ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La colpa medica: un work in progress[1]
di Francesco Palazzo
Sommario: 1. Premessa – 2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario – 3. Ambiguità ed incertezze legislative – 4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo” – 5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali – 6. Un buon risultato paralegislativo.
1. Premessa
Queste note hanno ad oggetto la recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di responsabilità penale del medico per gli eventi avversi – morte o lesioni – verificatisi nell’esercizio della sua professione. Intendiamo assumere quella complessa problematica ad esempio paradigmatico per mettere in luce come talvolta, per non dire spesso, la disciplina legislativa e il testo legale costituiscano solo il primo mattone dell’edificio normativo alla cui costruzione contribuisce in misura determinante l’opera della giurisprudenza. E quest’ultima sovente procede per tentativi ed aggiustamenti successivi, nel corso dei quali l’intervento del massimo organo di nomofilachia, la Corte di cassazione a Sezioni riunite, reca un contributo decisivo ma non sempre immediatamente risolutivo.
Il ruolo svolto dall’opera della giurisprudenza, che ormai pacificamente produce un vero e proprio “diritto giudiziario” parallelo quando non antagonistico a quello legislativo, implica una forte esigenza di prevedibilità della decisione giudiziaria che, però, si pone al centro di una contraddizione non facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, l’esigenza di prevedibilità costituisce il prodotto di una sorta di surrogazione per la quale alla tradizionale legalità della legge si surroga, appunto, la prevedibilità della decisione giudiziaria al fine di appagare, seppure per altra via, la stessa fondamentale istanza di garanzia consistente nella possibilità e libertà di autodeterminazione del cittadino dinanzi ai precetti comportamentali del diritto penale. Dall’altro lato, però, non è affatto facile assicurare realmente la prevedibilità della decisione giudiziaria proprio in ragione delle stesse caratteristiche del diritto giudiziario, che – come mostrerà limpidamente il nostro esempio – spesso rivela una grande mobilità e instabilità, suscitata anche dalle imperfezioni dei testi legislativi e comunque orientata all’individuazione della soluzione più confacente alle esigenze sostanziali della materia: insomma, è difficile che il diritto giudiziario non si formi attraverso una serie più o meno lunga e talvolta tortuosa di tentativi e aggiustamenti. E, sotto questo profilo, le soluzioni patrocinate di recente, ad esempio con la riforma dell’art. 618 c.p.p. sul giudizio di cassazione, pur apprezzabili per lo scopo di accentuare la prevedibilità del diritto giudiziario, possono per contro preoccupare proprio per il rischio di un eccessivo irrigidimento di quest’ultimo.
2. Medicina difensiva e non punibilità del sanitario
Il contenimento della responsabilità penale del medico per gli eventi avversi prodottisi nell’esercizio della sua attività è un’esigenza politico-giuridica che nasce dall’eccessivo ricorso da parte dei sanitari alla c.d. medicina difensiva. Com’è ben noto, la medicina difensiva è una pratica messa in atto, a sua volta, per contrastare gli eccessi con cui, in un recentissimo passato, la giustizia penale si muoveva a colpire presunti errori colpevoli dei sanitari e più in generale episodi di c.d. malasanità. Dinanzi all’innalzamento del c.d. “rischio penale” i medici si “cautelano” con due atteggiamenti difensivi. In senso attivo (medicina difensiva positiva), i medici tendono ad eccedere nel ricorso a mezzi diagnostici e interventi terapeutici, di cui non vi sia effettiva necessità o utilità curativa ma la cui prescrizione serve a cautelarsi contro un eventuale rimprovero di trascuratezza. Con la conseguenza però, non solo di gravare sui bilanci delle strutture sanitarie pubbliche, ma anche di intasarle producendo così ritardi e liste d’attesa pregiudizievoli per la salute dei cittadini. In senso passivo (medicina difensiva negativa), i medici tendono a “scaricare” su altri sanitari il paziente che possa essere a rischio, in modo da evitare l’attribuzione del possibile evento avverso: e anche ciò evidentemente, rallentando e complicando l’intervento terapeutico, può essere nocivo per la salute dei cittadini.
L’esigenza di contrastare la pratica della medicina difensiva è, dunque, reale; così come è reale l’esigenza di un più oculato e controllato esercizio dello strumento penale per contrastare i casi di effettiva malpractice medica. Per far fronte a queste indiscutibili esigenze si è preferito imboccare la via legislativa di prevedere espresse clausole di esclusione della punibilità del medico, invece di privilegiare la via giudiziaria di un uso più sorvegliato e accorto degli istituti e dei principi in materia di responsabilità colposa. Probabilmente, l’opzione a favore della via legislativa è stata motivata anche dello scopo di assicurare alla materia una maggiore certezza applicativa. Come vedremo, invece, è stato raggiunto l’effetto esattamente contrario, poiché l’incertezza ha contrassegnato non solo l’applicazione giurisprudenziale delle nuove norme, ma addirittura l’azione dello stesso legislatore che è intervenuto ben due volte in materia e a distanza di pochi anni, suscitando così anche aggiuntive incertezze di diritto intertemporale.
Può essere utile riprodurre i due testi legislativi con cui si è inteso circoscrivere la punibilità del medico. Il primo è costituito dall’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito in l. 8 novembre 2012, n. 189) (c.d. decreto Balduzzi) e dispone quanto segue: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Il secondo testo è costituito da un nuovo articolo del codice penale, l’art. 590 sexies, introdotto dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), che recita: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. ǀǀ Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi della legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto».
Senza poter scendere qui nell’analisi dettagliata delle due disposizioni, appare abbastanza chiara l’idea di fondo loro comune, e cioè l’esclusione della responsabilità nel presupposto dell’osservanza delle leges artis sufficientemente consolidate, provvedendo peraltro la legge Gelli-Bianco a costruire un complesso meccanismo pubblicistico di accreditamento e pubblicazione delle linee guida. In sostanza, il messaggio generico sotteso al duplice intervento legislativo è che il medico non può soggiacere all’incertezza (se non all’alea) della responsabilità penale una volta che egli abbia osservato le leges artis “codificate”.
3. Ambiguità ed incertezze legislative
Poste così le necessarie premesse del discorso, possiamo passare ora a delineare sinteticamente l’evoluzione della vicenda che c’interessa, non senza aver sottolineato che si tratta di questione grandemente rilevante. E ciò non solo perché attiene alla disciplina giuridica di un settore, quello medico appunto, che riguarda in sostanza l’intera popolazione e al quale – com’è naturale – siamo tutti molto sensibili. Ma anche perché la questione tocca uno dei sancta sanctorum del diritto penale contemporaneo qual è appunto quello della responsabilità colposa e dei suoi limiti.
La recente vicenda della disciplina penale della responsabilità medica è una vicenda anomala, quanto meno perché si presenta assai poco lineare. Come già si può notare dalla semplice lettura dei due testi legislativi, il legislatore è stato, da un lato, ben determinato nella sua decisione di intervenire per via legislativa contro indubbi eccessi giurisprudenziali, ma dall’altro lato si è rivelato incerto e quasi timoroso, tornando ben presto sui suoi passi per ridurre la portata dell’esclusione di punibilità. Per parte sua, la giurisprudenza, dopo un’iniziale accoglienza sostanzialmente ostile all’innovazione legislativa, e anche dopo molte oscillazioni in gran parte dovute all’imperfezione dei testi, sembra oggi convincersi sempre più della necessità di una delimitazione della responsabilità, consolidando – come vedremo – un orientamento che non esita a forzare il dato legislativo pur di dare coerenza alla disciplina.
Probabilmente l’anomalia di questa vicenda non è casuale. Al contrario, essa nasce forse da una certa qual contraddizione interna alla questione. Da un lato, in linea di principio, siamo quasi istintivamente portati a nutrire sospetto verso le cause speciali di esclusione della punibilità: esse, infatti, non solo creano necessariamente un vuoto di tutela nei confronti dei beni protetti, ma rischiano talvolta di rivelarsi dei privilegi. Insomma, per superare queste diffidenze occorre che le cause di non punibilità superino un vaglio di ragionevolezza (e costituzionalità) sia dal lato passivo dei beni tutelati sia da quello attivo dei soggetti esonerati. Dall’altro lato, però è anche vero, e qui sta l’apparente contraddizione, che nella peculiare materia dell’attività medica, la causa di non punibilità non si pone in antitesi con la tutela dei beni finali della vita e salute dei pazienti. Anzi, rispetto a tale tutela è perfettamente consentanea, visto e considerato che la pratica della medicina difensiva costituisce un ostacolo alla migliore tutela dei cittadini. E la causa di non punibilità nasce proprio per contrastare la pratica della medicina difensiva.
Anche per quanto riguarda il lato attivo dei soggetti esonerati, è improprio parlare di “privilegio” della classe medica, visto e considerato – come non ha mancato di sottolineare la giurisprudenza – che la delimitazione della loro responsabilità penale per colpa risponde ad un principio generale dell’ordinamento espresso dall’art. 2236 c.c. con riguardo a tutti i professionisti che si trovano ad operare su casi specialmente complessi, come sono sicuramente quelli oggetto di trattamento medico («Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»).
4. I criteri di delimitazione della colpa: il criterio “quantitativo”
In linea generalissima, la recente evoluzione sia dottrinale che giurisprudenziale della colpa penale ha messo in luce il carattere che si potrebbe dire “sincretistico” della colpa penale: alieno, cioè, da eccessive distinzioni e suddistinzioni concettuali. Questo processo storico-culturale è avvenuto mediante la forte valorizzazione della violazione delle regole cautelari quale nucleo essenziale della colpa, finendo così per mettere in ombra la dimesione psichica di questa davvero complessa forma di imputazione soggettiva del reato. A riprova di quanto andiamo dicendo basta rammentare come, in sede teorica, è diventata quasi recessiva la distinzione un tempo fondamentale tra colpa generica e colpa specifica; così come è addirittura quasi scomparsa dai manuali l’altra distinzione che tripartisce la colpa generica nelle tre specie della negligenza, dell’imprudenza e dell’imperizia. Al più, queste distinzioni sono utilizzate solo per differenziare, ove necessario, le diverse tipologie di regole cautelari violate. Ma ciò che resta essenziale è appunto l’individuazione di una regola che abbia natura realmente cautelare, della sfera del pericolo cui la regola intende far fronte, della corrispondenza tra evento avverso prodotto e sfera del pericolo considerato dalla regola, nonché infine della efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito.
Anche in sede applicativa il dominante sincretismo della colpa è ben visibile nella formulazione di molti capi d’imputazione che spesso affastellano nella contestazione colposa tutte le possibili forme di colpa delineate dall’art. 43 c.p. e che raramente è dato scindere ed individuare separatamente almeno in sede preliminare di formulazione dell’accusa. Può darsi che dietro questo diffusissimo modus procedendi vi sia anche una componente di sciatteria, ma non è affatto improbabile che ciò riveli anche una certa impraticabilità di quelle pur apparentemente lineari e tramandate distinzioni codicistiche.
Ebbene, le riforme del decreto Balduzzi e della legge Gelli-Bianco vanno in direzione esattamente opposta alla tendenza sincretistica che oggi caratterizza la colpa: esse distinguono implicitamente tra colpa generica e colpa specifica, isolano l’imperizia tra le varie forme di colpa generica, rilanciano la distinzione tra colpa grave e colpa lieve che per lungo tempo era stata abbandonata dalla giurisprudenza penale che la utilizzava solo in sede di commisurazione della pena a norma dell’art. 133 c.p. Orbene, questa frammentazione della colpa in varie distinzioni e suddistinzioni, divenuta rilevante a seguito delle riforme non più solo per graduare la responsabilità colposa ma ancor prima per affermarne l’esistenza, ha logicamente prodotto la conseguenza di aggravare notevolmente l’onere motivazionale del giudice, costringendolo a calare nell’accertamento probatorio del fatto una griglia di distinzioni ardue già da un punto di vista concettuale, come abbiamo visto. Esemplare in questo senso è, ad esempio, tra le più recenti, la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4892/2020, Scuderi: «una motivazione che tralasci di indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, di valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, o di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza, ma anche una motivazione in cui non sia appurato se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge».
Per cercare di orientarsi meglio sulle ragioni profonde di questo modo di procedere del legislatore che va in cerca di una delimitazione – per così dire verso il basso – della colpa penale in campo medico, può essere utile considerare quali opzioni si presentavano astrattamente possibili al riformatore. In linea di principio le vie percorribili erano due. La prima potrebbe esser detta quantitativa, facendo riferimento alla tradizionale distinzione tra colpa grave e colpa lieve per giungere ad espungere la seconda dall’area della rilevanza penale. La seconda potrebbe dirsi qualitativa, in quanto basata sulla distinzione – appunto qualitativa – tra le varie specie di colpa e le diverse tipologie di regole cautelari violate. E’ chiaro, poi, che i due criteri – quantitativo e qualitativo – possono essere anche fra loro commisti, ancorché l’ispirazione di fondo della soluzione rimanga riconducibile all’una o all’altra prospettiva.
Il criterio quantitativo, in virtù del quale la colpa lieve viene espunta dall’area di rilevanza penale, presenta pregi e difetti. Il suo maggior difetto è l’indeterminatezza derivante proprio dalla sua natura quantitativa. Ma è pur vero che questa indeterminatezza significa nello stesso tempo duttilità del criterio e sua capacità di adeguarsi al caso concreto, alle sue proteiformi manifestazioni nella realtà effettuale com’è appunto avviene specialmente in campo medico. I suoi pregi sono numerosi. Intanto si tratta di un criterio largamente conosciuto nella nostra tradizione giuridico-penale e consacrato dall’art. 2236 c.c. per quanto riguarda la responsabilità civile. Ma soprattutto corrisponde a quel carattere "sincretistico" della colpa che abbiamo già evidenziato e in ragione del quale la colpa risulta essere un giudizio complesso effettuato alla stregua di numerosi parametri. E qui arriviamo, in effetti, al pregio fondamentale del criterio quantitativo della colpa lieve, e cioè la possibilità – appunto “sincretistica” – che esso offre al giudice di avvalersi di più e diversi parametri congiuntamente: il giudizio di colpa lieve/grave deve infatti tener conto certamente delle “speciali difficoltà” del caso ma anche delle caratteristiche di contesto in cui è chiamato ad operare il medico (l’urgenza, le scarse risorse tecniche, ecc.) nonché delle condizioni personali dell’operatore (la stanchezza accumulata, il grado di esperienza maturata, ecc.), fino ad arrivare alla c.d. misura soggettiva della colpa intesa in termini di soggettiva e contingente esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari.
Ebbene, delle due riforme il decreto Balduzzi era chiaramente ispirato in modo prevalente al criterio quantitativo, visto che faceva riferimento espresso alla colpa lieve senza peraltro distinguere tra le varie specie di colpa. E, invero la giurisprudenza aveva conseguentemente ritenuto di poter configurare la colpa lieve anche al di là del perimetro segnato dall’imperizia, includendo anche la negligenza e l’imprudenza.
5. Il criterio “qualitativo” adottato dalla legge Gelli-Bianco e le manipolazioni giurisprudenziali
La legge Gelli-Bianco va invece in direzione decisamente opposta, optando per il criterio qualitativo e abbandonando la distinzione tra colpa grave/colpa lieve. La riforma s’impegna invero in una implicita ma evidente differenziazione delle tipologie di regole cautelari e leges artis rilevanti.
L’art. 590 sexies, comma 2, c.p. individua innanzitutto due tipologie di regole cautelari, o leges artis, la cui osservanza è condizione essenziale perché possa operare la causa di non punibilità. Recita infatti quella disposizione che «la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalla linee guida [come definite e pubblicate ai sensi della legge] ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Si può dunque dire che, affinché possa scattare la causa di non punibilità, debbono essere rispettate, in primo luogo, le regole generali relative all’inquadramento diagnostico-terapeutico del caso in questione (ad es. l’inquadramento della patologia oncologica in una certa specie di tumore per il quale i protocolli prevedono in generale un determinato trattamento): a questo tipo di regole fa riferimento la legge quando parla di “linee guida” (definite e pubblicate conformemente alle procedure previste dalla legge) ovvero di “buone pratiche clinico-assistenziali”. In secondo luogo, e a differenza di quanto invece disponeva – o meglio non disponeva – il decreto Balduzzi, la non punibilità è subordinata all’osservanza delle “regole di adeguamento” al caso concreto, che ben possono, e solitamente sono, anche in deroga a quelle generali d’inquadramento diagnostico-terapeutico (ad es. correttamente inquadrata la patologia oncologica, le particolari condizioni del paziente suggeriscono di allontanarsi dalle linee guida [o buone pratiche] del trattamento terapeutico previsto da queste ultime).
In presenza di un siffatto quadro normativo si pone subito un arduo problema interpretativo, anzi quello che fu ritenuto un vero e proprio rebus interpretativo ai limiti della insolubilità. Posto, infatti, che la causa di non punibilità presuppone l’osservanza delle leges artis d’inquadramento del caso nonché quelle di adeguamento alle sue specificità concrete, quale spazio residua per l’operatività della causa di non punibilità? Quest’ultima implica pur sempre che il comportamento del medico sia colposo, ma se al contempo la condizione per la sua applicazione è l’osservanza di ben due categorie fondamentali di regole cautelari, quali potranno essere le leges artis la cui inosservanza caratterizzerà il comportamento colposo rientrante nella fattispecie di non punibilità? Insomma, la formulazione dell’art. 590 sexies c.p. è tale per cui, almeno ad una prima lettura, l’ambito della non punibilità sembra coincidere con ipotesi originariamente non colpose: se così fosse realmente, la norma sarebbe del tutto inutile.
E’ stata la giurisprudenza ad impegnarsi nell’ardua opera d’individuazione della tipologia di quelle regole cautelari la cui inosservanza è suscettibile di dare corpo ad una colpa non punibile ai sensi dell’art. 590 sexies c.p. Questa tipologia di regole fu individuata nelle c.d. regole esecutive o di attuazione: esecutive o attuative delle regole d’inquadramento generale o di adeguamento al caso. Così, ad esempio, inquadrato esattamente il caso e programmato l’intervento terapeutico tenendo conto delle specifiche caratteristiche del paziente, il chirurgo erra nell’esecuzione dell’operazione (Cass. Sez. IV, n. 50078/2017, Cavazza: la causa di non punibilità è «operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse»).
La ricostruzione giurisprudenziale dell’art. 590 sexies c.p. è senz’altro meritoria poiché conferisce un senso alla disposizione, ma certamente ne delinea – ed è già molto dato il suo tenore letterale – un campo applicativo ad un tempo eccessivamente limitato e potenzialmente troppo largo. Eccessivamente limitato perché la categoria delle norme esecutive o attuative è davvero particolarissima e molto residuale, e sembra inoltre essere stata individuata pensando prevalentemente al settore della chirurgia; troppo largo perché anche nell’esecuzione materiale del trattamento possono manifestarsi comportamenti colposi di estrema gravità (come, ad es., quello del chirurgo che commetta un grossolano errore esecutivo).
In secondo luogo, la legge Gelli-Bianco introduce un ulteriore forte limite alla non punibilità, assente nel decreto Balduzzi. A tenore del nuovo art. 590 sexies c.p. la causa di non punibilità è limitata alla sola colpa per imperizia. E con ciò le difficoltà interpretative si accentuano ulteriormente. E’ probabile che la ragione sostanziale di questa limitazione stia nella convinzione del legislatore che, mentre la negligenza e imprudenza esprimono due atteggiamenti soggettivi di indifferenza se non di ostilità nei confronti dei beni giuridici, l’imperizia è invece un difetto cognitivo o esecutivo, un errore, come tale meritevole di essere trattato con maggiore benevolenza nel campo medico caratterizzato da incertezza.
