico dentro de nuestras prácticas sociales y culturales, trazando al final una serie de conclusiones que considero de interés para la reflexión teórica acerca del Derecho penal y para la práctica judicial.
2. El pensamiento neurodeterminista
Muchos neurocientíficos han postulado que nuestra vida como seres humanos libres es ilusoria y que, en realidad, estamos controlados por nuestro cerebro y sus conexiones sinápticas. De ser cierto esto, nos encontraríamos ante una idea inquietante, la de ser “meros juguetes de fuerzas externas”[5]: así, cada ser humano sería “una máquina, un gran reloj estúpido que tiene la impresión de estar actuando libremente, pero cuyos movimientos están completamente controlados por las ruedas y pesas que tiene dentro”[6].
En lo que aquí nos importa, el determinismo hace quebrar toda ética y todo Derecho (penal)[7], pues, a fin de cuentas, el problema real de la libertad como concepto no es “el problema de la responsabilidad. ¿Cómo hay que entender que nos podamos responsabilizar de nuestros actos y reprochárnoslos recíprocamente?”[8].
Este debate sobre libertad, Derecho penal, y neurociencia ha tenido lugar, de manera pionera, en Alemania[9], con la irrupción de los trabajos de científicos como Singer[10], Prinz[11], y Roth[12], que colocaron en primera línea de debate la cuestión del determinismo neurocientífico, y su posible influencia en el Derecho penal.
Muy sintéticamente, Singer afirma que las percepciones que tiene el ser humano son el resultado de procesos constructivos[13] y que la ciencia demuestra que no existe ninguna diferencia sustancial entre el cerebro humano y el de los animales (que dicho autor considera claramente determinados). Por ello, la conclusión es que, aunque por el momento no sea posible, en el futuro podremos reducir el comportamiento humano a funciones cerebrales, pues estamos sometidos a las leyes deterministas que rigen los procesos psico-químicos[14].
En lo que respecta a Prinz, éste parte de que la libertad no es científicamente demostrable, por lo que estaríamos ante una mera institución social[15], un constructo que, por mucho que tenga indudables consecuencias a nivel social (algo que este autor reconoce expresamente), no deja de ser una producción cultural.
Por último, Roth, sostiene que el ser humano nunca actúa libremente, sino que es el cerebro el que controla nuestro comportamiento. Se trataría de una especie de cadena de mando en la que el ser humano se percibiría –debido a un autoengaño- como libre, cuando no lo es en absoluto[16]. Y ello porque, como resume Demetrio Crespo, “para él la representación tradicional según la cual la voluntad se transforma en hechos concretos a través de una acción voluntaria dirigida por un yo consciente no es más que una ilusión, debido a que como consecuencia de la concatenación de la amígdala, el hipocampo y el nudo ventral y dorsal, la memoria emocional de la experiencia (que trabaja de modo inconsciente) tiene la primera y la última palabra en lo que concierne a la aparición de deseos e intenciones, de modo que las decisiones adoptadas ocurren en el sistema límbico uno o dos segundos antes de que podamos percibirlas de modo consciente”[17].
Esta última conclusión de Roth está conectada con el célebre experimento Libet[18], que habría llegado a la conclusión de que toda acción humana consciente está precedido por una actividad cerebral inconsciente y no controlada por el sujeto[19]. Sobre dicho experimento hablaré brevemente en el apartado cuatro: por de pronto, una vez condensadas en tan pocas líneas la posición científica de dichos autores, conviene indicar que algunos de ellos han ido más allá y han extraído consecuencias para el Derecho penal.
3. Neurocientíficos jugando a ser penalistas
Singer (quien, por cierto, ha mostrado su perplejidad por lo “poco que se han asombrado los círculos jurídicos” con los supuestos avances deterministas en la neurociencia[20]) cree conveniente mantener el castigo de las conductas desviadas en cuanto que necesidad social -o, por mejor decirlo, en cuanto que necesidad de la “autocomprensión de la sociedad”. De hecho, el mencionado autor no cree imprescindible dejar de utilizar conceptos como “libertad”, “culpabilidad”, “pena” etc., proponiendo, no obstante, medidas de corte educativo como sanción. Por todo ello, SINGER considera que, en realidad, se trata de hacer “más agradable lo mismo que se hace ahora. Sólo cambia el enfoque”[21].
Por su parte, Roth, mucho más interesado en el concreto ámbito del Derecho penal (sobre todo a raíz de sus colaboraciones con Merkel[22]) parece sustentar una concepción de la sanción penal en cuanto que mantenimiento de la vigencia de la norma alla Jakobs, y nos dice que la sociedad “debe en realidad ser capaz de inculcar a sus miembros un sentimiento de la responsabilidad por sus propios actos; y precisamente a partir de la idea de que, sin un sentimiento tal de responsabilidad, la convivencia social se daña de forma duradera”[23].
Así, “la propuesta político-criminal de estos autores” –señala Feijoo Sánchez en referencia a Roth/Merkel- “se ha concretado en una teoría de la prevención general positiva, dentro de la cual las aportaciones de las neurociencias permitirían ampliar las posibilidades de alternativas con fines preventivo-especiales (por ejemplo, en vez de ingreso en prisión, tratamiento en centros especializados para autores violentos previa aceptación del condenado)”[24].
En efecto, la prevención y las medidas de tratamiento son ideas básicas sobre las que gira la idea de Derecho penal de los neurocientíficos deterministas. Así, resume Demetrio Crespo, aquéllos “pasan a argumentar desde la perspectiva del imprescindible sostenimiento del orden normativo, lo que acontece de manera totalmente independiente de si estamos determinados o no, porque el Estado debe garantizar un mínimo de confianza mutua, en el sentido de la prevención general positiva sostenida por Günther Jakobs, donde lo decisivo no es tanto si se puede (o es legítimo) sancionar, sino más bien cómo hacerlo. En este sentido, los autores consideran una obligación moral y jurídica ofrecer al delincuente un amplio abanico de medidas de tratamiento que, por respeto al derecho fundamental a la dignidad humana, solo podrían ser aceptadas de modo voluntario, y no impuestas. Sólo en el caso de que no fueran aceptadas voluntariamente, la alternativa consistiría en penas de multa o privativas de libertad, tal y como sucede actualmente”[25].
Estas ideas preventivistas son objeto de crítica por parte de la doctrina penal alemana. Así, Hirsch, con gran contundencia, pone de relieve que “si se sustituyera la punición por medidas curativas, como resulta de un punto de vista puramente determinista, no se podrían excluir consecuentemente esterilizaciones y castraciones en delitos sexuales, tratamientos médicos desencadenantes de estados de debilidad duraderos en delincuentes violentos y ladrones, intervenciones quirúrgicas en el cerebro, etc. Daños de carácter físico y psíquico en agotadores campos de prisioneros, ampliamente practicados por las dictaduras del siglo XX, proporcionan además una cierta idea”[26].
Por mi parte, quisiera señalar que no es de extrañar que los postulados neurodeterministas en materia penal vayan en la línea de la inocuización o de la prevención especial positiva: en efecto, eliminada la libertad de acción (y el yo, esto es, la persona como sujeto individual) como eje prioritario del Derecho penal, lo que resta es sólo el sistema, la estabilidad y la segregación.
Esta armónica convivencia entre las ideas de inocuización que campean por la política criminal de nuestros días y la búsqueda de anclajes científicos parece probar la escasa inocencia ideológica de este eterno retorno al determinismo. En cambio, seguidamente intentaré demostrar que el ser humano no está determinado, no es una máquina, no es un elemento más de un sistema termodinámico. Sin la afirmación de la libertad, no sólo se colapsa nuestro mundo, sino que también desaparece toda esperanza posible en un Derecho penal respetuoso con los principios ilustrados. Y esa afirmación de la libertad puede perfectamente realizarse desde el punto de vista de la filosofía del lenguaje.
4. Problemas metodológicos y mereológicos del neurodeterminismo
Dado que es el experimento Libet el icono, por así decirlo, de la negación de la libertad en la neurociencia actual, comenzaré este apartado, dedicado a los problemas metodológicos que plantea la visión neurodeterminista, señalando que el propio LIBET no era determinista y siempre renegó de las visiones antilibertarias de sus descubrimientos (que son eso, descubrimientos científicos, no teorías sobre el ser humano).
En efecto, el problema fundamental de las conclusiones que se suelen extraer del experimento Libet no es si hay o no unas concretas condiciones neuronales que nos indiquen la existencia o no de la voluntad, sino si podemos extraer de todo ello alguna conclusión determinista. Y, en un trabajo de 1999, dicho científico realiza una serie de matizaciones sobre trabajos anteriores que nos sirven, entre otras cosas, para mostrar que ni él mismo se citaría como base para una concepción determinista del ser humano. De hecho, él mismo sostiene que el determinismo es una creencia especulativa, no una proposición científica demostrada y que la existencia de la libertad de acción “es una opción científica al menos tan buena, si no mejor, que su negación por la teoría determinista”[27].
Esto sentado, y obviando otros problemas metodológicos, quisiera dejar sentado, en primer lugar, que hay una confusión de fondo en el debate sobre neurodeterminismo.
Utilizaré en este momento un largo fragmento de Bennett y Hacker que coloca la discusión en, creo, sus justos términos:
“Las preguntas empíricas sobre el sistema nervioso son el campo de la neurociencia. El cometido de ésta es establecer los hechos en lo que concierne a las estructuras y las operaciones neurales. Es tarea de la neurociencia cognitiva explicar las condiciones neurales que hacen posibles las funciones perceptivas, cognitivas, cogitativas, afectivas y volitivas. Las investigaciones experimentales confirman o cuestionan tales teorías explicativas. Por contraste, las preguntas conceptuales (las que, por ejemplo, se refieren a los conceptos de mente o memoria, pensamiento o imaginación), la descripción de las relaciones lógicas entre los conceptos (como las que existen entre los conceptos de percepción y sensación o los de conciencia y autoconciencia) y el examen de las relaciones estructurales entre los distintos campos conceptuales (por ejemplo, entre el psicológico y el neural, o el mental y el conductista), son el campo propio de la filosofía.
Las preguntas conceptuales son previas a las cuestiones de verdad y falsedad. Son preguntas que conciernen a nuestras formas de representación, no a la verdad o falsedad de afirmaciones empíricas. Estas formas están presupuestas en las afirmaciones científicas verdaderas (y en las falsas) y las teorías científicas correctas (e incorrectas). No determinan lo que es empíricamente válido, sino más bien lo que tiene o no tiene sentido. De ahí que las preguntas conceptuales no sean pertinentes ni en la investigación y la experimentación científicas ni en la teorización científica. Y es que cualquiera de estas investigaciones y teorizaciones presuponen los conceptos y las relaciones conceptuales en cuestión”[28].
En efecto, no se trata de que exista un conflicto entre las conclusiones de ambas disciplinas, sino dos lógicas de investigación distintas, en la que la filosófica establece, de algún modo, las reglas del juego de la científica.
En este sentido, una afirmación clara y rotunda como “creo que el ser humano es libre” tiene dos opciones de respuesta: “¿qué pruebas tienes?” o “libre, ¿en qué sentido?”. La primera, obviamente, reclama la presentación de algún tipo de evidencia empírica. La segunda reclamaría, en cambio, clarificación conceptual.
Pero resulta que la libertad implica una cierta imagen del mundo, de modo que “mal podría afirmarse o negarse desde datos empíricos, pues de lo que en ella se trata es de ver el mundo de un modo u otro”[29]. De esta suerte, si la neurociencia pretende desvelar el “misterio” de la libertad, creo que se equivoca, porque ni hay tal “misterio” ni, de haberlo, es resoluble científicamente, al no existir ninguna comprobación empírica posible. Creo que nadie se plantea seriamente decir “sólo si se descubre tal o cual cosa podré decir que soy libre” (o a la inversa: “soy libre hasta que la ciencia no me demuestre lo contrario”). No es la ciencia la que puede demostrar la libertad. Ni la no-libertad.
Por ejemplo, volviendo al experimento Libet, al que sistemáticamente se recurre como “prueba” de que la decisión voluntaria no existe, no hay nada en él que, desde mi óptica, constituya un criterio de si el hombre es libre o no. Ni siquiera de qué sea “tomar una decisión”. A unos impulsos cerebrales o a unas conexiones sinápticas dadas no se les puede llamar inteligiblemente “decisión”. No es ésa la gramática de “decidir”[30].
Dicho lo anterior, y como claro ejemplo, en mi opinión, de los problemas conceptuales que plantea la visión del ser humano que nos ofrecen los neurocientíficos, cabe decir que en multitud de ocasiones la mayor fuente de mistificación y uno de los sedicentes misterios del cerebro, es adscribir atributos psicológicos al cerebro en sí mismo considerado, en vez de al ser humano.
En efecto, muchos neurocientíficos predican del cerebro o, incluso, de sus partes, cualidades que usualmente atribuimos sólo al ser humano. Unos ejemplos:
“Lo que ves no es realmente lo que hay: es lo que tu cerebro cree que hay (…) El cerebro hace la mejor interpretación que puede de acuerdo con su experiencia previa y la información limitada y ambigua que los ojos le proporcionan”[31].
“Tales neuronas poseen conocimientos. Tienen inteligencia, pues son capaces de calcular la probabilidad de acontecimientos externos”[32].
“Podemos considerar todo acto de ver como una búsqueda continua de las respuestas a preguntas formuladas por el cerebro. Las señales que proceden de la retina constituyen mensajes que transmiten esas respuestas. A continuación, el cerebro utiliza esa información para construir hipótesis adecuadas sobre lo que hay”[33].
Como vemos, el cerebro nos engaña, interpreta, busca, construye hipótesis etc. Esa parte de nuestro cuerpo tiene, por tanto, de acuerdo con esta perspectiva, cualidades que normalmente aplicamos al ser humano en su conjunto. Es más, incluso las partes de dicho órgano (las neuronas) tienen conocimientos e inteligencia.
El problema de esta visión es que incurre en la falacia mereológica, la misma que ya Aristóteles, denunciaba en el siglo IV a. C.[34], es decir, la falacia consistente en la la adscripción a las partes de cualidades que son privativas del todo.
En este sentido, creo fundamental dejar sentado que la atribución de atributos psicológicos al cerebro no tiene sentido, es conceptualmente inapropiada y fuente de importantes confusiones metodológicas.
Señalan, por ejemplo, Bennett y Hacker lo siguiente:
“Llamaremos “principio mereológico” en neurociencia al principio de que los predicados psicológicos aplicables únicamente a un ser humano (u otro animal) en su totalidad no se pueden aplicar de modo inteligible a sus partes, por ejemplo, al cerebro (...) Los predicados psicológicos se aplican paradigmáticamente al ser humano (o animal) como un todo y no al cuerpo y sus partes”[35].
Es decir, conviene hacer hincapié en que una gran cantidad de expresiones, entre las que destacan los términos psicológicos, son predicables stricto sensu sólo de seres humanos y ello por la sencilla razón de que los criterios de aplicación de tales expresiones son ciertos comportamientos en contextos específicos analizados desde la óptica de un complejo y ramificado background manifestado en el comportamiento.
Un corolario evidente de esta premisa es que carece de sentido adscribir sensaciones, pensamientos, capacidades sensoriales etc. - salvo, por supuesto, en el supuesto de un uso metafórico o metonímico del lenguaje - ni a seres inanimados ni al propio cuerpo humano en su conjunto, ni a alguna de sus partes (señaladamente el cerebro) ni, a fortiori, a las partes de las partes (p. ej., las neuronas).
“Sólo de lo que se comporta como un ser humano” – nos dice Wittgenstein – “se puede decir que tiene dolor”[36]. Y éste es un principio, como bien recalca Hacker, gramatical, “no una generalización empírica o una necesidad metafísica”[37].
En efecto, no es un hecho empírico que sea la persona la que tenga hambre y no, vgr., su estómago. Tampoco es un principio metafísico, derivado de la esencia del cuerpo humano o del pensamiento que es la persona quien reflexiona y no su cerebro. Es la gramática la que excluye la atribución de la toma de decisiones al cerebro: no existen condiciones de aplicación para el uso correcto de “su cerebro tomó una decisión”.
Aplicando esta idea a la neurociencia y sus descubrimientos, la conclusión es clara: la comprensión de un texto, el cálculo, la percepción del mundo real y, en lo que aquí nos importa, la decisión voluntaria, son, se nos dice, “operaciones cerebrales”, pero tan poco sentido tiene decir “mi mente tiene dolor de muelas” como que mi cerebro percibe la realidad, construye hipótesis o toma decisiones 800 milisegundos antes de que yo lo haga. Éstos son predicados referidos a los seres humanos, aplicados sobre la base de un comportamiento sofisticado y presuponiendo capacidades complejas.
No “ve” más el cerebro de lo que “ve” la mente, pues soy yo quien veo. Alguien puede decir: “espera un momento y te doy la respuesta”, pero no “espera un momento a que mi cerebro me dé la respuesta y luego yo te la doy a ti”[38]. Tampoco tendría sentido que usted, querido lector, dijese “mi cerebro está leyendo este trabajo” o “el cerebro del profesor Ramos me está aburriendo” (o que yo dijese que mi cerebro decidió por sí mismo escribir este trabajo y yo le estoy obedeciendo).
Por ello, como mencionaba antes, querría alertar sobre el peligro de considerar al cerebro como una especie de ente que reúne una serie de capacidades que no tiene. E, insisto, no las tiene no porque yo tenga un descubrimiento empírico que revelarles en este momento, sino porque no es conceptualmente correcto afirmar tal cosa. Y los problemas son mayores de lo que parecen: al enunciar frases como “el cerebro decide en cada momento qué acciones realizamos” estamos otorgando al cerebro cualidades que no tiene, y al ser humano una naturaleza que no es la suya.
En suma, el cerebro no es un sujeto lógicamente apropiado para serle atribuidos predicados como, en lo que aquí nos importa, “decidir”. Y, desde luego, tanto esta adscripción como la idea de que decida por nosotros (estableciendo una cesura entre nosotros y nuestros cerebros) como la de que nos engaña son formas degeneradas de cartesianismo.
En suma, teniendo en cuenta que lo específico de la acción humana no es algo físico, sino contextual, parece claro que bajo ningún concepto un determinado estado cerebral puede ser entendido como criterio de un determinado comportamiento. Ni el lenguaje de los términos psicológicos es el de la neurofisiología, pues, aunque los fenómenos psicológicos pudiesen ser deducidos de los neurológicos, no podrían ser explicados por ellos[39], pues lo que otorga significado a cualquier producto de mi cerebro es algo completamente exterior a él[40].
Nada de lo que se pueda decir inteligiblemente que realiza un cerebro puede constituir un criterio de lo que el ser humano hace. No son los cerebros los que sienten dolor o toman decisiones, sino las personas. En este sentido, cuando los neurocientíficos manifiestan que cuando una persona toma una decisión algo sucede en su cerebro y que, por tanto, esto constituye un criterio de “decidir”, están mostrando, en mi opinión, una enorme confusión sobre el concepto de comportamiento en general y sobre los criterios de actuar y de tomar una decisión en particular.
Dicho lo anterior, tengo que añadir que, en realidad, el problema de fondo es considerar que la ciencia está capacitada para ofrecernos verdades absolutas. Es decir, hemos convertido la ciencia en “nuestra religión favorita”[41]. Por ello, en segundo lugar, me parece conveniente abordar, desde la perspectiva de la filosofía de la ciencia, el puesto que ésta debe desempeñar dentro de las muchas maneras que los seres humanos tenemos de entender el mundo. Y ello porque, como dijo nada menos que Einstein: “La ciencia sin epistemología es – en la medida en que sea concebible – primitiva y confusa”[42].
5. Los problemas de la Ciencia con la “C” mayúscula
Ciertamente, no es sencillo capturar la esencia de ese “organismo complejo y cambiante”[43] que llamamos ciencia, sobre todo porque “la indagación científica es la búsqueda de un ideal inalcanzable: el ideal de una ciencia perfecta, que nos permite una versión verdadera y completamente adecuada de cómo funcionan las cosas en el mundo”[44].
Mi objetivo en este apartado es negar la existencia de dicha ciencia perfecta (la ciencia con la “C” mayúscula) y, como no puede ser de otra manera, habré de hacer referencia, en primer lugar, a Thomas S. Kuhn, quien, de algún modo, dinamitó la discusión sobre el concepto de ciencia y sobre cómo se desarrolla la labor científica con su obra La estructura de las revoluciones científicas (publicada originariamente en 1962), exponiendo que la ciencia es altamente permeable a consideraciones ideológicas, cuando no meramente de conveniencia o de estética.
En efecto, Kuhn mantiene que –tras el período precientífico-, la Historia de la Ciencia nos demuestra que existen dos fases: la fase de ciencia normal, esto es, aquel período en el que hay una “investigación basada firmemente en una o más realizaciones científicas pasadas, realizaciones que alguna comunidad científica particular reconoce, durante cierto tiempo, como fundamento para su práctica posterior”[45], y los períodos de crisis, que desembocan en las revoluciones científicas (que, a su vez, dan lugar a un nuevo período de ciencia normal).
Los períodos de ciencia normal son, por tanto, los que conforman la mayor parte de la actividad científica, y en ellos la labor de investigación se desarrolla bajo el dominio de un paradigma. Un paradigma es, ante todo, un modelo teórico que resuelve algún problema científico de relevancia y que, por ello mismo, sirve como ejemplo para intentar resolver otros problemas distintos. Pero, en un sentido más amplio, los paradigmas incluyen “otros componentes de tipo axiológico, metodológico y ontológico, que son la seña de identidad de una comunidad científica”[46]. Así, en suma, “un paradigma es lo que los miembros de una comunidad científica comparten, y, recíprocamente, una comunidad científica consiste en hombres que comparten un paradigma”[47].
Sin embargo, cuando no todos los fenómenos son explicables de manera coherente con el paradigma, cuando éste no es capaz de absorber más anomalías, la ciencia normal entra en crisis: la comunidad científica deja de creer en el paradigma como en un dogma, se replantea los presupuestos de su labor y surge la ciencia revolucionaria.
