ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il ricorso d’urgenza impedisce la decadenza verso gli atti del datore di lavoro. Dalla Corte costituzionale un ammonimento al giudice comune
di Marcello Basilico
Con la sentenza 212/2020 la Corte costituzionale ha dichiarato la non conformità dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66, così come stabilmente interpretato dalla Corte di Cassazione, all’art. 3 Cost., nella parte in cui non ammette il ricorso ante causam d’urgenza tra le iniziative idonee a impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento o degli altri atti datoriali previsti dall’art. 32, terzo e quarto comma, legge 183/2010.
E’ irragionevole in effetti che una tale idoneità sia stata riconosciuta dal legislatore all’attivazione di procedure (per il tentativo di conciliazione o l’arbitrato) prive di capacità definitoria del rapporto giuridico sostanziale tra le parti e non invece ad un’azione che porta la controversia davanti al giudice.
Nella pronuncia d’illegittimità si legge però in controluce una critica non tanto all’orientamento formatosi in sede di legittimità, quanto piuttosto alla mancata verifica da parte della Cassazione della conformità a Costituzione della propria interpretazione, con la conseguente rinuncia a sperimentare gli effetti d’una lettura alternativa, che salvaguardasse i diritti fondamentali del lavoratore.
Sommario: 1. Il dato normativo - 2. L’orientamento giurisprudenziale - 3. La decisione della Consulta - 4. Un’esortazione alla Corte di Cassazione? - 5. Una soluzione definitiva.
Anche il ricorso cautelare ante causam, al pari del ricorso ordinario al giudice del lavoro, è idoneo a interrompere la decadenza dall’impugnazione del licenziamento o di altri atti datoriali. E’ questa la decisione della Corte costituzionale adottata con la sentenza del 22 settembre 2020, n. 212, che ha posto fine ad una situazione di sperequazione determinata da una rigidità normativa irragionevole, finora preservata, peraltro, dall’interpretazione giurisprudenziale.
1. Il dato normativo
L’art. 32, primo e secondo comma, della legge 183/2010 (il cd. Collegato lavoro) ha introdotto un meccanismo complesso per impugnare il licenziamento con tempestività, intervenendo a modificare l’art. 6 legge 604/66 e articolandolo su una doppia iniziativa del lavoratore, diretta a evitare altrettante decadenze. Entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione dell’atto o dei suoi motivi, egli deve trasmettere un atto, anche stragiudiziale, con cui si rende nota la volontà di fare valere l’illegittimità del recesso (art. 6, primo comma); nei centottanta giorni successivi il lavoratore deve depositare il ricorso presso la cancelleria del giudice del lavoro o comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato (art. 6, secondo comma). In caso di rifiuto di partecipare a questa procedura alternativa o di mancato accordo, il lavoratore stesso ha altri sessanta giorni a disposizione per depositare il ricorso giudiziale.
I commi terzo e quarto dell’art. 32 hanno esteso questo meccanismo all’azione di nullità del termine contrattuale nonché alle azioni verso alcuni atti di gestione del rapporto di lavoro, tra cui il passaggio ad altro datore di lavoro per cessione d’azienda e il trasferimento, fattispecie quest’ultima che ha generato la questione di costituzionalità in esame.
Va precisato che l’art. 1, comma 38, della legge 92/2012 ha ridotto a centottanta giorni il secondo termine, che nel Collegato lavoro era fissato in duecentosettanta.
La legge Fornero del 2012, con tecnica rivedibile, ha modificato in realtà non le norme dell’art. 32 legge 183/2010, bensì la sola disposizione dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66. Poiché l’art. 6 disciplina soltanto i termini per impugnare il licenziamento (mentre sono stati i commi terzo e quarto dell’art. 32 a estenderli anche ad altri atti), ci si è chiesti se, mancando di modificare le disposizioni del Collegato lavoro, il legislatore abbia voluto limitare la riduzione del termine ai licenziamenti, lasciando fermo quello originario di duecentosettanta per le altre azioni.
Se così fosse, il termine per impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale tempestiva sarebbe diversificato per l’una e per l’altra situazione.
Non è però questa l’interpretazione seguita dal giudice remittente[1] e dalla stessa Corte costituzionale: il caso trattato dal Tribunale di Siracusa riguardava il trasferimento ad altra sede di un lavoratore disabile, impugnato con ricorso d’urgenza ante causam; a fronte dell’eccezione di decadenza sollevata dall’impresa datrice di lavoro, il giudice monocratico ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, l. 604/66, come modificato dall’art. 32, primo comma, l. 183/2010, nella parte in cui, secondo il costante indirizzo della Corte di Cassazione, il ricorso ex art. 700 c.p.c. è inidoneo a interrompere il termine di decadenza di centottanta giorni.
2. L’orientamento giurisprudenziale
Il dubbio di costituzionalità è stato sollevato con riferimento all’orientamento formatosi sull’interpretazione della dizione normativa che, nell’art. 6, secondo comma, l. 604/66, così come novellato nel 2010, prevede tra gli atti giudiziali impeditivi della decadenza il “deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro”.
La disposizione non offre spunti testuali per identificare quale sia il ricorso rilevante. Non sarebbe implausibile, di conseguenza, riferire il termine letterale a ogni ricorso con cui venga azionato il diritto all’accertamento dell’invalidità, dell’inefficacia o dell’illegittimità del licenziamento davanti al giudice del lavoro.
La decadenza è istituto limitativo dell’esercizio del diritto. Le norme che stabiliscono termini di decadenza sono di stretta interpretazione[2]. Di riflesso, s’impone una lettura piana della norma dedicata ai casi d’interruzione, quando sia conforme allo scopo di non ridurre l’effettività del diritto dal cui esercizio è ammessa la decadenza.
La Cassazione non è stata di questo avviso. In almeno cinque pronunce si è affermato che l’art. 6, secondo comma, della legge 604/66, nel testo modificato dall’art. 1, co. 38, legge 92/2012, “va interpretato, nel caso d'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 st. lav. e successive modificazioni, nel senso che, ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è necessario che, nel termine previsto, venga proposto ricorso secondo il rito di cui all'art. 1, commi 48 e seguenti, della l. n. 92 del 2012, restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c.”[3].
Le motivazioni di una tale interpretazione restrittiva sono riducibili a due ordini di argomenti: quelli collegati all’ultima modifica dell’art. 6, secondo comma, e quelli legati ad una lettura complessiva di questa disposizione.
Il primo ragionamento è partito dalla premessa di un’interpretazione necessariamente coordinata delle norme coeve contenute nei commi 38, 47 e 48 dell’art. 1 legge 92/2012. L’art. 1, co. 47 segg., della stessa legge Fornero delinea una prima fase del rito speciale per i licenziamenti, sommaria nelle forme e nell’istruttoria non anche nella cognizione del giudice, la quale è invece piena e suscettibile di essere definita con un provvedimento dotato di stabilità[4].
L’irrevocabilità sino alla definizione della – eventuale – opposizione successiva dell’ordinanza conclusiva[5] comporta almeno due conseguenze rilevanti: che l’azione ex art. 1, co. 47 segg., legge 92/2012 venga proposta con un ricorso assimilabile a quello ordinario; che questo debba indicare necessariamente, non meno che nella fase di opposizione, causa petendi e petitum. Questo connotato non è invece proprio del ricorso in via d’urgenza. Da ciò si desume che il legislatore del 2012 abbia inteso riferirsi solo al ricorso del rito speciale per i licenziamenti, escludendo quello ex art. 700 c.p.c.[6].
Con secondo ordine di argomenti la Cassazione ha valorizzato il fatto che il ricorso da presentare entro sessanta giorni dopo la chiusura infruttuosa del tentativo di conciliazione o dell’arbitrato sia necessariamente l’atto introduttivo del processo ordinario del lavoro; poiché non può darsi il caso che il legislatore abbia usato un termine con due significati diversi all’interno della stessa disposizione, anche il primo atto va identificato col medesimo modello di ricorso.
Inoltre l’inciso “ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso”, inserito a chiusura del primo periodo del secondo comma dell’art. 6, non può che riferirsi al ricorso proposto ai sensi dell’art. 414 c.p.c. – l’unico che nel 2010 fosse previsto per impugnare i licenziamenti – giacché nel procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. non vi sono preclusioni al deposito di documenti dopo quello dell’atto introduttivo del giudizio[7].
In definitiva la stessa norma dell’art. 6, secondo comma, l. 604/66 racchiuderebbe in sé le ragioni per un’interpretazione restrittiva del termine “ricorso”.
Su questo orientamento della Suprema Corte non ha pesato neppure la nuova struttura che il procedimento d’urgenza ha assunto dopo l’inserimento dell’art. 669-octies, sesto comma, c.p.c., ad opera del d.l. 35/2005 (conv. con modif. nella legge 80/2005). La sua strumentalità attenuata rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è divenuta facoltativa, gli ha sì attribuito le caratteristiche di un’azione autonoma, atta potenzialmente a soddisfare in via definitiva l’interesse della parte, pur senza attitudine al giudicato[8]. L’incertezza che grava sui tempi d’instaurazione del giudizio di merito, limitata solo dal termine ordinario di prescrizione, sarebbe inconciliabile con l’obiettivo della legge 183/2010 di provocare rapidamente una pronuncia definitiva sulla legittimità del licenziamento[9].
3. La decisione della Consulta
La Corte Costituzionale è stata investita dal giudice del lavoro del Tribunale di Siracusa della questione di legittimità dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66, così interpretato, con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e – in relazione all’art. 6 CEDU – 117, primo comma Cost., per la parte in cui la domanda cautelare ante causam non è ritenuta equipollente a quella ordinaria di merito per interrompere il termine di decadenza e impedire la perdita di efficacia dell’impugnazione stragiudiziale proposta ai sensi dell’art. 6, primo comma.
Individuata la ratio della norma censurata nell’esigenza di fare emergere in tempi brevi il contenzioso sull’atto datoriale[10], La Corte ha ritenuto decisiva e assorbente l’eccezione ai sensi dell’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. La mancata previsione dell’idoneità del ricorso tempestivo per provvedimento d’urgenza a impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale e dare accesso alla tutela giurisdizionale è: contraria, da un lato, al principio di eguaglianza se posta in comparazione con l’idoneità riconosciuta dalla stessa disposizione alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o di quella arbitrale; irragionevole, dall’altro, rispetto alla finalità normativa di fare emergere il contenzioso sull’atto datoriale.
Sotto il primo profilo si è ritenuto decisivo il fatto che il legislatore abbia attribuito efficacia interruttiva alla mera attivazione delle procedure alternative, lasciando impregiudicata la possibilità che rifiuto o mancato accordo tra le parti non portino alla definizione del rapporto tra le parti; d’altro canto, né la conclusione positiva dell’iter conciliativo (artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c.) né il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato irrituale e impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c. (art. 412-quater, decimo comma, c.p.c.) offrono prospettiva di pervenire al giudicato. Non si vede dunque perché – sembra dire la Consulta – la norma criticata non debba attribuire la stessa efficacia alla “più pregnante iniziativa” rivolta direttamente alla cognizione del giudice, cui tra l’altro il datore di lavoro non può sottrarsi.
Quanto alla compatibilità con l’obiettivo di certezza dei rapporti, la Consulta ha ripercorso la strada dell’evoluzione del procedimento ex art. 700 c.p.c., giungendo alla conclusione della rilevanza della strumentalità attenuata conferita oggi a questo “nuovo modello di tutela che può esitare in un provvedimento celere .. che si iscrive nell’ambito di una più ampia tendenza normativa, espressa anche mediante riti di natura diversa (semplificati, sommari, camerali) a svincolare la decisione concreta della lite dalla necessità dell’accertamento con il “crisma” del giudicato sostanziale”.
I giudici costituzionali hanno ritenuto opportuno richiamare anche “la cruciale importanza” della tutela d’urgenza nelle cause di lavoro, che trattano spesso di “situazioni sostanziali di rilievo costituzionale in quanto attinenti alla dignità del lavoro”[11]. In questo modo la valutazione di proporzionalità tra la finalità legislativa e la sanzione dell’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale pende a sfavore di quest’ultima, se solo si considera che la proposizione del ricorso ex art. 700 c.p.c. raggiunge lo scopo di fare emergere il contenzioso sull’atto impugnato, evitando che il datore di lavoro resti in uno stato d’incertezza perdurante sulla sua sorte.
Non è stato infine dimenticato il tema della discrezionalità del legislatore, che interferisce con ogni giudizio di conformità a Costituzione incentrato su istituti processuali. Quello in esame è proprio uno dei casi in cui, attraverso l’operazione di bilanciamento d’interessi costituzionalmente rilevanti, la Consulta ritiene superata quella soglia della ragionevolezza che rappresenta il limite del sindacato di costituzionalità[12].
La disposizione dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66, così come interpretata dalla Cassazione, è stata in definitiva ritenuta illegittima, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale è inefficace se non sia seguita, entro i successivi centottanta giorni, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa (ai sensi degli artt. 669.bis, 669-ter e 700 c.p.c.), oltre che dagli altri atti enunciati espressamente nella norma.
4. Un’esortazione alla Corte di Cassazione?
Implicitamente, ma chiaramente, la Corte costituzionale ha avallato l’operazione di ricostruzione della disposizione che il giudice del Tribunale di Siracusa le ha sottoposto, disposizione intesa non come norma di legge astrattamente considerata, ma come contenuto della regola da applicare[13] e che, nella fattispecie, è il frutto dell’interpretazione consolidata della Corte di Cassazione. Adattando il proprio sindacato alla disposizione così conformata, il giudice delle leggi ha dato corso all’effetto devolutivo del problema di costituzionalità, dichiarandola illegittima nei contenuti e nella portata correttamente individuati[14].
L’interpretazione giurisprudenziale consolidata d’una norma rappresenta del resto uno dei limiti tradizionali al potere ermeneutico della Corte costituzionale, condensato ormai nel sintagma “diritto vivente”[15]. Una volta accertata l’esistenza del diritto vivente, la Corte si astiene dalla proposta di soluzioni interpretative differenti, , ma si limita a verificare la conformità di questo ai principi costituzionali; essa deve “incentrare le sue valutazioni sulla norma impugnata nell’interpretazione dominante, fatta propria dal giudice a quo”[16].
Posto di fronte al testo vigente dell’art. 6, secondo comma, l. 604/66, il Tribunale di Siracusa ha sollevato d’ufficio la questione di costituzionalità, prendendo atto dell’indirizzo granitico della Corte di Cassazione, che aveva travolto i tentativi dei giudici di merito di fornire una lettura alternativa, inclusiva dell’ipotesi del ricorso in via d’urgenza. Si tratta di tentativi divenuti invero ormai timidi, posto che tutte le pronunce di legittimità più recenti non hanno fatto altro che confermare decisioni dei gradi precedenti già conformi.