Pur essendoci del vero in questa convinzione, ciò nondimeno non per questo la disposizione cessa di essere di difficoltosa interpretazione e di produrre l’effetto di una sorta di sterilizzazione delle sue potenzialità applicative. La dottrina già da tempo aveva messo in luce la scarsa autonomia concettuale dell’imperizia in generale: come semplice difetto delle conoscenze e delle abilità necessarie, l’imperizia non è in grado di dare compiuta consistenza alla colpa e al rimprovero che essa implica. Oggi, poi, è intervenuta nella specifica materia della responsabilità medica un’importantissima sentenza della Cassazione che ha fatto chiarezza sulla natura dell’imperizia. Si tratta della sentenza della Quarta sezione n. 15258/2020, nella quale sono stati chiariti due aspetti fondamentali. Innanzitutto, si è messo bene in luce come l’imperizia s’identifichi in sostanza con l’errore professionale come tale non necessariamente colpevole («si deve rimarcare che dopo aver accertato la violazione della regola cautelare, occorre accertare che quella violazione sia stata colposa; in questo secondo step deve darsi massimo spazio alla realtà dell’autore fisico e alle condizioni concrete nelle quali si è materializzato il fatto»). L’imperizia sta in sostanza ad indicare l’oggettivo scostamento del comportamento dalle regole cautelari caratteristiche delle attività tecnico-professionali, nelle quali le regole cautelari implicano l’osservanza delle leges artis, la cui violazione dà luogo appunto ad imperizia. In secondo luogo, si è affermato esattamente che l’errore professionale, cioè il comportamento imperito, trasmoda in colpa solo quando l’incapacità di adeguarsi alle leges artis tecnico-professionale sia accompagnata da un atteggiamento colpevole di negligenza o imprudenza. Questo significa che anche nella colpa per imperizia refluiscono componenti negligenti o imprudenti («in linea di massima, l’agire dei professionisti, e quindi anche dei sanitari, si presta ad esser valutato primariamente in termini di perizia/imperizia; per definizione le attività professionali richiedono l’uso di perizia, cioè il rispetto delle regole che disciplinano il modo in cui quelle attività devono essere compiute per raggiungere lo scopo per il quale sono previste; ciò non esclude che l’evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza»). Con la conseguenza, dunque, che, mentre il richiamo effettuato dall’art. 590 sexies c.p. all’imperizia deriva dal fatto che esso concerne un’attività tecnico-professionale come quella medica, la presenza di negligenza o imprudenza nel comportamento non può per ciò solo escluderlo dall’ambito applicativo della fattispecie di non punibilità.
A questo punto, dopo aver visto come la giurisprudenza ha chiarito i requisiti della fattispecie di non punibilità costituiti dall’osservanza delle regole d’inquadramento e di adeguamento e dalla imperizia, nell’itinerario interpretativo dell’art. 590 sexies c.p. s’inserisce l’ultimo passaggio logico compiuto dalle Sezioni Unite con la notissima sentenza n. 8770/2018, Mariotti. Diciamo subito che con questa pronuncia viene recuperato il limite della colpa grave, in modo da escluderla dall’ambito applicativo della fattispecie, nonostante che l’art. 590 sexies c.p. nulla dica espressamente al riguardo. Sembra qui riaffiorare quella certa qual diffidenza verso la non punibilità, di cui abbiamo detto all’inizio, dovuta al timore di un eccessivo indebolimento della tutela. E in effetti è ben possibile che un errore terapeutico sia dovuto a negligenza o imprudenza anche molto gravi e dunque intollerabili, ancorché esso si radichi nell’inosservanza di regole “semplicemente” esecutive o attuative. Addirittura, l’indebolimento della tutela potrebbe far sorgere dubbi di costituzionalità, qualora si riveli così macroscopico da apparire ingiustificato e pertanto irragionevole.
Dunque le Sezioni Unite avvertono il bisogno, per “salvare” la causa di non punibilità, di ricorrere ad una sua interpretazione conforme a Costituzione, consistente nel reinserimento del limite della colpa grave nella fattispecie. Un’operazione ermeneutica, questa, tanto apprezzabile negli intenti e nelle conseguenze quanto opinabile per il percorso argomentativo prescelto (ma, forse, obbligato?).
Lasciamo stare qui le riserve che sono state espresse autorevolmente e in via generale nei confronti dell’interpretazione conforme in quanto tale, tacciata di favorire forzature del testo legislativo proprio in quanto orientata a ottenere un determinato risultato ermeneutico prefigurato in partenza, piuttosto che fungere da metodo euristico dell’esito interpretativo. Seppure ci sia del vero in questi rilievi critici, rimane indubitabile che, se ben praticata, l’interpretazione conforme a Costituzione è un veicolo prezioso per far circolare direttamente nel tessuto normativo dell’ordinamento i valori costituzionali.
Come è ben noto, l’invalicabile confine che trova l’interpretazione conforme è il significato linguistico del testo legale. Nel senso che, pur nell’intento di armonizzare la disposizione legale con la Costituzione, non è possibile per l’interprete attribuire ad essa un significato che sia incompatibile con quello linguistico del testo. Orbene, la sentenza Mariotti, inserendo il limite della colpa grave nel testo dell’art. 590 sexies c.p., ritiene di stare entro i confini dell’interpretazione conforme in quanto avrebbe operato non già contra legem bensì praeter legem. E, da un certo punto di vista, ciò non è inesatto, in quanto l’operazione interpretativa si risolve non già nel sostituire un elemento di fattispecie con altro ma nell’aggiungere – oltre il disposto normativo – un elemento non previsto, sul quale il testo è dunque silente. Vero ciò, è altrettanto indubitabile però che l’operazione si rivela fortemente manipolativa del testo e davvero ai confini dell’interpretazione conforme consentita. In effetti, quando si parla di quest’ultima, normalmente ci si riferisce al carattere polisemico di una disposizione legislativa e alla conseguente scelta dell’interprete che, tra i plurimi significati dell’espressione linguistica, sceglie quello conforme (o maggiormente conforme) a Costituzione: in questo senso il significato della disposizione non viene tradito poiché il giudice, con la sua scelta, rimane pur sempre all’interno del campo semantico sotteso alla disposizione.
Nel nostro caso, invece, è avvenuto qualcosa di diverso. La Corte di cassazione, infatti, non ha scelto tra i possibili significati dell’espressione linguistica, ma ha inserito ex novo nella struttura linguistica della fattispecie un elemento non previsto espressamente, e cioè quello della colpa lieve. Così operando, fra l’altro, una scelta destinata a ridondare a svantaggio del reo, perché limitante l’ambito applicativo della causa di non punibilità.
6. Un buon risultato paralegislativo
Nonostante la forzatura presente nel percorso argomentativo della sentenza Mariotti, tuttavia è difficile disconoscere il pregio dei risultati così conseguiti, tali da delineare un assetto normativo di grande interesse per la colpa medica. Non si tratta solo di aver delimitato la sfera della non punibilità in modo più coerente con la tradizione del nostro ordinamento e con le sostanziali esigenze di tutela. Con questo pronunciamento, soprattutto se letto insieme alla successiva e già ricordata sentenza n. 15258/2020, la Cassazione ha compiuto un’importante operazione di rivitalizzazione della colpa grave, cioè del criterio quantitativo, quale discrimine della responsabilità colposa del medico.
In effetti, la clausola della colpa grave, facendo pernio sull’intensità del rimprovero colposo nel suo insieme, è innanzitutto capace di “mangiarsi” per così dire quel limite dell’imperizia, la cui ragion d’essere – come abbiamo visto – è molto opinabile. In secondo luogo, e soprattutto, la clausola della colpa grave è potenzialmente idonea a travolgere anche il limite costituito dalla tipologia di regole cautelari di cui è richiesta l’osservanza dall’art. 590 sexies c.p.: le regole d’inquadramento diagnostico-terapeutico e quelle di adeguamento al caso concreto. Infatti, una volta che faccia ingresso il criterio selettivo dell’intensità del rimprovero colposo nel suo complesso, non ha più senso limitare la non punibilità alla sola inosservanza delle regole esecutive ed attuative. Un rimprovero trascurabile è ben concepibile senza dubbio anche nell’inosservanza delle regole d’inquadramento o di adeguamento: tutto dipende, come al solito, dalle caratteristiche del caso. Ma c’è di più. Nell’ipotesi in cui il caso sia talmente nuovo o speciale per cui non esistano linee guida o buone pratiche, a stretto rigore la causa di non punibilità non potrebbe essere mai applicabile per mancanza di un suo requisito. Orbene, si tratta di un risultato incongruo, essendo evidente che un’esigenza di eventuale non punibilità è molto più probabile in una siffatta, davvero difficilissima, situazione, anziché in quella in cui l’errore terapeutico abbia riguardato la solitamente più semplice fase dell’esecuzione o attuazione dell’intervento.
In definitiva, la soluzione “quantitativa” della colpa grave si rivela suscettibile di una più ampia e ragionevole sfera di applicazione rispetto allo schema di non punibilità un po’ arzigogolato delineato dalla legge Gelli-Bianco. Rimane aperto il problema se questa dilatazione del campo di applicazione attraverso la colpa grave come rievocata dalla sentenza Mariotti, possa operare già de lege lata oppure se abbia bisogno di una nuova e più adeguata – ma anche più semplice – formulazione legislativa. In effetti, estendere la causa di non punibilità oltre i requisiti espressamente indicati dall’art. 590 sexies c.p. (alle ipotesi di inesistenza di leges artis consolidate) ovvero contro di essi (alle ipotesi di colpa lieve nell’inosservanza delle leges artis), apparirebbe una nuova forzatura del testo, anche se ispirata a conferire ad esso una sostanza valoriale e una ragionevolezza ben maggiori di quelle esibite dal testo vigente. Indubbiamente, potrebbe essere forte la tentazione per la giurisprudenza che ha fatto trenta (con la sentenza Mariotti) di fare anche trentuno ampliando alle ipotesi non previste: e questa volta per di più in senso favorevole al reo.
E’ chiaro, inoltre, che la delimitazione della punibilità alla colpa grave potrebbe egregiamente prestarsi a risolvere la stragrande maggioranza dei casi originati dall’emergenza pandemica del coronavirus, senza avventurarsi nella difficile forgiatura legislativa di un apposito “scudo” ritagliato sulla contingenza sanitaria. Indubbiamente, però, se una più o meno confessata sfiducia nella magistratura (soprattutto del pubblico ministero) unita alla lunghezza dei processi dovessero far optare per una disposizione di “sbarramento” capace di bloccare sul nascere l’azione penale, allora bisognerebbe pensare ad una vera e propria causa di non punibilità di problematico confezionamento. Essa, infatti, dovrebbe essere congegnata prescindendo da quell’accertamento di fatto pur sempre indispensabile per graduare la colpa, e puntando su un dato obiettivo per così dire “esterno” alla tipicità del fatto colposo (la sua ‘concomitanza’ con l’epidemia?) ictu oculi riconoscibile dal pubblico ministero al momento dell’acquisizione della notitia criminis. Ma il rischio sarebbe allora quello di fare d’ogni erba un fascio, coprendo con la causa di non punibilità anche eventuali fatti gravemente colpevoli sol perché commessi nella contingenza epidemica.
Infine, a parte ciò, sembra proprio che la clausola della colpa grave possa aprire interessanti prospettive di politica penale per il futuro. Intanto, potrebbe proseguire quel processo che pare essere già in atto nella giurisprudenza, di affrancamento della colpa grave dall’art. 2236 c.c., o per meglio dire di suo progressivo superamento: i parametri di accertamento della colpa grave/lieve potrebbero del tutto ragionevolmente ed opportunamente andare oltre quello della “speciale complessità” del caso per comprendere anche quelli relativi al contesto obiettivo, alle condizioni personali del soggetto, alla misura soggettiva della rimproverabilità.
Inoltre, è lecito pensare che un futuro sviluppo dei confini tra responsabilità civile e penale possa andare nel senso di fare della colpa grave il confine generale tra illecito civile e illecito penale, al di là dunque del campo della responsabilità del medico e forse anche al di là del campo della responsabilità del professionista. Così facendo sarebbe data reale attuazione al principio fondamentale che vuole l’intervento penale quale ultima ratio della tutela dei beni.
La conclusione finale che si può trarre da questo nostro excursus sulla colpa medica è che si tratta probabilmente di un campo ancora in divenire. Ma soprattutto un campo in cui la disciplina giuridica, sebbene sospinta da interventi legislativi espressivi di esigenze reali ma formulati in modo spesso infelice, è stata forgiata dalle mani della giurisprudenza non raramente in direzione diversa da quella presa dal legislatore. Un processo, questo che vede sinergicamente operanti diritto legale e diritto giudiziario, che si è svolto senza scandalo e forse con soddisfazione diffusa.
[1] Il lavoro è destinato agli Scritti in onore del prof. Antonio Fiorella
Il baratto amministrativo tra partecipazione e detassazione locale
di Alice Cauduro
Il contributo intende offrire un’analisi dell’istituto del baratto amministrativo che, a partire dall’individuazione della sua finalità e della centralità dell’elemento della partecipazione cittadina, evidenzi in particolare i caratteri e le criticità della previsione della detassazione locale quale controprestazione dell’attività svolta.
Sommario: 1. Il baratto amministrativo e la sua finalità - 2. La centralità della partecipazione cittadina - 3. I caratteri della detassazione locale - 4. Prassi amministrativa e questioni aperte: spunti conclusivi.
1. Il baratto amministrativo e la sua finalità.
L’istituto del baratto amministrativo trova un primo riferimento normativo nel c. d. decreto Sblocca Italia quale misura di agevolazione della partecipazione cittadina alla riqualificazione del territorio[1]. In quella disciplina emergeva, oltre alla finalità di promozione della cura degli spazi urbani attraverso la partecipazione dei privati cittadini - singoli o associati - all’amministrazione pubblica territoriale, anche la propensione del legislatore ad immaginare un modello di partecipazione cittadina collegato alla detassazione locale, attraverso la previsione della riduzione o esenzione dei tributi come controprestazione dell’attività svolta dal privato. La disciplina è stata poi ripresa dal nuovo Codice dei contratti pubblici che ha rubricato “baratto amministrativo”[2] una norma collocata - non senza suscitare perplessità[3] - tra gli istituti di partenariato pubblico-privato (PPP) utilizzabili anche dagli enti territoriali, quali contratti a titolo oneroso[4]. Secondo i principi di sussidiarietà orizzontale e solidarietà (art. 118 co. 4 e art. 2 Cost.)[5], sia la norma dello Sblocca Italia sia quella del Codice dei contratti pubblici si riferiscono all’esercizio delle attività normalmente svolte dalla PA nell’ambito delle sue funzioni, ma il baratto amministrativo del nuovo Codice dei contratti pubblici si differenzia dalla misura di agevolazione prevista dallo Sblocca Italia sotto diversi profili[6]: anzitutto perché estende il modello di amministrazione condivisa a tutti gli enti territoriali, non solo ai Comuni, i quali possono oggi “definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale” sulla base dei progetti presentati[7]; inoltre, anche l’ambito applicativo oggettivo risulta più ampio poiché, oltre “alla pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade”, si contempla anche l’ipotesi della “loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati”[8], con una formulazione più articolata della precedente “valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano”[9]. L’istituto del baratto amministrativo può essere interpretato anche attraverso l’analisi delle fonti normative e delle prassi amministrative sulle attività di rigenerazione degli spazi urbani[10] e si presta ad essere utilizzato soprattutto nelle pratiche di gestione dei c. d. beni comuni[11]; opera secondo il modello consensuale di amministrazione pubblica condivisa, quale modello alternativo alla pianificazione unilaterale della PA per specifiche tipologie di interventi di governo del territorio urbano [12]; è richiamato assieme agli interventi di sussidiarietà orizzontale, tra le “figure di minor rilievo economico, ma di sicuro impatto sociale […] quali forme di partenariato sociale”[13]; è inserito tra gli istituti di partenariato pubblico-privato a carattere “sociale”, assieme agli interventi in sussidiarietà orizzontale e alla cessione di immobili in cambio di opere, oltre alle sponsorizzazioni delle aree verdi urbane[14]. Si è di recente chiarito che l’ente territoriale, oltre a deliberare un regolamento che disciplini l’applicazione dell’istituto, deve motivare la scelta di utilizzarlo, dimostrando la convenienza anche economica; “la prestazione offerta dal cittadino, infatti, non solo deve corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali agevolate, ma la relativa delibera assunta dall’ente pubblico territoriale deve altresì motivare la decisione di avvalersi dell’istituto del baratto sulla base di una attenta valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la convenienza, anche economica, della scelta effettuata”[15]. Si noti inoltre che i contorni e i contenuti dei contratti di partenariato sociale di cui all’art. 190 troveranno definizione anzitutto nelle discipline delle delibere degli enti territoriali, senza le quali l’amministrazione non può accordarsi col privato, ma già alcuni modelli di patti di collaborazione, definiti sulla base di regolamenti comunali, hanno ad oggetto attività riconducibili anche al baratto amministrativo[16].
2.La centralità della partecipazione cittadina.
Nei richiamati modelli di valorizzazione del territorio assume un ruolo centrale la partecipazione dei cittadini da leggersi anzitutto attraverso la nota considerazione che “la partecipazione indica e realizza il «prender parte», ad un processo di decisione, di soggetti diversi da quelli ai quali un ordinamento attribuisce istituzionalmente la competenza a provvedere e che ordina (organizza) stabilmente per questo scopo”[17]. Ancora attuale è anche l’approccio metodologico della fine degli anni Settanta nello studio su partecipazione e organizzazione[18], come anche l’idea che la partecipazione non sia solo “un valore in sé, in quanto rappresenta un’apertura in senso democratico dell’ordinamento”, ma anche “un concetto funzionale ai vari contesti generali in cui trova riconoscimento, da considerare pertanto in modo relazionistico”[19]. La partecipazione nel baratto amministrativo pare così caratterizzare una modalità di gestione di “aree e beni immobili inutilizzati” secondo il modello partecipativo inteso come elemento identificativo della gestione dei beni comuni. La partecipazione promossa dall’amministrazione si riferisce in particolare alla comunità che percepisce il degrado o disuso dei beni[20], sicché l’elemento della partecipazione amministrativa dei cittadini è elemento caratterizzante del baratto amministrativo; una partecipazione che non avviene solo su iniziativa dell’amministrazione, ma della stessa comunità. La dimensione solidaristica che connoterebbe l’attività del cittadino o dell’associazione di cittadini non assorbe ed esaurisce l’operatività dei principi di eguaglianza (sostanziale), di trasparenza, pubblicità e imparzialità della PA, e tuttavia sul punto si può osservare che la norma non chiarisce i criteri di selezione del privato cittadino, singolo o organizzato,[21] risultando così imprecisato in che termini sia garantito il rispetto dei suddetti principi, attraverso quale atto ed in quale fase della scelta dell’amministrazione. La stessa normativa e prassi dell’amministrazione condivisa fa espresso riferimento al rispetto della pubblicità e della trasparenza; si riconosce, infatti, che la trasparenza è lo “strumento principale per assicurare l’imparzialità nei rapporti con i/le Cittadini/e e la verificabilità da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati delle azioni svolte e dei risultati ottenuti” [22].