Las crisis, por tanto, son una condición previa y necesaria del nacimiento de nuevas teorías y el cambio de paradigma es una suerte de batalla entre grupos de científicos, que buscan la imposición del nuevo paradigma – de un lado – o resistirse a abandonar el viejo –de otro.
Cuando adviene un paradigma nuevo, cuando finalmente desplaza al viejo, se produce la revolución científica, que altera el modo mismo de pensar de los científicos, ya que se deben albergar esos nuevos descubrimientos en conceptos no articulables en el viejo paradigma. Por eso mismo, “la violación o distorsión de un lenguaje científico que previamente no era problemático es la piedra de toque de un cambio revolucionario”[48].
Pero el cambio revolucionario conlleva una modificación más importante aún del normal transcurso de la labor científica: si en los períodos de ciencia normal existe un crecimiento, una adición acumulativa de conocimiento, la ciencia revolucionaria no es acumulativa. El progreso científico, por tanto, se produce a través de estas revoluciones (y no de modo acumulativo, como si fuese una línea ininterrumpida de progreso), al acontecer la sustitución de un paradigma por otro, planteándose nuevas problemáticas, nuevos métodos y nuevas concepciones del mundo[49].
Como resultado de ello, la recepción de un nuevo paradigma frecuentemente hace necesaria una redefinición de la ciencia correspondiente. Algunos problemas antiguos pueden relegarse a otra ciencia o ser declarados absolutamente no científicos. Otros que anteriormente eran triviales o no existían siquiera, pueden convertirse, con un nuevo paradigma, en los arquetipos mismos de la realización científica de importancia. Y, al cambiar los problemas, también lo hacen, a menudo, las normas que distinguen una solución científica real de una simple especulación metafísica, de un juego de palabras, de un juego matemático. Así, señala Kuhn, “la tradición científica normal que surge de una revolución científica es no sólo incompatible sino también a menudo realmente incomparable con la que existía con anterioridad”[50].
Por tanto, los cambios de paradigma (las revoluciones) nacen del descontento y se imponen por la fuerza persuasiva de sus defensores dentro de la comunidad científica establecida. Y, una vez impuesto el nuevo paradigma, al modificarse toda la cosmovisión asociada al anterior, ambas teorías devienen inconmensurables, es decir, dado que el significado de un término científico viene dado por el papel que desempeña en una teoría dada y por el sistema de relaciones conceptuales que se establece entre dicho término y los restantes términos del paradigma, no existe una base puramente observacional que sirva como fundamento neutral para dirimir la lucha entre paradigmas, pues toda observación presupone la validez de una teoría dada. Es decir, es imposible comparar de forma detallada, objetiva y neutral el contenido de las teorías en función de la evidencia empírica con el fin de determinar cuál es definitivamente superior o más verdadera[51].
Aunque con posterioridad Kuhn matizó mucho su posición originaria, el impacto de estas ideas ha sido enorme en la discusión filosófica y científica de la segunda mitad del siglo XX.
En efecto, la obra de Kuhn coloca en una situación muy delicada no sólo el dogma de la superación de las teorías por su mejor adecuación a los hechos, sino a la propia racionalidad de la empresa científica. Respecto a lo primero, recordemos que los paradigmas son inconmensurables y no hay modo de resolver cuál de ellos explica mejor el mundo. Aún más, el propio mundo cambia en cada paradigma, en el sentido de que los científicos de distintos paradigmas miran un mismo mundo, pero ven cosas distintas. Respecto a lo segundo, subsiste esa sombra de irracionalidad en el hecho de que sean condicionamientos personales de los integrantes de la comunidad científica los que, a la postre, determinen la victoria de uno u otro paradigma. Los intentos de Kuhn para matizar esta afirmación no convencen: su idea de que las teorías científicas posteriores son mejores a la hora de resolver enigmas es contradictoria con su idea de que qué cuenta como enigma depende del paradigma[52].
En mi opinión, Kuhn visualizó correctamente –de acuerdo con lo que la Historia nos demuestra- el carácter poliédrico de la empresa científica y de los cambios de paradigma. Pero, al no ser capaz de encontrar una lógica racional a todo ello, parece, efectivamente, que nos sumerge en un mundo de relativismo e irracionalidad.
6. Hacia una ciencia con la “c” minúscula
Se suele postular una Ciencia con C mayúscula de la que los científicos (y no sólo ellos, sino también muchas personas corrientes) pretenden extraer conclusiones absolutas sobre la naturaleza y sobre nosotros mismos. Pero ni es eso lo que la Historia nos demuestra, ni la idea de una ciencia absoluta (por así denominarla) se puede sustentar racionalmente, hasta el punto de que no existe un acuerdo suficientemente consolidado sobre qué sea la ciencia.
Decía Wittgenstein: “aquello de lo que me defiendo es el concepto de una exactitud ideal que nos hubiese sido dada a priori, por así decirlo. En épocas distintas son distintos nuestros ideales de la exactitud: y ninguno es el superior”[53]. Nosotros, en cambio, permanecemos aún en la idea – heredada de la eclosión de la mecánica newtoniana- de la precisión absoluta, del saber global, del progreso ilimitado; idea que tiene su origen en la “ilusión trascendental” kantiana, es decir, que es posible un conocimiento absolutamente objetivo, independiente del contexto y la perspectiva del sujeto cognoscente – y que ese sedicente conocimiento objetivo lo puede ofrecer la ciencia[54] – . Y, de ahí, señalan Jáuregui Balenciaga y Méndez Gallo surge la idea de que la ciencia “es independiente de lo humano, está por encima de ello. En otras palabras, la ciencia es la nueva forma de trascendencia, de religiosidad, de espiritualidad”[55].
Con todo ello, no obstante, no quiere decirse que la ciencia no contribuya de modo decisivo al conocimiento humano, ni que sea imposible determinar qué teorías contribuyen mejor a dicha meta y cuáles peor. Pero, en todo caso, la labor científica y su estatus epistemológico han de entenderse en sus justos términos como, creo, hace Toulmin. Señala dicho autor, como premisa, que “los hombres demuestran su racionalidad, no ordenando sus conceptos y creencias en rígidas estructuras formales, sino por su disposición a responder a situaciones nuevas con espíritu abierto, reconociendo los defectos de sus procedimientos anteriores y superándolos. Aquí, nuevamente, las nociones fundamentales son la de “adaptación” y “exigencia”, más que las de forma y validez”[56].
Es decir, la actividad científica es una más de nuestras empresas colectivas de conocimiento y el problema de la racionalidad no debe ser situado en la argumentación lógica o en los sistemas conceptuales, sino en el contexto de las actividades humanas.
De hecho, “en vez de ser los conceptos sociales y políticos en un todo diferentes de los conceptos de las ciencias de la naturaleza, como inicialmente cabría suponer, las relaciones entre el pensamiento y la práctica en la ciencia y en la política son muy similares. En ambos casos, la aparición de un nuevo concepto importante está precedida por el reconocimiento de nuevos problemas y está asociada a la introducción de nuevos procedimientos para abordar esos problemas. En ambos campos, los conceptos adquieren significado sirviendo a fines humanos relevantes en los casos prácticos reales. En ambos campos, los cambios sucesivos en la aplicación de esos conceptos van asociados al refinamiento progresivo o la complicación creciente de su significado. Y, en ambos campos, la “racionalidad” del conjunto de los procedimientos o instituciones existentes depende del margen que exista para criticarlos y modificarlos desde dentro de la empresa misma”[57].
Esto sentado, Toulmin ataca la idea de que los términos utilizados en las teorías científicas se refieran directamente a clases de objetos naturales y que sus proposiciones generales afirmen o impliquen directamente “generalizaciones empíricas universales” sobre dichos objetos naturales. En efecto, “el conocimiento empírico que una teoría científica nos brinda es siempre el conocimiento de que algún procedimiento general de explicación, descripción o representación (especificado en términos abstractos, teóricos), puede aplicarse exitosamente (de manera específica y con un grado particular de precisión, discriminación o exactitud) a una clase particular de casos (especificados en términos concretos, empíricos)”, de modo que “en la ciencia, el significado se muestra por el carácter de un procedimiento explicativo; y la verdad, por el éxito de los hombres en hallar aplicaciones para ese procedimiento”[58].
Esto último me resulta particularmente sugerente, pues nos hace descender de la razón teórica a la razón práctica, que es donde –creo- ha de hacerse residir toda la actividad científica (y, en general, todo intento de mejora de nuestro conocimiento acerca del ser humano). Después de todo, “razón y práctica no son dos realidades distintas, sino partes de un único proceso dialéctico”[59].
En conclusión, Toulmin propone sustituir la racionalidad clásica por la actitud de razonabilidad, relacionando esta actitud con el examen de los fundamentos del conocimiento. Así pues, “lo que señala como racional a la obra de un científico no es su competencia para la manipulación formal de conceptos y argumentos establecidos, sino su disposición a concebir, explorar y criticar nuevos conceptos, argumentos y técnicas de representación, como maneras de abordar los problemas principales de su ciencia”[60].
Por resumir: argumentar, justificar y razonar críticamente son las actividades básicas de todo científico que se tome en serio su labor. Y esto significa: un científico lo es de verdad en la medida en que sea capaz de poner en tela de juicio las verdades asentadas en su contexto histórico. Galileo y Copérnico pasaron a la Historia por aniquilar el geocentrismo de su época, pero no fue en absoluto un proceso fácil, ni tenían el aprecio de sus contemporáneos (de hecho, muchos siglos antes Aristarco había propuesto ya el heliocentrismo, sin éxito); Newton pasó a la Historia por sentar las bases de la ciencia moderna, y Einstein por liquidarla. Si cualquiera de ellos hubiese creído que la ciencia proporciona verdades universales, objetivas y eternas, no habríamos tenido ningún avance científico en los últimos 500 años.
7. Conclusiones: el diálogo de las (neuro)ciencias con el Derecho penal
Como acabamos de ver, el problema de la ideología científica (porque la ciencia es también ideología) reside en su pretensión de constituirse en tanto que metadiscurso, (y además verdadero, por encima de los saberes, ideologías y opiniones particulares). Sin embargo, en mi opinión, prácticas, razonabilidad, argumentación y justificación (y no objetividad, verdad etc.) han de ser las líneas maestras de todo aquello que aspire a ser considerado ciencia.
Debe rechazarse, por tanto, con firmeza la pretensión de los científicos de imponer una supuesta superioridad epistemológica de la ciencia y someter todo pensamiento a la sedicente verdad científica. Ciencia, por tanto, no es un estado unívoco del saber humano, sino un conglomerado de teorías que son desechadas o aceptadas en una línea temporal dada.
Esto, creo, se puede observar muy bien hoy en día, en un año 2020 en el que estamos viviendo una pandemia de la que la ciencia nos ha ido poco a poco diciendo cosas, pero con contradicciones y errores (como, de hecho, la ciencia actúa): ¿se transmite por aerosoles o por superficies? ¿quien pasa la enfermedad Covid-19 queda inmunizado para siempre o sólo por un tiempo? ¿hay grupos sanguíneos más propensos a contraer la enfermedad?
Pedirle a la ciencia que, desde el primer momento, tuviese respuestas claras e incontrovertidas a una pandemia es exigirle demasiado. Sus resultados son provisionales, sujetos a discusión, cambiantes, como lo es nuestro mundo. En absoluto se parece a esa ciencia contemporánea que, muchas veces, produce un discurso vacío de todo trazo de humanidad, de diálogo, de retórica, de intersubjetividad. Y cuando la ciencia tiene pretensiones excesivas, lleva consigo el germen de un totalitarismo potencial. Es decir, “no es que la ciencia sea totalitaria, pero evoluciona hacia ese paraje, en gran medida porque el método científico fortalece la confusión entre el mundo de la ciencia y el mundo de la vida (…) Inscribirse en el discurso científico es perder la conexión del ser humano al mundo, a la experiencia”[61]. Pero es posible recuperar esa conexión de la ciencia con el ser humano, incluso en el ámbito aquí tratado, el de la neurociencia.
Antes, recapitulemos:
i) Las neurociencias eclosionaron a finales del s. XX, con una serie de científicos que mantuvieron “actitudes entusiastas que han anunciado prematuramente el advenimiento de progresos que no se han visto”[62]. Entre dichas afirmaciones entusiastas, estaba la de que se había descubierto que el ser humano estaba determinado por su cerebro y, por tanto, nunca toma decisiones libres (apartados 1 y 2).
ii) Aparte de dicho optimismo circunscrito al ámbito estrictamente científico, muchos neurocientíficos trasladaron dicha conclusión (la del determinismo) al ámbito del Derecho penal, proponiendo la eliminación del concepto de acción libre y un Derecho penal basado en la inocuización y la prevención general positiva (apartado 3).
iii) Sin embargo, el determinismo neurocientífico no se puede sostener desde el punto de vista de la filosofía del lenguaje. Decir que el cerebro toma decisiones antes que nosotros o que nuestras neuronas nos dominan es cometer una falacia mereológica (apartado 4).
iv) El neurodeterminismo parte de una cierta idea de ciencia que considera ésta un método para encontrar verdades objetivas, incontrovertidas y permanentes, cuando la reflexión teórica del último siglo sobre la ciencia descarta completamente que ésta sea capaz de ofrecer dichas verdades (apartado 5).
v) La ciencia, en realidad, es una de las muchas maneras que el ser humano tiene de obtener conocimiento, de acuerdo con sus intereses y con las particularidades de su forma de vida. Un modo de explicar no la realidad inmutable y objetiva, sino nuestra realidad contextualizada y mutable (apartado 6).
Por ello, una vez descartado que las neurociencias sean capaces de concluir que estamos determinados por nuestro cerebro, y resituada su posición como tales ciencias, creo que deben desarrollar una tarea más modesta, pero, sin duda, muy útil en el Derecho (procesal) penal.
Así, en un reciente artículo titulado “Responsabilidad penal y neurociencia: aún no ha habido revolución”[63], Bigenwald y Chambon concluyen lo siguiente: “lejos de constituir una revolución, la neurociencia demuestra ser más beneficiosa cuando entra en un matizado diálogo con el Derecho para ayudar a los tribunales en su función de búsqueda de la verdad (...) A pesar de que Neurolaw evoca a menudo una neurocientificación del Derecho, podría con mayor propiedad referirse a una juridificación de la neurociencia, es decir, un pensamiento jurídico que integraría y aplicaría descubrimientos científicos en la justicia penal”[64].
Comparto dicha opinión y me gustaría sacar una conclusión muy similar: las neurociencias no pueden arrogarse la capacidad de cancelar el Derecho penal con sus sedicentes descubrimientos deterministas. Tampoco deben jugar a ser penalistas o diseñadores de la política criminal (del mismo modo que ningún jurista indica a los científicos cómo alcanzar sus objetivos de investigación). Pero sí pueden y deben ser de ayuda para, en el proceso, y con los objetivos propios del Derecho penal, ayudar a comprender mejor la conducta del sujeto juzgado y su inclusión o no dentro de los parámetros conceptuales que los juristas manejamos (culpabilidad, dolo, imputabilidad, etc.). Y esta función no es menor en absoluto, porque supone, ni más ni menos, que colaborar en una de las más importantes tareas de nuestra vida social: acreditar unos hechos y determinar la responsabilidad que una persona tiene por sus propios actos frente al conjunto de la sociedad.
A aquellos (neuro)científicos a los que esto les parezca poco, me gustaría recordarles la opinión de un científico de espesor como fue Erwin Schrödinger:
“Entonces, ¿cuál es, para usted, el valor de la ciencia natural? A lo que respondo: su objetivo, alcance y valor son los mismos que los de cualquier otra rama del ser humano. Pero ninguna de ellas por sí sola tiene ningún alcance o valor si no van unidas. Y este valor tiene una definición muy simple: obedecer el mandato de la deidad délfica conócete a ti mismo”[65].
* Este trabajo se enmarca en el proyecto de investigación “Derecho penal y comportamiento humano” (RTI2018-097838-B-I00) concedido por el Ministerio de Ciencia, Innovación y Universidades de España (IP: Prof. Dr. Eduardo Demetrio Crespo). https://blog.uclm.es/proyectodpch/
[1] BENNETT, M., “Neurociencia y filosofía”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, p. 74.
[2] El lector italiano conocerá, sin duda, mucho mejor que yo dichos trabajos, por lo que me remito, sin más, a GRANDI, C., Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappichelli, Torino, 2016; más recientemente, con la misma solvencia: GRANDI, C., “Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, Diritto penale e uomo, 4/2019; GRANDI, C., “Neuroscienze e capacità di intendere e volere: un percorso giurisprudenziale”, Diritto penale e proceso, 2020-1, pp. 24 y ss. En dichas obras, el lector encontrará, no sólo un extenso elenco bibliográfico, sino también una exposición detallada y rica de los problemas que la neurociencia plantea en Derecho penal.
[3] Para la doctrina española, me remito, sin más, al volumen DEMETRIO CRESPO, E. (dir.), Neurociencias y Derecho penal: Nuevas perspectivas en el ámbito de la culpabilidad y del tratamiento jurídico-penal de la peligrosidad, Edisofer / BdeF, Madrid / Buenos Aires, 2013, donde se recogen trabajos de neurocientíficos y penalistas alemanes y españoles.
[4] VIVES ANTÓN, T. S., Fundamentos del sistema penal, Tirant lo Blanch, Valencia, 1999.
[5] NOZICK, R., Philosophical explanations, Harvard University Press, Cambridge, 1981, p. 291.
[6] BLANSHARD, B., “En defensa del determinismo”, en HOOK, S. (ed.), Determinismo y libertad, Fontanella, Barcelona, 1969, p. 25.
[7] En este sentido, GAZZANIGA (en GAZZANIGA, M. S., “La neurociencia en el sistema judicial”, Investigación y ciencia, 60, julio 2011, pp. 24 y ss.) señala que la inexistencia de la libertad (que él cree consecuencia teórica necesaria de los últimos descubrimientos neurocientíficos) nos ha de llevar a un replanteamiento de todo el Derecho penal y de nuestros criterios para adscribir responsabilidades e imponer penas (GAZZANIGA, “La neurociencia en el sistema judicial”, cit., p. 28).
[8] TUGENDHAT, E., Antropología en vez de metafísica, Gedisa, Barcelona, 2008, pp. 39 y 40.
[9] En lo que respecta a la doctrina alemana, vid., por ejemplo, GÜNTHER, K., “Hirnsforschung und strafrechtlicher Schuldbegriff”, KJ, 39, 2006, pp. 116 y ss.; HASSEMER, W., “Haltet den geborenen Dieb!”, Frankfurter Allgemeiner Zeitung (15.06.2010) –invitando a rechazar los “cantos de sirena” de las neurociencias-; KRAUß, D., “Neue Hirnforschung – Neues Strafrecht?”, en MÜLLER-DIETZ, H. (ed.), Festschrift für Heike Jung, Nomos, Baden-Baden, 2007, pp. 411 y ss.; LÜDERSSEN, K., “Ändert die Hirnforschung das Strafrecht?”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 98 y ss.; MERKEL, G., “Hirnforschung, Sprache und Recht”, en PUTZKE, H. (ed.), Strafrecht zwischen System und Telos. Festchrift für Rolf Dietrich Herzberg, Mohr Siebeck, Tübingen, 2008, pp. 3 y ss.; MERKEL, R., Willensfreiheit und rechtliche Schuld, Nomos, Baden-Baden, 2008; PAUEN, M. Illusion Freiheit? Mögliche und unmögliche Konsequenzen der Hirnforschung, 2ª ed., S. Fischer, Frankfurt am Main, 2004; STRENG, F. “Schuldbegriff und Hirnforschung”, en PAWLIK, M / Zaczyk, R. (eds.), Festschrift für Günther Jakobs, Heymann, Köln/Berlin/München, 2007, pp. 675 y ss., etc.
[10] Vid. por ejemplo, SINGER, W., Ein neues Menschenbild? Gespräche über Hirnforschung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003 y SINGER, W., “Verschaltungen legen uns fest: wir sollten aufhören von Freiheit zu sprechen”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 30 y ss.
[11] PRINZ, W., “Der Mensch ist nicht frei. Ein Gespräch”, en GEYER, C. (ed.), Hirnforschung und Willensfreiheit - Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 20 y ss.
[12] Ya en ROTH, G., Das Gehirn und seine Wirklichkeit, 6ª ed., Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2001.
[13] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 31.
[14] SINGER, “Verschaltungen legen uns fest”, cit., p. 37.
[15] Prinz, W., “Kritik des freien Willens: Bemerkungen über eine soziale Institution”, Psychologische Rundschau, (55/4), 2004, p. 198.
[16] ROTH, G., Fühlen, Denken, Handeln. Wie das Gehirn unser Verhalten steuert, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003, p. 553.
[17] DEMETRIO CRESPO, E., “Libertad de voluntad, investigación sobre el cerebro y responsabilidad penal”: aproximación a los fundamentos del moderno debate sobre Neurociencias y Derecho penal”, InDret, abril de 2011, (http://www.indret.com/pdf/807.pdf).p. 6.
[18] LIBET, B., “Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action”, Behaviour and brain sciences, 8, 1985, pp. 529 y ss.
[19] Para una explicación sintética y en italiano del experimento, GRANDI (“Diritto penale e neuroscienze: punti fermi (se mai ve ne siano) e questioni aperte”, cit., p. 4) se remite a M. De Caro, A. Lavazza, G. Sartori, La frontiera mobile della libertà, in id. (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice edizioni, 2010, pp. XI ss.
[20] SINGER, W., “Ein Frontalangriff auf unser Selbstverständnis und unsere Menschenwürde”, Gehirn und Geist, 4, 2002, pp. 32 y ss..
[21] SINGER, Ein neues Menschenbild?, cit., p. 34.