Non si può non rimarcare peraltro come nella sentenza 212/2020 vengano ribaltati i cavalli di battaglia argomentativi della Cassazione. Si è già detto, in particolare, del rilievo attribuito alla strumentalità attenuta dell’attuale procedimento d’urgenza. La Consulta ha menzionato come “segno dell’evoluzione” avvenuta in materia il mutamento della giurisprudenza in tema di opposizione alla delibera di esclusione del socio: la Cassazione ha finalmente affermato, infatti, l’idoneità del ricorso d’urgenza ante causam a impedire la decadenza dall’opposizione, se proposto entro i sessanta giorni fissati dall’art. 2533, terzo comma, c.c., in quanto “il rimedio cautelare anticipatorio presenta nell’attuale sistema ordinamentale le caratteristiche di una azione, in quanto potenzialmente idoneo a soddisfare attraverso l’intervento giudiziario l’interesse sostanziale della parte, anche in via definitiva”[17].
Va notato come questa decisione fosse stata citata dall’altro collegio della stessa sezione lavoro della Cassazione, nell’ordinanza 29429/18, il quale l’aveva ritenuta non pertinente, perché riferita ad una fattispecie diversa da quella dell’art. 6 legge 604/66, e comunque insufficiente a superare “l’inequivoco tenore letterale” di quest’ultima disposizione.
La sentenza 212/2020 ha replicato alla Cassazione anche sull’argomento della definitività dell’ordinanza d’urgenza condizionata, ritenendolo non decisivo poiché rimediabile dall’iniziativa del datore di lavoro che potrebbe a quel punto promuovere a propria volta il giudizio di merito.
Se è vero che, scrutinando il diritto vivente, la Corte costituzionale è investita della disposizione nell’interpretazione normativa che la configura, non è meno vero che in questa occasione si coglie nella pronuncia un respiro elevato a livelli valoriali che la giurisprudenza di legittimità, sedimentatasi nell’arco d’un triennio, non sembra avere raggiunto.
Va ricordato che il diritto vivente è vincolante per il giudice comune solo quando la norma desunta dalla disposizione sia conforme ai parametri costituzionali e l’interpretazione relativa sia dirimente rispetto ai dubbi di legittimità che egli adombri. Quando invece la soluzione ermeneutica stabilizzatasi appaia in contrasto con la Costituzione, il giudice a quo ha la facoltà di scegliere tra l’adozione, pur sempre ammessa, d’una diversa lettura e l’adeguamento a quella soluzione sollevando la questione di costituzionalità[18].
Nel quadro interpretativo consolidato che gli si è prospettato in causa, per il giudice monocratico di Siracusa la seconda opzione era pressoché inevitabile.
C’è da chiedersi però se gli stessi parametri costituzionali posti a base della sua ordinanza non avrebbero potuto essere preventivamente approfonditi dalla Cassazione in taluna delle decisioni che hanno concorso a quell’assestamento e nelle quali alcuni dubbi di conformità a sistema si erano affacciati. Non è accessoria in questo interrogativo la considerazione del fatto che tutte le pronunce di legittimità siano intervenute a decretare l’impossibilità di accedere alla tutela giurisdizionale per lavoratori licenziati.
Nel contenuto che le è stato attribuito dalla Cassazione, dunque, la disposizione dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66 ha avuto vita breve e senza che vi sia stato un effettivo collaudo di tenuta. In questo senso la vicenda può essere annoverata tra le occasiono mancate, a fronte di un dato normativo che, nella genericità del termine “ricorso” impiegato dal legislatore, non pareva insuscettibile di altre soluzioni, utili a garantire una tutela effettiva di diritti fondamentali.
5. Una soluzione definitiva
La declaratoria d’illegittimità dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66 ha già allarmato quanti temono che, una volta respinto il ricorso ex art. 700 c.p.c., il lavoratore strumentalizzi l’assenza d’un termine per introdurre il giudizio di merito, lasciando il datore di lavoro nell’incertezza sulla definitiva legittimità del proprio provvedimento. Di qui l’invocazione al legislatore per un intervento correttivo[19].
La preoccupazione non è condivisibile. Una questione analoga può darsi anche per situazioni già precedentemente ammesse, come quella del ricorso dichiarato inammissibile per errore sul rito ex art. 1, co. 48, legge 92/2012 e ritenuto comunque idoneo a impedire definitivamente la decadenza prevista dall’art. 6, secondo comma, legge 604/66[20].
A questa varia casistica s’indirizza la saggia annotazione della Corte costituzionale, per cui, una volta che il suo dipendente sia “già uscito alla scoperto”, ben può il datore di lavoro assumere l’iniziativa giudiziaria per eliminare ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale. Dei costi che gli siano stati eventualmente causati dall’inerzia maliziosa del lavoratore egli potrà essere ristorato in modo opportuno da una corretta regolamentazione delle spese di lite.
Quando ravvisi l’esigenza di dare certezza a situazioni giuridiche rilevanti, l’ordinamento ne dà carico a colui che si ritenga titolare del relativo diritto. E’ ragionevole però prevedere che, una volta che questi abbia dimostrato di volerlo rivendicare, non gravi più soltanto su di lui l’onere di attivarsi ulteriormente per rimuovere lo stato d’incertezza eventualmente perdurante, dato che è l’altro il soggetto interessato a definire il contrasto. Se così non fosse, si andrebbe incontro al rischio di sacrificare diritti non meno meritevoli di tutela.
Sotto questo profilo pare essere arrivato dal giudice costituzionale un messaggio molto chiaro.
[1] Trib. Catania, 17 maggio 2019, in G.U., serie speciale, del 9 ottobre 2019, n. 41.
[2] Tra le tante, Cass., sez. lav., 9 febbraio 2006, n. 2853.
[3] Cass., sez. lav., 14 luglio 2016, n. 14390 e, nello stesso senso, Cass., sez. lav., ord. 7 novembre 2017, n. 26309 e 15 novembre 2018, n. 29429; Cass., sez. lav., 6 dicembre 2018, n. 31647; Cass., sez. lav., ord. 9 dicembre 2019, n. 32073.
[4] Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19674.
[5] In tal senso Cass., sez. VI - lav.., ord. 20 novembre 2014, n. 24790.
[6] Cass., sez. lav., 14 luglio 2016, n. 14390.
[7] Cass., 29429/2018, cit. .
[8] Cass., sez. lav., 25 maggio 2016, n. 10840.
[9] Ancora Cass., 29429/2018, cit. .
[10] Ciò al fine, ad esempio nei contratti di lavoro a tempo determinato, di “contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al contratto” (Corte cost., 4 giugno 2014, n. 155).
[11] Si fa riferimento a Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190, che ha riguardato la tutela d’urgenza, da parte del giudice ordinario, nel pubblico impiego, pur quando esso era ancora affidato in via esclusiva alla giustizia amministrativa.
[12] Ricorda la Corte che l’operazione di bilanciamento va svolta “attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intenda perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2011)”.
[13] Corte cost., 21 marzo 1996, n. 84: “la disposizione - della cui esatta identificazione, al momento dell'ordinanza di rimessione, è onerato il giudice rimettente (sentenza n.176 del 1972), non potendo egli limitarsi a denunciare un principio (sentenza n.188 del 1995) - costituisce il necessario veicolo di accesso della norma al giudizio della Corte, che si svolge sulla norma quale oggetto del raffronto con il contenuto precettivo del parametro costituzionale, e rappresenta poi parimenti il tramite di ritrasferimento nell'ordinamento della valutazione così operata, a seguito di tale raffronto, dalla Corte medesima, la quale quindi giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni”.
[14] Cfr. Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 11.
[15] Cfr. M. Cavino, Diritto vivente, in Dig. Pubbl., 2010.
[16] Corte cost., 14 dicembre 2009, n. 317.
[17] Cass., sez. lav., 25 maggio 2016, n. 10840.
[18] Corte cost., 24 ottobre 2014, n. 242. Per una rassegna degli orientamenti in materia, cfr. L. Salvato, Profili del “diritto vivente” nella giurisprudenza costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, febbraio 2015, nonché, per il diritto del lavoro, V. Speziale, Il “declino” della legge. “L’ascesa” del diritto giurisprudenziale e i limiti all’interpretazione giudiziale, in www.costituzionalismo.it, 1, 2018.
[19] Si legga ad esempio l’articolo del Centro studi lavoro e previdenza, in www.eclavoro.it, 5 novembre 2020.
[20] In tal senso Trib. Firenze 7 ottobre 2014, in Riv. it. dir. lav., 2015, con nota di A. D. De Santis, Errore sul rito, inammissibilità dell’impugnativa del licenziamento e impedimento della decadenza, 478; Trib. Milano, 16 dicembre 2016, in www.dottrinalavoro.it.
Prima lettura delle nuove linee guida del CSM in materia di emergenza Covid (delibera 4.11.2020)
di Chiara Gallo
Sommario:1. La delibera del Csm del 4.11.2020 - 2.Organizzazione dei servizi ed esercizio dell’attività giurisdizionale - 3. Indicazioni e disposizioni relative a specifiche emergenze e situazioni di uffici in particolare difficoltà. - 4. Indicazioni per i Consigli Giudiziari - 5. Indicazioni relative ai magistrati in condizioni di fragilità, in quarantena e in isolamento fiduciario. - 6. Differimento dei termini di adozione dei nuovi progetti tabellari. Chiarimenti in ordine alla circolare sulla formazione delle tabelle per il triennio 2020-2022. Raccomandazioni finali
1. La delibera del Csm del 4.11.2020
Con la delibera del 4.11.2020 il CSM ha formulato nuove linee guida per la gestione della attuale fase emergenziale.
Si tratta di un provvedimento complesso che contiene indicazioni assai dettagliate su molteplici aspetti della vita degli uffici giudiziari, a partire da quelli logistici per finire con quelli attinenti allo svolgimento del lavoro “a distanza” per i magistrati che versano in condizioni di fragilità o che si trovano in quarantena o in isolamento fiduciario.
La delibera cerca di colmare le molteplici lacune contenute del DL 137\2020 che ha limitato fortemente l’utilizzo del processo da remoto - soprattutto nel settore penale - senza offrire nessuno strumento idoneo a controbilanciare il rischio di assembramenti e di contagi che la scelta di svolgere attività in presenza senza alcuna riduzione dei flussi comporta.
Il testo è suddiviso in paragrafi che trattano i diversi settori di intervento dell’organo di governo autonomo.
2.Organizzazione dei servizi ed esercizio dell’attività giurisdizionale
L’adozione delle misure atte ad evitare assembramenti è affidata ai dirigenti degli uffici che devono dettare (o confermare ove già esistenti) le disposizioni volte a regolare l’accesso agli uffici giudiziari e limitare i contatti personali.
A tal fine si raccomanda ai dirigenti:
- l’adozione di protocolli rivolti all’utenza finalizzati a regolamentare gli ingressi agli edifici che prevedano anche prenotazioni degli accessi.
- l’adozione di protocolli interni tra uffici giudicanti e requirenti o comunque di prassi concordate tra i due uffici per la trasmissione degli atti urgenti con modalità telematiche.
- l’individuazione, nei casi in cui l’udienza non possa essere svolta mediante collegamenti da remoto (o nel settore civile mediante trattazione scritta), di locali e presidi idonei allo svolgimento delle udienze nel rispetto delle prescrizioni igienico sanitarie, anche avvalendosi dell’ausilio delle autorità sanitarie competenti.
Si tratta di indicazioni importanti che attribuiscono ai dirigenti un ruolo decisivo nella tutela della sicurezza dei lavoratori e dell’utenza.
E’ tuttavia evidente che l’obiettivo di individuare locali e presidi idonei allo svolgimento delle udienze - che presuppone attività quali la verifica degli impianti di areazione e la c.d. mappatura delle aule per individuare il limite della loro capienza, finora svolte a singhiozzo nei diversi uffici - sarà di difficile realizzazione in tutti i casi (molti) in cui l’edilizia giudiziaria non consente di trovare valide alternative rispetto alle aule non idonee per conformazione e capienza.
Quanto alle linee guida relative all’esercizio dell’attività giurisdizionale, il CSM, supplisce, per quanto possibile, all’assenza, nella recente legislazione emergenziale, di norme atte a contenere il flusso degli affari, attraverso un invito rivolto ai dirigenti degli uffici all’adozione di provvedimenti organizzativi di carattere generale di contenuto analogo ai provvedimenti in materia di priorità nella trattazione degli affari disciplinati dalla delibera del CSM dell’11.5.2016 (Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari- rapporti fra uffici giudicanti e requirenti). Si tratta di un’indicazione fortemente innovativa perché propone l’utilizzo, nella attuale situazione emergenziale, di uno strumento nato per la gestione degli affari in una situazione fisiologica. Attraverso i provvedimenti in materia di priorità diviene possibile dare attuazione concreta alla indicazione di carattere generale contenuta nella stessa delibera rivolta ai dirigenti di “raccomandare ai magistrati la trattazione di procedimenti in numero e modalità effettivamente compatibili con il rispetto delle prescrizioni di cui al DPCM 24.10.2020”.
Tali provvedimenti devono essere preceduti da procedure partecipate, idonee a coinvolgere con modalità anche informali, in funzione consultiva, i componenti dell’ufficio, l’avvocatura e il personale amministrativo e, così come avviene per i provvedimenti in materia di priorità, possono essere anche emanati ad hoc ossia al di fuori del contesto prettamente tabellare.
In sostanza, attraverso tali provvedimenti i dirigenti potranno regolamentare il flusso dei procedimenti nel periodo emergenziale, postergando la trattazione di quelli non prioritari, pur in assenza di un potere di sospensione analogo a quello attribuito loro dal DL 17 del 18.3.2020.
Tale indicazione diviene il cardine e la cornice di tutte le disposizioni che contengono inviti diretti ai magistrati essendo evidente che le scelte in ordine alla trattazione degli affari non possono essere rimesse ai singoli ma devono essere ricondotte ad una linea unitaria dell’ufficio.
Un’altra serie di indicazioni, sempre rivolte ai dirigenti, è finalizzata ad integrare le disposizioni contenute nel DL 137\2020 in materia di processo telematico e favorire nel concreto, la loro applicazione, attraverso un’attività promozionale.
Ai dirigenti è infatti raccomandato:
- di invitare tutti i magistrati ad utilizzare il processo da remoto e la trattazione scritta in tutte le ipotesi previste dalla legge (che si ricorda, indica tali modalità come possibili e non come obbligatorie);
- di promuovere, per rendere concretamente praticabili le modalità di trattazione sopra indicate, l’adozione di protocolli con l’avvocatura per l’individuazione di modalità condivise di partecipazione da remoto o di trattazione scritta;
- di incentivare nel settore civile il deposito in via telematica delle istanze;
- di monitorare la predisposizione nel settore penale di moduli organizzativi utili ad attuare la previsione del deposito telematico a cura delle parti previsto dall’art. 24 commi I, II e III DL 137\2020.
Quest’ultimo punto è particolarmente delicato, posto che le norme sul deposito telematico degli atti richiedono, per la loco concreta applicabilità, l’adozione di provvedimenti da parte del Ministero della Giustizia volti alla individuazione del portale del processo penale telematico. L’emergenza sanitaria diviene, dunque, un’occasione per implementare il processo penale telematico attraverso gli obblighi che il legislatore pone al Ministero della Giustizia, sulla cui attuazione spetta ai dirigenti di vigilare.
Lo stesso CSM nelle raccomandazioni finali della delibera invita il Ministero della Giustizia a garantire con la massima tempestività e continuità agli uffici giudiziari gli strumenti necessari alla concretizzazione delle misure previste dai decreti legge.