3. I caratteri della detassazione locale.
La previsione dell’esenzione o riduzione dei tributi locali ha suscitato più di un interrogativo. Di recente è stata offerta un’interpretazione del baratto amministrativo rispettosa dei principi tributari e contabili delle amministrazioni locali limitando la possibilità dell’esenzione e riduzione dei tributi ai debiti pregressi ed escludendo che tale controprestazione possa intendersi come datio in solutum; si è chiarito infatti che l’esenzione dei tributi può avvenire solo ad integrale realizzazione dell’opera o del servizio[23]. Anche il giudice contabile è di questo avviso e, al quesito se il baratto amministrativo si applichi ai debiti pregressi, ha affermato che non è “ammissibile la possibilità di consentire che l’adempimento di tributi locali, anche di esercizi finanziari passati confluiti nella massa dei residui attivi dell’ente medesimo, possa avvenire attraverso una sorta di datio in solutum ex art. 1197 c.c. da parte del cittadino debitore che, invece di effettuare il pagamento del tributo dovuto, ponga in essere una delle attività previste dalla norma e relative alla cura e/o valorizzazione del territorio comunale. […] tale ipotesi non solo non rientrerebbe nell’ambito di applicazione della norma, in quanto difetterebbe il requisito dell’inerenza tra agevolazione tributaria e tipologia di attività svolta dai soggetti amministrati (elementi che peraltro devono essere preventivamente individuati nell’atto regolamentare del Comune), ma potrebbe determinare effetti pregiudizievoli sugli equilibri di bilancio, considerato che i debiti tributari del cittadino sono iscritti tra i residui attivi dell’ente”[24]. Sempre il giudice contabile ha affrontato anche i seguenti quesiti: a) nel caso in cui gli interventi siano invece collegati a riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività svolta, quale sia il corretto e legittimo inquadramento giuridico, fiscale e assicurativo delle prestazioni rese in compensazione. In particolare, se gli interventi resi dai cittadini, singoli o associati, qualora inquadrati come prestazioni occasionali di servizio o di lavoro, siano da ricomprendere nell'ambito delle spese del personale; b) se l’istituto del ‘baratto amministrativo’ sia applicabile anche nel caso in cui debitore di tributi comunali sia un'impresa”[25]. In tale occasione si è affermato che “la prestazione offerta dal cittadino […] non solo deve corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali agevolate, ma la relativa delibera assunta dall’ente pubblico territoriale deve altresì motivare la decisione di avvalersi dell’istituto del baratto sulla base di un’attenta valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la convenienza, anche economica, della scelta effettuata”[26]; pertanto l’ente territoriale, oltre che deliberare un regolamento che disciplini l’applicazione dell’istituto, deve motivare la scelta di utilizzarlo, dimostrando la convenienza anche economica[27]. Sull’inquadramento giuridico delle prestazioni rese in compensazione e l’esclusione dell’applicabilità alle imprese si è stabilito che “la prestazione lavorativa rientrante nel computo delle spese di personale non può che essere quella resa nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego legalmente instaurato nei modi e nelle forme previste dalla legge” e che la norma non si può applicare alle imprese, considerato il “rischio dell’elusione delle regole di evidenza pubblica e dell’obbligo del confronto concorrenziale”[28]. Se l’istituto tende a promuovere la collaborazione del cittadino, singolo o associato, alle attività di prestazione dell’amministrazione pubblica, quali la manutenzione e rigenerazione di spazi urbani[29], nella prospettiva della valorizzazione della partecipazione cittadina, si può in astratto comprendere anche la previsione della corrispondenza delle riduzioni o esenzioni dei tributi al tipo di “attività svolta dal privato o dall’associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della prestazione dei cittadini alla stessa” (art. 190). Sulle criticità di natura fiscale è stato investito a più riprese il giudice contabile, anzitutto sulla questione se e a quali condizioni i Comuni possano consentire “l’adempimento dei debiti relativi ad entrate comunali corrispondenti a residui attivi di bilancio, mediante l’effettuazione di un’attività sostitutiva del pagamento riconducibile ad una delle attività sussidiarie contemplate dall’art. 24 d. l. 133/2014”[30]. Veniva infatti chiesto come interpretare ed applicare correttamente la norma senza incorrere nella violazione della disciplina della contabilità pubblica e nella responsabilità per danno erariale; il giudice contabile ha richiamato così i principi e le condizioni di applicazione dell’esenzione o riduzione del tributo locale: il rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 c. 4 Cost.), del principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria - derogabile solo in forza di disposizione di legge, corollario dei principi costituzionali di cui agli artt. 23, 53, 97 Cost. -, nonché del principio di eguaglianza nei rapporti tributari. Tra le condizioni per applicare l’esenzione o la riduzione di tributi locali sono state così individuate: la necessaria approvazione di una deliberazione dell’ente territoriale, la fissazione nell’atto deliberativo comunale dei criteri e condizioni della presentazione dei progetti da parte dei cittadini, la stretta inerenza tra esenzione/riduzione del tributo e attività che i cittadini possono realizzare, infine un’esenzione limitata e definita nel tempo.
4. Prassi amministrativa e questioni aperte: spunti conclusivi.
Alcune suggestioni e spunti conclusivi emergono dall’analisi della normativa sui beni comuni, come ad esempio da una recente legge regionale sulla promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni”[31], dove si stabilisce che il patto di collaborazione[32] possa “prevedere l’attribuzione di vantaggi economici o altre forme di sostegno, qualora abbia ad oggetto attività e interventi di cura, di rigenerazione, di valorizzazione e di gestione condivisa di beni comuni […] di particolare interesse pubblico e per i quali i cittadini attivi sono in grado di mobilitare risorse adeguate, valorizzando le esperienze che operano in specifici contesti territoriali e di disagio sociale”[33]. Si segnala, inoltre, la previsione della “garanzia, da parte dell’amministrazione, dell’autonomia civica e della massima conoscibilità delle opportunità di collaborazione, delle proposte pervenute, delle forme di sostegno assegnate, delle decisioni assunte, dei risultati ottenuti e delle valutazioni effettuate”[34], nel rispetto del principio di imparzialità e trasparenza nella scelta del privato cittadino. Sebbene la prassi amministrativa - in generale sui modelli di amministrazione condivisa - faccia espresso riferimento al rispetto della pubblicità e della trasparenza, non è chiaro come questi principi trovino effettività nell’applicazione del baratto amministrativo. È interessante notare che tra le deliberazioni di approvazione del regolamento per l’applicazione del baratto amministrativo si rinvengono motivazioni che individuano tra i vantaggi dell’istituto: la tutela del “diritto di ogni persona di preservare le risorse economiche per i bisogni primari, soprattutto laddove situazioni contingenti di emergenza portano a diventare evasori non colpevoli”; la valorizzazione della “ dignità e [de]le capacità personali di ogni individuo che, mettendo la propria attività al servizio della comunità, ne trae effetti positivi sul piano psicologico e sviluppa il senso di appartenenza alla collettività”; la garanzia del “dovere di ciascuno di concorrere alla spesa pubblica attraverso lo svolgimento di attività di interesse generale in luogo del pagamento dei tributi” e la possibilità di consentire “al Comune di integrare le proprie attività per sopperire alle carenze di risorse ed elevare il livello di decoro urbano e di cura del bene pubblico”[35]. Oppure si afferma che è “obiettivo dell’Amministrazione, nella linea di azione e motivazione della norma cui si fa riferimento, tutelare il diritto di ciascun nucleo familiare di preservare le risorse economiche per i bisogni primari, volendo al tempo stesso garantire il rispetto delle regole nel pagamento dei tributi”; concludendo che “in tale prospettiva è opportuno individuare nel baratto amministrativo per morosità incolpevoli un’idonea modalità per conciliare l’obbligo di pagamento dei debiti con le effettive disponibilità economiche del soggetto o del suo nucleo familiare, nella salvaguardia degli interessi e dei bisogni della collettività”[36]. Tali motivazioni e applicazioni (in particolare il c. d. baratto amministrativo per morosità incolpevoli) suscitano alcune perplessità, anzitutto dove tendono ad assegnare al baratto amministrativo una finalità diversa da quella individuata dal legislatore nella partecipazione cittadina alla valorizzazione delle aree e dei beni immobili inutilizzati; così interpretato l’elemento della controprestazione, individuato nella detassazione locale, finirebbe per essere uno strumento di politica fiscale, solo apparentemente ricollegabile e riconducibile al principio solidaristico, rischiando di produrre diseguaglianze sostanziali e di fornire una giustificazione politica alle riduzioni del finanziamento dei servizi pubblici locali. La finalità del tributo è peraltro come noto, individuabile nel finanziamento indistinto della spesa pubblica, non collegabile perciò allo svolgimento di determinate e specifiche attività personali prestate volontariamente. Sicché si comprende come siffatta interpretazione dell’istituto, offerta dalla prassi amministrativa richiamata, sia poco compatibile, oltre che con il principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, corollario dei principi costituzionali di cui agli artt. 23, 53, 97 Cost., anche con il principio di eguaglianza nei rapporti tributari. Occorre perciò ricordare i limiti applicativi del baratto amministrativo individuati dal giudice contabile nel divieto: di eludere regole cogenti di evidenza pubblica, di aggirare vincoli di finanza pubblica, di acquisire beni o servizi in violazione di precisi e puntuali divieti stabiliti dalla normativa finanziaria[37]. Come chiarito, le questioni che paiono più attuali e che emergono dall’analisi della prassi attengono anzitutto alla trasparenza e pubblicità nella selezione dei progetti, all’individuazione prioritaria delle attività, nonché nella corrispondenza con il tributo compensato. Alcuni dubbi suscita inoltre l’assenza della previsione di forme di controllo da parte dell’amministrazione per valutare la corretta esecuzione del contratto e delle conseguenze sulla detassazione che deve avere l’eventuale inadempimento accertato; non è chiaro, infatti, se la conseguenza debba o possa essere la ridefinizione del calcolo della riduzione del tributo. Appare, inoltre, poco comprensibile anche la formulazione finale della norma, dove si stabilisce che le “riduzioni o esenzioni di tributi” oltre a poter corrispondere “al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione” possano essere individuate senza un collegamento con l’attività svolta se “comunque utili alla comunità di riferimento in un’ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa”. Si condividono, inoltre, le osservazioni svolte nell’analisi delle analogie e differenze tra patti di collaborazione e baratto amministrativo dove si segnala che “se è vero che i Regolamenti sui beni comuni prevedono la possibilità per l’amministrazione di concedere alcuni benefici ai cittadini attivi, come appunto l’esenzione da determinati tributi, tuttavia questi vantaggi sono attribuiti per agevolare il migliore perseguimento dei fini previsti dal patto (per esempio, esenzioni dal pagamento dei tributi relativi al bene comune attribuito ai cittadini). Invece, nel baratto amministrativo lo sgravio dei tributi rappresenta una vera e propria contropartita personale per le attività di cura, sicché in questi casi la motivazione che anima i cittadini potrebbe essere anche di tipo puramente egoistico”[38].
Emergono in conclusione perplessità sulla scelta del legislatore di individuare nella detassazione dei tributi locali la controprestazione dell’attività. Si può aggiungere che la fortuna dell’istituto dipenderà quindi dalla sua una corretta interpretazione e applicazione, capace di valorizzare la finalità partecipativa e le potenzialità dell’istituto senza violare i principi dell’azione amministrativa e della finanza pubblica locale, e senza sacrificare il ruolo pubblico nella garanzia delle prestazioni di servizio pubblico locale.
[1] L’art. 24, d. l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. con mod. nella Legge 11 novembre 2014, n. 164 recante misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio stabiliva che “i Comuni possono definire i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade ed in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi i Comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L’esenzione è concessa per un periodo limitato, per specifici tributi e per attività individuate dai Comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere”.
[2] Art. 190 (Baratto amministrativo) D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50: “Gli enti territoriali possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale, sulla base di progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione ad un preciso ambito territoriale. I contratti possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati. In relazione alla tipologia degli interventi, gli enti territoriali individuano riduzioni o esenzioni di tributi corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione ovvero comunque utili alla comunità di riferimento in un'ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa.”
[3] Si vedano P. Novaro, art. 190, in Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, diretto da A. Carullo, G. Iudica, terza ed., Padova, 2018, 1354 ss.; A. Crismani, Art. 190, in Codice dei contratti pubblici commentato, (a cura di) L. Perfetti, II ed., p. 1546. Sulle peculiarità del baratto amministrativo rispetto agli altri istituti di PPP si rinvia a M. Renna, V.M. Sessa, art. 190, in Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, (a cura di) G.M. Esposito, vol. secondo, p. 2237. Sulla collocazione dell’istituto si veda inoltre R. De Nictolis, Il baratto amministrativo (o partenariato sociale), su www.giustizia-amministrativa.it. Per inquadrare l’istituto nel suo rapporto con le altre norme del nuovo Codice dei contratti pubblici si veda il Trattato sui contratti pubblici, (diretto da) R. De Nictolis, M.A. Sandulli, Milano, 2019, specie i contributi contenuti nel vol. I, Fonti e principi, ambito, programmazione e progettazione.
[4] Emerge in tutti gli istituti di PPP lo stretto collegamento con “l’interesse locale” (art. 189), la “finalità di interesse generale”, il “valore sociale” della partecipazione amministrativa (art. 190) e le “funzioni di pubblico interesse” (art. 191).
[5] Per una valorizzazione della sussidiarietà orizzontale nell’analisi del modello dell’amministrazione condivisa si veda G. Arena, Cittadini attivi, Roma Bari, 2011, p. 69, specie dove sottolinea che l’alleanza pubblico privato nel perseguimento dell’interesse generale è volta alla realizzazione dell’eguaglianza sostanziale (art. 3 co. 2 Cost.). Sulla sussidiarietà orizzontale nelle attività di rigenerazione degli spazi urbani si rinvia a L. Muzi, L’amministrazione condivisa dei beni comuni urbani: il ruolo dei privati nell’ottica del principio di sussidiarietà orizzontale, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, p. 117. Sul tema si veda R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti di libertà e doveri di solidarietà, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 839, dove osserva che “la disciplina sul “baratto amministrativo” ha introdotto un accordo – denominato “partenariato sociale” – tra cittadini e amministrazione pubblica per la cura e la gestione di alcuni beni di uso collettivo (d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, art. 190), che può essere intesa come norma d’attuazione dei doveri di solidarietà sociale di ogni cittadino e della sua capacità d’autorganizzazione in forma di sussidiarietà orizzontale (artt. 2 e 118 u.c. Cost.)”. Sugli spazi comuni urbani, sussidiarietà, gruppi intermedi e prospettive di solidarietà, si rinvia a M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 3 ss. Parla di “triangolazione necessaria” tra sussidiarietà, beni comuni e solidarietà, anche in riferimento ai beni comuni urbani, G. Micciarelli, Il triangolo necessario: sussidiarietà, beni comuni e solidarietà, in Diritto e futuro dell’Europa. Contributi per gli workshop del XXXI Congresso della Società Italiana di Filosofia del Diritto (Bergamo, 13-15 settembre 2018), 2020, p. 327 ss.
[6] Sul rapporto tra l’art. 24, d. l. n. 133/2014, conv. con mod. in l. n. 164/2014 e l’art. 190 d. lgs. n. 50/2016 e sui problemi applicativi derivanti dalla vigenza di entrambe le norme si rinvia a S. Villamena, “Baratto amministrativo”: prime osservazioni, in Riv. Giur. Edil., fasc. 4, p. 379 ss.
[7]“L’accenno alla deliberazione degli enti territoriali – che debbono prevedere criteri e condizioni per la realizzazione di contratti di partenariato sociale – richiama quanto disposto dalla legge generale sul procedimento amministrativo in Italia (l. 7 agosto 1990, n. 241, art. 12) e dai principi costituzionali (art. 97, Cost.), dai quali si ricava che l’assegnazione di qualsiasi vantaggio è sottoposta ai principi di trasparenza, imparzialità e non discriminazione, i medesimi principi che sono alla base della disciplina europea sugli appalti e concessioni pubbliche”, R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti e doveri di solidarietà, in E. Michelazzo, R. Albanese, Manuale di diritto dei beni comuni urbani, Torino, p. 277. Il saggio, poi ripreso e modificato, era apparso su Dir. Amm., fasc. 4/2018.
[8] Art. 190 D. Lgs. n. 50/2016.
[9] Art. 24 d. l. n. 133/2014, conv. con mod. in l. n. 164/2014. Sulla nozione di territorio urbano si veda B. Graziosi, Il problema degli standard urbanistici “differenziati” e gli interventi di rigenerazione urbana nel territorio urbanizzato, in Riv. Giur. Edil., 1 dicembre 2018, fasc. 6, p. 529 dove afferma che “si tratta del “perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità e i lotti interclusi”. Sul recupero e la rigenerazione urbana nell’esperienza comparata si rinvia a G. Guzzardo, La regolazione multilivello del consumo del suolo e del riuso dell’abitato, in Riv. Ital. Dir. Pubbl. Comunitario., fasc. 1, 1 febbario 2018, p. 118 ss.
[10] Sul tema: AA. VV., La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, a cura di F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, 2018. In specie sulla rigenerazione dei beni e spazi urbani si veda F. Giglioni, La rigenerazione dei beni urbani di fonte comunale in particolare confronto con la funzione di gestione del territorio, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, cit., p. 225.
[11] Sui beni comuni, sui quali si è formata copiosissima letteratura, si rinvia qui per tutti, senza alcuna pretesa di esaustività, a: E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, 2006 e S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, ed. 1990, p. 469 ss.; Id., Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012.
[12] T.A.R., Napoli, sez. I, 9 gennaio 2019, n. 125 ha tuttavia chiarito espressamente che il privato non può “sostituirsi alla amministrazione senza il consenso di quest’ultima”, nel caso di specie sulla possibilità dello smaltimento dei rifiuti alternativo a quello comunale che “non può essere frutto di un’iniziativa privata”. Si rinvia sul punto a M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 787 ss., dove afferma che “è diffusa la considerazione del fallimento dello stesso tradizionale sistema della pianificazione, in ragione della sua unilateralità, della inadeguatezza dell’iniziativa ma anche delle risorse finanziarie pubbliche, della mancata realizzazione di interventi da parte dei privati, ove non condivisi”.
[13] In questi termini Cons. Stat., 1 aprile 2016, parere n. 855 sullo Schema di decreto legislativo recante il “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”. Nel parere si afferma anche che “il Consiglio di Stato raccomanda al Governo di valutare con cautela l’opportunità di prevedere in termini generali che le pubbliche amministrazioni possano ricorrere a ppp atipici, rimettendo tutti i livelli di progettazione al partner privato. Siffatta possibilità, se consentita senza puntuali confini, rischia di tradire uno dei principi ispiratori della riforma, quello della separazione tra chi progetta e chi realizza le opere”. Secondo alcuni “il termine ‘baratto’ amministrativo svilisce l’orientamento del bene comune degli interventi proposti dal privato all’Amministrazione, connotando in termini riduttivi la portata di questa collaborazione”, cit. M. Renna, V.M. Sessa, Art. 190, in Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, (a cura di) G.M. Esposito, vol. II, Milano, 2017, p. 2232.
[14] “Restano ferme le disposizioni recate dall’articolo 43, commi 1, 2, e 3 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, in materia di valorizzazione e incremento del patrimonio delle aree verdi urbane”, art. 189, co. 6 Codice contratti pubblici.
[15] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto, deliberazione n. 313/2016.
[16] Si segnalano, qui, ad esempio, il patto di collaborazione “Questa aiuola non fa più pietà”, tra il Comune di Trento e Anffas Trentino Onlus e il patto di collaborazione per la realizzazione di attività e di interventi manutentivi nell’area verde, tra il Comune di Siena e il “Comitato Siena 2 – Cittadini attivi e Associazioni per i Beni Comuni” Associazione Onlus.
[17] M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, fasc. 1, p. 226. Si è detto che “nella dottrina pubblicistica italiana l’uso del termine partecipazione sembra ancora più complesso: non ha solo una funzione descrittiva di comportamenti reali né ha solo una funzione valutativa; esiste anche un’accezione che si potrebbe definire impropriamente «dogmatica»: il termine viene riferito agli istituti giuridici per accertare se essi possano o meno essere classificati come fenomeni dell’idea di partecipazione”, così F. Levi, Partecipazione e organizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 4/ 1977, p. 1623. Il legislatore degli anni Settanta in una legge finalizzata espressamente a “promuovere la partecipazione popolare alla gestione amministrativa delle comunità locali” (Legge 8 aprile 1976, n. 278, art. 1), la definiva come “estrinsecazione del principio di partecipazione”, così E. Casetta, La partecipazione dei cittadini alla funzione amministrativa nell’attuale ordinamento dello Stato Italiano, in La partecipazione popolare alla funzione amministrativa e l’ordinamento dei consigli circoscrizionali comunali, in Atti del XXII Convegno di Studi di Scienza dell’Amministrazione, Varenna, 23-25 settembre 1976, Milano, 1977. Già nel 1980 si osservava “la sempre più diffusa consapevolezza dell’insufficienza «democratica» della democrazia «costituita», «organizzata», e la avvertita necessità di contrastare l’inesorabile processo verso la centralizzazione delle grandi scelte, anzitutto di quelle economiche, e verso la connessa progressiva burocratizzazione e tecnicizzazione degli apparati (in primo luogo degli apparati pubblici), tentando di reintrodurre, nella macchina collettiva, l’uomo nella sua singolarità o nelle aggregazioni sociali immediate; da un’altra, la ricerca di strumenti di compensazione della insufficienza delle tutele giurisdizionali nei confronti di quegli apparati [...]”, così M. Nigro, Il nodo della partecipazione, cit., pp. 225-226.