[22] Vid. Merkel, G. / Roth, G., “Freiheitsgefühl, Schuld und Strafe”, en Grün, K. J. / Friedman, F. / Roth, G. (eds.), Entmoralisierung des Rechts. Maβstäbe der Hirnforschung für das Strafrecht, Vandenhoeck & Ruprech, Göttingen, 2008, pp. 77 y ss. y Merkel, G. / Roth, G., “Bestrafung oder Therapie? Möglichkeiten und Grenzen staatlicher Sanktion unter Berücksichtigung der Hirnforschung”, en AA. VV., Hirnforschung-Chancen und Risiken für das Recht: Recht, Ethik, Naturwissenschaften, Rechtswissenschaftliche Fakultät der Universität Zürich, Zürich, 2008, pp. 36 y ss.
[23] ROTH, Fühlen, Denken, Handeln, cit., p. 554.
[24] FEIJOO SÁNCHEZ, “Culpabilidad jurídico-penal y neurociencias”, cit.
[25] DEMETRIO CRESPO, “Libertad de voluntad”, cit., p. 16.
[26] HIRSCH, “Acerca de la actual discusión alemana”, cit.
[27] LIBET, B., “Do we have free will?”, Journal of consciousness studies, 6, 1999, pp. 55 y 56.
[28] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, en BENNETT, M. / DENNETT, D. / HACKER, P. / SEARLE, J., La naturaleza de la conciencia: cerebro mente y lenguaje, Paidós, Barcelona, 2008, pp. 16 y 17.
[29] VIVES ANTÓN, Fundamentos del sistema penal, cit., p. 325.
[30] Utilizo aquí el término “gramática” en el sentido de “gramática profunda” del lenguaje que parte de la obra de WITTGENSTEIN. En este sentido, hay que recordar que el filósofo austríaco distingue entre una “gramática superficial” (Oberflächengrammatik) y una “gramática profunda” (Tiefengrammatik) del lenguaje.
[31] CRICK, F., The atonishing hipothesis, Touchstone Books, Londres, 1995, p. 30.
[32] BLAKEMORE, C., Mechanics of the mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, p. 91.
[33] YOUNG, J. Z., Programs of the brain, Oxford University Press, Oxford, 1978, p. 119.
[34] ARISTÓTELES, Acerca del alma, Gredos, Madrid, 1978, p. 178.
[35] BENNETT, M. / HACKER, P. M. S., “La polémica”, cit., p. 38.
[36] Wittgenstein, L., Investigaciones Filosóficas, Crítica, Barcelona, 1988, parágrafo 283.
[37] Hacker, P. M. S., Wittgenstein: meaning and mind. (vol. III of an analytical commentary on the Philosophical Investigations), Basil Blackwell, Oxford / Cambridge, 1990, p. 147.
[38] Hacker, Wittgenstein: meaning and mind, cit., p. 162.
[39] MARTÍNEZ FREIRE, P. F., La nueva filosofía de la mente, Gedisa, Barcelona, 1995, p. 84.
[40] KENNY, A., La metafísica de la mente: filosofía, psicología, lingüística, Paidós, Barcelona, 2000, p. 204 y ss.
[41] FEYERABEND, P. K., Diálogo sobre el método, Cátedra, Madrid, 2000, p. 25.
[42] EINSTEIN, A., “Remarks concerning the essays brought together in this cooperative volume”, en SCHILPP, P. A., (coord.), Albert Einstein, philosopher-scientist, Library of living philosophers, Evanston, 1949, p. 684.
[43] WOOLGAR, S., Ciencia: abriendo la caja negra, Barcelona, Anthropos, 1991, p. 31.
[44] RESCHNER, N., Razón y valores en la era científico-tecnológica, Paidós, Barcelona, 1999, p. 59.
[45] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, Fondo de Cultura Económica, Madrid, 2005, p. 33.
[46] DIÉGUEZ LUCENA, A., Filosofía de la ciencia, Biblioteca nueva, Madrid, 1998, p. 174.
[47] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 271.
[48] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., p. 93.
[49] GARCÍA JIMÉNEZ, L., “Aproximación epistemológica al concepto de ciencia: una propuesta básica a partir de Kuhn, Popper, Lakatos y Feyerabend”, Andamios. Revista de investigación social. vol. 4, núm. 8, 2008, p. 192.
[50] Kuhn, T. S., La estructura de las revoluciones científicas, cit., pp. 149 y ss..
[51] DIÉGUEZ LUCENA, Filosofía de la ciencia, cit., p. 201.
[52] CHALMERS, A., ¿Qué es esa cosa llamada ciencia?, Siglo XXI, Madrid, 2003, p. 110.
[53] WITTGENSTEIN, L., Aforismos: cultura y valor, Austral, Madrid, 1995, p. 85.
[54] PUTNAM, H., Realism with a human face, Harvard University Press, Cambridge, 1990, p. 162.
[55] Jauregui Balenciaga, I. / Méndez Gallo, P., Modernidad y delirio, Escalera, Madrid, 2009, p. 67.
[56] TOULMIN, S., La comprensión humana, Alianza editorial, Madrid, 1977, p. 11.
[57] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 176.
[58] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 182.
[59] FEYERABEND, P. K., La ciencia en una sociedad libre, Siglo XXI, México D. F., 1998, p. 23.
[60] TOULMIN, La comprensión humana, cit., p. 375.
[61] Jauregui Balenciaga / Méndez Gallo, Modernidad y delirio, cit., p. 91.
[62] SÁNCHEZ ANDRÉS, J. V., “El espacio de la libertad en el determinismo”, Revista de occidente, 356, 2011, p. 72.
[63] BIGENWALD, A. / CHAMBON, V., “Criminal responsibility and neuroscience: no revolution yet”, Frontiers in psychology, 10, 2019.
[64] BIGENWALD / CHAMBON, “Criminal responsibility”, cit., p. 16.
[65] SCHRÖDINGER, E., Ciencia y humanismo, 2ª edición, Tusquets, Barcelona, 1998, p. 14.
La Riforma che verrà. Quale giustizia tributaria?*
di Giovanni Diotallevi
La giustizia tributaria è stata oggetto, nell’ultimo anno e mezzo, di numerose proposte di riforma che evidenziano una serie di caratteristiche comuni sintetizzabili nell’affidamento della sua gestione non più al MEF ma alla Presidenza del Consiglio dei ministri, nella previsione di istituire sostanzialmente una quinta magistratura, dopo quella ordinaria, amministrativa, contabile e militare, attraverso un ruolo autonomo distinto della magistratura tributaria, con progressivo ridimensionamento dei giudici onorari, fino alla composizione del suo organico con magistrati a tempo pieno, assunti per concorso pubblico, per titoli ed esami, anche su base regionale. Le competenze tra i tre gradi di giudizio sarebbero suddivise tra l’istituendo Tribunale tributario, la Corte di appello tributaria, e la sezione tributaria della Corte di cassazione, che dovrebbe trovare una sua collocazione autonoma per legge. Vi è anche la previsione di un giudice monocratico in primo grado, prevalentemente onorario, per controversie non superiori ad un determinato importo; troverebbe poi una sua specifica valorizzazione l’istituto della mediazione[1].
Queste proposte, indicate sommariamente, meritano una attenta riflessione perché, accanto ad alcune soluzioni condivisibili, nella loro struttura portante individuano opzioni che fanno sorgere una serie di perplessità in ordine alla loro effettiva praticabilità.
Credo che una delle peculiarità positive del modello di processo tributario su cui si possa ragionare in maniera condivisa possa essere quello di un modello intrinsecamente flessibile, che non perda di vista la necessità di una sua coerenza rispetto al modello tendenzialmente unitario del “giusto processo”, che, anche in questo caso, trova la sua sintesi nel giudizio di cassazione.
Mi sembra necessario dunque perseguire l’obiettivo di ragionare su una ipotesi di intervento strutturale praticabile, che non si pieghi alla logica della provvisorietà, idoneo a sostituire, almeno in parte, ma in modo significativo, l’attuale struttura ordinamentale della giustizia tributaria con evidenti ricadute anche sulla struttura della fase processuale.
Capace di caratterizzarsi come un modello “costituzionale”, né debole né forte, ma “riconoscibile”, anche in relazione al suo carattere documentale e alla esigenza di rapidità ad esso collegata[2].
E questo sotto tre diversi profili. Per il carattere di terzietà ed imparzialità dei giudici che ne fanno parte. Per le modalità di accesso dei suoi componenti. Per la qualità della giurisdizione che deve esprimere.
Tutti aspetti che richiedono quindi anche una riforma ordinamentale “possibile” della giustizia tributaria.
A tal fine è opportuno ricordare che, con Ordinanza n. 227/2016, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’attuale impianto.
Le questioni di legittimità costituzionale sui D.lgs. n. 545/92 e n. 546/92, sollevate dalla CTP di Reggio Emilia con riferimento alla possibilità che l’ordinamento e l’organizzazione della giustizia tributaria non fossero compatibili con la garanzia di indipendenza del giudice, sono state ritenute inammissibili dalla Corte costituzionale, perché erano stati richiesti plurimi interventi creativi, caratterizzati da un grado di manipolatività tanto elevato da investire non singole disposizioni o il congiunto operare di alcune di esse, ma un intero sistema di norme, e, in generale, il sistema organizzativo delle risorse umane e materiali della giustizia tributaria», «interventi in linea di principio estranei alla giustizia costituzionale, poiché eccedono i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore»[3].
Ma questa ordinanza, al di là della dichiarazione di inammissibilità, ha comunque inteso proporre al legislatore un intervento sul sistema della giustizia tributaria.
E’ vero che la Corte costituzionale ha in più occasioni affermato l’assenza di un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i vari modelli processuali e che tale diversificazione non contrasta con il criterio di ragionevolezza che deve ispirare le scelte legislative, in particolare per la spiccata specialità del processo tributario.
E’ un approccio di carattere funzionale, oggi temperato nella logica del “giusto processo”, legato all’interesse fiscale e sistematico che ricerca piuttosto una sorta di contaminazione tra principi “forti” e principi “deboli” sotto il profilo costituzionale, proprio perché la rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria, giustifica, certo, i penetranti poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, ma non implica assolutamente, né consente che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale[4].
Se questo è, in sintesi, lo scenario di partenza credo che debba escludersi la possibilità che, per i gradi di merito, la giustizia tributaria possa essere incorporata all’interno della giurisdizione ordinaria, sic et simpliciter, perché, allo stato, le carenze strutturali, umane e materiali, non consentirebbero di adeguare la sua azione al principio di buon andamento evocato dall’art. 97 della Costituzione.
Al contrario mi sembra praticabile, e sotto alcuni profili sagace, una proposta che intenda intervenire sulla struttura ordinamentale dei gradi di merito, in particolare sull’appello; con la piena consapevolezza dei limiti che pone l’art. 102 della Cost., proprio perché non è tale da impattare con i serissimi dubbi di costituzionalità che si dovrebbero affrontare invece perseguendo l’idea di realizzare una nuova giurisdizione speciale.
La configurazione di una sezione specializzata della Corte d’appello composta da magistrati ordinari con l’ausilio di giudici onorari con competenze specifiche, prefigura, in quest’ottica, un approccio culturale e professionale alla materia, ragionevolmente idoneo a fornire una risposta complessiva di qualità, potenzialmente capace di incidere sulla necessità di proporre ricorsi per cassazione in ragione di una giurisprudenza dei giudici di merito non pienamente soddisfacente; anche se mi sembra corretto sottolineare il miglioramento della qualità complessiva del prodotto giurisdizionale intervenuto negli ultimi dieci anni; che comunque è suscettibile di ulteriori miglioramenti.
Si tratta allora di costruire un modello, per le Corti di appello, che potrebbe fare riferimento ai collegi del giudizio minorile di merito, con esperti ( magistrati onorari appunto) scelti tramite un concorso per titolo ed esame, una sola prova in materia tributaria, necessariamente a tempo, per rispettare il carattere dell’onorarietà.
In parte si tratta di riproporre anche l’operazione fatta con l'art. 2 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 con cui sono state istituite delle vere e proprie sezioni specializzate in materia di impresa; anche nel nostro caso verrebbe affidata la trattazione di controversie in cui è necessario assicurare la presenza di una peculiare specializzazione del Giudice in ragione dello specifico tasso tecnico richiesto dallo studio della materia.
Si può prevedere un’ulteriore subordinata. Forse potrebbe essere replicabile anche in questo caso, come avviene nelle sezioni specializzate in materia di impresa, in determinate situazioni di carichi non particolarmente gravosi, per i magistrati ordinari, la possibilità di prevedere un impegno part time nella sezione specializzata con la conseguente trattazione di processi differenti, a condizione che tale attribuzione non comporti ritardo nella decisione dei giudizi in materia tributaria. Ovviamente la previsione dovrebbe trovare una compiuta tabellarizzazione nella individuazione dei criteri cui dovrebbero fare riferimento i Presidenti di Corte d’appello.
Un’ultima considerazione riguarda i costi della specializzazione che non si possono evitare: nella formazione, nelle strutture, nell’aggiornamento dei giudici; soprattutto nel consentire loro di dedicarsi, in modo se non esclusivo, assolutamente prevalente, a una sempre più impegnativa ‘specializzazione’, che richiede - a fianco delle tradizionali conoscenze giuridiche - conoscenze in materia di economia, di commercio e prassi internazionali, di linguaggi e ordinamenti diversi dai nostri. Favorisce questa scelta inoltre, la circostanza che anche nelle CTR è ormai stato introdotto il Processo tributario telematico.
Quello che ho descritto è tuttavia uno scenario che in prospettiva non mi sembra che possa interessare esclusivamente le Corti di appello, perché è comunque necessario affrontare il problema, pur mantenendo ferma la situazione esistente per le Commissioni di primo grado, della creazione di canali di collegamento istituzionali tra i gradi di merito e tra questi e la Corte di cassazione.
La creazione delle sezioni specializzate presso le Corti di appello si collega, infatti, alla necessità di apportare comunque miglioramenti nel funzionamento degli organi giurisdizionali di primo grado. Anche se allo stato dovrebbe trovare conferma nella sostanza la sua attuale configurazione. E’ una scelta che appare giustificata dalla natura accidentata del terreno su cui poggia l’intervento riformatore, per cui sembra utile muoversi in una prospettiva prudente; una scelta quasi obbligata, da gestire con la consapevolezza di evitare che le CTP divengano un corpo separato rispetto al grado di appello e di legittimità, soprattutto se dovesse mancare un collegamento organico con i gradi superiori.
Collegamento che però può essere individuato da un lato nel possibile reclutamento dei giudici onorari d’appello anche tra i componenti laici delle CTP, dopo un congruo periodo di servizio, da affiancare ai magistrati onorari assunti direttamente tramite un concorso per titoli ed esame, in materia tributaria, e dei magistrati ordinari con funzioni part time, membri delle CTP, che intendano trasferirsi a domanda nella sezione della Corte d’appello specializzata, questa volta a tempo pieno, salvo eventualmente le diverse previsioni tabellari.
Un altro canale di collegamento, insieme alla necessità di rimodulare tempi e spazio di controllo sulla professionalità tramite il CPGT, potrebbe riguardare la valorizzazione del procedimento conciliativo preprocessuale e la sua caratteristica “compositiva”, magari introducendolo espressamente anche nella fase processuale d’appello, per le controversie nelle quali l’accordo di mediazione non sia stato raggiunto in precedenza.
C’è un infine un risultato di fondo che sembra importante sottolineare: questa scelta di muoversi per raggiungere una omogeneità di base sulla qualità del sistema processuale, intervenendo sulle caratteristiche ordinamentali della giustizia tributaria, pur mantenendo alcune specificità che derivano proprio dalla specialità della materia, come per esempio il rafforzamento dei poteri del CPGT, guardano con maggiore nitore al giusto processo come approdo condiviso, ai cui principi può fare riferimento, a mio parere, anche il processo tributario, fermo restando un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti secondo il quadro delineato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 109 del 2007.
E questa mi sembra non l’ultima delle ragioni per percorrere questa prospettiva di riforma.
*Il contributo fa riferimento all’intervento tenuto nel corso del Webinar “La Riforma che verrà. Quale giustizia tributaria?” organizzato da AREA DG il 27 novembre 2020
[1] Si vedano, ad esempio, le proposte presentate alla Camera dei deputati n. 1521 del 21.01.2019, prima firmataria l’On.le Martinciglio + 8 (M5S) e la proposta n. 1526 del 23.01.2019, primo firmatario l’On.le Centemero + 83 (Lega) e, nella precedente legislatura la proposta di legge C. 3734 presentata l'8 aprile 2016 dall’ on Ermini e dall’on. Ferranti (PD) e nell’attuale legislatura al Senato la proposta n. 243 del 10.04.2018, primo firmatario il Sen. Luigi Vitali (Forza Italia); la proposta n. 714 del 25.07.2018, primo firmatario il Sen. Caliendo (Forza Italia); la proposta n. 759 del 07.08.2018, primo firmatario il Sen. Nannicini (PD); la proposta n. 1243 del 18.04.2019, primo firmatario il Sen. Romeo + 49 (Lega).
[2] v. sent. Corte cost. n. 141/98.
[3] V. Corte cost., Ordinanza n. 227 del 2016.
[4] v. Corte cost., sent. n. 109 del 2007.
Cosa succede all'ANM e perchè ci deve interessare tutti.
di Morena Plazzi, segretaria del Movimento per la Giustizia Articolo 3
Sono trascorse alcune settimane dalle elezioni del Comitato Direttivo Centrale (di seguito CDC) dell’Associazione Nazionale Magistrati, quello che le cronache giornalistiche definiscono “parlamentino” dell’ANM.
Il 18, 19 e 20 ottobre parteciparono al voto telematico 6.101 magistrati pari al 85,92% dell'elettorato attivo, e questo sembrò un buon risultato, un nuovo investimento di fiducia da parte di tantissimi magistrati in un gruppo di colleghi scelti per rappresentarli e per dare concretezza agli scopi dell’associazione contenuti all’art. 2 del suo Statuto.
Dei 36 eletti, 11 sono i magistrati della lista di Area Democratico per la Giustizia, 10 di Magistratura Indipendente, 7 di Unicost, 4 di Autonomia Indipendenza e 4 della Lista 101, la novità di questo turno elettorale.
Il nuovo CDC veniva convocato il 7 novembre con un ordine del giorno molto semplice: la verifica della regolarità dei titoli dei suoi componenti e poi l’elezione delle cariche previste dall’art. 31 co. 2 dello Statuto: il Presidente dell’Associazione, il Vice Presidente, il Segretario Generale, il Vice Segretario Generale, il Direttore del giornale e gli altri componenti della Giunta Esecutiva, nonché la nomina i componenti dell’Ufficio Sindacale, e tra di loro il Coordinatore dell’Ufficio Sindacale, e il Tesoriere.
All’ordine del giorno anche il tema, di pressante attualità, dell’emergenza derivante dalla pandemia e dunque la valutazione degli interventi normativi relativi a misure organizzative e processuali e le iniziative a tutela delle assenze per malattia.
Dal 7 novembre cosa è accaduto?
Si cerca qui di spiegarlo, anche se già a chi scrive sembra faticoso da comprendere e questo anche dop aver seguito in ogni sua fase questa seduta del CDC che, di rinvio in rinvio, si prolunga oramai da un mese, e che finora ha portato solo alla richiesta di un incontro con il Ministro della Giustizia sull’emergenza Covid.
Se si trattasse di un film di Sergio Leone o di Quentin Tarantino diremmo che siamo nel tipico stallo alla messicana: il gruppo che ha riportato il maggior numero di voti e tra questi il maggior numero di preferenze per un candidato, Luca Poniz, Presidente della Giunta uscente, pur essendo indicato dagli altri come il soggetto attore di ogni attesa iniziativa avendo dalla sua un numero più alto di componenti, si trova in realtà ad essere l’oggetto di una serie di chiusure pregiudiziali che impediscono la nascita dell’organo esecutivo dell’Associazione, la Giunta Esecutiva Centrale, e ancor prima l’elezione del Presidente.
E’ una pregiudiziale espressa e dichiarata quella che arriva da Magistratura Indipendente che per discutere qualsiasi ipotesi di Giunta unitaria (cioè con rappresentanti di tutti i gruppi presenti in CDC, come proposto da Area) ha comunicato il proprio veto al nome del magistrato che nelle elezioni aveva riportato il maggior numero di preferenze, un veto motivato in nome di una esigenza di “discontinuità” di questa ANM rispetto all’operato della precedente ed ultima Giunta.
Ma c’è anche una sostanziale condizione di attesa, di osservazione a distanza, diversamente graduata da parte di tutti gli altri rappresentanti eletti: nessuno tra questi si dichiara in grado di formulare proposte di impegno concreto per la formazione di una Giunta, tranne nel caso di un preventivo concorde impegno di Area ed MI.
E così, a conti fatti, c’è un 11 e poi.. il resto del mondo.
Nella ricerca di un punto di contatto tra varie posizioni nel corso dell’ultima riunione, quella del 21/22 novembre, veniva costituito, tra i componenti del CDC, un gruppo di lavoro ristretto per la stesura di un programma comune; vi partecipavano tutti i gruppi, tranne lista 101, e nella serata di sabato 21 sembrava si fosse trovato, con reciproche rinunce e con un dichiarato intento di mediazione, un programma che avrebbe dovuto assicurare, per l’indomani, la più ampia convergenza.
Ma già la mattina dopo Magistratura indipendente e Autonomia & Indipendenza, che pure avevano condiviso e sottoscritto il documento, si astenevano dal votarlo. Ai rispettivi report diffusi via mail le motivazioni di questa decisione.
Non si può che constatare come in questo momento, tra l’esperienza drammatica della pandemia (prima e seconda ondata), le riforme in gestazione in Parlamento, le ricadute ancora tutte da valutare ed affrontare dei fatti emersi dall’esame del telefono di Luca Palamara (prima e seconda ondata) sembra piuttosto bizzarro osservare un arrocco che ha il suo perno su una parola, “discontinuità”, quasi a significare una sorta di rigetto del lavoro svolto dall’ANM da maggio 2019 ad oggi.