Seguono poi raccomandazioni di natura “tecnica” tese ad impedire situazioni di contatti o assembramenti rivolte direttamente ai singoli magistrati in quanto ricadenti nella gestione diretta delle singole udienze, anche per casi in cui si renda necessario procedere ad udienze di rinvio, situazione questa che viene presa in considerazione proprio in conseguenza della scelta del CSM di prevedere l’adozione di provvedimenti che incidano, riducendolo, sul flusso degli affari, in applicazione dei criteri di priorità.
In particolare:
- nel settore civile si raccomanda di disporre i rinvii con provvedimenti telematici e non cartacei;
- nel settore penale si raccomanda di ricorrere ai rinvii fuori udienza se possibile o comunque di richiedere la collaborazione dei Consigli dell’Ordine locali affinchè individuino un unico difensore che possa partecipare alle udienze che devono essere rinviate in sostituzione di tutti i difensori titolari (collaborazione che non potrà che passare da un’interlocuzione tra i dirigenti e l’avvocatura che sfoci nell’adozione di accordi o protocolli);
- in generale si raccomanda la fissazione delle udienze che non possono essere celebrate da remoto, ad orari prestabiliti ed evitando la contestuale presenza di più soggetti in ogni procedimento (ad esempio testi). Tali accorgimenti porteranno inevitabilmente ad un allungamento dei tempi dei processi e alla fissazione di un numero di processi per udienza inferiore a quello del periodo pre-pandemico con la conseguenza di un aumento dell’arretrato.
3. Indicazioni e disposizioni relative a specifiche emergenze e situazioni di uffici in particolare difficoltà.
Si ripropone l’ampliamento dei limiti previsti dalla circolare del CSM 108 del 2008 per l’utilizzo degli strumenti delle applicazioni infradistrettuali e delle tabelle infradistrettuali per la trattazione dei procedimenti indifferibili non gestibili tramite le assegnazioni interne, già previsto nelle linee guida di marzo 2020, fino al 31.1.2021.
Il Presidente della Corte d’Appello o il Procuratore Generale provvederanno con decreto immediatamente esecutivo comunicato ai Consigli Giudiziari che esprimeranno il parere entro 15 giorni e trasmesso al CSM per l’approvazione.
4. Indicazioni per i Consigli Giudiziari
Come già accaduto nella prima fase emergenziale, le sedute dei Consigli Giudiziari potranno essere svolte da remoto attraverso gli applicativi messi a disposizione dal Ministero della Giustizia, su disposizione dei Presidenti dei Consigli Giudiziari e sentiti i componenti.
Nella delibera del CSM si sottolinea il carattere eccezionale di tale modalità di deliberazione dei Consigli Giudiziari che trova la fonte normativa nell’art 73 DL 18\2020 che subordina l’adozione di tali modalità di svolgimento delle sedute alla garanzia della certezza nell’identificazione di partecipanti.
5. Indicazioni relative ai magistrati in condizioni di fragilità, in quarantena e in isolamento fiduciario.
Si tratta di un intervento inedito del CSM, necessitato dall’incidenza della pandemia sulla capacità lavorativa dei magistrati, anche in situazioni differenti dalla malattia in senso tecnico.
In tutti gli uffici fin dallo scoppio dell’emergenza sanitaria si è posto il problema di come regolamentare lo status lavorativo dei magistrati in quarantena, in isolamento fiduciario, o affetti da patologie che li collocano della cd categoria dei lavoratori fragili secondo la definizione contenuta nel DL 13.10.2020.
Soprattutto le prime due situazioni, che impediscono al magistrato di essere fisicamente presente in ufficio, hanno creato maggiori difficoltà interpretative in ordine alla loro possibile collocazione nelle tradizionali categorie della “presenza in servizio” e “dell’assenza per malattia”
Il CSM ha superato tale incertezza in modo chiaro affermando nella delibera che “il magistrato che si trovi in quarantena o in isolamento fiduciario a causa del COVID e non si trovi in stato di malattia certificata è da considerarsi in servizio”.
E’ stata, di conseguenza, prevista la possibilità per i dirigenti di adottare specifiche misure organizzative in relazione alle diverse situazioni, attraverso un “leale e collaborativo confronto con gli interessati”. Tale inciso, valutato unitamente al richiamo ai criteri di flessibilità organizzativa fissati dalla Circolare per la formazione delle tabelle 2020-2022 in materia di benessere organizzativo, contribuisce ad una nuova visione dell’organizzazione del lavoro dei magistrati che coniuga flessibilità ad obiettivi di efficienza e soprattutto si fonda sul confronto tra chi svolge compiti organizzativi dell’ufficio e i destinatari dei provvedimenti organizzativi ai quali non spetta un ruolo meramente passivo, ma che hanno il diritto-dovere di partecipare all’organizzazione del lavoro.
Per i lavoratori fragili in linea generale verrà favorito lo svolgimento di attività da remoto e si prevedono le seguenti modalità organizzative:
-per le attività per il cui svolgimento è necessaria la presenza in ufficio è previsto che il dirigente rafforzi ed adatti alle esigenze del caso concreto le ordinarie misure logistiche e organizzative finalizzate a ridurre rischi di contagio;
- ove le condizioni di salute del magistrato non consentano in modo assoluto la presenza in ufficio, si potranno prevedere esoneri da specifiche attività come quelle di udienza (nei casi in cui non è possibile che tale attività si svolga da remoto) compensati dall’assegnazione di affari maggiormente compatibili con le condizioni del magistrato in numero superiore rispetto agli altri magistrati dell’ufficio. Si precisa che se l’esonero riguarda l’attività di udienza si dovrà ricorrere all’istituto della supplenza, concretizzandosi una situazione di impedimento del magistrato.
- qualora il magistrato operi in un settore che non consenta lo svolgimento del lavoro a distanza, lo stesso, a sua domanda, può essere assegnato in via temporanea anche in sovrannumero ad altro settore del medesimo ufficio o ad altra sezione, mantenendo il diritto a rientrare nel settore di appartenenza. Il provvedimento di assegnazione temporanea è immediatamente esecutivo e segue la procedura tipica delle variazioni tabellari. Deve essere sottolineata sempre nell’ottica dell’organizzazione partecipata che caratterizza tutto il provvedimento del CSM, che il provvedimento viene adottato sentito l’interessato e previo coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio in modo da individuare le modalità più adatte a contemperare le diverse esigenze.
Per i magistrati in quarantena o in isolamento fiduciario, o genitori di minore di anni quattordici nei cui confronti sia disposta la quarantena. (situazioni che devono essere comunicate tempestivamente al dirigente dell’ufficio) si prevede lo svolgimento da remoto di tutte le attività (di udienza e non) consentite dalla legge.
Si prevede inoltre che i magistrati che versano in tali situazioni siano esonerati dalle attività che devono essere svolte necessariamente in ufficio (per le udienze si ricorrerà all’istituto della supplenza) e che tali esoneri vengano compensati, al pari di quanto avviene per i lavoratori in condizione di fragilità
Resta il nodo, nel settore penale, dove non è ancora operativo il processo telematico, delle modalità con cui i magistrati in quarantena o isolamento potranno avere accesso ai fascicoli cartacei e depositare i provvedimenti redatti senza recarsi in ufficio. Si potrebbe ritenere che in assenza degli strumenti tecnici idonei quali acceso da remoto al TIAP o firma digitale gli uffici dovranno attrezzarsi per il ritiro dei provvedimenti e la consegna dei fascicoli ai magistrati anche tramite le autovetture di servizio.
6. Differimento dei termini di adozione dei nuovi progetti tabellari. Chiarimenti in ordine alla circolare sulla formazione delle tabelle per il triennio 2020-2022. Raccomandazioni finali
Negli ultimi paragrafi della delibera si forniscono indicazioni in merito all’applicabilità delle norme contenute nella nuova circolare sulle tabelle e al contenuto delle prossime segnalazioni tabellari che seguono un recente incontro tra i consiglieri della settima Commissione e i dirigenti degli uffici giudiziari.
Il termine ultimo per il deposito al CSM delle segnalazioni tabellari degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti è differito al 31.3.2021.
Viene precisato che
-alle variazioni tabellari successive al 23.7.2020 (data della delibera di adozione della nuova circolare sulle tabelle) si applicano le norme della nuova circolare, mentre resta applicabile la pregressa normativa per le variazioni tabellari anteriori a tale data;
-nella parte delle tabelle relativa alla distribuzione dei magistrati alle sezioni il dirigente deve tenere conto dell’organico di diritto, dunque comprensivo degli aumenti stabiliti con Decreto Ministeriale del 14.9.2020, sebbene l’aumento non sia ancora effettivo. Tale precisazione è in linea con la regola generale secondo cui la distribuzione dei magistrati all’interno dell’ufficio avviene sulla base della pianta organica e non delle presenze effettive, ossia non tiene conto delle vacanze;
- si affronta il problema della immediata esecutività delle variazioni tabellari che contengano disposizioni di natura e con regime differente ovvero disposizioni relative all’assegnazione dei magistrati agli uffici ed alle sezioni, che possono essere dichiarate immediatamente esecutive dal dirigente in presenza di ragioni eccezionali ed urgenti e disposizioni relative all’assegnazione degli affari la cui immediata esecutività è subordinata al parere favorevole unanime del consiglio giudiziario. Ciò accade, ad esempio nei casi di provvedimenti di sostituzione in caso di improvvisa assenza di un magistrato da parte di altro magistrato che, in ragione delle nuove incombenze assegnate, deve essere sgravato di parte delle proprie assegnazioni. Il CSM consiglia in tali casi di procedere a due diverse variazioni tabellari: la prima di assegnazione del magistrato alla nuova posizione tabellare, immediatamente esecutiva, la seconda di modifica dell’assegnazione degli affari allo stesso attribuiti che sarà immediatamente esecutiva solo dopo il parere unanime del Consiglio Giudiziario.
Su quest’ultimo punto si osserva che il doppio binario delineato dal CSM, certamente rispondente alle attuali regole tabellari, potrebbe in concreto creare situazioni pregiudizievoli per il magistrato trasferito ad altra posizione tabellare, laddove il Consiglio Giudiziario non fosse unanime rispetto alla seconda variazione tabellare con cui lo stesso viene sgravato dalle assegnazioni originarie, situazione questa che determinerebbe per il magistrato trasferito un aggravio di lavoro per un periodo di tempo prolungato (o comunque quantomeno fino all’intervento del CSM).
Il CSM raccomanda infine il massimo utilizzo degli strumenti informativi che consentano lo svolgimento dei processi da remoto, coinvolgendo i RID ed i MAGRIF con funzione di assistenza nell’uso di tali applicativi e della SSM per l’attività formativa riferibile al loro utilizzo.
Da segnalare l’invito del CSM rivolto al Ministero della Giustizia, a garantire con la massima tempestività e continuità gli strumenti necessari all’attuazione delle norme contenute nella legislazione emergenziale ed in particolare a fornire adeguata assistenza tecnica, nonché ad assicurare agli uffici giudiziari risorse economiche e beni atti a garantire condizioni di lavoro in sicurezza rispetto al rischio epidemiologico.
Si tratta infatti di condizioni essenziali senza le quali ogni sforzo organizzativo non potrà produrre risultati in termini di efficienza e sicurezza.
Le dichiarazioni della persona offesa nel filtro della credibilità: la verità processuale oltre ogni ragionevole dubbio
di Daria Passaro
Sommario: 1. La prova dichiarativa proveniente dalla persona offesa dal reato. L’origine della vexata quaestio dell’attendibilità nelle “vittime vulnerabili” - 1.1. La credibilità della vittima nei procedimenti per violenza sessuale. La figura del minore abusato e la Carta di Noto - 2. Il cammino giurisprudenziale sulla credibilità delle persone offese. La sentenza n. 13016/2020 della Corte di Cassazione - 3. Verso i (possibili) criteri di valutazione: il confine tra credibilità e sospetto intorno alle dichiarazioni rese. L’ascolto protetto delle vittime vulnerabili.
1. La prova dichiarativa proveniente dalla persona offesa dal reato. L’origine della vexata quaestio dell’attendibilità nelle “vittime vulnerabili”
“Per comprendere certi delitti bisogna conoscere le vittime”. Così recitava Oscar Wilde.
Eppure, nel panorama storico-giuridico italiano, l’invecchiato modello penale incentrato sul reo quale soggetto da condannare e rieducare ha rivelato la sua intrinseca debolezza solo a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, anche in conseguenza ad una Carta Costituzionale dalla innegabile portata rivoluzionaria. Il giurista ha lentamente colto nel sistema penale la necessità di “ascolto” delle richieste della persona offesa, affinché la stessa non finisca col subire una seconda vittimizzazione, quella della dimenticanza. È in questa prospettiva che negli ultimi decenni ha preso forma la rivoluzione copernicana intorno alla nozione di vittima, ricostruita non più in chiave meramente passiva, ma come soggetto che esprime esigenze di protezione non (più) trascurabili.
Ad oggi, in un contesto tendenzialmente vittimo-centrico, la definizione di “vittima vulnerabile” ricomprende chi, per le caratteristiche legate al soggetto, minore o infermo di mente, ovvero al tipo di violenza subita, è vittima di un trauma in conseguenza del reato e in quanto tale deve essere tenuta a riparo dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ossia dal patimento di un nuovo e successivo trauma indotto dal processo stesso, inevitabilmente connesso alla riedizione del ricordo. Si tratta di una nozione estremamente variabile, nel tempo arricchitasi dei significati dai contorni più disparati, finendo per includere non solo il minore, il soggetto affetto da infermità mentale, ma anche e frequentemente le vittime di reati sessuali, di maltrattamenti, di violenze domestiche, di mutilazioni genitali, di tratta e riduzione in schiavitù, di mafia e di terrorismo. Di crimini sempre più efferati.
La nozione di vulnerabilità oscilla tra la valorizzazione della tipologia del reato subito e l’attenzione per le caratteristiche personali e soggettive di chi ha patito il pregiudizio del reato. Per meglio dire, per un versante prevale la vulnerabilità connessa al tipo oggettivo di crimine di cui si è vittima, in relazione alla modalità dell’azione criminosa, alle caratteristiche del bene tutelato- sovente particolarmente sensibile come la libertà sessuale- per un altro prevale un’attenzione soggettivistica e psicologica in ordine alla quale la vittima è vulnerabile a prescindere dal tipo di delitto che abbia leso i suoi diritti.
Il discusso tema che oggi investe la credibilità oggettivo-soggettiva delle dichiarazioni provenienti dalle persone offese da reato, calato in particolar modo nel mondo delle vittime vulnerabili, mostra con forza le criticità di un settore nevralgico del processo penale assoggettato all’ incontrastato dominio giurisprudenziale. Attualmente, l’orientamento interpretativo maggioritario, in materia di prova dichiarativa proveniente da una figura peculiare e complessa quale quella del querelante-persona offesa-parte civile-testimone, è quello secondo cui il sapere della persona offesa, quand’anche privo di riscontri esterni ed emergente da un soggetto per sua natura interessato alle sorti del processo, può giustificare una sentenza di condanna dell’imputato.