[18] F. Levi, in op. cit., p. 1977: “Conviene quindi chiedersi in primo luogo quali contenuti vengano attribuiti al concetto di partecipazione; in secondo luogo quali valori sottostiano al concetto di partecipazione; in terzo luogo come sia corretto intendere la partecipazione; in quarto luogo come il nostro sistema giuridico consideri la partecipazione; infine quali giudizi di valore e quali previsioni nel futuro si possano tentare”, p. 1626
[19] Cit., M. P. Chiti, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977, p. 39.
[20] Sull’iniziativa del privato in riferimento ad immobili degradati o in disuso si rinvia a M. Roversi Monaco, Il Comune, amministratore del patrimonio edilizio inutilizzato, in Riv. Giur. Edil., fasc. 5, 2016, p. 541 ss dove sottolinea che “non solo i privati vengono coinvolti su iniziativa dall'amministrazione, ma spesso accade il contrario, anche perché chi avverte l’esigenza di interventi di questo tipo è la comunità che vive a contatto con i beni in disuso o in stato di degrado: questo è dunque un caso esemplare di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale”.
[21] Sul punto si rinvia a R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti di libertà e doveri di solidarietà, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, p. 839.
[22] Sul punto è interessante l’analisi delle delibere comunali; ad esempio, l’art. 3, lett. b), Principi generali Delibera n. 34 del 9 ottobre 2018 del Consiglio comunale di Trevignano Romano, Città metropolitana di Roma Capitale: “l’Amministrazione garantisce la massima conoscibilità delle opportunità di collaborazione, delle proposte pervenute, delle forme di sostegno assegnate, delle decisioni assunte, dei risultati ottenuti e delle valutazioni effettuate. Riconosce nella trasparenza lo strumento principale per assicurare l’imparzialità nei rapporti con i/le Cittadini/e e la verificabilità da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati delle azioni svolte e dei risultati ottenuti”. Il regolamento citato distingue tra patti di collaborazione semplici e patti di collaborazione complessi. La necessità della massima diffusione e pubblicità delle forme di collaborazione è espressamente richiamata anche nell’oggetto e nelle finalità della recente legislazione regionale sopra richiamata. La Regione “promuove l’amministrazione condivisa dei beni comuni, mediante forme di collaborazione tra l'amministrazione regionale e gli enti locali e i cittadini attivi, finalizzate alla cura, alla rigenerazione e alla gestione condivisa degli stessi, dandone massima diffusione e pubblicità”, art. 1 Legge regionale Lazio del 26 giugno 2019.
[23] Cons. Stat., 1 aprile 2016, parere n. 855.
[24] Corte conti, sez. reg. controllo, Emilia-Romagna, deliberazione n. 27/2016 su quesito presentato dal Comune di Bologna.
[25] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto, deliberazione n. 313/2016, su quesiti presentati dal Comune di Comune di Lonigo.
[26] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto deliberazione n. 313/2016.
[27]Corte conti, sez. reg. controllo Veneto deliberazione n. 313/2016. Sulla motivazione e la legittimazione del potere si rinvia a A.R. Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato giurisdizionale, Milano, 1987 e, poi, a G. Corso, Motivazione degli atti amministrativi e legittimazione del potere negli scritti di Antonio Romano Tassone, in Dir. Amm., fasc. 3, p. 563 ss., specie in riferimento alla questione del “come motivare” e alla diversa lettura della funzione attribuita alla motivazione (che per A.R. Tassone sarebbe strumento di controllo del potere, mentre per G. Corso si fonderebbe sul principio liberale piuttosto che su quello democratico). Sulla motivazione, specie in rapporto alla discrezionalità tecnica si rinvia a A. Cioffi, Motivazione del provvedimento, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, pp. 218 ss., e, ivi richiamato, sulla discrezionalità tecnica, P. Lazzara, voce Discrezionalità tecnica, in Dig. disc. pubbl., Agg., IV. Torino 2010.
[28] L’art. 179 (Disciplina comune applicabile) stabilisce che “Alle procedure di affidamento di cui alla presente parte si applicano le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI, in quanto compatibili”. Sul punto si veda il saggio di R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti e doveri di solidarietà, in Manuale di diritto dei beni comuni urbani, cit., p. 279, dove osserva che “La gara s’impone ogni qualvolta vi sia una contesa tra produttori (mercato) diretta a selezionare un’esclusiva di produzione a favore di chi vi abbia un interesse economico (regole di concorrenza). Non così ove si tratti di un’attività solidale, poiché, se vi è cooperazione nella soddisfazione dei bisogni sociali, si nega ogni esclusiva ed è normale che il prestatore ottenga al più un contributo a copertura dei costi di produzione”.
[29] Sul governo del territorio urbano e la rigenerazione degli spazi urbani si vedano: M.G. Della Scala, Lo sviluppo urbano sostenibile e gli strumenti del governo territoriale tra prospettive di coesione e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Amm., fasc. 4/2018, 3; F. Giglioni, La rigenerazione dei beni urbani di fonte comunale in particolare confronto con la funzione di gestione del territorio, in La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, (a cura di) F. Di Lascio, F. Giglioni, Bologna, p. 209.
[30] Corte Conti, sez. reg. controllo Emilia-Romagna, deliberazione n. 27/2016.
[31] Legge regionale del Lazio, 26 giugno 2019.
[32] Art. 8 legge regione Lazio. Sulle differenze e analogie tra patto di collaborazione e baratto amministrativo si rinvia al Manuale di diritto dei beni comuni urbani, cit., p. 119.
[33] Art. 8 co. 1 Legge regionale 26 giugno 2019. La normativa richiamata appare interessante sia per le molteplici definizioni offerte, sia per la previsione della procedura di adozione di un “regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni e linee guida per l’adozione da parte degli enti locali dei rispettivi regolamenti”.
[34] Art. 6 co. 1 lett. b.
[35] Delibera del Comune di Todi (n. 4/2019), recante approvazione del regolamento per l’applicazione del baratto amministrativo.
[36] Delibera del Comune di Vobarno (n. 145/2016) - applicazione dell’art. 24 del d. l. 12.09.2014, n. 133 c. d. “baratto amministrativo” convertito in legge n. 164 del 11.11.2014 – approvazione criteri e condizioni.
[37] Corte conti, sez. reg. controllo Veneto, deliberazione n. 313/2016. L’art. 179 (Disciplina comune applicabile) stabilisce che “Alle procedure di affidamento di cui alla presente parte si applicano le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI, in quanto compatibili".
[38] E. Michelazzo, R. Albanese, Manuale di diritto dei beni comuni urbani, cit., p. 120.
Verso quale riforma della magistratura onoraria? di Giulio Nicola Nardo
Sommario: 1. Premessa - 2. Ufficio del processo e Ufficio del Giudice - 3. Necessità di una disciplina del rapporto di lavoro - 4. Ipotesi di riforma dell’organico della magistratura onoraria.
1. Premessa
Da tempo si assiste ad una serie di tentativi di interventi normativi di sistemazione organica dei ruoli della magistratura c.d. onoraria che dovrebbero inserirsi nell’ottica di una riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario e del sistema di funzionamento dell’ufficio del Giudice.
Ciò induce chi scrive a brevi riflessioni, volutamente non tecniche, ma decisamente orientate ad unirsi al gruppo - sempre più numeroso - di chi è per nulla soddisfatto dell’“anima” che emerge dai vari testi di legge che circolano e che sono già alle prime letture dei legiferanti.
Per vero, all’occhio di un attento lettore dei testi che, dalla c.d. legge Orlando arrivano ai recenti testi di legge depositati - da ultimo quello delle senatrici di maggioranza Valente ed Evangelista - si evidenzia un legislatore (consapevolmente?) miope che naviga quasi a vista e senza una precisa rotta che abbia quale orizzonte un organico disegno riformatore, così fornendo una definitiva risposta non tanto e non solo ai magistrati onorari – che nessuno, tanto meno a seguito dell’intervento della Corte di giustizia europea del 2020 [1] si può più permettere di non qualificare come lavoratori - ma a chi della Giustizia si serve, ossia a tutti coloro che chiedono l’intervento del giudice per la tutela giurisdizionale dei propri diritti.
Ed allora una seria e scrupolosa riforma della giustizia, e con essa della esatta regolamentazione del ruolo anche della magistratura onoraria dovrebbe, da un lato, essere pensata ed attuata nel rispetto della tutela dei diritti dei medesimi quali lavoratori, con ogni connessa guarentigia previdenziale ed assistenziale; dall’altro, non ammettendo ulteriori ritardi o, ancora peggio, interventi disomogenei di chirurgia nell’organico dei ruoli della magistratura nei quali, a giusto titolo, vanno collocati i giudici onorari, che nel corso degli anni hanno dato dimostrazione di competenza, indipendenza e terzietà, in ossequio ai principi costituzionali di cui all’art. 111 Cost.
Se così è, come è evidente che sia, l’utente finale, ossia il consumatore (sia consentito il termine assolutamente atecnico, ma efficace) del servizio giustizia ha il diritto di porsi alcune domande alle quali il legislatore deve fornire risposte chiare e non ambigue, come invece avviene a causa di una legislazione fortemente tecnocratica elaborata nelle sconosciute e ombrose stanze ministeriali; ovvero ancora, come si evince dalla lettura del recente testo normativo all’esame della Commissione Giustizia del Senato, fornendo risposte di scarsa lungimiranza caratterizzate da evidente precarietà, assolutamente non idonee a licenziare una legge che segni il punto di arrivo di un sistema di organizzazione della giustizia moderno e davvero efficiente.
2. Ufficio del processo e Ufficio del Giudice
Vi è, allora da chiedersi: il legislatore ha veramente interesse ad una compiuta regolamentazione del rapporto di lavoro - da intendersi quale diritto al lavoro, e non (nell’accezione zaloniana) del “posto fisso” - e, più in generale, a dare adeguata soluzione alla incresciosa precarietà di una categoria alla quale ha comunque da anni delegato l’esercizio del potere giurisdizionale e che, per vero, viene esercitato con uguale dignità dei giudici togati? Oppure è intenzionato ad intervenire con il sistema del “tagli e cuci”, dunque rattoppando alla meno peggio – pur rappresentandolo magari come il meglio possibile - tale situazione? Non è questa la occasione per dare una compiuta regolamentazione a quello che si potrebbe chiamare Ufficio monocratico del Giudice di pace nel quale far confluire anche gli attuali giudici onorari?
Le domande alle quali il legislatore è chiamato a dare risposta organica e omogenea sono dunque varie e tra esse, ritengo fondamentale, la seguente: i magistrati onorari sono (ancora) magistrati o il legislatore vuole declassarli a collaboratori del giudice togato? La prima risposta che forniscono i testi normativi in esame, è tutta protesa nella direzione di non riconoscere più ai medesimi alcuna funzione giurisdizionale autonoma, per come fatto fino ad ora, ma di relegarli – quindi degradandoli quasi a mo’ di bocciatura – verso funzioni secondarie esecutive e sfruttando così una vera e propria “forza lavoro” (ci si scusa per il termine ma si precisa che lo si utilizza nel senso più nobile e vero, ossia che i magistrati onorari sono una Forza lavoro ormai imprescindibile per il (seppur ancora non efficiente) funzionamento del sistema giudiziario). Al contrario, una disciplina che abbia quale fine l’efficienza del processo e dunque una legislazione per il processo e non contro il processo[2] deve confermare la piena titolarità delle funzioni giurisdizionali dei giudici onorari, intervenendo sulla distribuzione della competenza ratione materiae e, in subordine, per valore, elevando e non, come si legge ora nei testi in esame, abbassando la soglia della competenza per valore.
Dunque la vera risposta, senza alcuna pretesa di completezza, dovrebbe essere quella di mantenere la piena titolarità in capo ai magistrati onorari di una serie di materie, specificamente individuate e peraltro da sempre dagli stessi trattate anche a volte in via esclusiva, nell’ottica di un loro accorpamento nell’istituendo Ufficio monocratico di Pace, che tratterebbe una serie di cause rispetto alle quali viene mantenuta una competenza per materia (si pensi alle cause già di competenza del giudice di pace, alle quali potrebbero essere assegnate altre cause da individuare), ed altre in ragione del valore delle medesime, da quantificarsi in misura non inferiore ad almeno centomila euro.
Nell’ottica, poi, di una completa riorganizzazione della magistratura onoraria nell’Ufficio del giudice monocratico di pace (o “minore”, o come lo si vorrà battezzare, visto che, tale progetto era già parte della legge delega n.57/2016 art. 1 comma 1 lett a), non va dimenticato che vi sono Ddl[3] attualmente depositati in commissione giustizia Senato che prevedono espressamente un accorpamento dei magistrati onorari con i giudici di pace: in tal modo si potrebbe concretamente assicurare un adeguato funzionamento di un servizio giustizia, per così dire “minore” (inteso non in ragione della tipologia dei diritti in sé, ma per il loro riflesso sulla collettività in generale). Infatti, si creerebbe così un “Ufficio del giudice di pace” ben strutturato che unisca le ormai consolidate competenze dei magistrati laici (di pace e onorari), con piena dignità giurisdizionale degli stessi e sgravio per il Tribunale. Si valorizzerebbe l’ufficio del giudice minore (laico) monocratico di prima istanza per la tutela giurisdizionale di diritti (non lo si dimentichi) in modo ben strutturato nel territorio nazionale.
Non sarebbe forse più efficiente questa collocazione dei ruoli della magistratura monocratica laica, piuttosto che collocare i non più giovani – nel senso però di più esperti – magistrati onorari nell’ufficio del processo o nell’ufficio di collaborazione del procuratore così come ad oggi strutturato, diretto dal solo magistrato togato? Non sarebbe più corretto qualificarli come giudici monocratici laici piuttosto che inquadrarli quasi come stagisti, ossia quella nota categoria (che storicamente riguarda i giovani laureati) grigia e assolutamente precaria di chi viene collocato in un qualsiasi ufficio con poche competenze, con incerto futuro e soprattutto con un non definito ruolo, se non quello di ricerca e di collaborazione con il titolare, con assoluta confusione riguardo ai rapporti (gerarchici?) tra gli stessi?
In conclusione, la riforma della già recente ed ahimè fallimentare “riforma Orlando”, che attualmente emerge dai testi normativi al vaglio della Commissione giustizia del Senato, non soddisfa nessuno, perché non funziona e non darà adeguate risposte. Non modifica affatto, in particolare, il fantomatico ufficio del processo, o meglio l’ufficio del Giudice, il quale meriterebbe per esempio una struttura che preveda sempre presente - per davvero - un assistente di cancelleria, un segretario, un tecnico informatico e almeno due uditori giudiziari che in un lasso di tirocinio che non dovrebbe essere inferiore a due anni, prima di una loro assegnazione autonoma ad un nuovo ufficio di cui diventeranno titolari, assicurino al giudice quel supporto nella ricerca e nello studio dell’oggetto della controversia, (essendo in ciò maggiormente proiettati in ragione dei più recenti e freschi studi) e nella prima stesura di una minuta.
Occorre, pertanto, una riforma organica della magistratura onoraria che tenga conto della vita reale nei tribunali e del ruolo concretamente svolto dalla stessa.
3. Necessità di una disciplina del rapporto di lavoro
I magistrati onorari sono lavoratori e come tali il loro rapporto di lavoro merita una compiuta regolamentazione?
Il presente quesito, per vero, ha già tracciata la sua risposta dalla recente pronuncia della Corte di giustizia dell’unione europea[4], nuovamente adita, recentemente dal Tar Emilia-Romagna[5] e dal Tribunale di Vicenza[6]. Il primo, in particolare, chiede oltre all’accertamento dello status giuridico di pubblico dipendente, del magistrato onorario, nell’ambito del Ministero della Giustizia, “la ricostruzione della posizione giuridica, economica, assistenziale e previdenziale, in riferimento oltre che alle direttive 1999/70 e 2003/88 anche alle direttive n. 1997/81/CE sul lavoro a tempo parziale (clausola 4) e n. 2000/78/CE (art. 1, 2 comma 2 lett. a) in tema di parità di trattamento, oltre che agli artt. 20, 21, 31, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.
Il TAR ritiene, inoltre, necessario da parte della Corte Europea, un più approfondito esame delle funzioni concretamente esercitate dal giudice di pace nell’ambito dell’ordinamento nazionale, sussistendo altrimenti il rischio pressoché certo di determinare un margine di apprezzamento eccessivamente ampio da parte del giudice nazionale in uno con l’elusione dell’effetto utile delle direttive evidenziate. Considera, infine, l’esigenza fondamentale che “la nozione di lavoratore non possa essere interpretata in modo da variare a seconda degli ordinamenti nazionali” (punto 88) e che siano evitate disparità di trattamento (non solo come detto con i magistrati c.d. togati ma anche con l’intera categoria dei lavoratori dipendenti pubblici) non giustificate da “ragioni oggettive” ai sensi della clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale.
È evidente, pertanto, come gli organi giurisdizionali, aditi, (Corte di Giustizia dell’unione europea, TAR e Tribunale lavoro), si siano già orientati in modo inequivocabile verso quel riconoscimento che oggi, a noi studiosi del diritto, appare improcrastinabile. Ecco proprio sulla base di tale dettato, che ha in sé il conforto della autorevolezza della pronuncia, ma ancor prima dalla primaria collocazione all’art. 1 della nostra Costituzione italiana del diritto al lavoro, occorre che il legislatore non continui a perseverare in modo diabolico immaginando una regolamentazione del rapporto di lavoro dei magistrati onorari a “macchia di leopardo”, ossia non riconoscendo i diritti di base di qualsiasi lavoratore (previdenza, assistenza, retribuzione adeguata) e, aggravando la stessa con previsione di svolgimento del lavoro entro un “monte ore”, che, peraltro, mal si concilia con lo svolgimento della funzione giurisdizionale.
Ma davvero si può immaginare, e ancora peggio sopportare, che un legislatore assegni ai magistrati onorari – finanche collocandoli nell’ufficio del processo – un limite di orario di lavoro con previsione cadenzata di giorni settimanali propri di un part-time meramente esecutivo e di svolgimento di mansioni di mera segretaria di secondaria funzione? E’questa la migliore collocazione dei magistrati onorari nei ruoli della magistratura per assicurare il più efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale che intende assicurare all’utente il nostro legislatore? O è - come è evidente - un malcelato tentativo di rattoppare all’italiana un rapporto di lavoro che diventerà sempre più ibrido e sciatto, sia sotto l’ottica giuslavoristica che di organizzazione del sistema giudiziario?