Ma che cosa ha fatto la Giunta presieduta da Luca Poniz fino alla fine di ottobre scorso, in che cosa si dovrebbe oggi tracciare un segnale di discontinuità?
Provando a scorrere la pagina web della ANM si legge che la GEC uscente, presieduta da Luca Poniz e formata da Area, Unicost e A&I nel giugno 2019, all’indomani della deflagrazione della vicenda “Palamara-Ferri- CSM” e delle dimissioni del Presidente ANM Pasquale Grasso (MI) nelle sue linee programmatiche (16 giugno 2019) inseriva il proprio impegno per l’introduzione di riforme statutarie in tema di incompatibilità di incarichi, per la revisione del sistema elettorale del CSM, per una diffusa sensibilizzazione culturale per combattere il carrierismo che, dopo la riforma dell'ordinamento giudiziario, sembra interessare settori sempre più ampi della magistratura.
Non erano solo parole: già il 2 luglio 2019 quella GEC proponeva il deferimento ai Probiviri dell’allora Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione; subito dopo si attivava per la promozione di candidature dalle assemblee distrettuali della ANM in occasione delle elezioni suppletive per il CSM, quindi organizzava il congresso nazionale, tenutosi a Genova giusto un anno fa nel corso del quale su più fronti venivano poste al centro della discussione l’analisi dei fatti accaduti e le proposte per un rinnovamento dell’associazione.
La relazione introduttiva del Presidente riportava con chiarezza la centralità della questione morale e l’impegno dichiarato dell’Associazione ad affrontare questa crisi con le scelte più coerenti, anche quando difficili se non laceranti.
Fra queste vi è stata sicuramente quella del deferimento ai Probiviri dei magistrati coinvolti nella vicenda c.d. dell’Hotel Champagne, ed altri a questi fatti collegati, procedura disciplinare conclusa con la fuoriuscita (per dimissioni o condanna) di tutti i deferiti, ad eccezione di una sola posizione con sospensione di cinque anni; e poi la richiesta di conoscenza ed accesso a tutti gli atti del procedimento penale istruito dalla Procura della Repubblica di Perugia, richiesta quest’ultima che solo nello scorso mese di settembre veniva accolta.
Si rimprovera a chi ha guidato la Giunta uscente di aver indirizzato il proprio impegno solo in una direzione, ignorando le responsabilità “collettive” di tutte le correnti.
Eppure è proprio il gruppo che ha ricevuto il maggior numero di voti, AreaDG, a indicare come tema centrale, la precondizione per ogni aggregazione, la questione morale, in continuità con l’impegno profuso dalla Giunta uscente e quindi le riforme e gli interventi, anche sullo Statuto, per prevenire il ripetersi dei gravi fatti nei quali hanno giocato un ruolo pesante il carrierismo associativo, rapporti opachi con la politica e la spinta clientelare che i gruppi associativi hanno troppo spesso esercitato sull’autogoverno. Ed è la GEC uscente che ha concluso il proprio mandato ottenendo l’accesso agli atti di Perugia per poterne valutare i contenuti in relazione al codice deontologico al cui rispetto gli associati, tutti, devono attenersi.
Discontinuità con che cosa, dunque?
Il titolo di questo pezzo è “Cosa succede all'ANM…” ma facilmente ci si rende conto che qualsiasi relazione sullo stato delle cose risulta insoddisfacente, poco chiara e soprattutto riporta una realtà decisamente disallineata rispetto alle domande e alle esigenze di tutta la Magistratura italiana.
Il titolo prosegue “...perchè ci deve interessare tutti" perché si è convinti che sia interesse di tutti far sì che questa situazione trovi una soluzione (ma non un ripiego) in un momento nel quale è assolutamente necessario dotare la Magistratura di una rappresentanza forte ed autorevole, in grado di confrontarsi efficacemente, all’esterno, con il Ministero della Giustizia, con il Parlamento, con il Consiglio Superiore della Magistratura ed al proprio interno con l’impegno richiesto dall’Assemblea Generale degli associati lo scorso 20 settembre per l’avvio di una costituente per il rilancio dell’azione dell’ANM su rinnovate basi etiche e statutarie con il contributo paritario delle diverse sensibilità culturali presenti in magistratura.
E’ questo il momento in cui si devono superare le barriere che si levano a difesa di spazi di azione limitati e settoriali, se non personalistici, per iniziare davvero a lavorare.
Si deve far comprendere quello che accade, ed il perché.
Ma soprattutto dobbiamo impegnarci, e questo vale per tutti, indifferentemente, per far sì che quanto avviene dentro la nostra Associazione ancora ci interessi, perché se per oggi e per qualche tempo ancora vi sarà in molti tra noi l’idea che “... queste cose non si capiscono” tra poco arriverà il momento in cui molti diranno “…che queste cose non ci interessano”.
Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020.
di Maria Alessandra SANDULLI
Sommario: 1. Premessa. 2. Le origini del problema e l’utilità di “fare ordine” sulla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di “eccesso/rifiuto” di giurisdizione rispetto al quadro legislativo prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale. 3. Il percorso delle Sezioni Unite dalle ordinanze gemelle del 2006 alla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017: vera “interpretazione evolutiva” o “self-restraint”? 4. La conferma dell’atteggiamento (eccessivamente) prudenziale delle Sezioni Unite: la negazione, in concreto, di ipotesi di “creazione normativa” non riconducibili al potere generale di interpretazione e la (conseguente) ricerca di giustificare il sindacato sul “rifiuto di giurisdizione” con l’abnormità dell’“errore interpretativo” implicante diniego di tutela in contrasto con il diritto UE. 5. Segue: il percorso delle Sezioni Unite è stato “riduttivo” e non “evolutivo”. 6. La conferma dell’autolimitazione del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale anche nella giurisprudenza più immediatamente prossima alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale e la conseguente possibilità di “ridimensionare” la portata di tale sentenza. 7. Il self-restraint delle Sezioni Unite (anche) nella sentenza 18592 del 9 settembre 2020. 8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. 8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. 9. Verso l’individuazione di alcuni punti fermi. 10. Prime considerazioni sui quesiti proposti alla CGUE.
1. Premessa. L’ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, reagendo alla “rigida” lettura dell’art. 111, comma 8, Cost. propugnata dalla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, ha riaperto lo scontro tra i vertici della magistratura ordinaria e amministrativa, estendendolo al Giudice delle leggi e chiamandone arbitro la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sotto il profilo della compatibilità dei limiti al sindacato della Corte di cassazione sulle pronunce dei giudici amministrativi di ultima istanza con il principio di effettività della tutela giurisdizionale garantito dall’art. 47 della Carta di Nizza.
La pronuncia ha immediatamente scatenato un acceso dibattito, di cui sono stati frutto interessanti contributi scritti[1] e vari webinar, nel primo dei quali[2] io stessa ho svolto alcune prime considerazioni sul tema.
Nel condividere la preoccupazione generale sui rischi del coinvolgimento del Giudice sovranazionale su una questione interpretativa di una nostra disposizione costituzionale, la lettura dell’ordinanza alla luce del contesto in cui essa si inserisce fa a mio avviso sorgere un dubbio di fondo: era davvero necessario adire la Corte di Giustizia o le Sezioni Unite potevano cassare direttamente la sentenza impugnata? Come noto, nel terzo quesito, che traccia poi la rilevanza della questione per il caso controverso, l’ordinanza chiede alla Corte di Lussemburgo di chiarire se sia compatibile con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla stessa Corte di Giustizia (nelle, ormai varie, sentenze sui rapporti tra i motivi di impugnazione delle gare pubbliche), una normativa processuale nazionale (come quella ritenuta applicabile dal Consiglio di Stato) che impedisce al concorrente escluso da una gara con provvedimento di cui il giudice abbia affermato (sia pure in via non ancora definitiva) la legittimità, di vedere, comunque, esaminati anche gli ulteriori motivi di ricorso miranti (attraverso censure sulla legittima composizione della Commissione e sui criteri di valutazione delle offerte) all’annullamento dell’intera gara. Il tema, dunque, era, sotto una diversa angolazione, quello (potremmo dire, ormai, “solito”) della tutelabilità, in astratto, dell’interesse “strumentale” alla ripetizione della gara, che il Consiglio di Stato aveva qualificato di “mero fatto” e che le Sezioni Unite “dubitano” possa rientrare tra quelli che, sia pure con riferimento ai ricorsi incidentali reciprocamente escludenti e ai ricorsi con i quali lo stesso escluso chiedeva anche (con motivi aggiunti) l’esclusione degli altri concorrenti, la Corte di Giustizia ritiene giuridicamente tutelabili secondo il diritto dell’Unione.
Si trattava, pertanto, di una ipotesi “classica” di “diniego di giustizia”, censura che, a partire dalle note pronunce gemelle del 13 giugno 2006 sulla cd pregiudiziale di annullamento della tutela risarcitoria, seguite, a fronte del perdurante orientamento del giudice amministrativa a favore di tale pregiudiziale, dalla – più netta e “severa” – sentenza n. 30254 del 2008, ha “turbato” il “dialogo” tra la Corte di cassazione e i giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), già messo a rischio dall’improvvida estensione della giurisdizione esclusiva su “gruppi di materie”, opportunamente frenata dalla “storica” sentenza n. 204 del 2004, ingenerando la preoccupazione dei secondi di subire la “cassazione” delle proprie sentenze (oltre che per l’invasione dell’ambito delle altre giurisdizioni e della sfera riservata al “merito amministrativo”) anche per il cd “arretramento” dalla propria potestas iudicandi.
Al di là di alcune affermazioni di principio (su cui tornerò nei prossimi paragrafi), l’atteggiamento delle Sezioni Unite sul punto era sempre stato, tuttavia, estremamente prudente.
Il ricordato intervento del 2018 della Corte costituzionale (sulla cui effettiva portata si dirà meglio infra) ha però scatenato una reazione al “rialzo”, spingendo la Corte di cassazione a investire la Corte di Giustizia della ridefinizione del proprio ruolo di giudice ultimo di garanzia del rispetto del diritto dell’Unione da parte degli organi detentori del potere giurisdizionale nel nostro ordinamento.
2. Le origini del problema e l’utilità di “fare ordine” sulla giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di “eccesso/rifiuto” di giurisdizione rispetto al quadro legislativo prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale. Per una più consapevole e proficua riflessione sull’ordinanza del 18 settembre, credo sia importante preliminarmente fare ordine sullo “stato dell’arte” della giurisprudenza prima e dopo la sentenza della Corte costituzionale e sulle questioni che la Corte di cassazione ha oggi portato all'esame della Corte di Giustizia, che, mi pare di poter affermare, sono, a ben vedere, diverse e, forse, a seconda dei punti di vista, meno o più eclatanti di quanto possa prima facie apparire.
Il problema dell’ambito del potere di “cassazione” delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti previsto dall’art. 111, comma 8, Cost. non è nuovo e, soprattutto, non è legato ai rapporti con il diritto UE. Mario Nigro, nella sua “Giustizia amministrativa”, negli anni ’70, rappresentava l’esigenza di “precisare l’ambito della verifica che la Cassazione è chiamata a compiere”, riportando le diverse formule usate dal Codice processuale civile e dalla Costituzione, per rilevare che “nessuna di tali disposizioni, come si vede, è idonea a fornire precisazioni circa il detto ambito”. Osservava quindi lo stesso illustre studioso che, per comprendere quale sia una questione di giurisdizione ci si deve rivolgere all’esame della giurisprudenza formatasi sulle norme vigenti: giurisprudenza che, nell’interpretazione dell'articolo 37 cpc, ha dato un significato ampio alla formula “difetto di giurisdizione”, ricomprendendovi, oltre alla figura di improponibilità assoluta della domanda per difetto di potere giurisdizionale, le seguenti figure: a), rifiuto di esercizio della potestà giurisdizionale sull’erroneo presupposto che la materia non possa essere oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale o che non possa essere oggetto della funzione giurisdizionale propria dell'organo investito della domanda; b), invasione dell'altrui giurisdizione, cioè di quella attribuita ad altro giudice (ordinario o speciale) e, c), cosiddetto eccesso di potere giurisdizionale, inteso dalla Suprema Corte come “sconfinamento dell'attività giurisdizionale ordinaria o speciale nel campo dei poteri spettanti ad organi amministrativi o legislativi o costituzionali”. Svolta questa premessa, il Maestro rilevava peraltro che le ipotesi di sconfinamento nel terreno di attività di organi legislativi e costituzionali si possono ritenere meramente teoriche e che lo sconfinamento nel campo legislativo si avrebbe quando il giudice non applica la norma esistente, ma una norma da lui creata e aggiungeva “ma è chiaro che di solito si tratta di mera e legittima attività interpretativa del giudice” (a sostegno dell’affermazione, citava le sentenze delle Sezioni Unite nn. 2543 del 1954 e 304 del 1967 e, in diverso senso, soltanto la sentenza n. 333 del 1946 che aveva annullato per eccesso di potere giurisdizionale una decisione della Commissione per i ricorsi in materia di proprietà intellettuale per avere applicato una norma che, a giudizio della stessa Suprema Corte, era incostituzionale per eccesso di delega[3]). Lo stesso Autore riconduceva poi alla tipologia “sconfinamento in campo riservato ad altro organo costituzionale” l’ipotesi in cui il giudice esamina tanto a fondo una questione di legittimità costituzionale da superare i limiti di valutazione della non manifesta infondatezza, dando però atto della circostanza che la Suprema Corte aveva escluso un tale caso di sconfinamento con la sentenza n. 82 del 1968. Da ultimo, sottolineava che la tendenza a estendere il difetto giurisdizione al di là dei limiti in cui lo colloca l'articolo 37 aveva portato la Cassazione a comprendervi i vizi inerenti alla stessa posizione dell'organo giurisdizionale (organo privo della indipendenza) o alla sua costituzione (collegio composto da un numero di membri diverso da quello fissato dalla legge), nonché “la mancata motivazione” e aggiungeva che, con riferimento all’impugnativa di decisioni dei giudici amministrativi, la Cassazione aveva invece “giustamente negato” che rientrassero fra i motivi attinenti alla giurisdizione le denunce di vizi di extra o ultra petizione, di violazione del giudicato e di “improponibilità del ricorso per carenza di legittimazione ed interesse ad agire (Cass. 3145/1983) o per tardività del ricorso”.
In altri termini, al di là della maggiore o minore rigidità nell’individuazione delle ipotesi effettivamente riconducibili alle tipologie del rifiuto di giurisdizione e all’eccesso di potere giurisdizionale e ferma – evidentemente – la grande difficoltà di distinguere lo straripamento o arretramento rispetto alla potestas iudicandi dal cattivo esercizio di tale potestas, non era in discussione che i “motivi di giurisdizione” che la Costituzione affida al sindacato della Corte di cassazione non si esauriscono nel “riparto” tra i diversi plessi giurisdizionali, ma coprono tutte le ipotesi di violazione, in eccesso o in difetto, dei cd “limiti esterni” alla giurisdizione[4]. La distinzione teorica tra violazione di legge (insindacabile) ed eccesso/rifiuto di giurisdizione (ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.) era stata cioè tradizionalmente fondata, ben prima che si parlasse di obbligo di disapplicazione delle disposizioni di legge in contrasto con il diritto comunitario (ricordo che quest’ultimo tema è emerso alla fine degli anni ’70[5], e che la Corte costituzionale ha accolto la tesi dell’obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con il diritto sovranazionale solo con la sentenza n. 170 del 1984) sulla differenza tra interpretazione (attività tipica del giudice) e (indebita) creazione giurisprudenziale di regole – sostanziali o processuali – nettamente contra legem (eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore) e, analogamente, tra negazione della tutela nel caso concreto per error in procedendo o in iudicando e negazione astratta e aprioristica della potestas iudicandi del proprio plesso giurisdizionale a fronte di situazioni soggettive giuridicamente protette dall’ordinamento.
3. Il percorso delle Sezioni Unite dalle ordinanze gemelle del 2006 alla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017: vera “interpretazione evolutiva” o “self-restraint”? Sui riferiti presupposti, la Cassazione ha cominciato, anche se molto lentamente, ad acquisire maggiore consapevolezza e sicurezza del proprio ruolo, non soltanto dimostrando una minore ritrosia (non parlerei infatti, comunque, visto l’atteggiamento sempre molto “accorto” e “prudente”[6], di maggiore larghezza) nel riconoscimento dello sconfinamento del giudice amministrativo nell'ambito della sfera riservata alla p.A.[7], ma anche – ed è questo evidentemente il tema oggetto di più acceso dibattito – spingendosi, in alcuni, ma pur sempre limitatissimi, casi, a rilevare (ancorché, come si dirà, tendenzialmente con altro nomen iuris) il cosiddetto “rifiuto di giurisdizione”.
In particolare, come ricordato in premessa, le pronunce gemelle del 13 6 2006 (ordd. 13559, 13660 e 13911), facendo peraltro sin da allora leva sul diritto comunitario, che aveva imposto di riconoscere tutela risarcitoria a ogni posizione soggettiva lesa dalla violazione delle direttive in tema di appalti pubblici[8], avevano stigmatizzato come “rifiuto di giurisdizione” l’orientamento dei giudici amministrativi che, prima del c.p.a., subordinava l’ammissibilità dell’azione risarcitoria alla c.d. pregiudiziale di annullamento[9]; e, due anni e mezzo dopo, a fronte della insistenza del giudice amministrativo (anche in sede di Adunanza plenaria) sulla pregiudiziale, la sentenza n. 30254 del 23 dicembre 2008, confermò, sia pure, come sottolineerò subito dopo, con diversa – e più complessa – motivazione, la riconducibilità di tale “diniego di tutela” a un problema di “giurisdizione”, sul quale si riconosceva, in virtù dell’art. 111, comma 8, Cost., il potere/dovere di intervenire. Invece di invocare, sic et simpliciter, il – più classico – e teoricamente acquisito, “rifiuto di giurisdizione” richiamato nel 2006, le Sezioni Unite giustificarono però il loro sindacato proponendo una puntuale esegesi del concetto di “giurisdizione” nella Costituzione. Osservava in particolare la sentenza che, alla luce della “convergenza” degli artt. 24, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 111, primo comma (“che, mediante i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata, esprime quello di effettività della tutela giurisdizionale”), il termine “giurisdizione”, per quanto interessava ai fini della questione sottoposta alla Suprema Corte, “è termine che va inteso nel senso di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi e dunque in un senso che comprende le diverse tutele che l'ordinamento assegna ai diversi giudici per assicurare l'effettività dell'ordinamento”. La conseguenza di tale ragionamento era che “Se attiene alla giurisdizione l'interpretazione della norma che l'attribuisce, vi attiene non solo in quanto riparte tra gli ordini di giudici tipi di situazioni soggettive e settori di materia, ma vi attiene pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela, che dai giudici si possono impartire per assicurare che la protezione promessa dall'ordinamento risulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio”. Il sindacato della Corte sul “rifiuto” dei giudici amministrativi di pronunciarsi sulle azioni risarcitorie non precedute dall’annullamento dell’atto illegittimo (o dalla declaratoria di illegittimità del silenzio) è ritenuto, in questo quadro, ammissibile in quanto dipendente “non da determinanti del caso concreto sul piano processuale o sostanziale, ma da un'interpretazione della norma attributiva del potere di condanna al risarcimento del danno, che approda ad una conformazione della giurisdizione da cui ne resta esclusa una possibile forma”, il che “si traduce in menomazione della tutela giurisdizionale spettante al cittadino di fronte all'esercizio illegittimo della funzione amministrativa ed in una perdita di quella effettività, che ne ha giustificato l'attribuzione al giudice amministrativo”. Al pt. 11.1, la sentenza rafforzava peraltro la prospettata ricostruzione, ritornando in certo qual modo allo schema tradizionale, laddove precisava che “Rientra d'altra parte nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l'operazione che consiste nell'interpretare la norma attributiva di tutela, per verificare se il giudice amministrativo non rifiuti lo stesso esercizio della giurisdizione, quando assume della norma un'interpretazione che gli impedisce di erogare la tutela per come essa è strutturata, cioè come tutela risarcitoria autonoma”, in quanto “è pacifico [invero] che possibile oggetto di sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione sia anche la decisione che neghi la giurisdizione del giudice adito”.
Attraverso il complesso iter logico seguito dalla sentenza, in altri termini, in nome della inscindibile coesione tra “giurisdizione” e “tutela giurisdizionale effettiva”, si cercava – condivisibilmente – di “svincolare” il “rifiuto di tutela” dalla problematica del labile confine tra “interpretazione” e “creazione”. Ciò si avverte chiaramente dal principio di diritto enunciato in chiusura, che, premessa la mancanza nel sistema di una norma che avallasse in modo chiaro l’orientamento della giurisprudenza sulla pregiudiziale, stabiliva che “Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l'illegittimità dell'atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”.
Le Sezioni Unite, confermando il loro atteggiamento di estrema cautela[10], avevano però cura di puntualizzare che “pur così ampliato il campo del suo impiego, la regola dei limiti esterni è in grado di servire allo scopo di espungere dall'area dei motivi attinenti alla giurisdizione ogni segmento del giudizio che si rivela estraneo alla ricognizione della portata della norma che attribuisce giurisdizione, ricognizione che costituisce invece l'oggetto su cui al giudizio del giudice amministrativo si può sovrapporre, modificandolo, quello della Corte di cassazione a sezioni unite”.
In altri termini, non si cercava affatto di aprire un varco per estendere il sindacato della Corte di cassazione a qualsiasi erronea “interpretazione di legge”, ma, in termini affatto diversi, si voleva evitare che il labile confine tra “interpretazione” e “creazione” (che aveva e ha di fatto precluso il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale su questioni di diritto sostanziale) potesse costituire un ostacolo – anche – al sindacato sul, sempre teoricamente ammesso, “rifiuto di tutela giurisdizionale” di posizioni giuridicamente protette nella forma (di diritto soggettivo o di interesse legittimo) riconosciuta loro dall’ordinamento (nella specie della tutela risarcitoria, azione autonoma “senza pregiudiziali”).