I dubbi che gravitano attorno a questo dibattito prendono forma dalla circostanza fattuale per cui la persona offesa de qua è per definizione “l’antagonista dell’imputato”, facendo scattare campanelli d’allarme difficilmente trascurabili rispetto all’ordinaria regola della colpevolezza che risulti al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il punto di partenza può essere individuato nella Carta Costituzionale, ove all’art. 27, secondo comma, è sancita una presunzione di non colpevolezza dell’imputato estesa fino all’emanazione della sentenza definitiva. Vieppiù che, nella scala dei valori costituzionali in materia processuale, a fianco all’art. 27 emerge l’art. 111 Cost., teso a fissare il perimetro del cosiddetto “giusto processo”, stabilendo al comma 2 che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità».
Tali pilastri costituzionali rischiano di entrare pericolosamente in crisi quando il risultato della vicenda processuale, spesso fatta di aspri e violenti contrasti tra la “vittima” e il suo “antagonista”, sembra attestarsi nelle mani e nella posizione della persona offesa, ossia di un soggetto processuale tanto coinvolto e interessato ad un determinato esito quanto “preferibile” rispetto all’imputato. Da qui la chiamata in causa dei diritti di difesa, inviolabili stando all’articolo 24 della Carta Fondamentale, di un imputato inevitabilmente posto in posizione subvalente.
È evidente come la quaestio da esaminare sia la seguente: nell’ambito delle vicende che vedono coinvolte le suddette vittime “vulnerabili”, la prova dichiarativa proveniente da chi rivesta il ruolo di persona offesa dal reato, nonché eventualmente lo status di parte civile costituita nel pendente processo penale, è in grado di giustificare, da sola e quindi autonomamente, la sentenza di condanna di un imputato? La risposta, che per giurisprudenza prevalente è ampiamente positiva, per lo spirito critico del giurista e probabilmente per una consistente fetta di opinione pubblica è una fugace alzata di spalle. E questo per una ragione agevolmente intuibile: la P.O., eventualmente costituita P.C., non sarà mai soggetto estraneo al processo e quindi terzo come è invece un normale testimone che si appresti a deporre.
Al riguardo, è importante osservare che nel processo penale il dubbio sulla responsabilità dell’imputato deve risolversi per definizione nella sentenza assolutoria, visto che non è mai l’innocenza bensì la colpevolezza a dovere essere provata dall’accusa. Come a voler dire che mentre per il trionfo dell’accusa è sempre necessario che sia raggiunta la prova certa, alla difesa gioverebbe anche il solo dubbio.
La materia del valore della prova dichiarativa della persona offesa dal reato, tanto discussa quanto foriera di notevoli problematiche dal sapore costituzionale, è ad oggi riservata ad una giurisprudenza che, più che rivestire una posizione esegetica o ermeneutica, appare pienamente fondativa, capace di “dicere ius”. Sulla base di tale posizione ricoperta, la scelta mantenuta nel tempo dai giudici, territoriali o di legittimità, è quella di affidarsi al sapere, più o meno controllato, della persona offesa per arrivare ad emettere un verdetto di colpevolezza.
Tanto posto, ciò che si vuole sottolineare è dunque la necessità di mettere a nudo i fisiologici limiti dell’apporto probatorio fornito dalla persona offesa-vulnerabile, potendo l’attenzione incentrata sulla “vittima” determinare un rischioso riduzionismo probatorio, oltre che un’imputazione, da parte del P.M. rappresentante l’accusa, che appaia azzardata o addirittura deficitaria sul piano probatorio.
Dalle esposte premesse nasce e prende vita il problema sulla credibilità e attendibilità della deposizione fornita dalla persona offesa dal reato quale soggetto per sua natura interessato alla condanna del suo altrettanto naturale antagonista, oltremodo allorquando l’offeso abbia subito un trauma idoneo a determinarne una condizione di vulnerabilità psicologica. Tanto accade poiché il sistema giudiziario accetta che soltanto il giudice debba essere lucidamente terzo ed imparziale, affidandosi, pur tuttavia, alla deposizione di chi coltivi un comprensibile interesse personale, morale e talora economico-patrimoniale (nell’ipotesi in cui la persona offesa si costituisca parte civile), soggetto dichiarante a cui giammai potrebbe chiedersi la neutralità rispetto ai fatti.
I margini di sospetto dettati da questo sistema così come delineato si mostrano con evidenza anche nel raffronto col processo civile. Per vero, poiché il giudizio penale è improntato alla regola dell’accertamento della responsabilità condotto “al di là di ogni ragionevole dubbio”, mentre in quello civile vige la regola, meno rigorosa, del “più probabile che non”, la coerenza del sistema risulterebbe scalfita consentendo di fondare la condanna penale semplicemente sul racconto di un soggetto tutto tranne che disinteressato, il quale, paradossalmente, nel rito civile nemmeno avrebbe parola. Difatti, l’incapacità a testimoniare è disposta dall’art. 246 c.p.c., a rigore del quale non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.
Ciò nondimeno, si vuol ribadire, la giurisprudenza italiana da tempo sposa con costanza una precisa linea interpretativa consistente nel basare le condanne sulla rilevanza esaustiva del solo racconto della persona offesa dal reato, quand’anche si costituisca parte civile, spesso in mancanza di altri testimoni utili a chiarire il quadro probatorio.
Se questa è la scelta portata avanti dai giudici, di merito e non, allora è fondamentale che si indaghi sul tema della veridicità, credibilità, attendibilità e coerenza della vittima dichiarante che, nel dibattimento, più o meno consapevolmente trasforma le proprie dichiarazioni in un vero e proprio “racconto”. La sua deposizione istruttoria prende vita dall’impulso del pubblico ministero ed ha una non trascurabile forza espansiva, i relativi risultati potendo fondare e giustificare una sentenza di condanna, pur senza la necessità di ulteriori elementi di supporto, che la riscontrino o la corroborino.
In una delle numerose pronunce della Corte di Cassazione sul tema de quo, con sentenza del 20 marzo 2019, n. 12250/19, la stessa ha precisato che la prova della responsabilità è desunta dalle chiare e limpide dichiarazioni rese dalla persona offesa, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Analogamente, la giurisprudenza di merito si è allineata a tale indirizzo, ritenendo che la deposizione della persona offesa possa essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le ordinarie regole probatorie di cui agli artt. 192, commi 3 e 4 c. p. p. che invece richiedono riscontri esterni. Tali orientamenti, in considerazione dell’intervenuta solidità giurisprudenziale, assumono il valore di principi cardine da calare e radicare in materia di dichiarazioni provenienti da soggetti connotati da una condizione di vulnerabilità post-traumatica.
Quali e quanto estesi siano i criteri di valutazione della suddetta credibilità è questione annosa, in cui è necessario addentrarsi a passo d’uomo, con la necessaria prudenza e curiosità che animano ogni giurista.
1.1. La credibilità della vittima nei procedimenti per violenza sessuale. La figura del minore abusato e la Carta di Noto
I principi elaborati nei procedimenti attinenti a violenza sessuale, in relazione alla valutazione di attendibilità e credibilità della persona offesa, si basano sull’assunto per cui l'accertamento delle particolari dinamiche delle condotte di violenza sessuale nella maggioranza dei casi deve essere svolto senza l'apporto di testimoni diversi dalla stessa vittima. Fatalmente, si riscontra una peculiare tensione istruttoria scaturente dalla necessità di apprendere la vicenda proprio da chi l'ha direttamente subita, soprattutto quando la vittima sia un minore.
In queste ipotesi, la deposizione della persona offesa, sola depositaria della vicenda, può essere assunta autonomamente come fonte di prova della colpevolezza, a seguito di un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa. Tanto si verifica proprio perché in tale contesto quasi sempre l'accertamento dei fatti accaduti dipende dalla valutazione delle opposte versioni fornite dall’ imputato e dalla parte offesa, soli protagonisti di quegli accadimenti, in assenza di qualsivoglia riscontro oggettivo atto ad attribuire maggiore credibilità dall'esterno all'una o all'altra tesi.
Nei reati di violenza sessuale non v’è dubbio che il controllo intorno alla credibilità soggettiva della persona offesa e all'attendibilità intrinseca del racconto reso dalla stessa dovrà essere ancor più penetrante e rigoroso, dovendo ritenere la P.O. portatrice di un personale interesse all'accertamento del fatto.
Tuttavia, gli elementi atti a fondare il sospetto che la vittima di reati sessuali dichiari il falso giammai possono abitare nei suoi "costumi sessuali", ossia nelle abitudini sessuali, nel modo di vivere la propria corporeità e sessualità, posto che la vita privata e la sessualità della persona offesa rilevano processualmente solo quando ciò sia necessario alla ricostruzione del fatto. Per meglio dire, ogni argomento che sottintenda o alluda ai "facili costumi" della persona offesa quale fattore di dubbio sulla sua attendibilità non trova alcuno spazio nella valutazione in esame.
Analogamente, la mancanza di una puntuale collocazione spaziale del fatto verificatosi non contribuisce a ledere l'attendibilità della narrazione effettuata, purché la collocazione stessa risulti utilmente accertata in base ad altri elementi probatori.
Quando la vittima del reato sessuale è un minore è necessario che l'esame della credibilità tenga conto di molteplici elementi, in particolar modo l'attitudine a testimoniare e quella, legata all'età, a memorizzare gli avvenimenti e a riferirli in modo coerente, il contesto delle relazioni familiari ed extra-familiari nonché i processi di rielaborazione delle vicende vissute.
Precisamente, accertata la capacità di comprendere e riferire i fatti della persona offesa minorenne, la sua deposizione deve essere analizzata nel più ampio contesto socio-ambientale, onde escludere l'intervento di circostanze esterne idonee a inficiarne la credibilità.
Tanto è utile sottolineare dal momento che i minori, seppur dichiarati attendibili e lasciati liberi di raccontare, possono divenire malleabili in presenza di suggestioni esterne, arrivando a conformarsi alle aspettative dell'interlocutore quando interrogati. Per evitare il verificarsi di tali fenomeni, è fondamentale ricostruire la prima dichiarazione del minore, spontanea e più genuina perché immune da interventi estranei ed intrusivi, capaci di alterare il sincero ricordo dell’accaduto, come ad esempio le reazioni emotive degli adulti presenti al momento della narrazione.
Imprescindibile, per meglio operare una valutazione rigorosa e neutrale da parte dei giudici, delle dichiarazioni rese dai minori, l’apporto di scienze apposite quali la pedagogia, psicologia e sessuologia.
Proprio allo scopo di attribuire carattere tendenzialmente scientifico alla valutazione di attendibilità in queste delicate fattispecie, è stata varata nel 2017 la Carta di Noto, contenente importanti linee-guida per gli esperti nell'ambito degli accertamenti compiuti sui minori vittime di abusi sessuali. A ben vedere, l'inosservanza dei protocolli prescritti dalla Carta di Noto per la conduzione dell'esame di un minore vittima di abusi non determina in alcun modo la nullità o inutilizzabilità della prova, tantomeno l'inattendibilità delle dichiarazioni raccolte. Nondimeno, sebbene il giudice non sia vincolato al rispetto dalla Carta di Noto, egli è tenuto a motivare perché ritenga, secondo il proprio libero ma mai arbitrario convincimento, attendibile la prova dichiarativa assunta in evidente violazione delle prescrizioni della Carta.
Per meglio dire, quanto più grave sarà la violazione dei protocolli prescritti dalla Carta di Noto, tanto più il giudice dovrà scrupolosamente motivare circa l’attendibilità del minorenne abusato.
2. Il cammino giurisprudenziale sulla credibilità delle persone offese. La sentenza n. 13016/2020 della Corte di Cassazione
Nel corso degli anni, copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità si è pronunciata in numerose occasioni sul problema dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, soprattutto in relazione a reati oggetto di forte attenzione mediatica, quali il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p., ovvero quello di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p.
Volendo restringere all’ultimo decennio il perimetro dell’evoluzione pretoria intervenuta, una rilevante pronuncia risale, in primis, al 17 giugno 2014, Cass. n. 41040, in materia di stalking, quando la Corte di Cassazione ha evidenziato che nell’ipotesi di atti persecutori, l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non vengono inficiate dalla circostanza che nel corso del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto transitori momenti di benevola rivalutazione del passato con eventuale desiderio di pacificazione con il compagno persecutore.
Conseguentemente, si è giunti a ritenere che anche quando si rinunci a rivestire il ruolo di parte civile, tale determinazione non debba incidere prettamente sul processo penale ma, precipuamente, sulle questioni civili ad esso connesse. Tanto perché la decisione di rinunciare alla costituzione di parte civile nulla toglierebbe al trauma subito per un consistente arco temporale dalla p.o. nonché al graduale turbamento psicologico innestato dallo stalking, un sopravvenuto atteggiamento remissivo e rinunciativo non incidendo sulla credibilità della p.o. ovvero sulla configurabilità del reato.
Nella medesima ottica di tutela nei confronti della persona offesa, appare particolarmente interessante l’orientamento della giurisprudenza di legittimità del 13 maggio 2015, sentenza n. 31309, con riferimento alle dichiarazioni della vittima, affermando che nella valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, bensì impone solo una prudenza maggiore nell’analisi delle dichiarazioni rese.
Di notevole rilievo è senz’altro la pronuncia della Corte di Cassazione intercorsa il 12 ottobre 2018, n. 46218, che oltre a chiarire annose questioni intorno alla credibilità delle persone offese, ha precisato aspetti fondamentali legati alla configurabilità dei reati di molestia e violenza sessuale.
Invero, nella suddetta occasione la Corte ha innanzitutto stabilito il suo orientamento granitico secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono, da sole e senza la necessità di riscontri esterni, fondare l’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, adeguatamente motivata, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che sarà inevitabilmente più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Fermo restando che, le dichiarazioni della vittima saranno ancor più credibili ove confortate da elementi di riscontro, tali da escludere circostanze incompatibili con la condotta contestata.
A tal fine, ha dichiarato la Corte, il giudice ha il dovere di indicare le emergenze processuali determinanti il suo convincimento, rendendo visibile l’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata. Per contro, non rileverebbe il silenzio su una specifica deduzione difensiva, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi asserite dalla difesa. Pertanto, il giudice potrà trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità.
Tale valutazione inerente all’attendibilità della persona offesa si atteggia come un giudizio di tipo fattuale e di merito che attiene al modo di essere della persona escussa. Trattasi, per ciò solo, di un giudizio che può trovare spazio solo nella garanzia tipica della dialettica dibattimentale, essendo invece precluso in sede di legittimità.
Nello specifico, la sentenza dell’ottobre 2018 ha altresì illuminato i concetti penalmente rilevanti di molestia sessuale e violenza sessuale, onde meglio discernere queste fattispecie di reato che sovente si celano dietro i racconti delle vittime. A tal fine, la molestia sessuale, prevista e punita dall’articolo 660 c.p., prescinderebbe da contatti fisici a sfondo sessuale, manifestandosi con petulanti corteggiamenti non graditi, ovvero con telefonate o espressioni volgari a sfondo sessuale, tutte condotte sessualmente connotate ma diverse dall’abuso sessuale.