L’impressione è che il legislatore di turno opti consapevolmente per la seconda soluzione, tuttavia prospettandola come l’unica possibile in ragione del solito compromesso [per vero, al ribasso] tra le forze politiche le quali nemmeno di fronte alla generale domanda di una legislazione sulla Questione Giustizia che unisca - piuttosto che dividere - le varie anime politiche del governo e dell’opposizione, trova la soluzione più apprezzabile: quello che emerge è che in tal modo all’indomani del battesimo dell’ennesima legge di riforma della giustizia, salutata (da chi poi?) come la compiuta riforma della magistratura onoraria, i più attenti e scrupolosi interpreti e commentatori della legge, e più in generale gli operatori della giustizia, avvocati e parti, oltre che, indubbiamente la magistratura togata[7] più attenta e sensibile al buon funzionamento della giustizia – peraltro cristallizzata anche in pronunce della Cassazione [8] - che abbia avuto modo di apprezzare la fondamentale presenza dei magistrati onorari nello svolgimento della funzione e in termini più pratici nello smaltimento dei fascicoli infiniti giacenti nei tribunali, inevitabilmente qualificheranno come inutile, improduttiva e da riformare nuovamente, siccome evidentemente lacunosa (anche) nella parte riguardante il mancato riconoscimento dei diritti previdenziali ed assistenziali dei medesimi, e inevitabilmente proiettata verso censure di incostituzionalità.
A ciò va ad aggiungersi che l’attuale situazione determinata dalla pandemia, mal si concilia con la previsione del testo di maggioranza a firma delle senatrici relatrici Valente e Evangelista - ora all’esame della Commissione giustizia del Senato - posto che nel testo in questione rimane ancora la mancata previsione di qualsivoglia forma previdenziale ed assistenziale nonché il riconoscimento di una vera retribuzione da corrispondere anche in caso di assenza per malattia o altro così come riconosciuto a qualsiasi lavoratore. E allora, sorge spontaneo chiedersi dove sia lo Stato italiano per quei magistrati onorari risultati positivi al Covid-19 e privi, per volontà anche politica di qualsivoglia tutela assistenziale e sanitaria.
A ciò si aggiunga che con la legge n. 77 del 17 luglio 2020 di conversione del c.d. decreto legge Rilancio del 19 maggio 2020 n. 34, è stato prorogato il periodo emergenziale al 31 ottobre 2020 e modificato l ’ art. 83 comma 7 lett. h), riconoscendo al giudice la possibilità di disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti "siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni". E’ chiaro che tale attività non più qualificata come udienza proprio dal legislatore, forse frettoloso, forse inesperto o forse incomprensibilmente contrario alla categoria di cui si discute, non potrà essere svolta dal magistrato onorario in quanto non consentirà la corresponsione della prevista indennità a cottimo. Tale inopportuna modifica legislativa, ha obbligato ad oggi i magistrati onorari ad accettare il rischio di contagio, peraltro assai elevato nell’attuale periodo di recrudescenza della pandemia, continuando a tenere udienza in presenza, coinvolgendo nel rischio gli avvocati e le parti processuali. E’ chiaro che il legislatore non possa chiedere a qualcuno di prestare la propria attività lavorativa gratuitamente, né è ammissibile che dei lavoratori, che svolgono funzioni giurisdizionali, debbano mettere a repentaglio la propria salute e quella di chi è costretto a partecipare alle udienze in presenza, a causa di un'improvvida disposizione normativa. Essa peraltro, appare assolutamente discriminatoria rispetto ai magistrati ordinari i quali possono, infatti, svolgere le udienze cartolari da remoto, mentre ai giudici onorari viene chiesto “lo sforzo” di presenziare in udienza: evidente è dunque la inaccettabile disparità di trattamento oltre che tra i giudici – ordinari ed onorari – più in generale della gestione delle fasi del processo, a seconda se questo si svolga davanti al giudice onorario o togato.
Ciò anche nella previsione - a causa della detta pandemia la cui durata nessuno è in grado di collocare in un preciso e definitivo termine e che comunque ha già modificato l’ordinario svolgimento del processo civile - che, verosimilmente, il futuro ormai prossimo o probabile del processo civile sia quello della prevalenza della trattazione scritta piuttosto che in presenza, certamente limitata a quelle fasi in cui ciò sia possibile (esclusa all’evidenza, l’assunzione delle prove testimoniali, o le ipotesi in cui le parti o il giudice richiedano lo svolgimento della udienza in presenza per discussione).
4. Ipotesi di riforma dell’organico della magistratura onoraria
A conclusione della presente riflessione ci si permette di fornire qualche proposta di riforma nel tentativo di dare un contribuito per una più organica riforma maggiormente orientata verso una complessiva e più ottimale strutturazione della Magistratura onoraria.
Credo che in questo momento in cui da più parti si cerca di sensibilizzare il legislatore verso una adeguata regolamentazione dei giudici onorari, si possa cogliere l’occasione per giungere ad una disciplina che appunto preveda:
a) riconoscimento dei magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017 quali magistrati appartenenti ad un Ufficio del Giudice c.d. minore, monocratico, attraverso una legislazione che ne preveda il loro inserimento a seguito di concorso per titoli e colloquio, con un numero di posti a concorso pari al numero dei magistrati onorari già in servizio;
b) inserimento dei magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 116/2017, nell’Ufficio del Giudice pace, creando dunque un Ufficio monocratico minore di primo grado, con un considerevole aumento della pianta organica di tale Ufficio che nel tempo ha dato prova di adeguato funzionamento e con un miglioramento anche qualitativo, attesa la competenza e l’esperienza maturata dai giudici onorari;
c) attribuzione di specifica competenza per materia al nuovo Ufficio e determinazione della competenza per valore almeno fino a 100mila euro;
d) regolamentazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno - e non più a tempo determinato - di tutti i magistrati appartenenti al costituendo Ufficio del giudice monocratico minore con previsione di stipendio adeguato, e previsione di tutti i diritti previdenziali ed assistenziali propri di un dipendente della pubblica amministrazione appartenente al ruolo della Magistratura;
e) mantenimento all’interno del Consiglio superiore della Magistratura di una Sezione specifica e con la istituzione di una Commissione che si occupi della carriera del Giudice monocratico minore, relativamente ad ipotesi di responsabilità disciplinare, dell’obbligo di formazione ed aggiornamento professionale;
f) cancellazione da albi professionali e divieto di partecipazione a attività politiche o sindacali, se non previa collocazione in aspettativa o fuori ruolo dall’ organico della magistratura, con conseguente ricongiunzione e ricostruzione della posizione previdenziale del magistrato onorario rispetto al pregresso esercizio della funzione a carico dello Stato;
g) digitalizzazione del sistema operativo della Giustizia per la più efficiente gestione dei processi e dei servizi ausiliari di cancelleria, attingendo dai finanziamenti europei.
Queste, ben inteso, sono solo ipotesi di proposte che certo potrebbero avere una forte ricaduta in termini anche economici per lo Stato, ma ciò non può e non deve essere un freno anche in considerazione di alcuni aspetti specifici. Si valuti, infatti, la possibilità per ogni singolo magistrato onorario, anche alla luce della recente sentenza della Corte di Giustizia dell’unione europea, di ricorrere giudizialmente contro lo Stato Italiano per il riconoscimento dei diritti maturati in riferimento alla propria dichiarata posizione di lavoratore subordinato. Si pensi allo tsunami giudiziario che ne deriverà. Si pensi a quanto lo Stato italiano pagherà in termini di risarcimento dei danni, differenze retributive, ferie non pagate, previdenza non corrisposta e quant’altro collegato, per 5300 magistrati onorari attualmente in servizio. Buona parte di tali ricorsi sono già al vaglio del Giudice nazionale, altri stanno per essere depositati.
Chi pagherà tali ingenti somme a cui lo Stato italiano potrebbe essere condannato? La risposta è fin troppo evidente, e per nulla accettabile: il cittadino!
Tutto ciò potrebbe essere ancora evitato grazie ad una riforma organica della magistratura onoraria maggiormente equa.
La proposta formulata ha in sé una visione più organica della riforma della magistratura onoraria e da questa potrebbe prendersi lo spunto per una complessiva regolamentazione di tale categoria: credo che le sintetiche indicazioni esposte possano esser ancor meglio valorizzate e fatte proprie dal legislatore, con una disciplina che sarebbe più completa ed efficace così favorendo un’efficiente organizzazione della Giustizia.
In conclusione ritengo che l’ipotesi di una un’unitaria collocazione dei magistrati onorari nell’ufficio del Giudice di pace (che potrebbe definirsi Giudice monocratico minore) e, come detto, con previsione di un ben definito perimetro di competenza per materia e valore, da un lato, strutturerebbe meglio l’Ufficio del Giudice di pace, e dall’altro, “libererebbe” il giudice togato da competenze (per materia e valore) riguardanti cause di impatto socio-economico più contenuto e minore, ma che, statisticamente, sono più frequenti e certamente non meno importanti e meritevoli di adeguata tutela giurisdizionale in tempi più rapidi, che il costituendo Ufficio potrebbe meglio assicurare.
Ma la amara conclusione è che così come viene prospettata, allo stato attuale, dal testo di legge di maggioranza all’esame della Commissione giustizia del Senato, questa è una riforma del ruolo della Magistratura onoraria che nessuno di Noi si attende, e che nessuno merita.
Ma, di fronte ad un legislatore che è, all’evidenza, un navigatore a vista, viene solo da concludere che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.
[1] Al riguardo è fondamentale il dictum assolutamente innovativo della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, di cui si dirà meglio alla nota n. 5.
[2] Come efficacemente ha scritto, SCARSELLI, La riforma della magistratura onoraria: un ddl che mira ad altri obiettivi e va interamente ripensato, in Quest. Giust. on line, dal 13 luglio 2015.
[3] Si veda Ddl n. 1582 a firma del senatore Balboni e Ddl n. 1516 a firma del senatore Iwobi.
[4] Cosi Corte di giustizia europea del 16 luglio 2020 [causa C-658/18], secondo cui un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di lavoratore ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. La Corte ha, inoltre, specificato che “…la nozione di lavoratore a tempo determinato contenuta in tale disposizione può includere un giudice di pace, nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
[5] Tar Emilia-Romagna ord. n. 644 del 2020.
[6] Trib. Vicenza, ordinanza del 29.10.2019 [R.G. 1028/2017], per il quale:” “La figura del magistrato onorario, originariamente concepita, come si è illustrato, come di mero supporto al magistrato togato, si è profondamente evoluta negli anni, per sopperire ad esigenze concrete connesse alla carenza di organico nei Tribunali. Attualmente i GOT trattano circa un terzo dei dibattimenti monocratici in Tribunale e delle udienze civili, avendo la titolarità di ruoli propri ed emettendo un numero elevato di provvedimenti che contribuiscono sensibilmente all’innalzamento della produttività. Essi, inoltre, integrano il collegio nei casi di necessità, fornendo un apporto spesso indispensabile per la trattazione effettiva dei processi collegiali (come risulta dalla circolare CSM 19.01.2016).
[7] Ci si riferisce al documento firmato dai Presidenti dei Tribunali sottoscritto in data 21 febbraio 2020. “attualmente i giudici onorari di tribunale, secondo le previsioni tabellari, sia nel settore civile che in quello penale gestiscono ruoli autonomi, trattando milioni di cause che diversamente si riverserebbero sui giudici ordinari, dando un contributo importante allo smaltimento degli affari”. Concludono, quindi, “invitando le Autorità in indirizzo a perseguire ogni possibile iniziativa legislativa che: consenta, riformando l’attuale previsione normativa dell’UpP, il mantenimento delle attuali funzioni giudiziarie in capo ai giudici onorari in servizio, con possibilità di gestire ruoli autonomi, secondo le previsioni tabellari predisposte dai capi degli Uffici, in base alle specifiche esigenze degli stessi, nel contesto della unicità di categoria tra gdp (giudici di pace) e got (giudici onorari di tribunale); abroghi ogni limitazione all’impiego dei magistrati onorari nei collegi civili e penali, oggi prevista dall’art.12 e dall’art.13 d.lgs.116 del 2017 con riferimento al complessivo carico di lavoro degli uffici giudiziari o alle vacanze di organico; elimini il rigido limite (attualmente previsto nel d.lgs.n.116/2017) dei due/tre impegni settimanali, che appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti, e preveda un consequenziale adeguamento economico.
Ma si veda, anche l’A.N.M., in data 6 aprile 2019, che non ha mancato di osservare come “destano perplessità e preoccupazione le proposte avanzate dal ministero in merito ai limiti temporanei di impiego della magistratura onoraria requirente e giudicante. La proposta presentata, infatti, limita tale impiego in tre impegni settimanali, stabilendo la corrispondente retribuzione. Tuttavia, tale rigido limite appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti per l’indisponibilità di magistrati onorari impiegabili con limitazioni così anguste ed inadeguate. L’ANM rivolge un appello al Ministro della Giustizia affinché, in sede di redazione dell’articolato normativo, ampli l’oggetto delle materie delegabili in coerenza con quanto già stabilito e aumenti la soglia limite prevista per l’impiego settimanale dei magistrati onorari, prevedendo il corrispondente incremento retributivo, onde prevenire il blocco della trattazione di numerosissimi procedimenti e l’impossibilità di celebrare le udienze che conseguirebbero all’entrata in vigore della riforma così come prospettata”. Ancora, si segnala che “da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo alla giurisdizione, in assenza di un’adeguata tutela previdenziale ed assistenziale” (Associazione Nazionale Magistrati, documento GEC del 22 aprile 2017), e il loro impiego “costituisce una misura apprezzabile nell’ottica di un’efficiente amministrazione della giustizia ex artt. 97 e 111 Cost.”.
[8] (Cass. 4 dicembre 2017, n. 28937, secondo cui “i giudici onorari – sia in qualità di giudici monocratici che di componenti di un collegio – possono decidere ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, come si evince dall’art. 106 Cost.”)
Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari*
di Giuliano Scarselli
1. Ho espresso il mio pensiero sulla riforma della magistratura onoraria una prima volta a seguito del disegno di legge n. 1738/2015 poi sfociato nella legge delega 29 aprile 2016 n. 57, e successivamente all’uscita del decreto legislativo 13 luglio 2017 n. 116.
In entrambe quelle occasioni esternai il mio dissenso ad una riforma che, ancorché solennemente titolata “Riforma organica della magistratura onoraria” a mio parere dissimulava solo l’intenzione di procedere ad una organizzazione dell’ufficio del giudice, chiamato, per dar meno nell’occhio, ufficio del processo, nonché l’intenzione di ridurre il carico di lavoro della magistratura togata trasferendo una serie di compiti e competenze alla magistratura onoraria.
Coglievo, in quella riforma, anche dei profili di incostituzionalità, che emergevano a mio parere nel modo in cui i giudici onorari venivano trattati e considerati.
In particolare: - mi sembrava dubbio che l’ufficio del giudice onorario di pace potesse essere diretto dal Presidente del Tribunale, che non appartiene a quell’ufficio e che anzi è il capo dell’ufficio delle impugnazioni delle sentenze civili dei giudici di pace; - mi sembrava altresì dubbio che il Presidente del Tribunale avesse su i giudici onorari, oltre al normale potere di vigilanza, quello di direttiva e di indicazioni di prassi applicative anche in ordine ai provvedimenti da assumere o agli indirizzi giurisprudenziali da tenere; - mi sembrava ancora di dubbia costituzionalità che la formazione e l’aggiornamento della professionalità dei giudici onorari potesse darsi con incontri nei quali si discuteva delle sentenze da questi pronunciate e/o delle questioni sulle quali avevano curato la trattazione, quasi come scolaretti dinanzi ad una professoressa di liceo che corregge loro i compiti; - e ancora dubbi mi suscitava l’ampia delega che il giudice togato potesse dare al giudice onorario all’interno dell’ufficio del processo, consentendo al primo di (quasi) interamente liberarsi del fascicolo, se non per meri e successivi controlli; - il tutto con una retribuzione del giudice onorario “a cottimo”, e ancorata ai risultati raggiunti, ovvero con una retribuzione che, se data ai giudici togati, tutti avrebbero gridato allo scandalo e alla incostituzionalità.
Ora si sta discutendo in Senato dell’approvazione di alcune modifiche di quel decreto legislativo, ma dal 2017 ad oggi, a mio parere, le tematiche intorno al ruolo e alla funzione dei giudici onorari nel sistema giustizia si sono fatte sempre meno giuridiche e sempre più sindacali.
Le discussioni, attualmente, vertono infatti soprattutto sulla retribuzione, sul contratto di lavoro, sul diritto alla previdenza e all’assistenza; e ciò soprattutto dopo le pronunce Tribunale di Vicenza 29 ottobre 2019, Corte Giustizia Unione Europea causa C – 658/18 del 16 luglio 2020, TAR Emilia Romagna 20 ottobre 2020 n. 644.
Dal che, appunto, al momento, credo che la riforma della magistratura onoraria passi attraverso l’analisi di due diverse, e direi anche lontane, questioni: quella prevalente di tipo sindacale, e quella oramai sullo sfondo avente ad oggetto gli aspetti che non attengono al rapporto di lavoro tra lo Stato e il giudice onorario.
2. Quanto agli aspetti sindacali, io ebbe a scrivere che v’era da chiedersi se fosse accettabile che un giudice onorario, ancorchè privo della qualifica di pubblico impiegato, dovesse svolgere la propria attività senza alcun riconoscimento di assistenza, infortuni, gravidanza e previdenza, e con una retribuzione legata alla produttività e alla realizzazione di obiettivi fissati dal Presidente del Tribunale.
Orbene, pur non smentendo quanto scrivevo in quegli anni, ritengo però oggi di non poter andare oltre su questi temi, e solo pongo due questioni che mi sembrano centrali e semplicissime:
a) la prima è che la magistratura onoraria non può ottenere una stabilizzazione pari a quella della magistratura togata, e ciò per l’evidente questione che i giudici togati hanno vinto un concorso pubblico e i giudici onorari no.
Credo sia inevitabile ammettere che si tratti di due magistrature differenti e che la ricerca di soluzioni di equità, senz’altro auspicabili, non possono tuttavia far venir meno il principio secondo il quale agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede per concorso ex art. 97 Cost.
b) La seconda attiene alla misura della retribuzione, che molti commentatori hanno ritenuto inadeguata, se non addirittura priva di quella dignità che un compenso dato a persone che svolgano funzioni giurisdizionali deve avere.
Orbene, leggo nell’art. 10 della proposta di riforma del d. lgs. 116/2017 che la retribuzione lorda annuale per il giudice onorario che sia inserito nell’ufficio del processo, e svolga parimenti funzioni giurisdizionali, ammonterà ad € 38.000,00.
Mi permetto allora di segnalare che un professore ordinario con venti anni di anzianità ha uno stipendio lordo annuo di circa € 44.000,00 se lavora presso l’università a tempo definito, come a tempo definito lavorano i giudici onorari.
Lascio dunque ad ognuno la valutazione di queste misure per ogni possibile riflessione al riguardo.
3. Circa gli aspetti non sindacali delle modifiche che si vogliono apportare al d. lgs. 166/2017 aggiungo quanto segue:
a) l’art. 2 modifica le incompatibilità tra giudice onorario ed avvocato e le inasprisce.
Si tratta, tuttavia, di incompatibilità all’interno del circondario, e relative all’impossibilità dei giudici onorari di svolgere la funzione ove loro stessi, gli associati di studio, il coniuge, i conviventi, i parenti fino al secondo grado o gli affini fino al primo grado esercitano la professione forense.
Mi sembra un limite ragionevole, volto ad assicurare la neutralità della funzione giurisdizionale ed a evitare commistioni che potrebbero pregiudicare l’indipendenza del giudice.
b) L’art. 3 prevede che il Presidente del Tribunale, nel coordinare l’ufficio del giudice di pace, possa avvalersi di un vice coordinatore individuato tra i giudici onorari di pace che esercitano le funzioni nel medesimo ufficio, sulla base di titoli e anzianità.
Mi sembra una buona soluzione, che in parte supera i dubbi circa la scelta di aver posto a capo dell’ufficio del giudice di pace il Presidente del Tribunale.
Se era probabilmente inevitabile affidare al Presidente del Tribunale il coordinamento dell’ufficio del giudice di pace, l’idea che questi possa essere affiancato in questo compito da un giudice di pace, e quindi da un giudice del medesimo ufficio, stempera quella scelta, assegnando così un ruolo direttivo anche ad un giudice primus inter pares.