Nella medesima linea, con la sentenza n. 3854 del 12 marzo 2012, le Sezioni Unite hanno rilevato l’eccesso di potere giurisdizionale di una sentenza e di due decreti camerali con i quali la Corte dei conti, attraverso un’errata lettura dell’art. 1, commi 232 e 233, della legge finanziaria n. 266 del 2005, avevano ritenuto che il giudice contabile di appello potesse dichiarare l’inammissibilità della domanda di definizione anticipata di una controversia fuori dai limiti entro i quali la legge attributiva gli consente di rifiutare una decisione nel merito.
4. La conferma dell’atteggiamento (eccessivamente) prudenziale delle Sezioni Unite: la negazione, in concreto, di ipotesi di “creazione normativa” non riconducibili al potere generale di interpretazione e la (conseguente) ricerca di giustificare il sindacato sul “rifiuto di giurisdizione” con l’abnormità dell’“errore interpretativo” implicante diniego di tutela in contrasto con il diritto UE. La “prudenza” con cui la Suprema Corte ha sempre affrontato – e continua ad affrontare – il tema del rapporto tra eccesso/rifiuto di giurisdizione e mera violazione di legge trova del resto piena conferma nel fatto che, nonostante l’innegabile tendenza del giudice amministrativo a sostituirsi a un legislatore sempre meno “coerente” e “convincente”[11], non constano, a tutt’oggi, pronunce che, in nome dell’art. 111, comma 8, Cost., abbiano riconosciuto in concreto l’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore non traducentisi in un siffatto “rifiuto”[12].
Se è vero infatti che, come visto, a livello teorico, si ammetteva in termini generali che la Corte di cassazione, in quanto deputata dalla Costituzione a giudice supremo dei confini della giurisdizione, avesse il potere/dovere di sindacare e, se del caso, cassare anche le sentenze dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui, esorbitando dall’ambito tipico della potestas iudicandi, avessero coniato una “propria” regula iuris, sostanziale o processuale, le Sezioni Unite hanno, fino a oggi (e già prima della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale), costantemente e puntualmente dichiarato inammissibili i ricorsi proposti per tale motivo e cassato, peraltro assai raramente e sempre con rinvio al Giudice che le aveva emesse, soltanto le pronunce che, senza il chiaro supporto di fonti normative primarie (nel caso della pregiudiziale di annullamento e della definizione anticipata dell’appello alla Corte dei conti) o in frontale contrasto con il diritto UE (negli altri - comunque soltanto due - casi), avessero escluso, in modo, aprioristico e astratto, l’accesso alla tutela giurisdizionale di situazioni giuridicamente protette (che, proprio per tale “protezione”, tanto che abbiano la consistenza di un diritto soggettivo, quanto che abbiano quella di un interesse legittimo, non possono essere private, in via, appunto “presupposta” e “aprioristica”, di tale tutela; sicché il giudice competente a conoscere delle relative istanze non può, in via autonoma, perimetrarne l’ammissibilità in senso arbitrariamente riduttivo rispetto a quanto stabilito dalle fonti regolatrici dell’accesso alla giurisdizione).
Le stesse Sezioni Unite, del resto, hanno in varie occasioni rilevato la marginalità dell’ipotesi generale dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore, osservando che tale ipotesi, presupponendo che il giudice applichi una norma da lui creata in luogo della norma esistente e che quindi eserciti un'attività di produzione normativa in luogo di un attività meramente euristica, non può che avere rilevanza meramente teorica (cfr., sostanzialmente in termini, inter alia, le sentenze 26 marzo 2012 n. 4769 e 28 febbraio 2019 n. 6059[13]). È significativo che anche la sentenza 30 luglio 2018 n. 20169, che menziona una serie di precedenti a sostegno dell’ammissibilità di tali ricorsi (sì che, a prima lettura, sembrerebbe dar conto di varie decisioni cassatorie), indica in realtà sentenze che, nelle specifiche fattispecie, li avevano dichiarati inammissibili, qualificando il vizio denunciato come mero errore interpretativo. La tradizionale e consolidata “ritrosia” della Corte di cassazione a sindacare l’eccesso di potere giurisdizionale “puro” nei confronti del legislatore emerge con evidenza anche dalla sentenza 30 ottobre 2019 n. 27842[14], che, a fronte di un’ipotesi inconfutabile di “creazione” di un “principio di diritto” ignoto all’ordinamento (la normativa transitoria introdotta dall’Adunanza Plenaria n. 13 del 2017, a vantaggio dell’amministrazione, in materia di autorizzazioni paesaggistiche), ha brillantemente “evitato” di entrare nel merito della questione e di esprimere in qualche modo un’opinione sul punto, sia pure con un mero obiter dictum, trincerandosi dietro l’argomento che il potere conferitole dall’art. 111, comma 8, Cost. opera solo rispetto alle pronunce che, “definendo il giudizio di appello mediante accoglimento o rigetto dell’impugnazione e dettando la regola del caso concreto, siano per questo in concreto suscettibili di arrecare un vulnus all’integrità delle attribuzioni di altri” (e, dunque, non si estenderebbe alle – mere – regulae iuriscreate, in astratto, dall’Adunanza Plenaria!).
Senonché, per tenere saldamente fermo questo limite (che, verosimilmente, trae origine dal fatto che ogni giudice tende a rafforzare il potere interpretativo della giurisdizione, rifiutando in buona sostanza in radice l’idea della configurabilità di un eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore), ma, al tempo stesso, salvare il sindacato sul cd diniego di giurisdizione, le SS UU, invece di considerarlo, come pare ontologicamente più corretto, una species aggravata dell’eccesso di potere giurisdizionale, che, per la sua particolare gravità, rende meno fragile il confine tra interpretazione e creazione e osta a una lettura estensiva della funzione interpretativa, lo hanno progressivamente ricondotto proprio a tale ultima funzione, coniando l’ibrida figura del “radicale stravolgimento” delle norme di rito, mediante una “interpretazione” manifestamente “abnorme” delle medesime.
È molto chiara in tal senso, tra le tante, la sentenza 20360 del 2016, che, prima della sentenza 6/2018 della Corte costituzionale, ricordava come la Corte di cassazione avesse “precisato che l'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è configurabile solo qualora il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un'attività di produzione normativa che non gli compete e non quando il Consiglio di Stato si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che il loro coordinamento sistematico, potendo dare luogo, tale operazione, tutt'al più, ad un error in iudicando, non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (Cass. S.U. 12 dicembre 2012 n. 22784).” E rimarcava che la stessa Corte aveva, “ancora”, “chiarito che la violazione o falsa applicazione di norme processuali può tradursi in eccesso di potere giurisdizionale, denunciabile con ricorso per cassazione, soltanto nei casi in cui l'error in procedendo abbia comportato un radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia (Cass. S.U. 14 settembre 2012 n. 15428)”[15].
Si ha però l’impressione che proprio questa estrema attenzione e “prudenza” nel contenere le ipotesi di conflitto, che ha portato a qualificare il diniego di giustizia come una forma aggravata di error in procedendo, abbia, a ben vedere, dato il fianco all’intervento riduttivo del Giudice delle leggi.
Per quanto “abnorme” e “radicalmente stravolgente”, il “rifiuto di giurisdizione” è pur sempre (a mio avviso inutilmente) proposto, dalla stessa Corte di cassazione, come un “errore interpretativo”, ovvero come un vizio che, senza una lettura in chiave evolutiva e dinamica dell’art. 111, co. 8, nei termini indicati anche dall’ordinanza di rimessione, tale da affidare alla Corte di cassazione il sindacato ultimo sulla effettività della tutela, non potrebbe farsi rientrare nell’ambito “classico” dei “motivi di giurisdizione”.
5. Segue: il percorso delle Sezioni Unite è stato “riduttivo” e non “evolutivo”. Una prospettiva più distaccata – e meno “difensiva” delle tendenze creative rivelate da certa giurisprudenza amministrativa (penso, ad esempio, oltre al caso affrontato dalla richiamata Adunanza plenaria n. 13 del 2007, all’individuazione di ambiti “privilegiati” di potere sottratti al regime del silenzio assenso[16], all’obbligo di motivazione generalmente e inderogabilmente imposto dal legislatore per gli atti di autotutela[17], o alla configurazione di poteri impliciti con implicazioni sanzionatorie delle Autorità amministrative[18]) – mostra però che, al di là dei termini utilizzati, il riferito percorso della Suprema Corte, ben lungi dall’essere “evolutivo”, è stato in realtà “riduttivo”.
Essendo infatti innegabile che il rifiuto (astratto e aprioristico) di una forma di tutela prevista dall’ordinamento sia una forma particolare di eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore, la Corte ha finito a ben vedere proprio col circoscrivere tale “eccesso” (che ben potrebbe – e dovrebbe – rinvenirsi anche rispetto a norme di diritto sostanziale, ipotesi che però in concreto ha sempre escluso in nome della labilità del confine con l’interpretazione mai rilevato) alle forme più gravi e abnormi di “sconfinamento” nell’ambito legislativo, ovvero quelle attraverso le quali, mediante una indebita usurpazione del potere riservato alle fonti normative primarie, il giudice, con un indebito “arretramento” dal doveroso esercizio della potestas iudicandi conferitagli dalle norme di rito (“norme sulla giurisdizione”), abbia precluso in radice (in modo astratto e aprioristico) l’accesso alla giustizia.
È emblematica in tal senso la sentenza n. 2242 del 6 febbraio 2015, ampiamente citata nell’ordinanza di remissione alla CGUE, di cui, indubbiamente costituisce un’anticipazione.
In tale pronuncia le SSUU hanno cassato la sentenza del Consiglio di Stato a seguito di una sopravvenuta giurisprudenza della CGUE al fine di "impedire, anche nell'interesse pubblico, che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di giustizia, con grave nocumento per l'ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l'attività di tutti gli organi degli Stati membri deve conformarsi alla normativa comunitaria. In altri termini, la Cassazione, che deve decidere di un motivo di difetto di giurisdizione, applica, nel momento in cui decide, la regola che risulta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e, se riscontra che la regola applicata dal Consiglio di Stato è diversa, cassa la decisione impugnata”. La decisione viene, peraltro, giustificata anche con l’esigenza di evitare la responsabilità risarcitoria dello Stato italiano.
Anche tale sentenza, tuttavia, mantiene un profilo di estrema prudenza. Nel “principio di diritto” specifica infatti che “In tema di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (che l'articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione) non include anche una funzione di verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea, neppure sotto il profilo dell'osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ex articolo 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea”, ricostruendo il proprio potere come sindacato “eccezionale” sull’interpretazione, giustificato dal riferito contrasto con quella, anche sopravvenuta, data dalla Corte di Giustizia. Si afferma infatti nel successivo periodo, significativamente introdotto da una congiunzione avversativa, che “Tuttavia, è affetta da vizio di difetto di giurisdizione e per questo motivo va cassata la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è riscontrata essere fondata su interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso affermato con l'interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.
Lungi dall’allargare l’ambito astrattamente consentito dall’art 111, co 8, quando ha portato al vaglio della Corte costituzionale la questione dell’estensibilità del sindacato sulla giurisdizione al diniego di giustizia rispetto alla giurisprudenza CEDU, la Corte di cassazione lo aveva quindi, nella sostanza, ristretto.
6. La conferma dell’autolimitazione del sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale anche nella giurisprudenza più immediatamente prossima alla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale e la conseguente possibilità di “ridimensionare” la portata di tale sentenza. Nella stessa linea si poneva anche l’ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016, con cui, poco più di un anno dopo, le Sezioni Unite – adite per “motivi di giurisdizione” avverso una sentenza con la quale il Consiglio di Stato, in applicazione all’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), aveva dichiarato l’inammissibilità delle azioni proposte da alcuni medici dopo il termine decadenziale (15 settembre 2000) previsto dalla suddetta legge, invocando la circostanza che, dopo il deposito di tale decisione, la Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da altri medici che versavano nella medesima condizione giuridica dei ricorrenti, aveva accertato la violazione dell’art. 6 CEDU[19] – avevano ritenuto di potere, in via analogica a quanto fatto nel 2015 per il denunciato contrasto con la giurisprudenza UE, sindacare tale sentenza per “motivi di giurisdizione” e avevano conseguentemente, ritenuto di poter, direttamente, rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità del suddetto art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001 “nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”.
In tal modo, più o meno consapevolmente[20], la Corte di cassazione ha aperto il varco al Giudice delle leggi per intervenire (attraverso la pregiudiziale decisione sulla rilevanza) sull’ammissibilità della proclamata “estensione” del controllo sulla “giurisdizione” riservatole dall’art. 111, comma 8, Cost. ai casi di “abnorme interpretazione” delle regole processuali in senso riduttivo del diritto alla tutela.
Ed è (soltanto) su questa “estensione” che la Consulta esprime, anche se in modo forse eccessivamente duro, il proprio giudizio negativo.
Ricorda, del resto, il Giudice costituzionale, nella sentenza 6/2018, che l’ordinanzadi rimessione, ricostruendo l’interpretazione consolidata dell’art. 111, comma 8, Cost. (che la sentenza, si badi, non contesta!), aveva sottolineato che “A tale stregua, il rimedio in questione sarebbe esperibile nell’ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale esercitandola nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negandola sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale ovvero nell’ipotesi in cui abbia violato i cosiddetti limiti esterni della giurisdizione, allorquando, cioè, si pronunci su materia attribuita al giudice ordinario o ad altro giudice speciale, oppure neghi la sua giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro giudice”.
La Consulta non ha dunque contestato il potere della Cassazione di sindacare il rifiuto radicale di giurisdizione, il quale, come detto, lungi dal costituire (come riduttivamente ritenuto dalle Sezioni Unite) un “abnorme” errore interpretativo, deve essere più correttamente ricondotto a una forma di eccesso di potere giurisdizionale in forma di arretramento (rispetto al potere/dovere di tutela conferito al giudice dal contesto normativo di riferimento).
Al pt. 15, la sentenza 6 ha anzi, espressamente, affermato che “L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”.
Ciò posto, la Corte costituzionale ha, in termini affatto diversi, escluso - soltanto - che l’art. 111, co 8, possa giustificare la tesi “evolutiva” secondo cui “il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri”, ammetterebbe soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, dirette a consentire, in via eccezionale, la censura di sentenze “abnormi” o “anomale” con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti, attraverso uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”, una “interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda”. Il sostanziale “arretramento” effettuato dalla Corte di cassazione attraverso l’autoqualificazione di siffatte questioni come “interpretative” (da ultimo, ancora l’ordinanza n. 19084 del 14 settembre 2020!) ha consentito in altri termini al Giudice delle leggi di negarne l’ammissibilità, con la motivazione, ex se difficilmente contestabile, che “attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”.
Per una più completa valutazione della posizione della Corte di cassazione prima della riferita decisione della Consulta merita peraltro soffermarsi anche sulla sentenza n. 31226 del 29 dicembre 2017 (immediatamente precedente, dunque, all’arresto della Corte costituzionale), che ha, per la terza e, ad oggi, ultima volta (in un arco di oltre 70 anni) disposto una “cassazione” di una sentenza del Consiglio di Stato per “diniego di giustizia”. Ribadendo la posizione che ho sopra definito “riduttiva”, le Sezioni Unite avevano infatti anche in quella occasione sottolineato che “il sindacato esercitato dalle Sezioni Unite della Cassazione rispetto alle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti ha ad oggetto l'osservanza dei soli limiti esterni della giurisdizione e non anche dei suoi limiti interni (quali, ad es., gli errori in iudicando o in procedendo) pur quando ciò abbia determinato violazioni dei principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost. Tale premessa è parimenti valevole con riferimento alle norme del diritto dell'Unione europea, la cui violazione non costituisce, in quanto tale, vizio attinente alla giurisdizione, neppure sotto il profilo della violazione dell'obbligo di rimessione alla Corte di giustizia delle questioni interpretative relative ai trattati e agli atti dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 T.F.U.E.”. E, per ammettere – e accogliere – il ricorso (originato per vero da una situazione di fatto di cui non smetterò mai di denunciare l’estrema gravità), hanno fatto appello a quella che esse stesse hanno qualificato ““ulteriore”interpretazione, c.d. "dinamica" o "funzionale" [dell’art. 111, comma 8] secondo la quale rientra nell'ambito della giurisdizione l'interpretazione della norma che quest'ultima attribuisca, …., pure in quanto descrive da un lato le forme di tutela che a livello giurisdizionale possono essere impartite a garanzia che la protezione assicurata dall’ordinamentorisulti realizzata, dall'altro i presupposti del loro esercizio”. Richiamando quanto affermato nel lontano 2008 sulla pregiudiziale di annullamento, la sentenza ha poi aggiunto che “Sarà quindi considerata norma attinente alla giurisdizione non solo quella volta a determinare i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che specifica i contenuti del potere specificando le forme di tutela finalizzate all'estrinsecazione del potere stesso”. In termini ancora più chiaramente indicativi di una posizione sostanzialmente “prudenziale”, la pronuncia sottolineava poi che “….resta ferma, anche nella giurisprudenza di legittimità posteriore [alla richiamata sentenza del 2008], l'esclusione da tale categoria delle questioni attinenti alla mera violazione del diritto dell'Unione europea (cfr. Cass. Sez. U. 2403/2014, 23460/2015, 3236/2012, 16886/2013, citt.) e dei principi del giusto processo (Cass. Sez. U. 3688/2009, 12539/2011, 16165/2011, 12607/2012, 12497/2017, citt.)”. E, a chiusura della proposta ricostruzione, osservava che “2.4. L'apertura alla nuova concezione della giurisdizione quale tutela delle situazioni giuridiche soggettive ha successivamente trovato ulteriore specificazione nell'orientamento secondo cui, alla regola della non estensione agli errori in iudicando o in procedendo del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, può derogarsi nei casi eccezionali o estremi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, tale da ridondare in manifesta denegata giustizia (tra le molte, Cass. Sez. Un. 14/09/2012, n. 15428; 30/10/2013, n. 24468; 12/12/2013, n. 27847; 04/02/2014, n. 2403; 06/02/2015, n. 2242; 31/05/2016, n. 11380; 17/01/2107, n. 964; 19/09/2017, n. 21620)”.
Con specifico riferimento allo spazio che, anche in questa ipotesi, spettava alla Corte di cassazione nel caso in cui la denegata giustizia fosse riconducibile al contrasto con il diritto UE, aggiungeva peraltro che “Con riguardo all'impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione (attribuito dall'art. 111, ultimo comma, Cost. alla Corte di Cassazione) non ricomprende anche l'operare di una verifica finale della conformità di quelle decisioni al diritto eurounitario” e, nuovamente, circoscriveva il potere cassatorio, per “difetto di giurisdizione”, di una sentenza del Consiglio di Stato all’ipotesi in cui essa “si rilevi fondata su una interpretazione delle norme volta a negare alla parte la possibilità di accedere alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo; accesso che invece è garantito in base all'interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia”.
Nella specie, pur accogliendo il ricorso, ritenendo “contrastante con il diritto dell'Unione europea, così come statuito dalla Corte di Giustizia, una norma nazionale che, per quanto concerne ricorsi simmetricamente escludenti relativi a una procedura di appalto pubblico con due soli concorrenti, consenta al giudice di non procedere all'esame nel merito delle censure che un concorrente abbia azionato avverso l'ammissione del secondo concorrente quale conseguenza dell'accoglimento del ricorso di quest'ultimo rispetto all'ammissione del primo”, le Sezioni Unite rinviavano comunque la definizione della controversia al suo “giudice naturale”[21].
7. Il self-restraint delle Sezioni Unite (anche) nella sentenza 18592 del 9 settembre 2020. La posizione di self-restraintdelle Sezioni Unite rispetto alle ipotesi di “sconfinamento” del giudice amministrativo era stata peraltro confermata anche dalla sentenza 18592 del 9 settembre 2020 (già richiamata alle note 4 e 13), pubblicata solo nove giorni prima dell’ordinanza di rinvio alla CGUE, con la quale, avallando la decisione con cui il Consiglio di Stato, esorbitando peraltro dai limiti della domanda, aveva direttamente ordinato al Ministero dell’Università il rilascio di un’Abilitazione nazionale all’esercizio delle funzioni di professore universitario, le Sezioni Unite, pur riconoscendo la natura tecnico discrezionale della valutazione sottesa alla predetta Abilitazione, hanno supportato il Consiglio di Stato in un’operazione che, a parte l’indebita invasione della sfera amministrativa, si è sostanziata nella evidente “creazione” di una norma ampliativa del potere giurisdizionale totalmente eccentrica al sistema. Si legge infatti nella sentenza, in termini che lasciano sinceramente delusi sull’effettivo esercizio della funzione di controllo che la Cassazione sarebbe chiamata a svolgere, che “Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all'Amministrazione di attribuire alla (omissis) l'abilitazione scientifica nazionale (di seguito: "ASN") alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l'interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l'attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell'attività riservata alla Pubblica Amministrazione”, in quanto “la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed "evolutiva" delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall'art. 34, comma 1, lettera e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell'ottemperanza. E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche - e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza - possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all'esigenza di una tutela piena ed effettiva dell'interessato "secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo", cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all'introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto”.
Non è questa la sede per entrare più approfonditamente nel dettaglio della questione, ma non si può non rimarcare che essa non atteneva tanto al potere del giudice di anticipare alla fase di cognizione l’assunzione di misure idonee a dare attuazione al giudicato, bensì al potere del giudice di pretermettere la fase di valutazione tecnico discrezionale (che, anche in ottemperanza, esso è chiamato a effettuare, direttamente o attraverso un commissario appositamente individuato per le sue competenze tecniche), arbitrariamente avocandosi il potere (mai conferitogli dalla legge) di “sanzionare” la reiterata illegittimità dell’operato amministrativo trasformando un’abilitazione (che, a prescindere dal soggetto chiamato a rilasciarla, il legislatore ha costruito come esito di una “valutazione”) in un atto vincolato. E la soluzione accolta è tanto più grave in quanto, come chiaramente si legge nel riportato passaggio della sentenza, essa sarà utilizzata anche per le procedure concorsuali e, dunque, anche a danno di potenziali controinteressati!!