Per contro, la nozione di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p. sarebbe comprensiva di atti idonei a compromettere la libera determinazione sessuale della persona e ad invaderne la sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione ovvero dall’ abuso di inferiorità fisica o psichica, la nozione di violenza non limitandosi all’uso di energia fisica verso la persona offesa, bensì comprendendo qualsivoglia limitazione della libera volontà del soggetto passivo.
Da ultimo, la Suprema Corte con sentenza n. 13016 del 6 marzo 2020 ha recentemente confermato il proprio orientamento, da ritenere ormai consolidato, nonché specificato ulteriormente gli aspetti salienti del concetto di attendibilità della persona offesa dal reato. Stando alla Cassazione, quanto ai criteri per la valutazione delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, il relativo procedimento deve estrinsecarsi secondo una precisa scansione logica.
Si parte, dunque, dall’analisi della capacità a testimoniare, ossia l’abilità soggettiva a recepire le informazioni, ricordarle, raccordarle e riferirle coerentemente, capacità che deve presumersi, salvo specifiche situazioni atte a porla in dubbio; si prosegue con la valutazione dall’età del dichiarante e delle sue condizioni psichiche, giungendo alla disamina della credibilità soggettiva, onde verificare che quanto riferito non sia inquinato da situazioni in grado di alterare, più o meno consapevolmente, la genuinità del racconto. Successivamente, si procede col vaglio della attendibilità intrinseca, da intendere come capacità del racconto di offrire una rappresentazione quanto più logica possibile degli eventi evocati. L’ultimo tassello attiene a eventuali- melius, non necessari- riscontri esterni rispetto al narrato.
La circostanza, quest’ultima, per cui si tratti di riscontri esterni meramente “eventuali” va ricondotta alla tesi confermata e scolpita dai giudici di legittimità, a rigore della quale le dichiarazioni della persona offesa devono poter da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, si ribadisce ancora una volta, previa verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto.
3. Verso i (possibili) criteri di valutazione: il confine tra credibilità e sospetto intorno alle dichiarazioni rese. L’ascolto protetto delle vittime vulnerabili
Lungo la linea sottile che si frappone tra credibilità e fattori di sospetto, principaliter nei riguardi delle testimonianze “vulnerabili”, dove si colloca il “dubbio sull’attendibilità” che attanaglia il giudicante e, in generale, il giurista?
I potenziali dubbi sull’attendibilità di quanto narrato possono innanzitutto derivare dalla naturale e quasi fisiologica propensione del denunciante a esporre i fatti in modo tale da confermare i contenuti della precedente denuncia, anche nell’ottica di scongiurare conseguenze negative a cui normalmente si espongono i calunniatori.
Ben può accadere, inoltre, che i fatti denunciati siano il frutto di un errore commesso in buona fede ovvero che, sebbene il reato sussista, il denunciante involontariamente accusi un innocente a causa di un equivoco, di un errore percettivo o di un fenomeno di suggestione.
Concentrando nuovamente l’attenzione sul tema dell’attendibilità della persona offesa nel reato di violenza sessuale perpetrata su un minore, è evidente che allorquando la prova della fattispecie in esame è costituita in massima parte, se non esclusivamente, dalla parola di un minore, il rischio di un errore giudiziario o della colpevolizzazione di un innocente è di non poco momento. D’altronde, si vuol ribadire, ad oggi non sussiste alcun obbligo di seguire il protocollo della Carta di Noto nell’esame dei minorenni, non avendo alcun valore normativo e contenendo meri suggerimenti per il giudicante.
Può poi verificarsi che il racconto fornito dalla vittima di abuso sessuale non sia stato correttamente raccolto sì da determinare una pericolosa confusione tra quanto effettivamente percepito dal minore e quanto suggeritogli, anche inconsapevolmente, dal soggetto interrogante. Del resto, se come si è detto i minori sono naturalmente portatori di un alto grado di suggestionabilità, allora si rende imprescindibile l’uso di una particolare cautela e attenzione nelle modalità con cui si interrogano gli stessi, i quali potrebbero essere inconsciamente indotti a fornire risposte assecondanti sebbene lontane dalla realtà dei fatti accaduti.
Ugualmente, il minore interrogato sugli abusi potrebbe incorrere, data l’età e l’asserita suggestionabilità, nella difficoltà di distinguere le sue menzogne incoscienti da quelle coscienti, talvolta per catturare l’attenzione dei presenti.
Non v’è dubbio, in una prospettiva di più ampio respiro, che la valutazione giuridica di attendibilità e credibilità intorno alle dichiarazioni rese dalle persone offese dal reato dovrebbe occupare lo spazio di un’ autonoma e attenta verifica che si avvalga tanto di elementi concreti rapportati al “caso per caso” quanto di parametri generali di riferimento come la spontaneità, la linearità, l’affidabilità e la plausibilità del racconto riferito della vittima, la coerenza e la completezza della narrazione (o al contrario la contraddittorietà ed illogicità di quanto esposto), la capacità di riportare fedelmente alla memoria i ricordi e di riviverli al momento dell’escussione, la verosimiglianza delle giustificazioni addotte. Né deve trascurarsi il modo in cui si depone, proprio perché, essendo meno padroneggiabile delle espressioni verbali, può costituire un prezioso fattore rivelatore, una sorta di linguaggio secondario.
Il 20 gennaio 2015 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che, in attuazione della direttiva europea n. 29 del 25 ottobre 2012, ha introdotto nel sistema penale alcune norme in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
Precipuamente, il decreto legislativo n. 212/2015 ha apportato alcune importanti modifiche al codice di procedura penale idonee a rafforzare la posizione processuale e procedimentale della persona offesa durante la sua audizione, riconoscendo un effettivo status di vittima del reato e fornendo un efficace strumentario per tutelarne la partecipazione consapevole all’interno del procedimento-processo penale.
Per quel che rileva, una notevole innovazione apportata riguarda le modalità effettive di partecipazione al processo della persona offesa, con particolare riferimento alle vittime c.d. “vulnerabili”. È stato introdotto in tale direzione il nuovo art. 90 quater c.p.p., che definisce una serie di parametri soggettivi ed oggettivi tesi a stabilire se la persona offesa versi in una condizione di particolare vulnerabilità.
Tale condizione, secondo la disposizione, andrebbe desunta “oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”.
L’intento perseguito dal legislatore è radicato nella volontà di proteggere la vittima vulnerabile da interferenze esterne e contatti con l’autore del reato e di assicurare le sue dichiarazioni al procedimento in modo garantito e genuino. Questo scopo di garanzia è realizzato mediante la previsione di particolari cautele per la vittima vulnerabile in fase di audizione, durante le indagini, in incidente probatorio ovvero durante il dibattimento.
L’aspetto rivoluzionario risiede nella circostanza per cui si tratta di cautele già previste per l’acquisizione delle informazioni e delle testimonianze nei confronti di minori, nel caso in cui si proceda per determinati reati, come maltrattamenti e reati sessuali, e che qui vengono volutamente estese anche alla vittima considerata “particolarmente vulnerabile” secondo i parametri suesposti.
Per quanto attiene alla fase delle indagini preliminari, l’intervento ha investito gli artt. 351 comma 1-ter e 362 comma 1 bis c.p.p. prevedendo che la polizia giudiziaria o il pubblico ministero, nell’ assumere sommarie informazioni da una vittima “particolarmente vulnerabile”, anche maggiorenne, possano avvalersi di un esperto in psicologia o psichiatria. I medesimi organi, inoltre, devono assicurare che la persona offesa particolarmente vulnerabile, una volta sentita, non abbia contatti con l’indagato e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salvo il caso di assoluta necessità per le indagini. La volontà di evitare che la vittima sia chiamata più volte a rendere informazioni sottolinea l’esigenza di evitare inutili ripetizioni dell’esame tanto per non causare ulteriori stress psicologici alla vittima quanto per non compromettere la genuinità e attendibilità delle dichiarazioni di questa.
Un ulteriore tassello innovativo è stato posto in materia di incidente probatorio, ove il decreto legislativo in esame ha integrato l’art. 392 comma 1 bis c.p.p., estendendo la possibilità di ricorrere a tale istituto quando la persona offesa versi in condizione di particolare vulnerabilità, anche al di fuori dei limiti rigorosi di cui al comma 1 del medesimo articolo, limiti caratterizzati, ad esempio, dal rischio dell’impossibilità di escussione in dibattimento, dall’esposizione a violenza o minacce. Per quanto riguarda le precise modalità di conduzione dell’esame in incidente probatorio della persona offesa-vulnerabile, è stato aggiunto all’art. 398 c.p.p. il nuovo comma 5 quater che dispone l’adozione di modalità protette, come ad esempio l’esame schermato dal vetro specchio.
La rivoluzione intervenuta in sede di incidente probatorio, volta a rendere più agevole l’utilizzo di tale strumento da parte dei soggetti che versino in condizione di particolare vulnerabilità, ha trovato consistente applicazione giurisprudenziale negli ultimi anni, come verificatosi ad esempio in sede di legittimità con la Cassazione del 16 maggio 2019, n. 34091.
Circa l’esame della vittima in dibattimento, è stato in primis modificato l’art. 190 bis c.p.p., disposizione che costituisce una deroga al principio fondamentale di oralità della prova nel dibattimento, prevedendo che, in alcuni casi specifici- trattandosi di delitti di associazione a delinquere e/o di stampo mafioso- l’esame di testimoni o persone imputate in altri procedimenti connessi che abbiano già reso dichiarazioni sia ammissibile “solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze” . Tale limitazione, valevole altresì in favore del minore di anni sedici, qualora si tratti di procedimenti relativi a reati sessuali e di pedofilia, a seguito della riforma, è oggi estesa anche alle persone offese che versino in condizione di particolare vulnerabilità.
Il d.lgs. 212/2015 ha infine modificato incisivamente l’art. 498 comma 4-quater c.p.p., relativo all’esame dibattimentale della persona offesa che versi in condizione di particolare vulnerabilità, prevedendo la possibilità che esso avvenga con l’adozione di modalità protette qualunque sia il reato per cui si procede, vale a dire non solo per determinati tipi di delitti, tra cui il reato di maltrattamenti e alcuni reati sessuali, come era invece in precedenza.
Le novità introdotte dal d.lgs. 212/2015, per il tramite dell’applicazione pretoria che ne ha fatto seguito anche in sede di giurisprudenza di legittimità, rappresentano un deciso passo in avanti nella riconosciuta valorizzazione dello status di vittima del reato e, soprattutto, nella tutela della stessa tanto nel processo quanto in fase di indagini preliminari, altresì attraverso la previsione di una completezza delle informazioni da rivolgere alla persona offesa relativamente ai propri diritti e facoltà.
Il legame di questa consapevolezza giuridica col tema dell’attendibilità delle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa è immediato: è evidente come un’attenta tutela della vittima del reato, garantendo una più genuina dichiarazione promanante dalla medesima, sia in grado di meglio assicurare la credibilità del suo racconto.
Ad oggi, quella dell’attendibilità rappresenta una valutazione complessa ma irrinunciabile, se non si vuole incorrere nel rischio di attribuire cieca credibilità alla persona offesa “in quanto tale”. Per converso, un’analisi superficiale e riduttiva di tale aspetto varrebbe a ignorare quelle che sono ragioni di dubbio invalicabili perché riconducibili ad un soggetto ex ante interessato a far valere la colpevolezza del suo antagonista naturale.
La necessità che un esame intorno alla attendibilità delle prove dichiarative rese dalle (assunte) vittime sia urgente e non rinunciabile rappresenta una presa di coscienza giuridica che, lungi dal condannare la persona offesa ad una “sfiducia a monte”, intende invece tutelare la genuinità del suo racconto e far valere la verità processuale. A conferma di ciò, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 115, già nel 1992 aveva sottolineato con forza che la rinuncia a priori al contributo probatorio della parte civile costituirebbe un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale.
Se quanto detto è vero, allora non si tratterebbe di rinunciare ai risultati della deposizione della persona offesa, bensì di ridimensionarne notevolmente l’attuale peso riconosciuto dalla giurisprudenza “creativa”, di riconoscerne i limiti, di comprendere come la verità nelle aule di giustizia sia un risultato tutt’altro che scontato.
Del resto, più che mai attuale è la visione di George Orwell, per cui “in tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.”
Riferimenti bibliografici:
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Riferimenti giurisprudenziali:
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7. Cass., Sez. VI, sentenza del 13 maggio 2015, n. 31309;
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9. Cass., Sez. III, sentenza dell’11 ottobre 2016, n. 648;
10. mCass., Sez. III, sentenza del 16 maggio 2017, n. 41593;
11. Cass., Sez. III, sentenza del 10 ottobre 2017, n. 46464;
12. Cass., Sez. III, sentenza del 12 ottobre 2018, n. 46218;
13. Cass., Sez. Un., sentenza del 28 gennaio 2019, n. 14426;
14. Cass., Sez. III., sentenza del 20 marzo 2019, n. 12250;
15. Cass., sez. III, sentenza del 16 maggio 2019, n. 34091;
16. Cass., Sez. Un., sentenza del 22 maggio 2019, n. 22533;
17. Cass., Sez. VI, sentenza dell’11 giugno 2019, n. 15620;
18. Cass., Sez. I, sentenza del 6 marzo 2020, n. 13016.
Le parole di Papa Francesco sugli omosessuali e le premesse di una rivoluzione copernicana
di Marco Gattuso
1. Hanno avuto vasta eco (dall’apertura del New York Times on line in giù) le parole di Papa Francesco riportate in un documentario presentato alla Festa di Roma il 23 ottobre u.s., a firma del regista Evgeny Afineevsky, ove il pontefice afferma che «quello che dobbiamo fare è una legge sulle unioni civili; hanno diritto di essere protetti legalmente»[1]. La stampa ha pure riportato che tra i momenti più toccanti del film vi è la telefonata del Papa a una coppia di papà di tre bambini nati con maternità surrogata in Canada, in risposta a una lettera in cui lamentavano il clima di pregiudizio che coinvolge anche i loro figli, in cui Bergoglio li ha rassicurati che «superando eventuali pregiudizi i bimbi vanno accolti come tutti gli altri».
Nel corso del suo pontificato le posizioni espresse nei documenti ufficiali non sono cambiate, ma a me pare che già a partire dal celebre “chi sono io per giudicare un gay?” (era il 2013) e sino alla telefonata ai due papà, questo Pontefice abbia voluto mostrare, oltre che una straordinaria disponibilità al confronto, il proposito di un progressivo riposizionamento della Chiesa, seppure coi tempi propri di una istituzione millenaria. Sono passati meno di quindici anni dai duri attacchi della CEI alla proposta di legge sul modello dei pacs francesi (Sarkozy definì «sconvolgente» la posizione vaticana) ma non era passato inosservato, nel 2015-2016, il malcelato scetticismo rispetto agli annunciati “moti di popolo” contro la legge Cirinnà, tradottisi in un Circo Massimo semivuoto per il cd. family day (cui la Chiesa ufficiale in effetti contribuì assai poco). Com’era da attendersi, le nuove parole del Papa sono state ora accolte con immenso sollievo e commozione da milioni di omosessuali credenti (e dai loro genitori, parenti, amici), suscitando per altro verso scetticismo nel fronte più laico e violenti attacchi dalle frange più conservatrici del mondo cattolico, sino alla loro “interpretazione autentica” nel “breve scritto esplicativo” della Segreteria di Stato, di cui si è avuta notizia il 2 novembre, nel quale viene sottolineato che le parole sono state pronunciate in risposta alla domanda sull’apertura del matrimonio avvenuta nel 2010 in Argentina, quando Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires, per cui permane l’assoluta contrarietà della Chiesa[2].