Peraltro, la collaborazione tra un giudice di pace che vive in prima persona la realtà dell’ufficio, e il Presidente del Tribunale che si presume avere altra esperienza, potrebbe dare buoni frutti nell’organizzazione dell’ufficio stesso, visto che consente di mettere insieme professionalità diverse tra loro.
c) L’art. 6 pone talune modificazioni al sistema disciplinare, prevedendo che le sanzioni disciplinari siano il richiamo, la sospensione, la revoca.
Seppur sia da condividere l’idea di una graduazione delle sanzioni, inesistente nell’attuale testo dell’art. 21 del d. lgs 166/2017, che incentra al contrario il procedimento disciplinare sulla sola sanzione della revoca dall’incarico, taluni dubbi sulle proposte di modifica possono essere egualmente sollevati.
In particolare mi sembra eccessivo immaginare un intero procedimento disciplinare, che ha particolare complessità, per disporre un semplice richiamo.
Ricordo che il procedimento disciplinare in questione coinvolge, oltre normalmente il presidente del Tribunale, altresì il Presidente della Corte di appello, la sezione autonoma del Consiglio giudiziario e poi lo stesso CSM, con un procedimento che deve avvenire nel contraddittorio delle parti e fatta la dovuta istruttoria, e con provvedimento finale che è del Ministro della Giustizia.
Che tutto questo possa avere ad oggetto un semplice richiamo mi sembra veramente fuori proporzione.
Peraltro, nemmeno scorgo così grandi differenze di gravità nei comportamenti che prevedono il richiamo rispetto a quelli che riguardano la sospensione.
La grave inosservanza delle norme regolamentari o delle disposizioni di servizio, l’indebito affidamento ad altri dei propri compiti, la violazione del dovere di riservatezza con divulgazioni di procedimenti coperti da segreto, fatti tutti che comportano, se commessi, il richiamo del giudice onorario, non mi sembrano di così forte minore intensità rispetto a quelli che comportano una sospensione da tre a sei mesi, quali, ad esempio, comportamenti gravemente scorretti nei confronti delle parti, omessa comunicazione al capo dell’ufficio di interferenze ricevute, fino, se si vuole, all’inosservanza all’obbligo di astensione o all’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti.
Ritengo, dunque, che l’idea di introdurre una sanzione avente ad oggetto il semplice richiamo possa essere abbandonata, e la graduazione delle sanzioni possa essere individuata, a mio sommesso parere, solo nella sospensione e nella revoca dell’incarico e nient’altro.
d) L’art. 8 provvede infine alla soppressione dell’intero capo X del d. lgs. 116/2017, ovvero pone rinuncia all’ampliamento delle competenze per valore e materia che l’art. 27 d. lgs. 116/2017 aveva in un primo momento attribuito ai giudici di pace.
Su questo mi permetto di avere dei dubbi, poiché seppur sia vero che molte di quelle norme si presentavano come oscure o passibili di interpretazioni fra loro divergenti, con rischi di impugnazione fino in cassazione, il disegno riformatore era finalizzato ad un obiettivo condivisibile, quale quello di attribuire ai giudici di pace gran parte del contenzioso minore, così consentendo ai giudici togati di tribunale di occuparsi solo e/o principalmente del contenzioso più rilevante.
Poiché credo sia importante consentire ai giudici togati di occuparsi in tempi ragionevoli, e con il dovuto approfondimento, del contenzioso più rilevante, l’idea di ampliare la competenza dei giudici onorari, trasferendo ad essi gran parte del contenzioso minore, non mi sembra debba essere abbandonata ma, se del caso, solo riformulata in forme migliori di quelle che si leggevano nel testo dell’art. 27 d. lgs. 116/2017 del quale oggi si chiede la soppressione.
*Forum, coordinato dal Prof. Bruno Capponi, sulla riforma della magistratura onoraria:
"Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria" del prof. Federico Russo, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1377-brevi-osservazioni-sul-testo-unificato-dei-disegni-di-legge-s-1438-s-1516-s-1555-s-1582-s-1714-in-discussione-al-senato-di-riforma-della-riforma-della-magistratura-onoraria, 3 novembre 2020
"Verso quale riforma della magistratura onoraria?" del Prof. Giulio Nicola Nardo https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1375-verso-quale-riforma-della-magistratura-onoraria
"Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia" hdel Prof. Bruno Caruso e del Pres. Giuseppe Minutoli ttps://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1376-cui-prodest-la-riforma-della-magistratura-onoraria-tra-tutela-di-diritti-negati-ed-efficienza-della-giustizia
Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia*
di Bruno Caruso e Giuseppe Minutoli
Sommario: 1. Premessa. La Legge Orlando e il dibattito sulla riforma della magistratura onoraria - 2. La sentenza UX e la sua vincolatività nel contesto dei principi del diritto euro unitario - 3. Il d.d.l. Valente Evangelista - 4. Conclusioni. Dalla critica alle proposte.
1. Premessa. La Legge Orlando e il dibattito sulla riforma della magistratura onoraria
Da anni si discute in varie sedi, anche parlamentari, delle criticità riscontrate - ancor prima della sua entrata in vigore – nella c.d. Legge Orlando (d. lgs. n. 116/2017) in tema di riforma organica della magistratura onoraria. Si è palesata sin da subito una evidente inidoneità di tale pur recente normativa a conciliare, da un lato, l’esigenza, ormai insopprimibile, del riconoscimento di un dignitoso status dei magistrati onorari (che svolgono da decenni le loro funzioni giurisdizionali, nel contesto di un sostanziale precariato e con evidenti deficit di tutele[1]), dall’altro, l’essenziale raggiungimento di obiettivi di efficienza del sistema giudiziario, che dovrebbe costituire l’obiettivo di ogni intervento legislativo in materia di Giustizia.
Si è parlato in maniera icastica di un “legislatore furbo, che fa tutto indirettamente”, nel contesto di una legge che “non è la riforma per i giudici onorari”[2]. E per il vero questa non è neanche la riforma che serve in definitiva ai magistrati ordinari (in quanto, come si vedrà, è concreto il rischio di aumentare a dismisura i loro già gravosi ruoli) e agli utenti della giustizia (ai quali interessa una risposta giurisdizionale rapida ed efficiente).
Come è stato evidenziato, oggetto di motivata critica è l’intero impianto del d. lgs. n. 116/2017 e delle proposte di riforma in discussione, che presentano palesi criticità rispetto ai principi del diritto euro unitario[3] e destano serissime preoccupazioni per l’impatto che la struttura organizzativa dell’Ufficio del processo, così come strutturato, avrà sulla funzionalità della Giustizia; così come restano irrisolti i nodi legati alla dignità dello status della magistratura onoraria, alla indennità prevista con il c.d. fisso[4] (ove mai entrerà a regime) e ai nuovi carichi di lavoro (con la previsione, per il vero atecnica e per nulla chiara, del massimo di tre “impegni” settimanali).
Più in particolare, tra le varie questioni, la istituzione dell’Ufficio del processo in astratto potrebbe avere il suo fascino e potrebbe essere utile, ma invece, così come è strutturata nelle attuali previsioni normative, manifesta tutta la sua inadeguatezza, con ricadute pregiudizievoli sulla funzionalità del sistema. In esso invero potranno (rectius: dovranno, nella maggior parte dei casi) confluire i giudici onorari, cui verranno affidati compiti giurisdizionali in limitati casi, posto che la loro attività principale sarà invece quella di adiuvare i giudici professionali, trasformandosi in loro assistenti e collaboratori[5]. Ma, tenuto conto del fatto che nella maggior parte dei Tribunali il carico di lavoro dei giudici ordinari è già gravosissimo, evidenziamo da un lato la pericolosità dei nuovi limiti decisionali previsti dall’art. 10, co. 12, d. lgs. n. 116/2017, con devoluzione ai primi di materie oggi trattate dai gop[6], dall’altro l’insopprimibile esigenza di avere il massimo numero di giudici onorari con piene funzioni giurisdizionali (e non con compiti ausiliari e con gli stringenti limiti decisionali previsti), a pena di pregiudicare la funzionalità dell’attività giurisdizionale.
L’Ufficio per il processo, come evidenziato in un appello sottoscritto da numerosi presidenti di Tribunale nel gennaio 2020, “rischia di integrare una struttura organizzativa inefficace, peraltro inutile nel settore penale, determinando uno “spreco” di professionalità già qualificate, formate e sperimentate, che la Giustizia non può permettersi: infatti i giudici onorari attualmente in servizio (salvo casi eccezionali indicati nell’art. 11 e salva la possibilità di delegare specifiche attività, come l’assunzione di prove testimoniali) non eserciterebbero più le attuali funzioni giudiziarie in sede civile, anche con gestione di ruoli autonomi, e non sarebbero più utilizzati in sede penale (funzioni indispensabili, come detto prima, per l’efficienza della giurisdizione), ma svolgerebbero meri compiti per così dire ancillari al giudice ordinario (studio dei fascicoli, approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, predisposizione delle minute dei provvedimenti): attività di supporto del giudice togato che ben più utilmente vengono oggi demandate agli stagisti o ai tirocinanti, cioè a profili professionali in formazione”.
Si tratta di preoccupazioni fatte in parte proprie anche dal Consiglio Superiore della Magistratura[7] e oggetto di un allarmato documento firmato dal oltre cento Procuratori della Repubblica nel maggio 2017[8].
Ebbene, dopo l’esperienza fallimentare di un tavolo tecnico ministeriale che ha partorito un progetto di riforma sganciato dalle istanze avanzate dalla magistratura onoraria associata e per le quali era stata declamata una particolare attenzione a livello governativo, negli ultimi dodici mesi si sono succedute audizioni alla Commissione Giustizia del Senato[9], riunioni, dibattiti e articoli[10], prese di posizione anche di alcuni presidenti di Tribunale[11], predisposizioni di varie bozze di riforma, in un contesto che, apparentemente, sembrava maturo per una equilibrata disciplina di un settore in cui permane una situazione di sfruttamento e di deficit di tutela, assolutamente inammissibile in uno Stato di diritto[12]. Questo perché dovrebbe essere chiaro a tutti che qualsiasi normativa di settore che incida sulla giurisdizione deve tendere a migliorare (o almeno a non peggiorare) l’efficienza della stessa, anche limitando i danni arrecati alle finanze dello Stato dalle continue condanne ex legge Pinto n. 89/2001 e in sede di Corte europea dei diritti dell’Uomo ed evitando le procedure di infrazione già preannunciate o in corso.
E tuttavia il dibattito sembrava ormai scivolare in una palude inconsistente quando il 16 luglio 2020 ha fatto irruzione l’attesa sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-658/18 (procedimento UX contro Governo della Repubblica italiana), che, come si vedrà, ha statuito come “un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di lavoratore ai sensi di tali disposizioni, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare” e che “la nozione di lavoratore a tempo determinato contenuta in tale disposizione può includere un giudice di pace , nominato per un periodo limitato, il quale, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
A fronte di tale autorevolissimo arresto giurisprudenziale, che nell’ambito della giurisdizione nazionale introduce un principio a cui occorre attenersi, ha stupito non poco coloro che, con approccio “laico” e rispettoso delle regole e dei principi euro unitari, si occupano da anni della questione, il deposito in commissione giustizia del Senato del ddl. Valente – Evangelista S1438[13]: si tratta infatti di un elaborato normativo che non solo non elimina alcuna delle denunciate criticità della Legge Orlando, non solo peggiora alcuni aspetti della stessa, sia dal punto di vista della tutela dei diritti dei magistrati onorari e delle (nefaste) ricadute di tali scelte sulla organizzazione e sulla funzionalità dell’attività giurisdizionale, ma che addirittura ignora totalmente il punto (non di arrivo, ma di partenza) costituito dalla citata sentenza della Corte di giustizia.
Partiamo, allora, da subito dall’esame di questa importantissima pronuncia.
2. La sentenza UX e la sua vincolatività nel contesto dei principi del diritto euro unitario
La vicenda della magistratura onoraria italiana, come era prevedibile, cambia di segno con la sentenza Ux. La Corte di giustizia si era già pronunciata su una vicenda riguardante un’analoga categoria di magistratura non togata nel Regno Unito, i c.d. recorders (la sentenza O’Brien causa C-393/10). Anche in quel caso si trattava di giudici non togati retribuiti in base a tariffe giornaliere ed esclusi dalla quasi totalità delle tutele lavoristiche e previdenziali. Già, allora, il pronunciamento della Corte non ha lasciato spazio a equivoco alcuno, riconoscendo la tutela connessa al lavoro subordinato (nella specie si trattava di diritti pensionistici). Questo precedente, avrebbe dovuto costituire un monito per il legislatore italiano, ma anche per le Alti Corti domestiche attestate sulla posizione giusta la quale la qualificazione come ‘onoraria’ della carriera della magistratura non togata italiana, costituiva un impedimento istituzionale (e addirittura costituzionale) al riconoscimento della natura di lavoratore pubblico del magistrato onorario, con conseguente disapplicazione delle tutele lavoristiche (da ultimo Consiglio di stato sent. n.1326/2020) .
La sentenza Ux, pertanto, lungi dal costituire un fulmine a ciel sereno, o un’indebita intrusione nei confini nazionali di un giudice dell’ordinamento sovranazionale, costituisce una scontata presa d’atto dello stato dell’arte di consolidati principi di civiltà giuridica, che in Italia si è fatto fatica ad applicare alla magistratura non togata.
Il principio, vale ricordarlo, si declina in tal senso:
se un rapporto di lavoro, anche nei confronti dello stato, si svolge, in via di fatto, secondo i caratteri, tipici e topici, della prestazione di lavoro subordinato, a prescindere dalla qualificazione che ne fa il legislatore nazionale, il rapporto va qualificato come tale, con tutti gli effetti giuridici che ne conseguono[14].
In verità, in Italia, non sarebbe stato necessario interrogare il giudice europeo per arrivare a un simile risultato.
A prescindere dai principi generali ai quali si è fatto riferimento, è altrettanto noto che la Corte costituzionale italiana, a più riprese, ha fissato l’ormai indelebile principio della indisponibilità del tipo contrattuale (sentenze n. 121/1993 e n. 115/1994; principio poi sempre ribadito, a esempio anche dalla sentenza n. 76/2015).
In tal caso il principio va declinato, sinteticamente, nel seguente modo:
neppure il legislatore può qualificare un rapporto di lavoro – per intrinseca natura, rectius, per modalità di svolgimento – subordinato, in altro modo.
Nel caso del magistrato onorario la pretesa del legislatore, avallata dalla giurisprudenza delle alte Corti nazionali, almeno sino al chiarimento della Corte di giustizia, è stata invece di rendere “invisibile” questa figura sotto il profilo della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, considerando la prestazione come onoraria, che, letteralmente, significa una qualifica il cui conferimento è puramente onorifico, ed esclude pertanto gli obblighi e i diritti inerenti.
E’ fatto, invece, ampiamente noto a tutti gli operatori di giustizia che il magistrato onorario presta, a tempo pieno o parziale, di fatto a tempo indeterminato, attività giurisdizionale in via professionale (in modo reale ed effettivo secondo il lessico della sentenza UX) e non occasionalmente (in modo marginale e accessorio sempre secondo il lessico della Corte). Se così è, ne consegue che, per il diritto euro unitario, tale figura costituisce un/a lavoratore/trice e non può essere considerato/a, invece, secondo l’artificiosa narrativa delle Alte corti italiane, una sorta di servitore volontario della amministrazione della giustizia (si è invocato a sproposito l’art. 54 della Cost.) al quale, al più, corrispondere graziosamente una qualche indennità satisfattiva[15].
A questo vero e proprio vulnus dei basici principi del diritto sociale europeo (ma anche di rilevanza costituzionale) ha posto, dunque, definitivamente rimedio il giudice europeo, non allocato, questa volta, a Berlino, ma in Lussemburgo.
Qual è, allora, l’inequivocabile messaggio che il giudice europeo invia al legislatore e alle Alte corti italiane? E’ bene declinarlo, soffermandosi diffusamente su alcuni passaggi della motivazione della sentenza Ux; ciò anche per evitare il rischio di ri-letture nazionali artatamente opache ed elusive di tale decisione.
Il messaggio consta di due principi , molto chiari e ineludibili, e di un rinvio al giudice italiano nel ruolo di giudice di base dell’ordinamento europeo.
Primo principio:
a) l’attività della magistratura onoraria italiana appartiene alla funzione giurisdizionale, ed è assistita dai corollari di autonomia e di indipendenza propri di questa funzione: punti 40 e seguenti della motivazione, punto 1 del dispositivo e punto 106 che si riporta per esteso in nota[16] .
Secondo principio:
b) Lo svolgimento di tale funzione, secondo i moduli ricorrenti e tipici del lavoro dipendente, fa rientrare il magistrato onorario nella definizione europea di lavoratore. La Corte non afferma tale principio in astratto, ma lo enuclea dallo accertamento empirico dell’attività della giudice ricorrente: punto 120[17]. La disamina empirica effettuata nel corso del giudizio conduce la Corte ad affermare, infatti, con sicurezza, che si tratta di una prestazione non inquadrabile nella fattispecie del lavoro autonomo ma in quella del lavoro subordinato[18].
Segue
c) il rinvio al giudice nazionale - secondo il modulo tipico delle sentenze della Corte di giustizia - per quel che deve fare per dare attuazione ai principi enunciati: spetterà al giudice nazionale, quale giudice di base dell’ordinamento europeo, stabilire in concreto il trattamento normativo e retributivo da attribuire al magistrato onorario parametrandolo a quello in atto per la magistratura togata (punto 148[19]) ; ciò per non violare il principio di non discriminazione (clausola 4 punto 1 dell’accordo quadro sul contratto a termine). Spetta, inoltre, all’ordinamento nazionale esplicitare, in modo trasparente, ragionevole e controllabile se esistono ragioni oggettive (per esempio la selezione tramite concorso pubblico e i compiti più complessi affidati ai togati: punti 147 e ss. in particolare punto 159[20]) per giustificare un diverso trattamento delle due figure di lavoratori subordinati comparabili[21].
In sintesi dalla sentenza Ux si trae, con certezza, il seguente quadro.
Il magistrato onorario:
a) E’ una figura inserita nell’ordinamento giudiziario italiano che svolge la sua funzione giudiziaria in posizione di autonomia e indipendenza, ancorché diversa da quella del magistrato togato (es. limiti di competenza).
b) E’ qualificabile, dal punto di vista lavoristico, come un lavoratore subordinato, dipendente dallo stato (un impiegato pubblico a tempo determinato, di fatto con la legge Orlando, per i magistrati in servizio prima della entrata in vigore della legge, a tempo indeterminato, in ragione del sistema delle quattro proroghe), e non come un lavoratore autonomo; certamente non svolge una funzione onoraria meramente indennizzabile (a prescindere dalla qualità e dalla quantità dell’indennizzo). Sia detto per inciso: al di là dalla sentenza UX, costituisce un ossimoro pensare - cosa su cui invece insiste il legislatore italiano (infra par. successivo) – che la funzione giurisdizionale organizzata, con inserimento pieno e strutturale del magistrato onorario nella organizzazione funzionale degli uffici giudiziari, possa essere svolta secondo i moduli del lavoro autonomo: il che implicherebbe, come è noto, l’autorganizzazione dell’attività e l’autodeterminazione del lavoratore persino dell’an della singola prestazione.
c) Ha diritto a condizioni di impiego (il trattamento economico e normativo) non del magistrato togato, ma “parametrabili” a quest’ultimo, con operazione accertativa assegnata alla magistratura italiana, considerata come giudice di base dell’ordinamento europeo. In Italia esiste un principio costituzionale guida per tale operazione: quello della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (art. 36 primo comma); norma, si ricorda, considerata storicamente, dalla giurisprudenza italiana, precettiva e non meramente programmatica.
3. Il d.d.l. Valente Evangelista
Come accennato prima, a fronte di tale autorevolissima pronuncia, peraltro espressione di principi vincolanti per lo Stato Italiano, ci si aspettava un dibattito parlamentare che, nel prendere spunto da questa sentenza, rispettandone la sostanza innovativa, costruisse una riforma idonea a disciplinare lo status dei giudici onorari, avendo come obiettivi il rispetto delle garanzie costituzionali, l’efficienza del sistema Giustizia, la soddisfazione dei lavoratori coinvolti e degli utenti della Giustizia: in una parola, una riforma per e non contro.