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Il confronto tra questa sentenza e la – immediatamente successiva – ordinanza di rinvio alla CGUE quindi, per un verso, rivela una sostanziale convergenza delle due magistrature supreme nella ricerca di “interpretazioni evolutive” a sostegno di una “estensione” dei propri poteri e nella giustificazione della potenziale lesione arrecata ad altri poteri con il richiamo all’effettività della tutela e ai principi del diritto europeo (che, singolarmente, nella prima sentenza fa “gioco” al Consiglio di Stato e nella seconda gli si ritorce contro), e, per l’altro, conferma una estrema – ed eccessiva – ritrosia della Corte di cassazione nel censurare gli “eccessi” del Consiglio di Stato, che, al di là delle affermazioni di puro principio, disconosce sempre in concreto e stigmatizza solo nel caso in cui si sostanziano in un “arretramento” e, anzi, come detto, attraverso l’indebita assimilazione all’errore interpretativo, in un “abnorme” arretramento, che peraltro, dopo le risalenti pronunce sulla pregiudiziale di annullamento (comunque ricondotte al diritto comunitario) e quella (del 2012) nei confronti della Corte dei conti, ha, fino ad oggi, riconosciuto (una volta nel 2015 e una volta nel 2017!) soltanto nelle ipotesi di “rifiuti” in frontale contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia.
8. L’ordinanza del 18 settembre 2020 e la conferma della riduttiva autoqualificazione del “diniego di giustizia” come “errore interpretativo”. Anche l’ordinanza del 18 settembre, nella prima parte (al punto 26), riconduce a ben vedere il proprio sindacato per denegata giustizia agli “errores in procedendo”, ascrivendo comunque a tale categoria (piuttosto che a quella, a mio avviso, per quanto detto, più propria, dell’eccesso di potere giurisdizionale) “l’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell'Unione europea, direttamente applicabili, secondo l'interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia”.
Qualche spunto per una più corretta chiave di lettura del “rifiuto di giustizia” sembrava forse rinvenibile (solo) nella sentenza n. 771 del 2014, che, nel ribadire, anche in quel caso, l’inammissibilità del ricorso per error in iudicando o in procedendo, osservava come non fosse applicabile alla fattispecie controversa “il principio secondo il quale la questione di giurisdizione si presenta non solo quando sia in discussione la circostanza che essa spetti al giudice cui la parte si è rivolta, in quanto solo al medesimo competa di provvedere, ma anche allorché si debba stabilire se, in base alla norma attributiva della giurisdizione, ricorrano le condizioni alla cui presenza il giudice abbia il dovere di esercitarla (così Cass., sez. un., n. 2065/2011, che ha fatto seguito all'approfondita analisi cui a Cass., sez. un., n. 30254/2008; e cfr. anche, ex multis, Cass., sez. un., nn. 11075/2012 e 15428/2012)”. E ricordava che “E' stato infatti chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 362 cod. proc. civ., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall'affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, che non possa per questo essere da lui conosciuta (così Cass., sez. un., n. 3037/2013), sicché l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. Cass., sez. un., n. 10294/2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori in iudicando o in procedendo che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame”.
Al di là del generico richiamo all’effettività della tutela, la sentenza sembrava dunque (correttamente) distinguere il “rifiuto di giurisdizione” dall’ambito degli errori interpretativi, piuttosto che configurarlo come una tipologia eccezionale di tale categoria.
Più confusa e in parte contraddittoria, la ricostruzione proposta dall’Adunanza Plenaria 9 giugno 2016 n. 11, che comunque si riferisce, ancora una volta, all’ipotesi, più revocatoria che cassatoria, del contrasto con decisione CGUE sopravvenuta. Come rileva la suddetta ordinanza di rinvio, infatti, il Supremo Consesso giurisdizionale amministrativo aveva evidenziato “come sia già (...) presente nel nostro ordinamento il principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario o, più in generale, contrastante con norme di rango sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione”, ricordando testualmente [sempre l’Adunanza Plenaria] che “Come, infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno anche recentemente ribadito, l'interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell'Unione europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un "limite esterno" della giurisdizione, rientrando in uno di quei "casi estremi" in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l'esercizio del potere giurisdizionale per "errores in iudicando" o "in procedendo" che danno luogo al superamento del limite esterno (...). In questi "casi estremi" (...) si impone la Cassazione della sentenza amministrativa "indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l'ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l'attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria"”.
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Al di là del nomen utilizzato, ciò che però soprattutto emerge dalla suddetta analisi è che il vero “criterio guida” sul quale, fino all’ordinanza del 18 settembre, la Corte di cassazione ha tracciato il confine tra violazione di legge (insindacabile) e motivo di giurisdizione (sindacabile) non era tanto – né soltanto – il contrasto con il diritto sovranazionale, ma proprio il “diniego di giurisdizione”, che, ma solo occasionalmente (si vedano infatti le sentenze del 2008 e del 2012, che lo hanno rilevato rispetto al diritto interno) tale contrasto ha aggravato (reso più “abnorme”). Si precisa infatti, nella stessa ordinanza di rinvio alla CGUE, che “si è ritenuto ammissibile il sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, per motivi inerenti alla giurisdizione, nei casi di radicale stravolgimento delle norme di rito, tali da implicare un evidente diniego di giustizia e un eccesso di potere giurisdizionale (Cass., Sez. Un., 17 gennaio 2017, n. 964; 12 ottobre 2015, n. 20413; 30 ottobre 2013, n. 24468; 14 settembre 2012, n. 15428)”.
Per parlare, ancora una volta, con la voce della Cassazione, si ricorda che la sentenza n. 956 del 17 gennaio 2017 aveva d’altro canto assai chiaramente precisato che “come già rilevato in casi simili dalle stesse sezioni unite in materia di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione - che l’articolo 111 Cost., u.c. affida alla Corte di cassazione - non include anche una funzione di verifica della conformità di quelle decisioni al diritto dell’Unione europea (sezioni unite, n. 14043, n. 14042 e n. 10501 del 2016) e l’error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale sol perché venga denunciata la violazione di nome funzionali quali chiarite dalla Corte di giustizia (ex plurimis, sezioni unite, n. 3915 del 2016; n. 2403 del 2014; n. 16886 del 2013)”. E, ancora più nettamente, ha specificato (al pt. 2.4), sgombrando il campo da possibili equivoci, che i “casi estremi” in cui un error in iudicando del Consiglio di Stato per contrarietà ad una pronuncia della Corte di giustizia, ove idoneo a realizzare un “radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, così come interpretate dalla Corte di giustizia” (e cita SS UU, nn. 11380 del 2016, 2242 del 2015 e 15428 del 2012), “si risolve eccezionalmente in un eccesso giurisdizionale tale da consentire il ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione [che] vanno necessariamente identificati [soltanto] in fattispecie in cui la decisione del Consiglio di Stato contraria alla giurisprudenza unionale preclude, rendendola non effettiva, la difesa giudiziale con conseguente ingiustificato (anche dal punto di vista costituzionale) vuoto di tutela giurisdizionale per l’indicato “indebito rifiuto di erogare” tale tutela “a cagione di una malintesa autolimitazione”, in via generale, dei poteri del giudice speciale” (sezioni unite n. 2403 del 2014) con un “aprioristico diniego di giurisdizione” (sezioni unite n. 771 del 2014)”[22].
9. Verso l’individuazione di alcuni punti fermi. Alla luce delle precedenti considerazioni, mi sembra possibile individuare alcuni, primi, punti fermi.
Il primo.
Il rifiuto radicale di giustizia, sub specie di “arretramento” – aprioristico e astratto – dall’obbligo di fornire tutela giurisdizionale a una situazione giuridica soggettiva protetta dall’ordinamento, adducendo ostacoli in rito manifestamente confliggenti con il sistema normativo primario, è una species, particolarmente grave, del genus “eccesso di potere giudiziario” nei confronti del potere legislativo.
Ricostruito in questi termini – e davvero non si vede come possa non esserlo – il “rifiuto” è, tipicamente, una “questione di giurisdizione” e rientra, come tale, nell’ambito delle garanzie primarie dello Stato democratico che il Costituente ha inteso assicurare, anche, e direi proprio, nei confronti dei giudici amministrativi, che più facilmente, anche per la loro istituzionale vicinanza al potere normativo (come consulenti istituzionali e come componenti degli uffici legislativi), possono propendere allo sconfinamento.
Il secondo.
In questi termini, il problema tocca o dovrebbe toccare solo accidentalmente il diritto eurounitario, ovvero lo tocca soltanto se e in quanto il “rifiuto” si realizza rispetto a una fonte UE, atteso che, per le stesse ragioni, la Corte di cassazione dovrebbe potere, e a mio avviso può e deve, cassare le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza nell’ipotesi in cui “creino” un radicale e aprioristico vuoto di tutela, in frontale contrasto con il quadro legislativo interno: è quanto, del resto, era stato chiaramente affermato nelle pronunce gemelle del 2006 sulla vexata quaestio della pregiudiziale amministrativa (ed è stato, ancorché con una formula più incerta, affermato dalle richiamate sentenze n. 30254 del 2008 e n. 3854 del 2012).
Quello che vorrei cioè sottolineare è che il legame tra le vicende in cui la Corte di cassazione ha rilevato il diniego di giustizia e il diritto europeo (UE e CEDU) non può essere decisivo e, dunque, non solo giustificare, ma neppure esaurire, il sindacato su tale “rifiuto”.
L’argomento del “radicale stravolgimento delle norme europee di riferimento, così come interpretate dalla Corte di Giustizia” (invocato, ex plurimis, nelle sentenze nn. 11380 del 2016, 2242 del 2015 e 1548 del 2012), è, invero, piuttosto, servito alle Sezioni Unite per rafforzare la gravità (e i rischi) del rilevato diniego e, se mai, per circoscrivere – ulteriormente rispetto all’art. 111, comma 8 – l’ambito delle pronunce cassatorie, che, come visto, al di là delle numerose affermazioni di principio, non sono mai concretamente intervenute sull’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del nostro legislatore e, soltanto in due casi, sono state giustificate dal diniego di giustizia rispetto a una norma interna (ricordo, ancora, che le ordinanze gemelle del 2006 si limitarono a una “ammonizione” e che le sentenze n. 30254 del 2008 e n. 3854 del 2012 utilizzarono peraltro la formula dell’estensione della questione di giurisdizione ai “contenuti” della tutela).
Il terzo.
L’uso, molto accorto, che la Corte di cassazione ha fatto finora dello strumento e i limiti in cui essa stessa lo ha, come visto, dichiaratamente contenuto, negando in buona sostanza la concreta rinvenibilità di ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale nei confronti del legislatore in ambito sostanziale e riducendo quelle in ambito processuale all’aprioristico e “abnorme” diniego di giustizia (riconosciuto in un arco di 70 anni solo in quattro occasioni, di cui solo due in riferimento al diritto UE), rendeva molto remoto – e direi, anzi, puramente teorico – il rischio che esso si trasformasse, da garanzia dell’assetto costituzionale dei poteri pubblici, in un eccentrico terzo grado di giudizio amministrativo[23].
Il timore di una progressiva “colonizzazione” del terreno riservato al giudice amministrativo, attraverso un lento e progressivo tentativo delle Sezioni Unite di convergere verso l’unicità della giurisdizione[24], sembrava, quindi, in concreto infondato.
E, significativamente, esso si è palesato soprattutto quando si è temuto che la Suprema Corte, più che attraverso le sue (come visto, rarissime) pronunce cassatorie, nella motivazione sottesa al “rinvio” alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale delle norme in contrasto con le sentenze CEDU sui casi Mottola e Staibano, insistendo sulla portata evolutiva del concetto di giurisdizione e sul proprio potere di sindacare la decisione di inammissibilità assunta, in forza di tali norme, dal Consiglio di Stato (in violazione della Carta EDU), stesse in realtà cercando di legittimare un più ampio sindacato sull’interpretazione, suscettibile di sconfinare nella identificazione con il sindacato generale sulla violazione di legge di cui all’art 111, comma 7, Cost..
È questo, mi pare, anche alla stregua di un’attenta rilettura “a freddo” della sentenza n. 6 del 2018, il problema che ha preoccupato il Giudice delle leggi, che, lungi dal negare valenza alla suddetta costruzione “tradizionale”, ha semplicemente affermato che, fermo restando il sindacato sull’eccesso di potere nei confronti dell’amministrazione e del legislatore, e quello sull’aprioristico e astratto diniego di giustizia, il contrasto con l’interpretazione del diritto UE accolta dalla Corte di Giustizia non è di per sé idoneo a consentire alla Corte di cassazione un sindacato generale sulla – diversa – ipotesi della, pur abnorme, “interpretazione” del quadro normativo da parte del giudice amministrativo, per ciò che detto sindacato sarebbe assimilabile alla violazione di legge.
Per quanto sopra esposto, si tratta però, di un “falso problema”, ché, appunto, il rifiuto aprioristico di tutela di una posizione giuridica nelle forme stabilite dall’ordinamento non è una mera “violazione di legge”, ma è, incontrovertibilmente, una “questione di giurisdizione”.
Il quarto. In questo quadro, il problema della possibilità di rilevare/riconoscere il suddetto “rifiuto” (l’eccesso di potere giurisdizionale sub specie di rifiuto di giustizia) anche rispetto alle forme di tutela stabilite dal diritto dell’Unione e, più in particolare, all’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, presenta alcuni contorni particolari, legati, per un verso, al primato del diritto dell’Unione e al valore di “fonte” super primaria che si riconosce all’interpretazione datane dalla sua Corte e, per l’altro, alla peculiare funzione di quest’ultima, che, come ben rilevato in passato dalle stesse Sezioni Unite, “non opera, nell'esercizio del potere d'interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale” (sent. n. 6605 del 2015, cit.).
Sotto il primo profilo, si potrebbe dunque porre il problema se lo “sconfinamento/arretramento” rispetto alla regola interpretativa data dalla Corte di Giustizia sia davvero equiparabile a quello nei confronti del legislatore. Il secondo profilo rileva invece essenzialmente ai fini della configurabilità dell’omesso rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE come invasione delle competenze di un'altra “giurisdizione”. Un ulteriore profilo investe l’organo competente a risolvere tali questioni e, in particolare, la spettanza dell’ultima parola a un organo sovranazionale.
Si tratta, evidentemente, di interrogativi che non hanno e non avranno un’univoca soluzione.
Una cosa a me pare comunque certa. Il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale rispetto al diritto UE “va necessariamente insieme” a quelli sul “rifiuto” e allo “sconfinamento” rispetto al “quadro” tracciato dal legislatore interno: se si nega, nei fatti, quest’ultimo, perché lo si assimila all’errore interpretativo, non si può, a mio avviso, affermare il sindacato della Corte di cassazione solo per l’arretramento rispetto alla tutela assicurata a una posizione giuridica soggettiva dal diritto UE, perché non si riuscirebbe a ricondurlo a una “questione di giurisdizione”.
L’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia, del resto, è ben consapevole che le due cose “vanno insieme”: lo dimostra al pt. 41, laddove invoca il principio dell’equivalenza, rappresentando al Giudice sovranazionale che, in Italia, la Cassazione può effettuare il sindacato sull’eccesso di potere nei confronti del legislatore e che, in un caso come quello del giudizio a quo, rispetto al diritto nazionale, lo avrebbe effettuato, censurando l’operato del giudice per avere “esercitato poteri giurisdizionali di cui è privo”.
Il rischio del vuoto di tutela paventato dalle Sezioni Unite per giustificare il ricorso ai Giudici di Lussemburgo si percepisce, dunque, piuttosto, all’inverso e in termini più generali, nel fatto che, fino a oggi, il nostro “Giudice garante dei limiti della giurisdizione” abbia invece – tenacemente – disconosciuto la rilevabilità di ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale rispetto al legislatore e, per di più, “dequotato” il diniego di giustizia a mero errore interpretativo, avvertendo poi l’esigenza di ricorrere al radicale stravolgimento delle regole UE per giustificarne la sindacabilità, così, in buona sostanza, teorizzandone il confinamento a tale ipotesi (così peraltro indebolendo, se non radicalmente svilendo, il richiamo all’equivalenza).
Più delicato, indubbiamente, il problema se, spettando al Corte di Giustizia l’interpretazione delle regole unionali e imponendo l’art. 267 del TFUE ai giudici nazionali di ultima istanza di rimettere allo stesso Giudice sovranazionale i loro eventuali “dubbi”, il mancato rispetto di quest’obbligo di rimessione possa essere, ex se, ricondotto a una questione su “motivi di giurisdizione”, soggetta, pertanto, al sindacato della Corte di cassazione. Per un verso, infatti, si tratta in questo caso, evidentemente, di una “interpretazione”, come tale, per quanto ripetutamente sottolineato dalle stesse Sezioni Unite, insindacabile ai sensi dell’art 111, co 8.
Per l’altro verso, tuttavia, è innegabile che la decisione sulla necessità o meno del rinvio impatta sulla “riserva” di interpretazione della Corte di Giustizia, tanto che il mancato rinvio è causa di responsabilità per gli Stati e, di conseguenza, per gli stessi giudici. Tali circostanze potrebbero indurre a ritenere che il mancato rinvio sia, in effetti, riconducibile ai “motivi di giurisdizione”. Nella linea seguita in questa analisi, non si può in proposito omettere di ricordare che, come visto, fino all’ordinanza del 18 settembre, la Corte di cassazione ha costantemente escluso che anche la propugnata lettura “evolutiva” della nozione di “giurisdizione” possa legittimare l’attrazione al suo sindacato del mancato esercizio di detto obbligo di rinvio (menziono, tra le altre, ancora una volta, la sentenza n. 6605 del 2015, cit., che, confermando la propria linea di estrema cautela, osserva che, dal momento che “la suddetta Corte non opera, nell'esercizio del potere d'interpretazione delle norme del Trattato, come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale (in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale), il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato a detta Corte non configura una questione attinente allo sconfinamento dalla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr., tra le altre, s.u. n. 16886 del 2013)”; analogamente, oltre a quelle già richiamate, anche la sentenza n. 14042 del 2016).
Tornando però ai “punti fermi”, rilevo che, quale che sia la soluzione che si ritenga di accogliere in merito a tale profilo, non vi sono, a mio avviso, margini per una distinzione tra omesso rinvio su questioni processuali e omesso rinvio su questioni sostanziali, con conseguente oggettiva difficoltà di evitare un’apertura del varco al sindacato generale della Corte di cassazione su tutte le questioni di rilevanza eurounitaria (fermo restando che essa dovrebbe rimetterne la formulazione del quesito al Giudice amministrativo).
10. Prime considerazioni sui quesiti proposti alla CGUE.
Come si inserisce in questo contesto l’ordinanza del 18 settembre? In modo sicuramente dirompente.
Le Sezioni Unite compiono invero un indubbio révirement rispetto alla precedente giurisprudenza e, cancellando i confini entro i quali, come ricordato al pt. 23 della stessa ordinanza[25], con giurisprudenza consolidata, avevano delimitato il loro potere (abnorme stravolgimento di norme di rito tali da implicare un evidente diniego di giustizia e un eccesso di potere giurisdizionale, precludendo l’accesso alle forme di tutela riconosciute dall’ordinamento, anche attraverso l’interpretazione accoltane dalla Corte di Giustizia, ferma in ogni caso l’insindacabilità delle decisioni del giudice amministrativo per omesso rinvio ex art. 267 TFUE) e, “preoccupate” dall’arretramento annunciato, anche in tali casi, dalla propria giurisprudenza all’esito della richiamata sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale[26], allargano il compasso e, abbandonando (recte, rinnegando) l’atteggiamento riduttivo che riportava il diniego di giustizia a un errore interpretativo per ricondurlo (finalmente, ma, per quanto visto, per la prima volta) alla – inammissibile – “attività di produzione normativa”,
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I quesiti fanno riflettere sotto diversi profili.
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Torno allora sui quesiti.
Una volta preso atto dell’assoluta novità del percorso intrapreso dalle Sezioni Unite – e lasciata da parte la questione della insindacabilità da parte della Corte di Giustizia del nostro sistema di organizzazione dei rapporti tra le giurisdizioni e della scelta, a mio avviso puramente interna (e dunque salvaguardata dall’autonomia procedura degli Stati membri), di affidare o meno a un unico giudice (nella specie, l’organo di vertice della magistratura ordinaria, cui, tra l’altro, si affida la soluzione del conflitto tra le giurisdizioni) ogni ipotesi di sconfinamento/arretramento dalla potestas iudicandi – il primo quesito è davvero così dirompente? Forse anche no.
Mi sembra infatti di poter dire che – se, come si è sempre sostenuto, si identifica come “motivo di giurisdizione” ogni sconfinamento del giudice dalla sua potestas iudicandi e se, come è oggettivamente difficile negare, il giudice, amministrativo o ordinario, non ha il potere di coniare una regola “opposta” a quella stabilita dal diritto UE (che prevale anche sul potere legislativo interno), già chiaramente definita, in riferimento a fattispecie perfettamente sovrapponibili, dal suo interprete istituzionale – nel caso in cui una decisione di un giudice amministrativo di ultima istanza si ponga effettivamente in un siffatto frontale contrasto con una esplicita giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sembra possibile negare che si ponga una “questione di giurisdizione”, sindacabile dalla Corte di cassazione. Ma non per il fatto che essa è la vestale del controllo del rispetto del diritto UE, quanto piuttosto perché, come si è fino ad oggi pacificamente ritenuto (e la Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018 non ha negato), essa è il giudice ultimo del rispetto dei confini del potere giurisdizionale. E, se una questione di interpretazione del diritto UE è già stata risolta in una determinata direzione dalla sua Corte di Giustizia, non vi è più spazio per “interpretazioni” del nostro giudice: non soltanto per “creazioni”, ma neppure per “interpretazioni”. Non si potrebbe, quindi, invocare il “labile confine” tra le due operazioni che ha finora consentito alle Sezioni Unite di sottrarsi al potere/dovere di sindacare lo sconfinamento nel potere legislativo interno, giustificandone l’atteggiamento di self-restraint per le questioni che non si traducono (addirittura) in un diniego di giustizia. Il ragionamento svolto dalla Corte costituzionale può anzi, in quest’ottica, essere ribaltato: se non è ammissibile una “graduazione” del vizio, non lo è neppure per lo sconfinamento, che è sindacabile, non solo rispetto al diritto UE, ma anche rispetto al diritto interno, anche quando non si traduca in un diniego di giustizia.