A prescindere da tali precisazioni, mi pare che le affermazioni sopra menzionate meritino comunque qualche riflessione anche su una Rivista propriamente giuridica (sicché ho accolto ben volentieri l’invito a una breve nota), non tanto perché riferite proprio al terreno del diritto positivo, quanto perché segnalano, a mio avviso, che anche la Chiesa romana avverte ormai l’inesorabile tramonto del paradigma della devianza, su cui si è fondata e si fonda tutt’ora la discriminazione giuridica delle persone omosessuali, e il passaggio invece al nuovo paradigma della neutralità dell’orientamento sessuale, che io credo susciti nuovi interrogativi sulla tenuta del principio di eguaglianza.
2. Nello stesso anno in cui l’Argentina approvava la Ley de matrimonio igualitario (15/7/2010) fui invitato a partecipare a un “seminario preventivo” organizzato come ogni anno dall’Università di Ferrara in preparazione di un caso che di lì a poco sarebbe stato discusso dalla nostra Corte costituzionale[3]: si trattava della questione di legittimità del divieto di matrimonio per le persone omosessuali (che i giudici a quo trassero da una norma «priva di disposizione»[4] ma fondata su «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio»[5]) e nel corso di quell’appassionata discussione (era il tempo in cui duecento giuristi potevano riunirsi in una meravigliosa aula del ‘400 per chiacchierare amabilmente di diritto senza timore di contagi…) ebbi modo di rilevare come la “questione omosessuale” necessitasse di una riflessione, prima ancora che sui suoi termini squisitamente giuridici, sui suoi presupposti culturali, ideologici, e a volte religiosi, spesso celati nelle motivazioni dei giudici.
Osservai, in quel breve intervento di soli otto minuti (tanti ne venivano concessi a ogni partecipante!), come riguardo all’omosessualità stessimo assistendo a un mutamento di paradigma, secondo la nota definizione kuhniana[6] riferita alla storia della Scienza, ma applicabile anche al nostro campo. Come ci ha insegnato il grande epistemologo, la Scienza non procede sempre per accumulazione, come avviene quando viene scoperta una nuova stella o una nuova particella, ma procede a volte con improvvise rotture del precedente impianto di conoscenze, così da richiedere una vera e propria riorganizzazione del pensiero. Nel suo celebre saggio sulla rivoluzione copernicana[7], Thomas Kuhn indica un tratto caratteristico dei mutamenti di paradigma nella difficoltà per gli aderenti ai due paradigmi, quello passato e quello emergente, di comprendersi a vicenda. Richiama, molto a proposito, le immagini della psicologia della Gestalt, quelle, per intenderci, ove si può vedere un vaso o due profili di donna, ma mai le due immagini insieme, poiché necessitano d’una ricomposizione visiva, concettuale, una riorganizzazione cognitiva. Questo concetto è nodale, perché spiega per quale ragione sia tanto difficile la transizione da un paradigma all’altro, che richiede ogni volta che le parole assumano un nuovo significato, e spiega inoltre per quale ragione le tesi precedenti, per quanto sofisticate, appaiano polverose e vuote, addirittura ridicole, a chi appartiene al nuovo paradigma, così come le idee innovative appaiono indisponenti e paradossali a chi è ancora avvinto nell’atmosfera culturale del paradigma precedente.
Come la scienza, anche la storia del diritto ha conosciuto epocali mutamenti di paradigma. Quanti dotti testi sono stati scritti per spiegare razionalmente la superiorità – antropologica, naturale, d’origine divina – dell’uomo sulla donna? Basti rammentare la sofisticata idea di Antonio Cicu della famiglia come Istituzione, un piccolo Stato, che come ogni istituzione ha bisogno d’un Capo, che la tradizione indica, ovviamente, nell’uomo. Persino nel dibattito in assemblea costituente non si mancò di evocare una «Legge armonica dell’Universo intesa a determinare secondo un criterio naturale la supremazia del marito sulla moglie»[8] e in effetti la moglie secondo l’art. 144 c.c. fu soggetta sino agli anni settanta all’indirizzo stabilito dall’uomo. Espressioni che subito dopo apparirono assurde, persino ridicole. Analogo mutamento di paradigma si è avuto con la questione razziale: nella nota sentenza sui matrimoni interrazziali (una questione analoga e speculare a quella del matrimonio fra persone dello stesso sesso), la Corte suprema della Virginia scrisse nel 1965 che la divisione delle razze è nella natura delle cose, che tutta la tradizione umana non aveva mai conosciuto matrimoni misti, richiamando addirittura un disegno divino di separazione dell’umanità in razze. Il carattere relativo e transeunte di tali argomenti fu poi svelato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, che rimosse di lì a poco il divieto con la celebre affermazione che «la libertà di sposarsi è riconosciuta da tempo come uno dei diritti personali essenziali per la ricerca della felicità»[9].
Anche sulla questione omosessuale è oggi in corso, com’è evidente, un mutamento di paradigma. Da una concezione, anche scientifica, dell’omosessualità come patologia e devianza, contestata dal primo movimento omosessuale nella Germania di Weimar (stroncato dalla deportazione nazista) e poi dai nuovi movimenti nel dopoguerra sino alla clamorosa rivolta dello Stonewall nel 1969, siamo infine giunti alla memorabile Dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 maggio 1990, con cui la Scienza Ufficiale (la Scienza normale, direbbe Kuhn!) ha sancito che si tratta di una variante del comportamento umano. Quindi, sono intervenuti sempre più testi legislativi che hanno sancito la necessaria parità tra la condizione eterosessuale e omosessuale e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea l’orientamento sessuale è stato menzionato, all’art. 21, insieme al sesso, alla razza, al colore della pelle o all’origine etnica fra i tratti della persona che non possono condurre a discriminazioni.
3. Le ultime parole del Papa mi pare che segnalino, in modo ormai univoco, il lento distacco della stessa Chiesa romana, persino lei, dal precedente paradigma della devianza, muovendo anch’essa verso l’idea di una condizione finalmente assunta come naturale.
Non è mio compito, né ne avrei le competenze, per proporre qui una esegesi delle parole del Papa, le quali vanno pure collocate nel contesto in cui sono state espresse, ma l’affermazione a favore di una legge che tuteli le coppie dello stesso sesso, congiunta alla sottolineatura che le persone hanno il diritto di essere protette legalmente mi pare rappresenti il segno di una profonda incrinatura del vecchio paradigma della colpevolizzazione delle persone omosessuali, dando conto dell’ammissione da parte del Pontefice che la relazione d’amore merita riconoscimento morale e, per conseguenza, protezione giuridica. Mi pare che affermando che le persone omosessuali hanno il diritto di essere protette, anche quando esprimono il desiderio di formalizzare il rapporto di coppia, il Pontefice rilevi implicitamente che l’orientamento sessuale rappresenta un oggettivo tratto della personalità di cui occorre prendere atto. Non mi pare rilevante se il Papa sia giunto a tale conclusione per contrastare il progetto di legge argentino di apertura del matrimonio, o se la pubblicità tardiva di tali parole rientri in un qualche disegno di chi, dentro la Chiesa, osteggia il Pontefice, come si è pure detto. Mi pare infatti che resti in ogni caso il segno di un tangibile spostamento nella posizione della Chiesa, perché perde di consistenza, finalmente, l’idea dell’omosessuale in qualche modo “nemico” del progetto divino di famiglia. La frase del Papa sottintende, direi finalmente, che l’orientamento omosessuale non è frutto di una scelta, colpevolmente assunta da chi vuole allontanarsi da Dio, ma rappresenta una oggettiva caratteristica umana, una sua variante naturale, che merita rispetto e tutela. La persona omosessuale non fa in effetti alcuna scelta, ma semplicemente è omosessuale. Come chi ha gli occhi verdi, i capelli castani o una certa propensione per la matematica.
Viene così affrontato e forse definitivamente sciolto, anche dal Papa, un nodo, forse il più ambiguo, della questione omosessuale: la sua erronea collocazione nell’ambito delle questioni etiche o, peggio ancora, del mutamento dei costumi. Se da un punto di vista storico è innegabile che il mutamento scientifico sia stato indotto dai profondi rivolgimenti sociali e di costume degli anni sessanta e settanta (si rilegga ancora una volta Kuhn sull’indissolubile nesso fra evoluzione culturale e scientifica), una volta appurato che l’orientamento sessuale (etero, bi, omo) è un tratto neutro della persona, come il colore della pelle, appare allora manifesto come la questione omosessuale, da un punto di vista giuridico, non abbia nulla a che fare con i cambiamenti del costume, del comune senso del pudore, degli atteggiamenti dell’opinione pubblica rispetto alla sessualità, ma si iscriva nell’ambito del diritto di una minoranza di non essere giuridicamente discriminata. Non una questione di libertà (sessuale), ma di eguaglianza.
Non sono ovviamente in grado di valutare, né interessano in questa sede, le conseguenze teologiche (in particolare come tali parole si concilino col tradizionale invito a condurre una vita casta e priva di qualsiasi relazione d’amore), certo è interessante che nella successiva “nota esplicativa” il Vaticano si spinga a dire che è «pertanto evidente che papa Francesco si sia riferito a determinate disposizioni statali, non certo alla dottrina della Chiesa, numerose volte ribadita nel corso degli anni», atteso che se è indubbio che tale chiarimento è volto evidentemente a mitigare l’effetto dirompente delle sue parole, l’argomento usato è sottile e al contempo seducente, perché conduce a tenere distinto, formalmente, il piano del sacramento canonico da quello degli istituti di diritto positivo. A quasi cinquant’anni dal referendum sul divorzio, sostenuto dalle gerarchie, sembra emergere l’ammissione che gli istituti giuridici (forse anche il matrimonio civile, non più indissolubile), aventi efficacia per tutta la collettività, non debbono necessariamente rispecchiare la dottrina della Chiesa, che è riferita ai sacramenti (fra cui il matrimonio canonico), i quali interessano chi è parte del popolo di Dio.
4. Sin qui il Papa. Ma le riflessioni sul mutamento di paradigma, riscontrato anche nelle parole del Pontefice, mi inducono a qualche ulteriore riflessione sui prevedibili scenari all’orizzonte.
Ricordiamo tutti com’è finita la questione di incostituzionalità nel 2010: la Corte italiana con la sentenza n. 138 negò che il divieto di matrimonio fosse incostituzionale e al contempo invitò il Legislatore a provvedere[10]. E questi, in effetti, sei anni dopo provvide, con iter combattutissimo, a promulgare la legge n. 76/2016 istitutiva della unione civile fra persone dello stesso sesso.
La legge n. 76/2016, fra pregi e difetti, luci e ombre, ha messo in moto un profondo processo culturale: migliaia di coppie si sono “sposate”, con liberatorie cerimonie in municipio, circondate da genitori commossi, parenti e amici festanti; i mezzi di comunicazione ci hanno rimandato l’immagine di una società in movimento, con migliaia di ragazze e ragazzi che fanno coming out già a scuola, gente che dichiara con naturalezza la propria omosessualità in pubblico e in tv, genitori finalmente meno preoccupati per il futuro dei loro figli gay o lesbiche. La legge ha contribuito a diffondere una maggiore accettazione sociale e, spesso, persino un sentimento di affettuosa condivisione. A tale cambiamento ha corrisposto, tuttavia, un incremento esponenziale dei crimini e dei discorsi di odio: la cronaca ci riferisce un aumento preoccupante dei pestaggi, minacce, assalti e persino omicidi di persone che, finalmente, hanno trovato il coraggio di vivere apertamente le proprie relazioni d’amore. L’Italia, nel 2020, è un paese dove può essere molto pericoloso persino tenersi per mano con la persona con cui si è legittimamente uniti. Il mutamento di clima e la stessa legge Cirinnà hanno smosso sentimenti di odio e chi cova il pregiudizio trova oggi ragioni in più per uscire allo scoperto. La frustrazione economica e sociale in un periodo di crisi si riversa contro chi viene avvertito come soggetto più debole e, comunque, ancora socialmente e giuridicamente non pienamente uguale. Inoltre, la mancata parificazione si riverbera anche sui figli delle coppie gay e lesbiche (ormai migliaia anche in Italia), perché resta ancora irrisolta la questione del loro riconoscimento, abbandonata dal legislatore in un limbo. Bambini cui la giurisprudenza italiana continua a negare, salvo che in alcune illuminate decisioni di merito, una protezione uguale a quella assicurata ai figli delle coppie eterosessuali (con un caso, direi da manuale, di discriminazione per associazione). Siamo dunque in mezzo al guado e il mutamento non può dirsi compiuto.
Nel 2010 la Corte costituzionale rinviò, sostanzialmente, al legislatore, assumendo che non emergessero ancora elementi tali da ritenere superata la tradizionale nozione di matrimonio come unione fra uomo e donna. Anche successivamente la Consulta, seguita dalla Corte di cassazione, in materia di filiazione ha ripetuto che il compito di adeguare l’ordinamento spetterebbe al legislatore e non al giudice. Si è arrivati a negare ai bambini già nati una protezione uguale a quella garantita ai figli delle coppie eterosessuali sull’assunto che spetti al legislatore assicurare al minore «le migliori condizioni di partenza»[11], che «alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale» sarebbe ragionevole ritenere meglio garantite in una famiglia eterosessuale, così contraddicendo le conclusioni cui è giunta unanimemente la scienza ufficiale, il cui richiamo nelle sentenze è infatti completamente omesso[12]. Il rinvio al quisque de populo, anziché alla scienza, persino nel giudizio sull’interesse del minore è quanto mai opaco e finisce col riprodurre, e amplificare, il pregiudizio.
Il rimpallo al legislatore potrebbe apparire, forse, ragionevole (o, al più, potrebbe configurare un commodus discessus in questioni politicamente spinose) se fossero in gioco vicende che attengono al costume o a scelte etiche. Mutato il paradigma, e divenuta la questione omosessuale questione di trattamento giuridico di una minoranza e di eguaglianza formale, è invece assai dubbio che il giudice possa rinviare alla volontà della maggioranza (che cosa avremmo pensato se nel 1967 la Corte Suprema avesse rinviato i matrimoni interrazziali alla discrezionalità del legislatore, allora dominato da una maggioranza bianca e razzista?).
Ovviamente molto al di là delle intenzioni del Pontefice, che muove senz’altro dalla strenua difesa della nozione tradizionale di matrimonio e le cui parole sono soltanto un ulteriore, potentissimo, indice che il mutamento scientifico del 1990 ha scavato in profondità, il passaggio al nuovo paradigma impone a mio avviso risposte nuove.