Invece, il d.d.l. Valente - Evangelista non solo ignora palesemente quanto affermato dalla Corte di Giustizia europea, ma non consente il raggiungimento di nessuno dei detti obiettivi, peggiorando lo stato attuale derivante dalla Legge Orlando.
Infatti, il testo normativo, nonostante le innumerevoli critiche provenienti e dal mondo accademico e da quello giudiziario, nonché dalla stessa magistratura onoraria, innanzitutto non modifica la lettera a) del comma 1 dell’art. 30 d.lgs 116/2017. Si mantiene pertanto il discrimine tra l’obbligatorietà d’ingresso nell’Ufficio per il processo per i GOT e la facoltatività per i Giudici di pace. Invero, non si comprende la logica di tale previsione, posto che appare evidente la necessità di superare le differenze ordinamentali (ed economiche) tra G.O.T. e G.D.P., trattandosi figure già confluite per espressa scelta legislativa nell’unica categoria del giudice onorario di pace (gop), prevista dalla Legge Delega 28 aprile 2016, n. 57 all’art. 2, co. 1, che ha indicato alcune differenze tra le due figure solo in via transitoria.
Occorrerebbe, quindi, rendere effettiva e completa la unificazione dei giudici onorari nella categoria dei gop, pur nella distinzione tra magistrati inseriti nell’Ufficio del giudice di pace e quelli che operano nel Tribunale, anche attraverso le necessarie modifiche alla legge delega, consentendo che gli stessi, come avviene da decenni, svolgano piene funzioni giurisdizionali. In tale contesto, si ritiene ad esempio necessario rivedere i limiti decisionali, irragionevolmente ampliati con l’art. 10, co. 12, d. lgs. n. 116/2017 (laddove, ad esempio, quelli previsti dall’art. 11, co. 6, appaiono coerenti con finalità di equilibrio istituzionale): tali limitazioni, come prima denunciato, comporteranno un inevitabile incremento dei ruoli della magistratura togata, con devoluzione di materie normalmente trattate dai giudici onorari e con correlato aumento dei ritardi nelle definizioni dei processi.
Occorrerebbe anche rivedere gli altri divieti e previsioni introdotti agli artt. 10, 11, 12, 30 commi da 2 a 8 (essendo già proposta dal d.d.l. Valente Evangelista l’abrogazione dei co. da 9 a 11). Ciò anche a beneficio dell’intero sistema giudiziario.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla discrezionalità nella individuazione di alcune materie che possono trattare i giudici onorari, in relazione al concetto (che rischia di essere fumoso se non arbitrario) di complessità o meno della controversia. Tutto ciò può dirsi coerente con i principi costituzionali e con il principio del giudice naturale precostituito per legge e con il riparto della competenza, che deve operare in base all’oggetto del contenzioso e non ad altri criteri non determinabili?
Si pensi ancora alla disciplina della delega dei procedimenti da parte del giudice togato al magistrato onorario (art. 10, co. 11-15, Legge Orlando). Può ritenersi che tale previsione superi il vaglio di costituzionalità, nella misura in cui vincola ed ingabbia ben oltre il consentito l’attività giurisdizionale che, per previsione costituzionale, deve essere indipendente ed autonoma? Non si rischia in tal modo di far debordare il rapporto tra magistratura togata ed onoraria, improntato fino ad ora su concetti di collaborazione e partecipazione, in un eccesso di vigilanza e controllo?[22]
Ma v’è di più.
Il legislatore introduce la nozione, che possiamo dire descrittiva e fantasiosa ma che non ha una connotazione processuale effettiva, di “impegni” settimanali. Secondo quanto previsto, infatti, l’attività dei magistrati onorari dovrà essere svolta per un massimo di tre impegni settimanali, ai quali vengono parametrate le indennità dovute. Ora, cosa si intenda per “impegni” non è ben chiaro. Il magistrato, sia esso onorario che ordinario, non solo tiene udienza, ma gestisce ruoli, studia fascicoli, effettua ricerche giurisprudenziali, redige ordinanze e sentenze, organizzando il proprio lavoro sulla base di una tempistica che non è individuabile a priori in maniera rigida. Come si può vincolare tale attività entro un arco temporale definito e ristretto? Ove si indentifichi l’ “impegno” con la giornata lavorativa, come ritenere ad esempio che tenendo due udienze settimanali sia sufficiente un terzo “impegno” per svolgere tutte le attività, a volte complesse, pre e post udienza, a pena di reiterare l’attuale situazione che vede i got - e non anche i giudici di pace - pagati solo per udienza e non per i provvedimenti depositati?
Sul punto già la stessa magistratura togata si è espressa in modo critico. Ad esempio, l’ANM, in data 6 aprile 2019, non ha mancato di osservare come “destano perplessità e preoccupazione le proposte avanzate dal ministero in merito ai limiti temporanei di impiego della magistratura onoraria requirente e giudicante. La proposta presentata, infatti, limita tale impiego in tre impegni settimanali, stabilendo la corrispondente retribuzione. Tuttavia, tale rigido limite appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti e rischia di determinare un grave ostacolo alla tempestiva celebrazione dei procedimenti per l’indisponibilità di magistrati onorari impiegabili con limitazioni così anguste ed inadeguate. L’ANM rivolge un appello al Ministro della Giustizia affinché, in sede di redazione dell’articolato normativo, ampli l’oggetto delle materie delegabili in coerenza con quanto già stabilito e aumenti la soglia limite prevista per l’impiego settimanale dei magistrati onorari, prevedendo il corrispondente incremento retributivo, onde prevenire il blocco della trattazione di numerosissimi procedimenti e l’impossibilità di celebrare le udienze che conseguirebbero all’entrata in vigore della riforma così come prospettata”.
Altro profilo critico è quello del regime sanzionatorio, previsto nell’art. 21 Legge Orlando, che nel d.d.l. in esame viene novellato con profili di palese irragionevolezza, tali da esporre al rischio di censura di incostituzionalità. Se, infatti, può condividersi la scelta di tipizzare le fattispecie che espongono il magistrato onorario a sanzioni disciplinari (richiamo, sospensione dal servizio da tre a sei mesi e la revoca dall’incarico), pur se si sarebbe potuto più opportunamente far richiamo al regime previsto per i magistrati ordinari, suscita perplessità la tipologia di condotte collegate ad alcune delle sanzioni stesse.
La sospensione (sanzione temporanea), infatti, è prevista per fatti anche assai gravi che potrebbero avere rilevanza penale, quali, ad esempio, “l’uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti; comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell'ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori; ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato, consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge”. Invece, la revoca (che importa la cessazione definitiva dell’incarico) sanziona, tra l’altro, “l’avere, senza giustificato motivo, conseguito risultati che si discostano gravemente dagli obiettivi prestabiliti dal presidente del tribunale o dal procuratore della Repubblica a norma dell'articolo 23 ovvero, nel caso di assegnazione di procedimenti civili o penali a norma dell'articolo 11, la mancata definizione, nel termine di tre anni dall'assegnazione, un numero significativo di procedimenti, secondo le determinazioni del Consiglio superiore della magistratura”. In sostanza, il magistrato onorario rischia di essere definitivamente revocato per il mancato ingiustificato raggiungimento degli obiettivi prefissati dal capo dell’ufficio e semplicemente sospeso – salvo l’accertata sua responsabilità penale - se commetta condotte abusive della sua qualità. Intelligenti pauca.
Quanto poi ai profili economici, è noto che (a differenza dei giudici di pace, che vengono pagati non solo per ogni udienza tenuta ma anche per ogni provvedimento emesso, ai sensi dell'articolo 11 della legge 21 novembre 1991, n. 374), i giudici onorari di tribunale sono attualmente pagati con una indennità di euro 98,00 lordi per udienza, raddoppiabili in caso di superamento delle cinque ore (art. 4 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273), mentre tutta l’attività preparatoria e quella successiva, anche per la stesura e il deposito dei provvedimenti, è di fatto fuori da ogni remunerazione.
La Legge Orlando del 2017 ha modificato tale regime, prevedendo a decorrere dal quarto anno successivo alla sua entrata in vigore (e quindi dal 16 agosto 2021) per i magistrati in servizio da prima della stessa legge una indennità fissa annua di euro 24.210,00, ove si mantengano le piene funzioni giurisdizionali, ridotta all’80 % in caso di inserimento nell’Ufficio del processo.
Orbene, senza tener conto delle sollecitazioni da più parti rivolte al legislatore, il d.d.l. in esame, novellando l’art. 31 d. lgs. n. 116/2017, introduce un meccanismo che collega l’entità delle indennità alla tipologia di lavoro da svolgere[23], ma che impone, senza una logica dal punto di vista dell’efficienza, che lo svolgimento dell’attività giudiziaria e di quella nell’Ufficio del processo debba avvenire nello stesso giorno per ottenere un fisso leggermente più alto, precisando, poi, che le mansioni all’interno dell’UdP debbano essere svolte per almeno per 3 ore e, in riferimento al pagamento a cottimo, in orario pomeridiano.
Premesso che sia l’ANM che i presidenti dei Tribunali nell’appello del 21 gennaio 2020 avevano chiesto la possibilità di un impiego maggiore e non limitato ai tre “impieghi” settimanali, sfugge a chi scrive il senso logico di tale previsione. Invero, la concentrazione delle varie attività (udienza autonoma, mansioni ancillari nell’ambito dell’UdP) in un unico giorno lavorativo appare sganciata dalla realtà del lavoro giurisdizionale, non tenendo conto dell’attività concreta svolta dal magistrato onorario, al pari di quello ordinario: questi, infatti, prima dell’udienza dovrà organizzare il ruolo e studiare i fascicoli, dopo l’udienza dovrà svolgere i compiti alla stessa collegati e quelli relativi al ruolo in generale. Dovrà quindi, scrivere decreti o ordinanze o sentenze e, quindi, prestare attività nell’UdP (studio di fascicoli, ricerche giurisprudenziali, stesura di minute di provvedimenti delegategli dal giudice togato), ma tutto ciò peraltro in orario pomeridiano. Insomma, una previsione che tende, nel cercare di confermare non più di tre impegni settimanali, a gravare ulteriormente il giudice onorario, che dovrà con tutta evidenza svolgere poi ulteriore lavoro in altri giorni settimanali, senza alcuna “copertura” economica.
Ma non è tutto.
Infatti, il d.d.l. non prevede, come dovrebbe secondo logica, una data certa di entrata in vigore dell’indennità fissa, così come invece faceva il d.lgs. Orlando (febbraio 2021): l’art. 31, co. 3 bis, come da proposta di riforma, rimanda, per la operatività di tale criterio di calcolo, alla pubblicazione di un futuro decreto del Ministro della Giustizia, che ne definisce la modalità e i limiti, e che verrà adottato successivamente alla emanazione dei decreti che, ai sensi dell’art. 32, co. 2, potranno rivisitare la dotazione organica dei magistrati onorari: in parole semplici, l’indennità fissa è rinviata alle calende greche, perché è di tutta evidenza che, se il d.d.l. ha previsto la riduzione di detta dotazione organica rispetto alle previsioni della Legge Orlando, sarà inverosimile che a distanza di poco tempo sia necessario rivedere la stessa dotazione. Insomma, una normazione che non dà alcuna certezza dal punto di vista temporale rispetto ad una apparentemente allettante previsione economica, rinviata sine die.
Occorre chiedersi se il sistema giustizia non abbia invece bisogno di magistrati onorari incentivati e responsabilizzati, sicché, a tutto voler concedere e a tacere delle conseguenze della sentenza della Corte di Giustizia prima evocata, sarebbe più opportuno ritornare alle previsioni della Legge Orlando in riferimento ai tempi di entrata in vigore del pagamento di indennità fissa.
Da ultimo è stata rilevata l’assenza di qualsiasi tutela assistenziale (peraltro prevista in alcuni d.d.l. depositati alla Commissione Giustizia del Senato): e ciò è tanto più grave nel presente periodo di emergenza sanitaria: in sostanza, il magistrato onorario (che, come detto, va qualificato come lavoratore, secondo la giurisprudenza comunitaria, vincolante nel diritto interno) ove si ammali o risulti positivo al Covid-19, è totalmente privo di qualsiasi copertura di tipo assistenziale, ciò aggiungendosi alla mancata percezione di alcuna indennità, perché collegata solo allo svolgimento delle udienze.
4. Conclusioni. Dalla critica alle proposte
Al di là di qualsiasi opinione che si possa avere sul ruolo della magistratura onoraria, non può non convenirsi con la considerazione secondo cui “da quindici anni, a causa della cronica carenza di organico e della sempre crescente domanda di giustizia, i magistrati onorari hanno fornito un contributo significativo alla giurisdizione, in assenza di un’adeguata tutela previdenziale ed assistenziale” (Associazione Nazionale Magistrati, documento GEC del 22 aprile 2017), e il loro impiego “costituisce una misura apprezzabile nell’ottica di un’efficiente amministrazione della giustizia ex artt. 97 e 111 Cost.” (Cass. 4 dicembre 2017, n. 28937, secondo cui “i giudici onorari – sia in qualità di giudici monocratici che di componenti di un collegio – possono decidere ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, come si evince dall’art. 106 Cost.”).
Occorre, allora, che il legislatore prenda atto dell’evoluzione della funzione di questa magistratura e assuma un’ottica regolativa consequenziale, anche sotto il profilo delle condizioni di impiego.
Il progetto di riforma potrebbe essere costruito intorno ai seguenti punti fermi:
- Occorre confermare che l’ordinamento giudiziario italiano è basato su un duplice pilastro: la magistratura togata e la magistratura onoraria, per la quale sarebbe già importante utilizzare una nomenclatura diversa, anche in ragione dei fraintendimenti che tale predicato ha sinora sortito. Si tratta, infatti, non di una magistratura volontaria o di servizio (come il predicato lascia intendere); ma di una magistratura professionale che può essere impiegata, in astratto, in regime di tempo parziale, ma che di fatto, nella stragrande maggioranza dei casi, ha lavorato e continua a lavorare in regime di tempo pieno. Una magistratura professionale, quindi, diversa da quella togata, con compiti ausiliari rispetto a quest’ultima ma, come si è detto, altrettanto fondamentale e ormai insostituibile, perché stabile componente dell’ordinamento giudiziario italiano.
- La magistratura ausiliaria e di prossimità, nell’intenzione del legislatore del 2016, svolge funzioni di affiancamento alla magistratura togata; funzioni di affiancamento alle funzioni proprie della magistratura togata con riguardo all’attività propriamente giurisdizionale e requirente (in tal caso con piena autonomia e indipendenza da quest’ultima), ma anche con riguardo all’assistenza e alla collaborazione, di alto profilo tecnico.
- A tale scopo, la legge Orlando, in questo caso condivisibilmente, prevede precisi obblighi e diritti di formazione presso la Scuola superiore della Magistratura (ulteriori a quelli della fase di tirocinio nell’ assunzione), oltre che attività di aggiornamento professionale.
- L’appartenenza all’ordine giudiziario è ormai garantita anche dalle modalità di selezione pubblica all’ingresso; modalità diverse da quelle del concorso di reclutamento della magistratura ordinaria e che tuttavia rinviano a un procedimento di selezione pubblica in linea con i principi, di merito e di imparzialità, previsti dall’art. 97 della Costituzione.
- Poiché da sempre il legislatore ha riconosciuto l’appartenenza della magistratura onoraria italiana, di fatto professionale, all’ordinamento giudiziario, non sono mai sorti dubbi circa la garanzia, in astratto almeno, delle prerogative di indipendenza e di inamovibilità, sia nell’esercizio delle funzioni decidente e requirente, ma anche con riguardo alla rappresentanza negli organi di autogoverno (consigli giudiziari in primo luogo).
- Sulla base di queste premesse pare del tutto logico far seguire una regolamentazione conseguenziale con riguardo al rapporto di impiego. Di fronte a questo ormai inevitabile snodo, sorgono i problemi, anche perché la soluzione non è certamente semplice sul piano della tecnica regolativa.
- È opinione di chi scrive che il punto di partenza di ogni coerente regolamentazione non può che essere il riconoscimento dallo status giuridico di lavoratore. Dopo la sentenza Ux, si tratta di un dato ormai acquisito: il legislatore italiano non può disconoscerlo, ma non possono farlo neppure le decine di Tribunali che, in ogni parte d’Italia, stanno vagliando i ricorsi presentati dai magistrati onorari, pena una palese violazione dello ius superveniens europeo e l’innesco di un grave conflitto ordinamentale (la saga Taricco docet).
È bene allora eliminare ogni equivoco circa il fatto che garantire non soltanto condizioni di impiego dignitose, ma l’allineamento tendenziale (non l’equiparazione meccanica) del trattamento economico normativo dei magistrati onorari a quello della magistratura togata: a) non comporta alcun sbrego costituzionale; b) non mette in discussione le distinte prerogative di accesso, di status, di carriera e di trattamento della magistratura togata.
A) Con riguardo al primo punto, la magistratura ausiliaria, definita onoraria, non costituisce né una magistratura speciale, né straordinaria (art. 102 Cost.), altrimenti non si sarebbe potuto, di già, tollerarla neppure nell’attuale configurazione. Essa, notoriamente, presuppone l’affidamento di stabili e piene funzioni giurisdizionali a soggetti con uno statuto professionale tuttora, a dir poco, debole. Il fatto che, in via di costituzione materiale, si sia prodotta una professionalizzazione di una magistratura ausiliaria di supporto alla magistratura togata (necessaria a far funzionare l’amministrazione della giustizia), non significa che si debba ovviare, a tale situazione di fatto, con una mostruosità giuridica: nient’altro sarebbe, infatti, una legge che suggellasse l’anomalia, tutta italiana, ormai più volte stigmatizzata dalle istituzioni europee, di una magistratura funzionalmente stabile, ma strutturalmente precaria per il profilo delle condizioni di impiego. In disparte la constatazione, di senso comune, che un lavoratore precario, per ovvi motivi, non può essere indipendente e autonomo: il che è particolarmente intollerabile nell’esercizio di una funzione che prevede, per definizione costituzionale, indipendenza e autonomia di giudizio.
A parte questa ovvia constatazione, vale richiamare, a tal proposito, un principio fondamentale dell’ordinamento lavoristico europeo, ma anche nazionale, giusto il quale non è legittimo, né lecito, ricoprire, in un’organizzazione, pubblica o privata che sia, una posizione di impiego, funzionalmente stabile e duratura, con un operatore instabile e precario, o addirittura, come si pretende nel caso della magistratura onoraria, con un “non lavoratore”. Né, tantomeno, è legittimo affidare servizi delicati come quello della giustizia (ove il principio di buon andamento si incrocia con altri, per esempio del giusto processo o della sua ragionevole durata), a lavoratori autonomi che è, in fondo, il retropensiero del ddl in discussione. Si tratterebbe di un vero e proprio ossimoro dal punto di vista giuslavoristico e organizzativistico, ma anche di un vero e proprio vulnus al principio costituzionale del buon andamento (con ricadute in termini di probabile violazione dell’art. 97 della Cost.).
Oltretutto se passasse il principio che esigenze di funzionamento stabile - implicanti inserimento forte del lavoro nell’organizzazione datoriale - si possano risolvere ricorrendo a lavoro instabile, autonomo o volontario, sarebbe molto difficile giustificare questa soluzione con pretese specificità dell’amministrazione dalla Giustizia: ma perché non nella scuola (ove, non a caso, il legislatore intende ovviare alla piaga del precariato diffuso), nell’esercito, nella polizia, negli ospedali, nelle carceri?
A questo punto, gli ideatori del ddl in discussione, forse senza esserne consapevoli, non farebbero altro che realizzare il sogno dei cultori della ideologia dello Stato minimo: esternalizzare anche le funzioni pubbliche essenziali!