Affinché si versi in questa situazione, occorre però che non vi siano margini di dubbio interpretativo: ovvero che la disposizione violata sia netta e inequivocabile o che la Corte di Giustizia si sia già pronunciata su quella specifica questione.
Delimitato in questi termini, lo spazio per il ricorso per “cassazione” di cui si chiede al Giudice sovranazionale di affermare (recte, ribadire) la necessità, sul presupposto (a oggi indiscusso e, per quanto detto, non verificabile dalla CGUE) che la nostra Costituzione affida alle Sezioni Unite il controllo sul rispetto dei limiti della giurisdizione, non sembra a ben vedere maggiore (se il giudice amministrativo resta nell’ambito del suo potere) di quello che il sistema riconosce (e che le Sezioni Unite dovrebbero più ampiamente utilizzare) per lo sconfinamento rispetto al diritto interno. Se poi le parti faranno abuso dello strumento, utilizzandolo in via strumentale al mero scopo di impedire il passaggio in giudicato delle sentenze dei giudici amministrativi, l’ordinamento interno dovrà trovarvi adeguati rimedi, con l’eventuale previsione di filtri e/o con un accorto uso della condanna alle spese.
Resta, tuttavia, un dubbio sulla rilevanza: nel caso rimesso alla Corte di Giustizia, infatti (i) si trattava proprio di un diniego di giustizia, ma (ii) la questione era (almeno parzialmente) diversa da quella (recte, quelle) già risolte dalla sua giurisprudenza. Il ricorrente escluso, infatti, non contestava (come riferito dall’ordinanza nell’ultima parte del terzo quesito[29]) l’ammissibilità delle offerte concorrenti (questione affrontata dalle precedenti pronunce della Corte di Lussemburgo), ma, più in generale, la validità della gara (illegittima composizione della Commissione e indeterminatezza dei criteri).
Il quesito più dirompente è infatti, a ben vedere, proprio il secondo: è parimenti riconducibile a un “motivo di giurisdizione” il mancato rinvio di un “dubbio interpretativo” alla Corte di Giustizia? È questa la questione centrale che viene, a mio avviso, sollevata dall’ordinanza: l’obbligo di rinvio pregiudiziale previsto dall’art. 267 TFUE è sufficiente ad affermare che il giudice nazionale, omettendo di disporlo, potrebbe avere, solo per questo, superato i confini del suo potere, giustificando così il “controllo” del Giudice garante dei confini della giurisdizione?
La risposta richiede alcuni passaggi logici.
Sembra invero difficile disconoscere che, nell’esercizio del potere di interpretazione, che è proprio di ogni giurisdizione, ci sia, evidentemente, anche quello di ritenere che il quadro normativo e giurisprudenziale non dà adito a dubbi. Se così è, l’eventuale errore commesso in tale valutazione (pur nella specie a mio avviso difficilmente disconoscibile) non sembra riconducibile ai “motivi di giurisdizione”, neppure invocando lo sconfinamento nella potestas della Corte di Giustizia, che, non solo non è propriamente “giurisdizione”, ma, soprattutto, è chiamata solo a risolvere i “dubbi”, laddove il giudice del caso concreto ne abbia rilevati. Il fatto che il giudice interno di ultima istanza abbia l’obbligo di rimettere i “dubbi interpretativi” sulla portata delle norme UE al Giudice sovranazionale non sembra invero sufficiente ad affermare che esso non abbia il potere di valutare in autonomia se ricorra o meno un’ipotesi di dubbio, non diversamente da quanto si ritiene per la rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale. Sicché peraltro, ancora una volta, l’effetto dell’allargamento del compasso prospettato dalle Sezioni Unite sarebbe più ampio, aprendo il varco al sindacato della Corte di cassazione anche con riferimento alle mancate rimessioni alla Corte costituzionale.
Non sembra infatti che l’esigenza di evitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, pur indubbiamente importante e potenzialmente utile, sia argomento sufficiente per trasferire l’ultima parola interpretativa sulla configurabilità di dubbi di compatibilità eurounitaria al Giudice delle questioni di giurisdizione, né, qualora gli si riconoscesse tale potere, per fondare il discrimine tra questa “interpretazione” e quella che sta alla base del mancato rinvio alla Corte costituzionale.
Confidando di avere offerto un quadro abbastanza ampio ed esauriente di riflessione per il dibattito, ritengo che la complessità delle problematiche sollevate dall’ordinanza e i rischi degli effetti che potrebbe avere un conflitto tra le Corti – nazionali e sovranazionali – coinvolte imponga di affrontare il problema aperto abbandonando tesi preconcette e ricercando un nuovo punto di equilibrio, che riconosca alla Corte di cassazione il sindacato sui casi di eccesso di potere giurisdizionale anche in forma di diniego di giustizia senza trasmodare nell’ammissione di un terzo grado di giudizio nel merito delle decisioni del giudice amministrativo.
[1] Il presente lavoro riserva deliberatamente ad altra sede il confronto con i suddetti contributi, dei quali comunque, senza pretesa di esaustività, si dà doverosa indicazione per un più completo quadro di riflessione. Ai primissimi commenti di G. TROPEA, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 7 ottobre 2020; A. TRAVI, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020; A. CARRATTA-G. COSTANTINO-G. RUFFINI, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in Questione Giustizia, 19 ottobre 2020, si sono aggiunti quelli di B. CARAVITA, Postilla a S. Barbareschi, L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione «fuori contesto»: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 195982, in federalismi, 4 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in Giustiziainsieme, 11 novembre 2020; Ginevra GRECO, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 2020; B. NASCIMBENE-P. PIVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 24 novembre 2020.
[2] Limiti esterni di giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE (a proposito di Cass. S. U. n. 19598 del 2018), Università Roma Tre, 6 novembre 2020, reperibile on line su giustiziainsieme.it al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1390-motivi-di-giurisdizione-e-pregiudiziale comunitaria-atti-del-convegno-di-romatre-del-6-11-2020? (con Interventi di G. SERGES, G, COSTANTINO, A. CARRATTA, E. CANNIZZARO, F. FRANCARIO, M. LUCIANI, G. RUFFINI, M. A. SANDULLI e A. TRAVI).
[3] Nella Relazione per l’apertura dell’anno giudiziario 1947 del Procuratore generale M. Pilotti presso la Corte di cassazione (L’amministrazione della giustizia e la riforma costituzionale, in Riv. Pen. 1947) si legge al par. 10 che
“In sede di applicazione del R. D. 29 giugno 1939 n. 1127, riguardante i brevetti per invenzioni industriali, ed emanato dal potere esecutivo in forza della delega contenuta nel R. D. L. 24 febhraio 1939 n. 317 (convertito. nella Legge 2 giugno 1939 n. 739), le Sezioni Unite hanno dichiarato incostituzionale la disposizione dell’art. 4 che, contrariamente alla legislazione anteriore, esclude dalla brevettabilità, oltre i medicamenti, anche “i processi per la loro produzione”.
È stata affermata l’incostituzionalità di questa innovazione, perché non consentita dalla legge di delega, che, nell'art. 3, si limitava a conferire al governo il potere di “integrare, di modificare e di sopprimere” le disposizioni da attuare, e non quello di innovarle, mutando l’indirizzo della legislazione preesistente.
L'incostituzionalità della norma, da considerarsi per tal modo arbitraria manifestazione del potere esecutivo, veniva a riflettersi nel campo giurisdizionale. Era infatti impugnata davanti alle Sezioni Unite una decisione della Commissione dei ricorsi (giudice speciale, investito di competenza esclusiva per tutto ciò che riguarda il diritto al conseguimento di una privativa industriale) che aveva ritenuto fondato il rifiuto dell'Ufficio centrale brevetti di brevettare un processo di produzione di acidi, proprio in forza della disposizione proibitiva dell'art. 14 del R. D. 29 giugno 1939 n. 1127.
Si è così profilato un caso originale di eccesso di potere, in cui era incorso il giudice speciale (Commissione dei ricorsi) per aver posto a fondamento della sua pronuncia una invalida disposizione di legge. La Cassazione ha affermato che tale decisione è viziata ai sensi dell'art. 3 L. 31 marzo 1877 n. 3761, perché eccede i limiti delle sue attribuzioni il giudice che le esercita in forza di una legge affetta da illegittimità”.
[4] La bibliografia sul tema, naturalmente, è amplissima: tralasciando gli scritti sulla legge sui conflitti e i commenti alla Costituzione, si ricordano, ex plurimis, senza alcuna pretesa di esaustività, in termini generali – accanto alle pagine di E. CANNADA BARTOLI, Sui «motivi inerenti alla giurisdizione», in Foro Amm., II, 1963, p. 315 e ss. e di M. NIGRO, Giustizia amministrativa, 1973, cap. VIII - V. CAIANELLO, Il limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Scritti in onore di G. Miele, Il processo amministrativo, Milano, 1979; F. MODUGNO, Eccesso di potere, III, in Encicl. Giuridica, Treccani, Roma, 1989; I.M. MARINO, Corte di Cassazione e Giudici “Speciali” (sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.) in Studi onore di Vittorio Ottaviano, Milano, 1993; B. TONOLETTI, Il sindacato della Cassazione sui limiti esterni della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, in Foro It., 1998, I, p. 1567 ss.. Il tema, analizzato a livello monografico da M.V. FERRONI, Il Ricorso in Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato, Padova, Cedam, 2005 e I. ZINGALES, Pubblica amministrazione e limiti alla giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, è stato oggetto di rinnovata attenzione dopo le ordinanze del 2006 sulla pregiudiziale di annullamento (su cui, inter alia, M.A. SANDULLI, Finalmente “definitiva” certezza sul riparto di giurisdizione in tema di “comportamenti” e sulla c.d. “pregiudiziale” amministrativa? Tra i due litiganti vince la “garanzia di piena tutela” (a primissima lettura in margine a Cass., Sez. Un., 13659, 13660 e 13911 del 2006), in Riv. giur. ed., 2006 e R. VILLATA, Corte di Cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in Dir. proc. amm., 2009) e, soprattutto, nell’ultimo decennio. Cfr., tra altri, gli scritti di M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 2012, IV, p. 1677 ss.; A. CORPACI, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. Pubbl., I, 2013, p. 341 e ss.; R. VILLATA, Sui “motivi inerenti alla giurisdizione”, in Riv. dir. proc., 2015, 632 ss.; P. PATRITO, I “Motivi inerenti alla giurisdizione” nell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, Napoli, 2016; R. DE NICTOLIS, L’eccesso di potere giurisdizionale (tra ricorso per “i soli motivi inerenti alla giurisdizione” e ricorso per “violazione di legge”), in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; F. FRANCARIO, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2017; C.E. GALLO, Il controllo della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; M.A. SANDULLI, A proposito del sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni dei giudici amministrativi, Intervento alla Tavola rotonda su “Attualità e prospettive del riparto di giurisdizione”, nell’ambito dell’Incontro di Studi organizzato dalla SSM in collaborazione con l’Ufficio Studi massimario e formazione della giustizia amministrativa su “Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo: i settori controversi e l’esigenza di speditezza del giudizio civile”, svoltosi al TAR del Lazio nei giorni 16 e 17 marzo 2017, ivi, 2017; gli Interventi al Seminario di Studi sul tema “Eccesso di potere giurisdizionale e diniego della giurisdizione dei giudici speciali al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione”, Roma, Corte di Cassazione, 21 settembre 2017; e, dopo la sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, A. PANZAROLA, Il controllo della Corte di cassazione sui limiti della giurisdizione del giudiceamministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., I, 2018; A. CASSATELLA, L’Eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2 del 2018; P. TOMAIUOLI, L’altolà della Corte Costituzionale alla giurisdizione dinamica (a margine della sentenza n. 6 del 2018), in Consulta online, I, 2018; A. POLICE-F. CHIRICO, I «soli motivi inerenti alla giurisdizione» nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Il Processo, I, 2019, 113 ss..
[5] La Corte di Giustizia affermò l’obbligo dei giudici nazionali di disapplicazione delle leggi in contrasto col diritto comunitario in una sentenza del 9 marzo 1978, ma tale decisione, come sottolineava A.M. SANDULLI nel suo Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, par. 13-ter, non collimava con il contenuto della sentenza n. 163 del 1977 della Corte costituzionale.
[6] Cfr. Sez. Un., 8 marzo 2012 n. 3622, che offre interessanti spunti per l'individuazione del confine tra l'operazione logica inerente al sindacato sulla motivazione e quella, di ben diversa natura, consistente nell’operare valutazioni di merito con il risultato di “doppiare” la decisione amministrativa impugnata. La fattispecie riguardava una pronuncia del Consiglio Superiore della Magistratura per il conferimento dell'incarico di Presidente di una Corte d'appello. Le Sezioni Unite, chiarendo preliminarmente che le decisioni del giudice amministrativo sono sindacabili per motivi di giurisdizione solo quando il giudice, sconfinando nella sfera di merito riservata all'amministrazione, compie una diretta e concreta valutazione di opportunità e convenienza dell’atto (sia pur realizzata attraverso la forma dell'annullamento) afferma al contempo che, al fine di valutare eventuali sintomi di eccesso di potere che possono affliggere il provvedimento impugnato, il giudice non potrà esimersi da prendere in considerazione la congruità e la logicità del modo in cui l'amministrazione abbia motivato l'adozione di quell’atto, senza che tale valutazione possa considerarsi eccedente nei limiti della propria giurisdizione. Più recentemente, con la sentenza n.18592 del 7 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno addirittura negato l’invasione del potere amministrativo in un’ipotesi in cui, andando peraltro ultra petita (perché il ricorrente non aveva ardito formulare una tale domanda!), il Consiglio di Stato, a fronte di reiterate pronunce di illegittimità del diniego di ASN per le funzioni di professore universitario, invocando i nuovi poteri riconosciuti al giudice di cognizione dall’art. 34, comma 1, lett. e, cpa, per assicurare l’attuazione del giudicato (tra cui la nomina del commissario ad acta destinato a subentrare all’amministrazione in caso di inottemperanza), in luogo di nominare un organo tecnico ad acta in sostituzione di quelli ritenuti inadeguati, ha direttamente condannato il Ministero al rilascio dell’abilitazione. In quel caso, la Suprema Corte, pur riconoscendo la natura tecnico discrezionale della valutazione de qua, ha invero a ben vedere affiancato il Consiglio di Stato in un’operazione che, a parte l’invasione della sfera amministrativa, si è sostanziata nella “creazione” di una norma ampliativa del potere giurisdizionale totalmente eccentrica al sistema. Si legge infatti nella sentenza, in termini che lasciano sinceramente delusi sull’effettivo esercizio della funzione di controllo che la Cassazione sarebbe chiamata a svolgere, che “Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all'Amministrazione di attribuire alla La Macchia l'abilitazione scientifica nazionale (di seguito: "ASN") alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l'interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l'attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell'attività riservata alla Pubblica Amministrazione”, in quanto “la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed "evolutiva" delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall'art. 34, comma 1, lettera e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell'ottemperanza. E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche - e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza - possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all'esigenza di una tutela piena ed effettiva dell'interessato "secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo", cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all'introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto”. (Questi principi vanno presumibilmente letti in parallelo a quanto affermato nella sentenza n. 19787 del 2015, citata alla nota successiva).
Il confronto tra questa sentenza e la – pressocché coeva (tra le due date di pubblicazione corrono appena 11 giorni) – ordinanza del 18 settembre rivela quindi, per un verso, una sostanziale convergenza delle due magistrature supreme nella ricerca di “interpretazioni evolutive”, e, per l’altro, una estrema – ed eccessiva – ritrosia della Corte di cassazione nel censurare gli “eccessi” del Consiglio di Stato, che stigmatizza solo in caso di “arretramento”.
[7] Ricordo, per tutti, la sentenza 9 novembre 2011 n. 23302, dichiarativa del difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato per aver disposto, in sede di ottemperanza, la ripetizione “ora per allora” di una procedura selettiva precedentemente annullata (per il conferimento dell’incarico di Procuratore Generale aggiunto presso la Corte di cassazione), nonostante i ricorrenti non potessero più fruirne perché collocati in pensione; nonché le sentenze nn. 2312 e 2313 del 2012, che hanno cassato (con rinvio) due pronunce in cui il Consiglio di Stato aveva annullato provvedimenti di esclusione/annullamento dell’aggiudicazione da gare pubbliche per precedenti risoluzioni adducendo il “dubbio” che il reiterato inadempimento documentato dalla stazione appaltante non fosse la “vera” ragione dell’esclusione/autotutela; e, più recentemente, 15 ottobre 2015 n. 19787, che, nel confermare i principi affermati dalla sentenza n. 23302 del 2011 in tema di limiti al potere del giudice di ottemperanza, ha cassato (sempre con rinvio) una pronuncia con cui il Consiglio di Stato, in sede di cognizione, rilevata l’illegittimità di una delibera del CSM per il conferimento di un incarico giudiziario, aveva sostituito la propria valutazione di merito a quella dell’organo di autogoverno.
[8] Vi si legge infatti testualmente e significativamente che “II sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. I, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzionalità, poi disattese (Corte Cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni). A metterlo in crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o forniture”. Le stesse ordinanze rilevavano peraltro che la previsione della tutela risarcitoria degli interessi legittimi introdotta per gli appalti di lavori pubblici dall’art. 13 della legge comunitaria n. 142 del 1992 (espressamente abrogata dal d.lgs. n. 80 del 1998, che, come noto, all’art. 35, generalizzò la tutela risarcitoria degli interessi legittimi devolvendola alla giurisdizione esclusiva del g.a.) “ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perché la Corte costituzionale fosse indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell' art. 24 della Costituzione” (il riferimento era, evidentemente, alle sentenze nn. 204 del 2004 e 191 del 2006, che, per usare sempre le parole delle ordinanze del 13 giugno lasciano però “impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria”).
[9] Alla luce di un attento excursus del quadro legislativo, le ordinanze avevano ritenuto che “il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento” e (dopo aver comunque negato la possibilità di introdurre “una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo” rendendo detto “termine sostanzialmente eguale a quello cui è soggetta la domanda di annullamento perché ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione”), avevano espressamente affermato che “il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. II giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene”.
[10] Lo stesso A. LAMORGESE, estensore dell’ordinanza di rinvio alla CGUE, alla vigilia della pubblicazione della sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, in uno scritto su Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, sulla rivistaFederalismi, si doleva che la Cassazione avesse negli ultimi anni avuto un atteggiamento di self-restraint, svolgendo un sindacato sui “motivi inerenti alla giurisdizione” troppo “cauto” e non abbastanza penetrante. Analogamente, R. DE NICTOLIS, op. cit., p. 32, attribuendo tale cautela ad una (evidente) “consapevolezza che si tratta di un terreno scivoloso in cui, se non si vuole accedere alla tesi del giudice come “bocca della legge”, è innegabile che l’interpretazione della legge ha insito un margine di “creazione” della regola del caso concreto. E se tale “creazione” venisse stigmatizzata come “invasione di campo”, si perderebbe del tutto il confine tra “violazione di legge” e “invasione della competenza legislativa””.
[11] Cfr. le considerazioni critiche svolte in M.A. SANDULLI, “Principi e regole dell’azione amministrativa” riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale, in Federalismi, 6 dicembre 2017, e, da ultimo, in Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 3, 2018. Nella Relazione di insediamento e inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, l’allora Presidente del Consiglio di Stato A. PAJNO, osservava del resto significativamente (pag. 7) che “La crisi dell’amministrazione e quella della legislazione chiamano direttamente in causa la giurisdizione, e in particolare la giurisdizione amministrativa. Anche questa si colloca nel contesto della crisi istituzionale, ed è da essa attraversata, contribuendo talora a risolvere i problemi e qualche volta a complicarli”; e l’attuale Presidente, F. PATRONI GRIFFI, nella Relazione introduttiva al Primo congresso nazionale dei Magistrati amministrativi, Palazzo Spada, 7-8 giugno 2019 (Il giudice amministrativo oggi: ruolo, etica, responsabilità, in www.giustizia-amministrativa.it.) sottolineava che “La crisi della legge impone la revisione del principio di legalità come ereditato dal costituzionalismo moderno. Va in crisi il circuito tradizionale del rapporto tra legge amministrazione e giudice. Il percorso lineare “interesse pubblico - norma di attribuzione del potere - provvedimento”, alla base del principio di legalità del secolo scorso, si è da tempo irreversibilmente modificato, evidenziando il farsi diacronico dell’interesse pubblico in concreto”. Sul tema, tra gli altri, L. FERRAJOLI, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione giustizia, IV, 2016; nonché i contributi ai Convegni nazionali AIPDA degli anni 2014 e 2015 (su L'incertezza delle regole e Le fonti del diritto amministrativo), in Atti AIPDA, Napoli, 2015 e 2016 e alle Giornate di studio sulla Giustizia amministrativa, svoltesi a Modanella nel 2018 (su “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”), raccolti a cura di F. FRANCARIO - M.A. SANDULLI, Napoli, 2018 e ivi, in particolare i rilievi critici di R. BIN, Il diritto alla sicurezza giuridica come diritto fondamentale, p. 41 (“L’inerzia del legislatore giustifica che lui si avventuri a rispondere alla domanda del privato, per non denegare giustizia: ma il bilanciamento dei diritti non è di sua competenza, spetta al legislatore fissarlo e alla Corte costituzionale controllarne la accettabilità”) e di G. SEVERINI, La sicurezza giuridica e le nuove implicazioni della nomofilachia, e nel 2019 (su “Omessa pronuncia ed errore di diritto nel processo amministrativo”), raccolti a cura di F. FRANCARIO - M.A. SANDULLI, Napoli, 2019 e ivi in particolare M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, p. 63; e ancora, lo stesso F. PATRONI GRIFFI, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, in Lo Stato, XII, 2019, p. 376 e, da ultimo, G. CORSO, Il principio di legalità, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI, Milano, 2020, 43 ss..