Com’è noto, nel 2020 l’Italia è l’unico grande paese occidentale a mantenere il divieto di matrimonio e, in particolare, proprio i grandi paesi cattolici hanno rimosso da diversi anni il divieto di sposarsi per le persone omosessuali (Spagna, Francia, Belgio, Irlanda, Austria, Portogallo, Malta, Argentina, Brasile, Messico, Colombia, Costa Rica, Uruguay)[13]. Nella cattolicissima e conservatrice Austria, a fronte dell’inerzia del legislatore il divieto è stato rimosso nel 2017 dalla Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità delle norme del codice civile che negavano agli omosessuali l’accesso al matrimonio e agli eterosessuali l’accesso all’unione civile[14].
Anche nel nostro ordinamento è già pacifico che la parola “matrimonio” non incorpori più assiologicamente la diversità di genere, come riconosciuto espressamente dalla stessa Cassazione nel 2012[15], e anche nel nostro ordinamento, dopo la legge Cirinnà, la nozione di “famiglia” non rimanda più solo all’unione fra uomo e donna[16]. Le parole hanno assunto, dunque, un nuovo significato.
Entra allora in gioco, a mio avviso, non solo il principio di eguaglianza formale di cui all’art. 3 ma lo stesso art. 29 della Costituzione, robusta garanzia voluta dai Costituenti proprio per difendere da impostazioni ideologiche quanto ognuno di noi ha di più intimo e umano: le nostre relazioni d’amore, con la nostra compagna o compagno e con i nostri bambini[17].
[1] Nel testo in spagnolo: «lo que tenemos que hacer es una ley de convivencia civil; tienen derecho a estar cubiertos legalmente». Non pare scorretto che la stampa italiana abbia tradotto “convivencia” con “unione” trattandosi dei due termini usati nei diversi contesti per indicare una legge riservata alle coppie omosessuali.
[2] In tale “scritto esplicativo” si precisa inoltre che altre dichiarazioni contenute nel documentario («le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo») non sono una novità in quanto sono riferite, com’era peraltro evidente, alla necessità per le famiglie di non bandire i figli omosessuali. Le stesse sono state tuttavia montate dal regista russo insieme a quelle sulle “unioni civili”, creando confusione, nonostante fossero state rese in un altro momento dell’intervista (la quale era stata già trasmessa nel giugno 2019 dal canale televisivo messicano Televisa, curiosamente senza i passaggi ora inclusi nel documentario).
[3] Gli atti sono stati raccolti in La «società naturale» ed i suoi “nemici”. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, a cura di Bin, Brunelli, Guazzarotti, Pugiotto, Veronesi, Torino 2010.
[4] Ferrando, Questo matrimonio non si può fare? in La «società naturale» ed i suoi “nemici”, cit., pag. 155.
[5] È l’espressione utilizzata nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, 3/4/2009, in Resp. civ. e prev. 2009, 1905, con nota Ferrando, e in Nuova Giur. Civ. Comm. 2009, 911 con nota Buffone.
[6] Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1962.
[7] Kuhn, La rivoluzione copernicana, Torino, Einaudi, 1972
[8] Cesario Rodi in Atti dell’Assemblea Costituente, 2958-2959.
[9] Loving v Virginia, 12 giugno 1967.
[10] In Foro it. 2010, parte I, 1367 con nota Dal Canto, e Romboli e in Fam. Dir. 2010, 653, con nota Gattuso.
[11] Corte di cassazione, 7668/2020: «non è, perciò, irragionevole [...] che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni "di partenza"».
[12] Come ricordato dall’Associazione Italiana di Psicologia nel 2014, in risposta ad affermazioni di analogo tenore dell’allora Ministro della Salute Lorenzin, per cui sarebbe ragionevole assumere che i bambini siano meglio garantiti con genitori di sesso diverso: «Tali asserzioni sono prive di fondamento empirico e disconoscono quanto appurato dalla ricerca scientifica internazionale, a partire da studi avviati ormai quarant’anni fa. Sull’argomento le più rappresentative società scientifiche si sono espresse in modo inequivocabile. (...) Su questi temi la comunità scientifica è unanime. L’Associazione Italiana di Psicologia ancora una volta invita i responsabili delle istituzioni politiche a tenere in considerazione i risultati che la ricerca scientifica ha prodotto e messo a disposizione della società e si facciano promotori del rispetto delle persone e della corretta divulgazione scientifica evitando di esprimere asserzioni infondate che hanno il solo risultato di rinforzare i pregiudizi e danneggiare le famiglie mono-genitoriali, le coppie omosessuali e soprattutto i loro bambini»; Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, 2014: «Non è certamente la doppia genitorialità a garantire uno sviluppo equilibrato e sereno dei bambini, ma la qualità delle relazioni affettive. Da tempo infatti la letteratura scientifica e le ricerche in quest’ambito sono concordi nell’affermare che il sano ed armonioso sviluppo dei bambini e delle bambine, all’interno delle famiglie omogenitoriali, non risulta in alcun modo pregiudicato o compromesso». Cosi da decenni gli statements ufficiali delle associazioni di psicologi, psicoanalisti, pediatri: American Psychological Association (2005): «non un solo studio dimostra che i figli di genitori gay e lesbiche siano in qualche modo svantaggiati rispetto ai figli di coppie eterosessuali»; American Psychoanalytic Association (2002/2012): «interesse del bambino è sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di cure e di responsabilità educative» e «la valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale»; American Academy of Pediatrics (2006): «i risultati delle ricerche dimostrano che bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso si sviluppano come quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Più di venticinque anni di ricerche documentano che non c’è una relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino. Questi dati dimostrano che un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corre alcun rischio specifico. Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, possono essere ottimi genitori».
[13] Oltre a quelli citati nel testo, fra i paesi non ha maggioranza cattolica hanno rimosso il divieto: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Olanda, Lussemburgo, Islanda, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Australia, Nuova Zelanda, Taiwan, Sud Africa.
[14] Verfassungsgericht Oesterreich, 4/12/2017, reperibile in Articolo29.it.
[15] Corte di cassazione, 4184/2012, in Foro it. 2012, I, 2727 con nota Romboli, e in Fam. dir. 2012, 7, 665 con nota Gattuso.
[16] L’art. 1, comma 36 fornisce infatti una definizione di famiglia di fatto che abbraccia le coppie etero e omosessuali: «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».
[17] L’analisi dei lavori preparatori rileva come la norma fosse stata concepita proprio contro le ingerenze già patite dalla libertà matrimoniale durante il fascismo, quando «il legislatore approfittando del silenzio dello Statuto Albertino in ordine alla famiglia … ha fatto divieto per esempio agli ebrei di sposarsi in terra italiana, ha stabilito divieti di nozze con stranieri» (relaz. di maggioranza, Atti dell’Assemblea Costituente p. 3227).
L’omo-transfobia diventa reato: la Camera dà il via libera - B. Liberali, A. Schillaci, L. Goisis e G. Dodaro -
Forum a cura di Corrado Caruso e Vincenzo Militello
Al crocevia del delicato confronto fra tutela delle condizioni personali da forme di discriminazione e rispetto della libertà di espressione, e intervenendo in una materia dove l’aspirazione alla determinatezza delle condotte penalmente illecite si scontra con notevoli problemi di sottostanti intese socio-valutative ampiamente condivise, l’approvazione alla Camera, lo scorso 4 novembre, del testo che contrasta le svariate forme che possono dare volto alle discriminazioni anche violente nei confronti di persone Lgbt e con disabilità rappresenta un importante passaggio in un dibattito politico-giuridico avviato da più legislature.
L’occasione è sembrata opportuna per stimolare una riflessione aggiornata da parte di studiosi che, da prospettive tanto costituzionalistica - Benedetta Liberali e Angelo Schillaci - quanto penalistica - Luciana Goisis e Giandomenico Dodaro -, hanno variamente già incrociato le questioni sul tappeto. Le diverse prese di posizione che seguono concordano sull’importanza sotto molteplici profili delle prospettate modifiche, che allineano il nostro ordinamento al contesto sovranazionale ed internazionale e in qualche caso (come in relazione alla tutela nei confronti della disabilità) lo fanno risaltare rispetto ad altre soluzioni nazionali, pur senza tacere delle incognite di interventi normativi che ampliano le possibili accezioni della nozione di discriminazione, specie se corredate dall’intervento del diritto penale.
C.C. e V.M.
[in coda il forum in formato pdf ed il ddl approvato alla Camera]
Benedetta Liberali
Sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere nei nuovi artt. 604-bis e 604-ter c.p.: una questione (non solo) definitoria
1. Con la modifica degli artt. 604-bis (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa) e 604-ter (Circostanza aggravante) c.p. approvata nel testo unificato di diverse proposte di legge dalla Camera dei Deputati il 4 novembre 2020 (AA.C. 107, 569, 868, 2171 e 2255) e trasmesso al Senato della Repubblica (A.S. 2005) si intendono prevenire e contrastare condotte di discriminazione e di violenza “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”.
In particolare, viene inserito il riferimento a queste nozioni nella prima disposizione, laddove prevede il reato di istigazione alla discriminazione o di discriminazione e il reato di istigazione alla commissione o di commissione di atti di violenza o provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oltre che il divieto di ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia come scopo l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, con conseguente modifica del titolo della rubrica (art. 2); mentre nella seconda si prevedono nuove circostanze aggravanti, per i reati punibili con pena diversa dall’ergastolo, che determina un aumento di pena fino alla metà, affiancando tali riferimenti alle finalità già ivi previste, ossia quelle di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3).
2. Nella prospettiva di verificare e individuare i profili di maggiore interesse dal punto di vista del diritto costituzionale di tali modifiche, che attengono innanzitutto al rispetto dei principi di determinatezza, di uguaglianza e di ragionevolezza, oltre che della libertà di manifestazione del pensiero, è necessario soffermarsi preliminarmente sulle nozioni di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, considerando che nella nostra Carta costituzionale vi è “solo” un espresso riferimento al “sesso”, oltre che alle generiche “condizioni personali” (art. 3, comma primo, Cost.), certamente idonee a ricomprendere anche quelle ultime nozioni, così come la “disabilità” (su cui si veda, da ultimo, G. Arconzo, I diritti delle persone con disabilità. Profili costituzionali, FrancoAngeli, Milano, 2020).
Con il termine “orientamento sessuale” si indica “la scelta del genere del partner nell’ambito della sfera erotico-affettiva” (E. Crivelli, La tutela dell’orientamento sessuale nella giurisprudenza interna ed europea, Edizioni scientifiche Italiane, Napoli, 2011, 6 s.). Si intende, quindi, fare riferimento alla “direzione dell’affettività e sessualità di un individuo, indipendentemente dal genere, maschile o femminile, a cui appartiene” (ibidem, 7), mentre l’identità sessuale ricomprende “sia la componente dell’orientamento sessuale, nella quale è qualificante la dimensione relazionale, sia quella dell’identità di genere” (ibidem, 7).
A questo proposito, e avendo riguardo alle due categorie di soggetti espressamente considerate nella relazione che accompagnava una delle prime proposte (AC 569), ossia le persone omosessuali e transessuali, occorre ricordare come più correttamente di identità sessuale si possa parlare in riferimento alle prime, che non aspirano ad appartenere a un sesso diverso da quello biologico, bensì a non essere discriminati per la scelta affettiva e sessuale di un partner di sesso uguale; mentre in relazione alle seconde sia maggiormente conferente il riferimento all’identità di genere, poiché esse mirano al riconoscimento di questa identità, sia dal punto di vista fisico sia da quello anagrafico (ibidem, 8).
In generale, quindi, certamente la locuzione “orientamento sessuale” “è per sua natura complessa dato che rappresenta il risultato dell’interazione multipla dei diversi significati assumibili dai due fattori che la compongono: orientamento affiancato a sessuale” (L. Calafà, Le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, in M. Barbera, (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, Milano, 2007, 177 s.). L’orientamento sessuale, infatti, “si riferisce, in termini astratti, alle preferenze o inclinazioni di una persona di ordine sessuale, mentre in termini concreti appare idoneo a contenere il riferimento a condotte, pratiche, espressioni o manifestazioni varie (fisiche, verbali e non verbali) di natura sessuale. Anche il termine sessuale ha una duplice connotazione indicando, nel contempo, «un’attrazione o una condotta affettiva ed erotica» così come il sesso o genere delle persone interessate” (ibidem, 178).
Occorre, invece, ulteriormente distinguere rispetto alle nozioni di “identità di genere” e “identità sessuale”, essendo la seconda riconducibile più direttamente all’orientamento sessuale, mentre la prima al mutamento di sesso. E, infatti, “Pur non negando che tra le due dimensioni esista una sorta di contiguità semantica e che anche la sessualità sia parte integrante dell’identità delle persone si preferisce, in ultima istanza, riservare la locuzione identità di genere alle sole questioni di mutamento di sesso, da donna a uomo e da uomo a donna” (ibidem, 179). In questa direzione, peraltro, è possibile ricomprenderle entrambe nella più ampia “identità personale” (sulla quale si veda A. Cerri, Identità personale, Enciclopedia giuridica Treccani, 1995).
A tale proposito, il testo unificato opportunamente inserisce in via esplicita le definizioni di sesso (da intendersi quale “sesso biologico o anagrafico”), di genere (ossia “qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”), di orientamento sessuale (inteso come “l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi”) e di identità di genere (ossia “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal- l’aver concluso un percorso di transizione”) (art. 1).
3. Dal punto di vista, dunque, del rispetto del principio di determinatezza della legge penale (art. 25 Cost., sul quale si rinvia a M. D’Amico, Il principio di determinatezza in materia penale fra teoria e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1998, 315 ss.), non sembrerebbero porsi profili problematici, soprattutto laddove si consideri che, al di là delle definizioni recate dalla stessa proposta di legge, non solo l’omosessualità e la transessualità sono termini ormai entrati nel linguaggio comune, ma anche (e soprattutto) che la Corte costituzionale ha avuto diverse occasioni per riconoscerne e valorizzarne il fondamento costituzionale.
Si pensi, innanzitutto, con riguardo al “fenomeno” del transessualismo (al riguardo si veda A. Lorenzetti, Diritti in transito. La condizione giuridica delle persone transessuali, FrancoAngeli, Milano, 2014), alle ben note decisioni nn. 98 del 1979 e 161 del 1985, alla legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) e, infine, ancora, al più recente intervento della Corte con la sentenza n. 221 del 2015.
Se con la decisione del 1979 (sulla quale si veda S. Bartole, Transessualismo e diritti inviolabili dell’uomo, in Giur. cost., 1979, 1178 ss.) la Corte non ritenne configurabile, da parte sua, un vero e proprio diritto inviolabile alla rettificazione del sesso, demandando ala legislatore ogni possibile regolamentazione in materia, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 164 la sentenza n. 161 del 1985 colloca in modo particolarmente significativo tale disciplina “nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”. Secondo la Corte il legislatore avrebbe fatto proprio un “concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato”, in cui acquisiscono rilievo non solo gli organi genitali esterni e primari, ma anche gli elementi psicologici e sociali, che concorrono a determinare una “concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando - poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa - il o i fattori dominanti”.
Significativo, peraltro, risulta il passaggio della motivazione in cui la Corte da un lato sottolinea che non può intendersi violato l’art. 2 Cost., nel momento in cui viene “assicurato a ciascuno il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità”, dall’altro che, di conseguenza, “gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscerlo, per dovere di solidarietà sociale”.