Ma neanche l’art. 106 della Cost. potrebbe essere richiamato contro la professionalizzazione (intesa quale riconoscimento di un rapporto di lavoro pubblico) della magistratura onoraria. Una lettura evolutiva e costituzionalmente orientata di questa norma, deve tener conto anche dell’evoluzione sociale: e cioè, che la risposta alla estesa domanda di giustizia di una società complessa come quella italiana, ha prodotto il ricorso a (e l’utilizzo di) un esteso corpo di magistratura ausiliaria professionale, che affianca, in posizione di autonomia, quella togata, e che ciò è ormai indispensabile per il funzionamento dell’amministrazione della giustizia italiana.
B) Come si accennava, questo riconoscimento (la sentenza Ux potrebbe definirsi, per questo profilo, dichiarativa, non costitutiva, della condizione di lavoratore) non mette affatto in discussione le distinte prerogative di status e di carriera della magistratura togata. Questa errata percezione di gran parte della magistratura togata italiana è stata certamente un fattore, anche culturalmente e subliminalmente, ostativo allorché i Tribunali sono stati chiamati, prima della UX, a riconoscere i diritti del lavoro a tale categoria di lavoratori pubblici. Come spiega la Corte di giustizia, le condizioni di impiego del giudice non togato non possono che essere parametrate a quelle del lavoratore comparabile che è certamente il magistrato togato. Ma qui occorre intendersi: utilizzare il trattamento economico normativo del magistrato togato come parametro, non significa affatto parificare, sia con riguardo allo status professionale, sia con riguardo alle concrete condizioni di impiego (carriera, retribuzione, orario, durata delle ferie e quant’altro) la magistratura ausiliaria e la magistratura togata. Si tratta infatti, di due carriere diverse a cui possono corrispondere condizioni di accesso, di impiego e status professionale diversi e tale diversità trova giustificazione, come ricorda la sentenza Ux, nell’art. 106 della Costituzione. Ma il fatto che siano diverse non significa riconoscere alla categoria comparata un ‘no status’ o la condizione di lavoratore stabilmente precario o addirittura autonomo e imprenditore di sé stesso. Un lavoratore con rapporto “onorario”, o al più autonomo, non è per definizione comparabile a un lavoratore subordinato stabile, in questo caso il magistrato togato. Il magistrato togato è il lavoratore di riferimento per applicare il principio di parità di trattamento che assiste il lavoratore subordinato a termine, vale a dire il magistrato onorario (ammesso che non ci sia stato abuso del contratto a termine, ma questo è un altro discorso): questo dice la Sentenza Ux.
Ma comparabilità non significa meccanica parificazione; significa che per determinare lo standard economico normativo del lavoratore a termine, si assume il trattamento economico normativo del lavoratore stabile comparabile come parametro di riferimento. Nel caso della ricorrente UX, considerata lavoratrice subordinata con 15 anni di servizio, la Corte ha fatto esplicitamente riferimento al magistrato togato che ha ricevuto la terza valutazione: ma questo non significa affatto che il giudice onorario Ux debba essere incardinata tra i ranghi della magistratura togata a quel livello di carriera; significa soltanto corrisponderle un trattamento economico parametrato a quel livello di carriera, secondo criteri affidati alla competenza del giudice nazionale.
Spetta poi a un legislatore nazionale, avveduto e saggio, intervenire sulla materia regolando funzioni e trattamenti in modo da tener conto di similarità e differenziazioni. Spetta a un legislatore, consapevole e tecnicamente attrezzato, non fare confusione e regolare le condizioni di impiego della magistratura ausiliaria determinando, anche al suo interno, cosa debba rilevare in termini di differenza di compiti, ma anche di trattamento per anzianità e di carriera, e individuando gli istituti che si applicano a tutti (per esempio le ferie, il trattamento di malattia, previdenziale ecc.). Spetta a un legislatore che abbia una vision di sistema, per esempio, decidere se regolare direttamente per legge le condizioni di impiego di questi lavoratori, come avviene con i magistrati, i professori universitari, la polizia, i funzionari delle prefetture, i vigili del fuoco ecc. (come nel caso dell’art. 3 d.lgs. n.165/2001, individuando in tal caso uno specifico trattamento di questa categoria, distinto da quello dalla magistratura togata); ovvero rinviare a un qualche meccanismo negoziale ad hoc (come i dipendenti della Banca d’Italia il cui contratto è recepito da un regolamento dal Consiglio superiore della Banca); ovvero inserendoli, in qualche modo[24], nel sistema di contrattazione collettiva generale dei lavoratori pubblici con contratto privatistico.
Di tutto questo si può discutere con calma e ponderazione, cercando di individuare la soluzione più adeguata e anche dando un occhio alle soluzioni legislative escogitate in altri ordinamenti. Ma una sola cosa appare disdicevole: sfuggire il problema del riconoscimento delle adeguate condizioni di impiego della magistratura onoraria, inventandosi regole e concetti non solo confusi, ma forieri soltanto di conflitti permanenti e di reprimende delle istituzioni europee, oltre che di possibile condanne dello Stato italiano, nelle sue diverse componenti, per danno comunitario da Francovich.
[1] In data 16 novembre 2016 il Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS), nel decidere il reclamo n. 102/2013 presentato da alcuni Giudici di Pace, Giudici Onorari di Tribunale e Vice Procuratori Onorari, ha concluso, all’unanimità, che la normativa ed i comportamenti concreti posti in essere fino a quella data dalla Repubblica italiana nei confronti di queste figure professionali qualificate come magistrati onorari non sono conformi alle norme ed ai principi della Carta sociale europea e dei suoi Protocolli, quale il principio di non discriminazione dei lavoratori. In particolare, il Comitato ha rilevato che, rispetto all’applicazione dei Trattati, la denominazione di “onorario” fatta dalla legislazione italiana, non assume alcun rilievo, dato che le funzioni di fatto svolte dagli indicati magistrati onorari italiani sono pienamente equiparabili a quelle svolte dai magistrati professionali, a prescindere da come li definisca il diritto nazionale. Il Comitato ha, pertanto, ritenuto applicabile la Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 nella parte in cui ingiunge agli Stati aderenti di assicurare ai giudici una remunerazione ragionevole in caso di malattia, di maternità o paternità, così come il pagamento di una pensione correlata al livello di remunerazione
[2] Scarselli, La riforma della magistratura onoraria: un ddl che mira ad altri obiettivi e va interamente ripensato, 2015, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-riforma-della-magistratura-onoraria_un-ddl-che-mira-ad-altri-obiettivi-e-va-interamente-ripensato_13-07-2015.php.
[3] Va ricordato che con la comunicazione DG EMPL/B2/DA-MAT/sk (2016), la Commissione Ue ha chiuso con esito negativo il caso EU Pilot 7779/15/EMPL, preannunciando l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano sulla compatibilità con il diritto UE della disciplina nazionale che regola il servizio prestato dai magistrati onorari, in materia di a) reiterazione abusiva di contratti a termine (clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE), b) disparità di trattamento in materia di retribuzione (clausola 5 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE), c) ferie (art.7, Direttiva 2003/88, in combinato disposto con la clausola 4 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 97/81/CE e con la clausola 4 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE) e d) di maternità (art.8 Direttiva 92/85 e art.8 Direttiva 2010/41). Inoltre, con la comunicazione del 23 marzo 2017 prot. D 304831, la Presidente della Commissione per le Petizioni del Parlamento Ue, all’esito della riunione del 28 febbraio 2017 in cui sono state discusse le petizioni nn. 1328/2015, 1376/2015, 0028/2016, 0044/2016, 0177/2016, 0214/2016, 0333/2016 e 0889/2016 sullo statuto dei giudici di pace in Italia, ha invitato il Ministro della Giustizia a trovare un equo compromesso sulla situazione lavorativa dei Giudici di Pace, per eliminare la «palese disparità di trattamento sul piano giuridico, economico e sociale tra Magistrati togati e onorari».
[4] Aloi T., La protesta della magistratura onoraria italiana arriva in Europa, in http://www.foroeuropa.it/index.php?option=com_content&view=article&id=454:rivista-2017-n1-art-10-aloit&catid=85:rivista-2018-n1&Itemid=101: “Sul piano della retribuzione, l’Eurispes registra diseguaglianze, scarse tutele e precariato. Mentre i Giudici di Pace percepiscono un’indennità mensile (258,23 euro), un’indennità di udienza (36,15 euro) ed un’indennità per sentenza o altro provvedimento di definizione del giudizio (56,81 euro), i GOT percepiscono solo un’indennità di udienza anche quando sono estensori di sentenza (98,00 euro se l’impegno lavorativo di udienza ha una durata di cinque ore, 196,00 euro se, invece, l’impegno supera le cinque ore); la medesima indennità di udienza è attribuita anche ai VPO e non è prevista una tutela previdenziale”.
[5] Scarselli, op. cit.
[6] Si pensi al fatto, prendendo ad esempio il Tribunale di Messina, che andrebbero a gravare sui giudici togati tutte le esecuzioni mobiliari presso il debitore, i procedimenti di obblighi di fare, i decreti ex art. 611 e 614 c.p.c., la fase cautelare dell’opposizione al pignoramento, nonché, quando il valore del credito pignorato supera gli € 50.000,00, anche quelle presso terzi, con aggravamento inaccettabile dei ruoli ordinari, laddove le attuali Tabelle prevedono che queste materie siano tutte trattate dai giudici onorari sino ad € 100.000,00.
[7] Parere CSM del 24 febbraio 2016 sul ddl Orlando: “Appare incongrua la previsione della assegnazione di coloro che attualmente siano investiti delle funzioni di Magistrato onorario all’ufficio del processo, atteso che tale disposizione non appare compatibile con la, invero correttamente ipotizzata, prospettiva di una progressiva formazione e della acquisizione graduale di esperienza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, determinata dal passaggio dalla posizione di diretta collaborazione col giudice professionale alla assunzione di autonome funzioni giurisdizionali, seppur onorarie”
[8] Lettera, con primo firmatario il dott. Armando Spataro, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, di 110 procuratori della Repubblica in data 23 maggio 2017 che, commentando il (futuro) D. Lgs.n. 116/2017, hanno denunciato, tra l’altro, “la non conformità di alcune scelte ai principi costituzionali, dopo approfondita consultazione di valenti costituzionalisti e con il loro diretto contributo), auspicando “il superamento, ad opera del legislatore delegato, di alcuni dei confini tracciati dalla Legge n.57/2016”.
[9] Si vedano i documenti depositati da soggetti istituzionali e da associazioni di categoria auditi dalla Commissione Giustizia del Senato il 26 novembre 2019, in www.senato.it/ http://www.senato.it/3649?current_page_40381=2,
[10] Si veda, tra i tanti, Costanzo A., La disorganica riforma della magistratura onoraria, in https://www.giustiziainsieme.it/en/magistratura-onoraria/666-la-disorganica-riforma-della-magistratura-onoraria; Aghina E., “L’utilizzazione dei giudici onorari in Tribunale dopo la riforma”, in www.giustiziainsieme, 17.11.2018; mi permetto di rinviare anche a Minutoli G., La (necessaria) riforma della magistratura onoraria e l’efficienza della giurisdizione, in https://www.unicost.eu/la-necessaria-riforma-della-magistratura-onoraria-e-efficienza-della-giurisdizione/, 2019.
[11] Appello di Presidenti di Tribunale, inviati agli Organi governativi e parlamentari, del 21 gennaio 2020.
[12] Si ricorda che i magistrati onorari affetti da Covid o che sono stati costretti in isolamento durante il lockdown, o che lo saranno nel corso della seconda ondata, non solo non usufruiscono del trattamento di malattia e infortuno sul lavoro spettante agli altri dipendenti pubblici e privati colpiti dalla pandemia, ma non potendosi recare in udienza non potranno ricevere alcun compenso da lavoro.
[13] http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/FascicoloSchedeDDL/ebook/52128.pdf
[14] Come è noto, alla qualificazione di una fattispecie come di lavoro subordinato segue l’applicazione automatica di tutti gli effetti della legislazione lavoristica in ragione del principio di tassatività che assiste tale legislazione.
[15] Su questo inequivocabilmente la sentenza UX, punti 100 e 101: “Pertanto, la sola circostanza che le funzioni del giudice di pace siano qualificate come «onorarie» dalla normativa nazionale non significa che le prestazioni finanziarie percepite da un giudice di pace debbano essere considerate prive di carattere remunerativo.
Peraltro, anche se è certo che la retribuzione delle prestazioni svolte costituisce un elemento fondamentale del rapporto di lavoro, resta comunque il fatto che né il livello limitato di tale retribuzione né l’origine delle risorse per quest’ultima possono avere alcuna conseguenza sulla qualità di «lavoratore» ai sensi del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 30 marzo 2006, Mattern e Cikotic, C 10/05, EU:C:2006:220, punto 22, nonché del 4 giugno 2009, Vatsouras e Koupatantze, C 22/08 e C 23/08, EU:C:2009:344, punto 27)”.
[16] “A tale riguardo, dalla giurisprudenza risulta che la circostanza che i giudici siano soggetti a condizioni di servizio e possano essere considerati lavoratori non pregiudica minimamente il principio di indipendenza del potere giudiziario e la facoltà degli Stati membri di prevedere l’esistenza di uno statuto particolare che disciplini l’ordine della magistratura (v., in tal senso, sentenza del 1° marzo 2012, O’Brien, C 393/10, EU:C:2012:110, punto 47)”.
[17] “Ebbene, come emerge in particolare dai punti 95, 98 e 99 della presente sentenza, nonché dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, risulta che un giudice di pace come la ricorrente nel procedimento principale effettua a tale titolo prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e che comportano, come corrispettivo, indennità per ciascuna prestazione e indennità mensili, di cui non può dirsi che non abbiano carattere remunerativo”
[18]Punto 112 “In tali circostanze, risulta che i giudici di pace svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. pure 109: “ A tale riguardo, dall’ordinanza di rinvio risulta che, sebbene possano organizzare il loro lavoro in modo più flessibile rispetto a chi esercita altre professioni, i giudici di pace sono tenuti a rispettare tabelle che indicano la composizione del loro ufficio di appartenenza, le quali disciplinano nel dettaglio e in modo vincolante l’organizzazione del loro lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza”: si tratta di un esempio oltremodo chiaro di come la Corte di giustizia utilizzi il metodo tipologico e non sussuntivo di individuazione della fattispecie di lavoro subordinato. Si v. pure il punto 110 sul requisito della eterodirezione : “Dalla decisione di rinvio risulta altresì che i giudici di pace sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del Capo dell’Ufficio. Tali giudici sono inoltre tenuti all’osservanza dei provvedimenti organizzativi speciali e generali del CSM”, e il punto 111 sull’assoggettamento: “Il giudice del rinvio aggiunge che detti giudici devono essere costantemente reperibili e sono soggetti, sotto il profilo disciplinare, ad obblighi analoghi a quelli dei magistrati professionali”
[19] “In tali circostanze spetta al giudice del rinvio, che è il solo competente a valutare i fatti, determinare, in ultima analisi, se un giudice di pace come la ricorrente nel procedimento principale si trovi in una situazione comparabile a quella di un magistrato ordinario che, nel corso del medesimo periodo, abbia superato la terza valutazione di idoneità professionale e maturato un’anzianità di servizio di almeno quattordici anni (v., in tal senso, sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C 677/16, EU:C:2018:393, punto 52 e giurisprudenza ivi citata)”. Con la precisazione di cui al punto 150 “ A tale riguardo, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro dev’essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma generale o astratta, quale una legge o un contratto collettivo (v., in tal senso, sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C 677/16, EU:C:2018:393, punto 56 e giurisprudenza ivi citata). E punto 161” In tali circostanze, sebbene le differenze tra le procedure di assunzione dei giudici di pace e dei magistrati ordinari non impongano necessariamente di privare i giudici di pace di ferie annuali retribuite corrispondenti a quelle previste per i magistrati ordinari, resta comunque il fatto che tali differenze e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall’ordinamento giuridico nazionale e, più specificamente, dall’articolo 106, paragrafo 1, della Costituzione italiana, ai concorsi appositamente concepiti per l’assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell’assolvimento di tali mansioni. In ogni caso, spetta al giudice del rinvio valutare, a tal fine, gli elementi qualitativi e quantitativi disponibili riguardanti le funzioni svolte dai giudici di pace e dai magistrati professionali, i vincoli di orario e le sanzioni cui sono soggetti nonché, in generale, l’insieme delle circostanze e dei fatti pertinenti”
[20] “A tale riguardo, occorre considerare che talune disparità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato assunti al termine di un concorso e lavoratori a tempo determinato assunti all’esito di una procedura diversa da quella prevista per i lavoratori a tempo indeterminato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità (v., in tal senso, sentenza del 20 settembre 2018, Motter, C 466/17, EU:C:2018:758, punto 46)”.
[21] Punto 157: “Tuttavia, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale (sentenza del 20 settembre 2018, Motter, C 466/17, EU:C:2018:758, punto 44)”.
[22] La denuncia è ancora di Scarselli, op. cit.: “non si valorizza una categoria che fino ad oggi ha svolto funzioni giurisdizionali inserendola nell’ufficio del processo a compenso ridotto; nè la si valorizza prevedendo che ogni sua attività sia sottoposta alle direttive dei giudici professionali, che avranno il controllo pieno dell’operato dei giudici onorari in seno all’ufficio del processo, e avranno egualmente il potere di indirizzo, di controllo e di vigilanza della funzione giurisdizionale dei giudici onorari anche fuori dall’ufficio del processo, prima con le riunioni trimestrali per l’esame delle questioni giuridiche e per la discussione delle soluzioni adottate, e poi con le “specifiche direttive anche in merito alle prassi applicative” e con la vigilanza “sull’attività dei giudici onorari di pace”, così come espressamente previsto dal comma 15 dell’art. 2 del disegno di legge. Disposizione, quest’ultima, che appare palesemente incostituzionale, perché anche i giudici onorari sono soggetti solo alla legge ex art. 101 Cost., cosicché è impensabile che “Il presidente del tribunale attribuisce ad uno o più giudici professionali il compito di impartire specifiche direttive anche in merito alle prassi applicative e di vigilare sull’attività dei giudici onorari di pace” (così, espressamente, art. 2, comma 15, ultima parte).
[23] Indennità annuale di € 31.473,00 al lordo degli oneri previdenziali ed assistenziali per i magistrati onorari che esercitano funzioni giudiziarie, € 25.178,00 al lordo degli oneri previdenziali ed assistenziali, per i magistrati onorari inseriti nell’UPP o nell’ufficio di collaborazione del Procuratore della Repubblica e per chi volesse svolgere entrambe le attività, infine, è previsto un importo di € 38.000,00 al lordo degli oneri previdenziali ed assistenziali.
[24] Per esempio una parte speciale e dedicata del contratto dell’area della dirigenza ministeriale come di recente avvenuto con la dirigenza medica ministeriale.
* Forum, coordinato dal Prof. Bruno Capponi, sulla riforma della magistratura onoraria:
"Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria" del prof. Federico Russo, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1377-brevi-osservazioni-sul-testo-unificato-dei-disegni-di-legge-s-1438-s-1516-s-1555-s-1582-s-1714-in-discussione-al-senato-di-riforma-della-riforma-della-magistratura-onoraria, 3 novembre 2020
"Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari" del Prof. Giualiano Scarselli, https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1374-brevissime-note-sulle-ultime-proposte-di-riforma-della-normativa-sui-giudici-onorari
"Verso quale riforma della magistratura onoraria?" del Prof. Giulio Nicola Nardo https://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1375-verso-quale-riforma-della-magistratura-onoraria
"Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia" hdel Prof. Bruno Caruso e del Pres. Giuseppe Minutoli ttps://www.giustiziainsieme.it/it/magistratura-onoraria/1376-cui-prodest-la-riforma-della-magistratura-onoraria-tra-tutela-di-diritti-negati-ed-efficienza-della-giustizia
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