[12] Nel 1990 la Corte costituzionale riconobbe invece un caso di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore (costituzionale) commesso proprio dalla Corte di cassazione, in una nota pronuncia in cui la III sezione penale (n. 2734 del 1989) disapplicò una legge regionale (dell’Emilia Romagna) ritenendola non conforme alla Costituzione. In quel caso la Consulta (sent. 14 giugno 1990, n. 285), investita dalla Regione per conflitto di attribuzione, premessa l’ammissibilità del conflitto, perché la Regione aveva denunciato un “errore sui confini stessi della giurisdizione e non sull’esercizio di essa”, affermò che il giudice ordinario, avendo disapplicato la legge regionale, aveva esercitato un potere di giurisdizione che la Costituzione affida solo al giudice costituzionale (in violazione degli artt. 101, 117 e 134 Cost.), testualmente riaffermando che “uno dei principi basilari del nostro sistema costituzionale è quello per cui i giudici sono tenuti ad applicare le leggi, e, ove dubitino della loro legittimità costituzionale, devono adire questa Corte che sola può esercitare tale sindacato, pronunciandosi, ove la questione sia riconosciuta fondata, con sentenze aventi efficacia erga omnes. Questo principio non può soffrire eccezione alcuna”. È noto poi, e non è questa la sede per ricordarlo, il dibattito che, all’inizio di questo millennio, si è acceso sulla cd potere di interpretazione conforme.
É interessante peraltro ai nostri fini segnalare che, in quella occasione, la Corte costituzionale colse l’occasione per “aggiungere che ben altra ipotesi è quella di leggi statali o regionali confliggenti con regolamenti comunitari. In tal caso il potere-dovere del giudice di applicare la norma comunitaria anziché quella nazionale (riconosciuto ai giudici dalla sentenza n. 170 del 1984 di questa Corte e dalle successive che hanno confermato e sviluppato tale giurisprudenza) non si fonda sull'accertamento di una presunta illegittimità di quest'ultima, bensì sul presupposto che l'ordinamento comunitario è autonomo e distinto da quello interno, con la conseguenza che nelle materie previste dal Trattato CEE la normativa regolatrice è quella emanata dalle istituzioni comunitarie secondo le previsioni del Trattato stesso, fermo beninteso il rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili della persona umana: di fronte a tale normativa l'ordinamento interno si ritrae e non è più operante”.
[13] Si legge, infatti, in quest’ultima sentenza, che “Giova ancora ribadire che alla non configurabilità dell’eccesso di potere nelle ipotesi in cui il Giudice speciale od ordinario individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione, anche in via analogica, del quadro delle norme, questa Corte è pervenuta movendo dalla considerazione secondo cui l'eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto - dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all'uopo creata - detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un'attività interpretativa; attività quest’ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un'opera creativa della volontà della legge nel caso concreto”.
[14] Cfr. le considerazioni critiche di T. COCCHI, L’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera legislativa. Ancora un’ipotesi meramente teorica? (Note a margine della sentenza Cass., sez. un., 30 ottobre 2019, n. 27842)”, in Osservatorio di giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, a cura di M.A. SANDULLI e M. LIPARI, in Foro amm., n. 2 del 2020.
[15] Nella richiamata sentenza 18592 del 2020, le medesime SS UU hanno, più recentemente, ribadito che “l’eccesso di potere giurisdizionale - qui denunciato — che costituisce un aspetto dei motivi inerenti alla giurisdizione per i quali le sentenze dei Giudici speciali possono essere impugnate dinanzi a queste Sezioni Unite, in base all'art. 111, ottavo comma Cost., deve essere inteso come esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un diverso organo, sia esso legislativo o amministrativo, e cioè come una usurpazione o indebita assunzione di potestà giurisdizionale. Esso presuppone il superamento dei limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali del giudice speciale e l'esistenza di quei soli vizi attinenti all'essenza della funzione giurisdizionale, con esclusione di ogni sindacato sui modi di esercizio della funzione medesima (fra le tante: Cass. SU 11 novembre 1983, n. 6690; Id. 19 aprile 1984, n. 2566; Id. 9 novembre 1994, n. 9290 e, in continuità: Cass. SU 5 dicembre 2016, n. 24740; Id. 5 giugno 2018, 14438; Id. 6 marzo 2020, n. 6462). Pertanto, il suddetto vizio non è configurabile con riferimento all'attività di interpretazione delle norme effettuata dal Giudice speciale perché tale attività - anche quando la "voluntas legis" sia stata individuata, non in base al tenore letterale delle singole disposizioni, ma alla "ratio" che esprime il loro coordinamento sistematico - rappresenta il "proprium" della funzione giurisdizionale e non può dunque integrare, di per sé sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale ma, eventualmente, dare luogo ad un "error in judicando", estraneo al sindacato di queste Sezioni Unite (indirizzo consolidato, di recente ribadito da Cass. SU 28 febbraio 2020, n. 5589)”.
[16] Cfr. le sentenze con cui il TAR Lazio (sentt. n. 2169 e 7460 del 2019 e 12464 del 2020) e il Consiglio di Stato (sent. n. 2859 del 2018) hanno assimilato all’interesse ambientale (che rientra nell’elenco tassativo delle materie cui, in via assolutamente eccezionale, l’istituto non si applica) quello, meramente economico, al recupero degli incentivi in tesi illegittimamente concessi per le fonti rinnovabili di produzione energetica. Sull’ammissibilità di una lettura estensiva delle deroghe all’applicabilità del silenzio assenso stabilite dall’art. 20 l. n. 241 del 1990, la III Sezione civile della Corte di cassazione ha significativamente chiesto la rimessione alle Sezioni Unite (ord. 6 luglio 2020 n. 1 865)
[17] Il riferimento è all’interesse pubblico “autoevidente” invocato dall’Adunanza plenaria n. 8 del 2017, che pure, correttamente, esclude l’ammissibilità della cd “motivazione in re ipsa” (facendola però, non senza contraddizione, rientrare dalla finestra sub specie di autoevidenza).
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2019, n. 7411 che, riformando la sent. TAR Lazio, Sez. I, n. 11494 del 2018, ha ritenuto che, nonostante il silenzio della legge, l’ANAC avesse un potere di accertamento di sulle ipotesi di inconferibilità ed incompatibilità disciplinate dal d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39 e, in generale, sulla corretta applicazione della suddetta disciplina ai sensi dell’art. 16, comma primo, del medesimo decreto.
[19] Cfr. le note sentenze Mottola e Staibano del 4 febbraio 2014.
[20] E’ significativa – e interessante – a tali fini la lettura degli Interventi al Seminario di Studi organizzato presso la Corte di cassazione il 21 settembre 2017, cit. alla nota 4.
[21]Il ricorrente non ha tuttavia più riassunto il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato. Il rilevato “diniego di giustizia” ha così fatto salvo l’affidamento di una concessione di costruzione e gestione per ben 33 anni di un’opera strategica finanziata con fondi comunitari a un soggetto che non ha mai prodotto (né nel procedimento, né in giudizio) i prescritti certificati penali.
[22] Analogamente, nella sentenza nn. 6605 del 2015 si affermava che “La giurisprudenza di queste sezioni unite 2011 e n. 15428 del 2012) ha infatti ripetutamente chiarito che il ricorso col quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 362 c.p.c., soltanto se il rifiuto sia stato determinato dalla affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, la quale non possa per questo essere da lui conosciuta (v. s.u. n. 3037 del 2013 e tra le altre v. anche s.u. n. 26583 del 2013, secondo la quale appartiene all'area del sindacabile rifiuto della propria giurisdizione solo quel diniego di tutela da parte del giudice amministrativo che si radichi nella affermazione della esistenza di un ostacolo generale alla conoscibilità della domanda, mentre si sottrae a detto sindacato quel diniego che discenda direttamente ed immediatamente: dalla lettura o dalla applicazione delle norme invocate a sostegno della pretesa e che pertanto di tale lettura costituisca applicazione nel processo), onde l'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti comunque non giustifica il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia (cfr. su n. 10294 del 2012), ma la tutela giurisdizionale si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori in iudicando o in procedendo che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso (cfr. anche su n. 771 del 2014). Deve peraltro aggiungersi che secondo la giurisprudenza di queste sezioni unite è configurabile l'eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un elidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell'interpretazione della legge (v. su n. 24468 del 2013 nonché tra le altre su n. 17933 del 2013 n. 15428 del 2012) ed inoltre che, ove il problema si ponesse eventualmente in relazione alla interpretazione della giurisprudenza comunitaria, anche l'eventuale erroneità della decisione sul punto non la renderebbe perciò solo sindacabile in questa sede (v. tra le altre su n. 2242 del 2015, secondo la quale il controllo del limite esterno della giurisdizione - che l'art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di cassazione - non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errori "in iudicando" o "in procedendo" per contrasto con il diritto dell'Unione europea, salva l'ipotesi, "estrema", in cui l'errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di Giustizia Europea, sì da precludere l'accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo)”. Analogamente, tra le successive, la sentenza n. 26899 del 2016 e, in riferimento alla giurisprudenza CEDU, la sentenza n. 26992 del 2016.
[23] Appare utile riportare alcuni passaggi principali della sentenza 4 febbraio 2014 n. 2403, chiarissima, in tal senso, in cui le Sezioni Unite hanno dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto ex art. 111, comma 8, Cost. per contestare una decisione del Consiglio di Stato ritenuta ingiustamente applicativa di una norma sostanziale contraria al diritto UE, affermando testualmente che “In questa prospettiva, il ricorso con il quale venga denunciato un rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi inerenti alla giurisdizione soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall'affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, oppure nei casi, estremi, nei quali l'errore si sia tradotto in una decisione anomala o abnorme, frutto di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, non quando si prospettino come omissioni dell'esercizio del potere giurisdizionale meri errori in iudicando o in procedendo (Sez. Un., 26 gennaio 2009, n. 1853; Sez. Un., 12 marzo 2012, n. 3854; Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 3037; Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17933; Sez. Un., 9 settembre 2013, n. 20590; Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 774; Sez. Un., 27 gennaio 2014, n. 1518). L'evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 111, ultimo comma, Cost., quando non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giustizia, ma la tutela negata si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori, di giudizio o processuali, che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame (Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 771).
Con particolare riguardo, poi, alla questione se l'esigenza di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione europea e la necessità che le disposizioni di legge vigenti siano conformi ai vincoli derivanti dall'appartenenza all'Unione, ai sensi dell'art. 117 Cost., impongano di ritenere impugnabili per cassazione le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano adottato una interpretazione della norma interna non conforme al diritto eurounitario o abbiano violato l'obbligo di disapplicazione per illegittimità comunitaria, queste Sezioni Unite hanno escluso che la violazione del diritto dell'Unione da parte del giudice amministrativo valga, di per sé, ad integrare un superamento delle attribuzioni del giudice amministrativo. La primazia del diritto dell'Unione europea - si è osservato (Sez. Un. 10 marzo 2012, n. 3236) - "non sovverte gli assetti procedimentali degli ordinamenti nazionali (e la relativa funzione di garantire certezza e stabilità ai rapporti giuridici)": sicché, per un verso, "il mancato accoglimento, da parte del Consiglio di Stato (organo di vertice dell'ordinamento giurisdizionale di appartenenza), di una richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia del Lussemburgo... è determinazione che, essendo espressione della potestas iudicandi devoluta a quel giudice, non esorbita i ‘limiti interni' della sua giurisdizione", e, per l'altro verso, "il ricorso per cassazione, teso ad accertare la ricorrenza, esclusa dal Consiglio di Stato, delle condizioni per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, è inammissibile, giacché si risolve in una impugnativa diretta, non già a prospettare una questione attinente alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma a denunciarne un (supposto) errore di giudizio". In questa prospettiva, si è ribadito (Sez. Un., 20 gennaio 2014, n. 1013, cit.) che il mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato alla Corte di giustizia non configura una questione attinente allo sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, e che - impugnata per cassazione una decisione del giudice amministrativo - non sussistono neppure le condizioni perché la Corte, la cui cognizione è limitata ai motivi attinenti alla giurisdizione, prospetti alla Corte di giustizia "quesiti interpretativi che attengono al merito della vertenza e non al tema della giurisdizione"; non senza ricordare che "l'ordinamento giuridico interno assicura comunque una effettività di tutela rispetto al pregiudizio ipoteticamente subito a fronte della lesione di un diritto riconosciuto dal Trattato europeo, ben potendo il preteso danneggiato ottenere il relativo ristoro in sede risarcitoria" (Sez. Un., 5 luglio 2013, n. 16886).
4. Nella specie il ricorrente non denuncia un rifiuto di giurisdizione: non si duole, cioè, che il giudice amministrativo, al quale si è rivolto, si sia rifiutato di erogare la richiesta tutela per l'affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda proposta. Egli lamenta, piuttosto, che il giudice amministrativo, nell'esaminare la domanda, l'abbia rigettata per un errore interpretativo, non avendo dato all'art. 11 della legge della Regione Siciliana n. 11 del 1988 una lettura conforme a quella risultante da pronunce della Corte di giustizia con riguardo alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio.
Il ricorrente contesta la legittimità del concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali attribuite al giudice amministrativo, e quindi finisce in realtà per sollecitare, al di là della prospettazione formale, un sindacato per violazione di legge. La doglianza non attiene alla corretta individuazione dei limiti esterni della giurisdizione - che, come detto, non sono soltanto quelli che separano i diversi plessi giurisdizionali ma anche quelli che stabiliscono fin dove ciascun giudice è tenuto ad esercitare il potere-dovere di ius dicere - ma investe un vizio del giudizio concernente il singolo e specifico caso.
Sennonché, l'error in iudicando non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale solo perché viene in gioco, nell'interpretazione della norma sostanziale attributiva di diritti, il diritto dell'Unione. Non ogni pretesa deviazione dal corretto esercizio della giurisdizione, sotto il profilo interpretativo ed applicativo del diritto sostanziale, si risolve in un difetto di giurisdizione sindacabile ad opera della Corte di cassazione, a meno che non ci si trovi di fronte ad un indebito rifiuto di erogare la dovuta tutela giurisdizionale a cagione di una male intesa autolimitazione, in via generale, dei poteri del giudice speciale. "Qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell'esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull'esito della decisione, può essere letta - hanno ricordato queste Sezioni Unite (sentenza 17 maggio 2013, n. 12106) - in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente soltanto se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame. Non per questo, però, ogni errore di giudizio... imputabile al giudice è qualificabile come un eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione".
5. Il Collegio ritiene che, nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del rispetto del limite esterno della giurisdizione che la Costituzione affida alla Corte di cassazione non includa la funzione di finale verifica della conformità di quelle decisioni al diritto dell'Unione europea.
La tesi, prospettata dal ricorrente, di una funzione di nomofilachia della Corte di cassazione estesa fino a comprendere l'esercizio di un sindacato sull'osservanza, da parte del giudice amministrativo, della giurisprudenza della Corte di giustizia o dell'obbligo di rinvio pregiudiziale, non tiene conto della circostanza che - fermo il compito affidato dalla Costituzione alle Sezioni Unite della Cassazione di verificare il mantenimento delle varie giurisdizioni speciali, compreso il Consiglio di Stato, nei limiti dei loro poteri e delle loro competenze - nel plesso della giurisdizione amministrativa spetta al Consiglio di Stato, alle sue sezioni e all'adunanza plenaria, quale giudice di ultima istanza ai sensi dell'art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (ex art. 234 TCE), garantire, nello specifico ordinamento di settore, la compatibilità del diritto interno a quello dell'Unione, anche e soprattutto attraverso l'operazione interpretativa del diritto eurounitario, originario e derivato, svolta dalla Corte di giustizia, all'uopo sollecitata, se del caso, mediante il meccanismo della questione pregiudiziale, e così contribuire alla formazione dello jus commune europaeum.
Del resto, la soluzione prospettata dal ricorrente, ad essere conseguenti, dovrebbe valere non solo quando l'azione amministrativa rientri nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione, ma anche quando essa abbia un'origine esclusivamente nazionale: anche in tal caso, infatti, il principio di effettività della tutela richiederebbe, per coerenza, la garanzia dell'uniformità dell'interpretazione delle norme attributive di diritti soggettivi, tanto più quando sono in gioco i diritti fondamentali della persona (di cui sempre più spesso conosce il giudice amministrativo, con un catalogo di materie rientranti nella sua giurisdizione esclusiva che si va facendo via via più fitto ed esteso), e quindi una nuova configurazione dell'eccesso di potere giurisdizionale derivante dall'errore interpretativo. A questo risultato, tuttavia, le Sezioni Unite, sinora, non hanno ritenuto di poter pervenire, pur nella consapevolezza dell'esistenza di profili problematici, perché il principio di eguaglianza postula "l'esigenza della uniforme interpretazione della legge", la quale invece, "stante la non ricorribilità delle sentenze dei giudici amministrativi per violazione di legge", non ha "strumento alcuno per attuarsi a fronte di differenti orientamenti (e di un diverso diritto vivente, quindi) che dovesse (e lo potrebbe) formarsi in ordine a medesime disposizioni... nelle non comunicanti giurisprudenze dei giudici ordinari e amministrativi" (Sez. Un., 30 marzo 2000, n. 72).
Certo, può accadere che la decisione del giudice amministrativo di ultima istanza contenga una violazione del diritto comunitario in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell'Unione.
Ma il principio di effettività della tutela in presenza di danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili al giudice amministrativo di ultima istanza non impone né di riaprire quella controversia ormai definitivamente giudicata negli aspetti di merito né di attribuire alla parte soccombente un nuovo grado di impugnazione dinanzi al giudice regolatore della giurisdizione al fine di rimediare ad un errore che, pur "sufficientemente caratterizzato", non si traduca in uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione devoluta al giudice amministrativo. L'ordinamento conosce infatti, là dove la violazione del diritto comunitario sia grave e manifesta, altri strumenti di tutela, secondo una logica di compensazione solidaristica (cfr. Corte di giustizia, sentenza 30 settembre 2003, nel procedimento C-224/01, Köbler e Repubblica d'Austria; Corte di giustizia, sentenza 13 giugno 2006, nel procedimento C-173/03, Traghetti del Mediterraneo s.p.a., in liquidazione, contro Repubblica italiana; Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)”.
[24] Cfr. M. MAZZAMUTO, L’eccesso di potere, cit..
[25] Vi si legge infatti testualmente (e in coerenza con il menzionato scritto del suo estensore, antecedente alla sentenza della Consulta) che “L'orientamento consolidato delle Sezioni Unite (sino alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 di cui si dirà) era nel senso che, in sede di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo dei limiti esterni della giurisdizione — che l'articolo 111, ottavo comma, Cost., affida alla vigilanza della Corte di cassazione — non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare meri errori «in iudicando» o «in procedendo», «salvo i casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell'Unione) tali da ridondare in denegata giustizia, ed in particolare, salvo il caso, tra questi, di errore "in procedendo" costituito dall'applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l'accesso alla tutela giurisdizionale nell'ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell'Unione europea, direttamente applicabili, secondo l'interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia» (in tal senso Sez. Un., n. 31226 del 2017 citata; in senso conforme, Sez. Un. 18 dicembre 2017, n. 30301; 17 gennaio 2017, n. 953; 8 luglio 2016, n. 14042; 29 febbraio 2016, n. 3915; n. 2242 del 2015 citata)”.
[26] L’ordinanza ha per vero buon gioco nel ricordare, che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 6 del 2018, “riconosce che «specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste», ma osserva che «deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione [quindi, di quella amministrativa per le sentenze dei giudici amministrativi], eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'articolo 395 cod. proc. civ.»”; e nel rappresentare (criticamente) al Giudice sovranazionale che “Tale rimedio, tuttavia, non è previsto dal legislatore nazionale come strumento ordinario per porre rimedio alle violazioni del diritto dell'Unione che siano addebitate agli organi giurisdizionali. La stessa Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93); in altra decisione, ha dichiarato inammissibile una analoga questione sollevata dai giudici amministrativi (Corte cost. 2 febbraio 2018, n. 19)”. Aggiunge peraltro, e correttamente, che “Tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell'istituto della revocazione (sub paragrafo 15, in relazione all'art. 395 cod. proc. civ.) e, specialmente, quando le sentenze delle Corte sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. E' comunque dubbio che esso sia idoneo a paralizzare l'ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione”.
[27] Si ricorda al pt. 42 dell’ordinanza che “Una rilevante declinazione del principio di effettività trova specifico riconoscimento negli articoli 19, par. 1, comma 2, TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, i quali impongono agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione (ad esempio, Corte di giustizia, 4 giugno 2013, C-300/11, ZZ, p. 55, 57, 65). Nell'ordinamento nazionale la «tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» costituisce obiettivo proclamato anche nel codice del processo amministrativo (articolo 1)”.
[28] Rinvio, da ultimo, alle considerazioni svolte in Processo amministrativo, cit. alla nota 4.
[29] Laddove si fa indebito riferimento all’esigenza di ciascun concorrente di “far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell'offerta degli altri”.
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