Nel 2015 la Corte respinge l’interpretazione della legge n. 164 che induceva a ritenere necessario, ai fini dell’ottenimento della sentenza di rettificazione del sesso, anche i trattamenti chirurgici altamente invasivi aventi a oggetto i caratteri sessuali primari. Questi ultimi, ad avviso del Giudice delle Leggi, costituiscono “solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali” e ciò costituisce il naturale “corollario di un’impostazione che − in coerenza con supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare […] il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere”. E, infatti, la stessa possibilità di rettificare il proprio sesso è configurabile “in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica”.
Con riguardo alle persone omosessuali, la Corte costituzionale con la sentenza n. 138 del 2010 (rispetto alla quale si vedano le considerazioni di M. D’Amico, Una decisione ambigua, in Notizie di Politeia, 2010, C, 85 ss.), pur non ritenendo di poter estendere loro il “diritto al matrimonio” (art. 29 Cost.), ha espressamente riconosciuto l’unione omosessuale quale formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost., “intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.
E, ancora, nella più recente sentenza n. 221 del 2019, pur non consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo alle coppie omosessuali femminili, la Corte ha tenuto a chiarire che tale decisione viene adottata “a prescindere dalla capacità […] della coppia omosessuale […] di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali”. Tale decisione, inoltre, è stata richiamata dalla più recente sentenza n. 230 del 2020, con cui si è sottolineato che, se “il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata”.
4. Le modifiche degli artt. 604-bis e 604-ter c.p., inoltre, consentono di soffermarsi su un ulteriore profilo che potrebbe risultare problematico, ossia quello del rispetto del principio di uguaglianza e, dunque, del divieto di discriminazione. In particolare, ci si potrebbe interrogare sulla possibile configurazione di una sorta di “discriminazione alla rovescia”, laddove si introduca, di fatto, una “tutela rafforzata di omosessuali e transessuali contro comportamenti motivati da omofobia o da transfobia” (E. Dolcini, Omofobia e legge penale. Note a margine di alcune recenti Proposte di legge, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2011, I, 24 ss.).
A una risposta negativa pare potersi pervenire innanzitutto se si considera che l’art. 3 Cost. vieta di introdurre discriminazioni irragionevoli, dovendosi al contrario prevedere trattamenti differenziati per situazioni che presentano elementi specifici tali da giustificarne, appunto, l’introduzione. In questa prospettiva, “la particolare vulnerabilità di una categoria di soggetti, ove sia empiricamente dimostrabile e venga in effetti dimostrata, rappresenta un sufficiente fondamento di ragionevolezza per una tutela rafforzata di quei soggetti” (ibidem).
In secondo luogo, e in ogni caso, occorre tenere conto che, in fondo, con le espressioni “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, per come esse sono state declinate nel testo approvato dalla Camera, ben si ricomprendono anche ulteriori “condizioni” attinenti alla sfera sessuale e, dunque, per esempio, anche quella eterosessuale, non ponendosi alcuna limitazione alle loro potenzialità interpretative in senso espansivo.
5. Un ultimo profilo che occorre segnalare attiene alla “scelta strutturale” di prevedere da un lato nuove e autonome fattispecie di reato e dall’altro circostanze aggravanti del trattamento sanzionatorio relativo a vigenti ipotesi delittuose. Tale profilo si collega strettamente a un’ulteriore possibile criticità, ossia quella relativa al rischio di introdurre nell’ordinamento reati di opinione che violino, evidentemente, la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Proprio rispetto alla scelta di introdurre una autonoma fattispecie di reato, infatti, si potrebbero paventare maggiori criticità, laddove in particolare le motivazioni connesse al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere (come anche alla disabilità) potrebbero condurre ad avvicinarsi al pericoloso crinale della punizione di manifestazioni del pensiero (al riguardo, si vedano le osservazioni di A. Pugiotto, Aporie, paradossi ed eterogenesi dei fini nel disegno di legge in materia di contrasto all’omofobia e alla transfobia, in GenIus, 2015, I, 6 ss.).
Al riguardo, però, occorre esaminare il tenore letterale della modifica dell’art. 604-bis c.p.
La disposizione vigente al suo primo comma prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. La proposta di modifica non sembra inserire i riferimenti al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità alla condotta di propaganda delle idee, ma “solo” a quelle di istigazione alla commissione o di commissione di atti di discriminazione, violenza e provocazione alla violenza. E così pure, se si considera la modifica relativa al divieto di “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, l’inserimento delle sopra citate nozioni si riferisce a condotte che devono pur sempre consistere in condotte di “incitamento” e, dunque, non di “mera manifestazione del pensiero”.
La proposta di modifica nel testo unificato approvato dalla Camera, peraltro, ha cura di specificare che è esclusa la responsabilità penale derivante dalla “libera espressione di convincimenti od opinioni”, così come dalle “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, sempre che esse non siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti” (art. 4).
Richiamando le considerazioni svolte sul necessario chiarimento delle nozioni di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”, si può, da ultimo, rilevare come resti particolarmente opportuna la stessa scelta del legislatore in questa direzione, anziché lo specifico riferimento alle (sole) omosessualità e transessualità (o omofobia e transfobia). E, all’interno di questa scelta, ancora, ci si potrebbe interrogare sulle motivazioni che hanno condotto il legislatore a fare riferimento nell’art. 604-bis c.p. ai “motivi” e nell’art. 604-ter c.p. alle “finalità” (a questo proposito si veda ancora E. Dolcini, cit., che si sofferma sulle possibili differenti scelte lessicali, richiamando le espressioni “Per finalità di”, “per motivi di” e “in ragione di”).
Angelo Schillaci
A metà del guado: la proposta di legge Zan, tra riconoscimento e solidarietà
1. Il testo in materia di prevenzione e contrasto delle discriminazioni e della violenza fondate su sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere – ora anche disabilità – approvato dalla Camera dei Deputati nella seduta del 4 novembre 2020 è il risultato dell’approvazione in testo unificato di diverse proposte di legge, avvenuta in Commissione Giustizia il 30 luglio 2020, a seguito di un serrato e approfondito confronto nella maggioranza, che ha visto il contributo anche di alcuni esponenti di forze di opposizione (e in particolare di una porzione del gruppo di Forza Italia).
Rispetto ai numerosi progetti di legge presentati e discussi nelle ultime legislature sul tema (a partire almeno dal 1996), la proposta di legge Zan si caratterizza per alcuni profili di sostanziale novità.
2. Anzitutto, essa affronta la questione del contrasto delle discriminazioni e della violenza di matrice misogina, omolesbobitransfobica e abilista rinunciando ad un approccio antidiscriminatorio di tipo soltanto episodico o occasionale – vale a dire, finalizzato a contenere o reprimere episodi di discriminazione e violenza una volta che essi si siano verificati – e scegliendo di intervenire anche sulle condizioni strutturali della discriminazione e della violenza, con misure di carattere preventivo, oltre che di concreto sostegno alle vittime. In questo quadro, la scelta di integrare le previsioni di cui agli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale appare soltanto come uno dei tasselli di una azione più comprensiva, in linea peraltro con il carattere sussidiario e residuale dell’intervento repressivo penale che ispira il nostro ordinamento. A ciò si aggiungono, infatti, specifici interventi – disciplinati dagli articoli 6, 7, 8 e 9 – che mirano a superare le condizioni strutturali e sistemiche della discriminazione e della violenza, con riferimento però alla sola matrice omolesbobitransfobica, per evitare sovrapposizioni con gli strumenti già previsti dall’ordinamento per la prevenzione della discriminazione e della violenza contro donne e persone con disabilità e per il sostegno delle vittime.
3. In secondo luogo, significativi elementi di novità si riscontrano anche in relazione alle modalità di intervento sul codice penale. La proposta di legge estende, come accennato, il novero delle condizioni personali protette dalle fattispecie penali introdotte dalla cd. legge Reale-Mancino (legge 13 ottobre 1975, n. 654, come modificata dal decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122) e successivamente confluite negli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale per effetto del decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21: attualmente, tali disposizioni reprimono – da un lato – la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e – dall’altro – l’istigazione al compimento e il compimento di atti discriminatori o violenti per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 604-bis c.p.) e aggravano altresì, fino alla metà, la pena prevista per altre fattispecie di reato se commesse per i medesimi motivi (art. 604-ter c.p.).
La proposta di legge estende alle condotte motivate da sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità esclusivamente le due fattispecie autonome di istigazione e compimento di atti discriminatori e violenti di cui all’art. 604-bis, e l’aggravante di cui all’art. 604-ter: la fattispecie di propaganda di idee resta pertanto circoscritta a quelle fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (e ciò è reso evidente, in modo particolare, dalla novella della rubrica dell’art. 604-bis, di cui all’art. 1 della proposta in esame). A differenza di quanto avvenuto in passato, dunque, per un verso la proposta di legge individua le condizioni personali protette, piuttosto che il movente represso (omotransfobia, misoginia o abilismo, ad esempio); per l’altro, non limita l’intervento alle condotte motivate da orientamento sessuale o identità di genere ma, recependo specifiche sollecitazioni emerse nel corso del ciclo di audizioni, lo ha esteso – fin dall’approvazione del testo unificato – alle condotte motivate dal sesso e dal genere e, nel passaggio d’Aula, anche dalla disabilità della vittima.
La scelta di enunciare le condizioni personali protette in luogo del movente del delitto è particolarmente significativa non solo dal punto di vista della tassatività della formulazione del precetto penale, ma anche ai fini di un inquadramento dell’intervento legislativo nella prospettiva del riconoscimento giuridico – e della conseguente protezione – di dimensioni della dignità personale ritenute ricche di valore e meritevoli di tutela. Non si è dunque in presenza – come pure è stato osservato nel dibattito pubblico – di una norma che crei una qualche forma di “privilegio” per “categorie” o “minoranze” protette, come dimostra anzitutto la formulazione della norma in termini neutri (qualunque sesso, qualunque genere, qualunque orientamento sessuale e qualunque identità di genere sono meritevoli di protezione): tutto al contrario, l’intervento legislativo in esame intende assicurare il riconoscimento giuridico di dimensioni di vita ed esperienza che, in un momento storico dato, sono apparse al legislatore come particolarmente vulnerabili (non in sé, ma in conseguenza di specifiche dinamiche socio-culturali) e meritevoli di protezione, anche in chiave di temperamento di quelle stesse dinamiche. Ciò risulta con particolare evidenza proprio in relazione all’introduzione della disabilità tra le condizioni personali protette: a differenza infatti dell’aggravante già prevista dall’articolo 36 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, la quale aggrava la pena prevista per taluni reati solo in virtù del fatto che gli stessi siano commessi ai danni di una persona con disabilità, sia la fattispecie autonoma di reato (art. 604-bis) che l’aggravante (art. 604-ter) configurano una tutela rafforzata, colpendo la lesione dello specifico valore ascritto alla condizione personale, nel caso di condotte motivate da quest’ultima.
4. A tale riguardo, deve poi osservarsi che – a seguito di una condizione specificamente posta dalla Commissione Affari costituzionali e dal Comitato per la legislazione nei pareri – l’Aula ha approvato un emendamento recante le definizioni delle condizioni personali protette, a esclusione della disabilità, che ritrova la propria definizione consolidata nell’articolo 1, comma 2, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18).
Tale integrazione si è resa necessaria per assicurare – come da rilievo delle Commissioni richiamate – il principio di tassatività della legge penale. Alla base dello sforzo definitorio vi è dunque la necessità di mantenere in equilibrio l’incidenza delle definizioni stesse su dinamiche di riconoscimento – e, dunque, il rischio di misconoscere specifiche dimensioni della dignità delle condizioni definite – e la specifica funzione delle definizioni medesime, che è quella di guidare il giudice nell’applicazione di norme destinate al contrasto delle discriminazioni e della violenza. Non è in questa sede possibile, per ragioni di spazio, diffondersi sulle singole definizioni: basti notare, a mo’ di esempio, che tale tensione è ben confermata dalla definizione prescelta per l’identità di genere. Una definizione che, da un lato, riprende la consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità sulla dimensione relazionale dell’identità di genere (si parla, infatti, di identificazione “percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso”) e dall’altro, in linea con quella stessa giurisprudenza, esclude la corrispondenza biunivoca tra il riconoscimento dell’identità di genere e la conclusione di un percorso di affermazione di genere: peraltro, l’uso del termine “percorso di transizione” in luogo di quello di procedimento di “rettificazione di attribuzione di sesso” (che è la dizione utilizzata dalla legge 14 aprile 1982, n. 164) consente di ritenere che il legislatore abbia inteso dare protezione anche a quelle situazioni di vita ed esperienza delle persone trans che – pur non avendo intrapreso il procedimento disciplinato dalla legge n. 164/1982 – abbiano tuttavia iniziato un percorso di affermazione del genere di elezione nella vita personale e di relazione.
L’Assemblea ha così dato risposta alla condizione formulata dalla I Commissione e dal Comitato per la legislazione, che invitavano a meglio definire i confini tra le condotte discriminatorie colpite dall’articolo 604-bis del codice penale: e in effetti, la disposizione definitoria approvata – opportunamente combinata con la definizione di atti discriminatori già contenuta nell’articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 (che riprende, a sua volta, le definizioni di discriminazione diretta e indiretta elaborate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE) – pare suscettibile di individuare in modo sufficientemente tassativo il perimetro di applicazione della fattispecie penale.
5. Strettamente collegato con l’inquadramento dell’intervento legislativo in esame nella prospettiva del riconoscimento di dimensioni della dignità è il profilo – assai dibattuto – della compatibilità tra la proposta integrazione dell’articolo 604-bis c.p. (in relazione alle due fattispecie di istigazione alla discriminazione e di istigazione alla violenza) e la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’articolo 21 della Costituzione, aspetto sul quale già si arenò la discussione su analoga proposta di legge nel corso della legislatura precedente.
Si tratta di un aspetto di sicuro rilievo, che evoca il tema più generale della convivenza tra diverse visioni del mondo e della vita nelle società pluralistiche, e al miglior modo di gestire la concorrenza tra di esse quando siano in gioco aspetti della dignità personale. Un tema peraltro già affrontato (e risolto), a ben vedere, dalla giurisprudenza interna e sovranazionale che, negli anni, si è fatta carico di individuare con sufficiente precisione il confine tra ambito dell’intervento penale, tutela della libertà di espressione e concorrente istanza di rispetto della dignità. Così, nella giurisprudenza costituzionale e ordinaria, è sufficiente richiamare le pronunce con le quali – in relazione alle fattispecie di istigazione in generale, e a quelle normate dalla cd. legge Reale-Mancino in particolare – si è correttamente ritenuto che la linea di confine tra libertà di espressione e condotte penalmente rilevanti sia da individuare nella idoneità delle opinioni espresse a determinare il concreto pericolo del compimento degli atti conseguenti (cfr. ad esempio ex multis C. cost., sent. n. 65/1970; Cass. pen., sez. I, 22 maggio 2015, n. 42727). Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo – ad esempio nei due recenti casi Lillendahl v. Islanda (12 maggio 2020, ric. n. 29297/18) e Beizaras and Levickas c. Lituania (14 gennaio 2020, ric. n. 41288/15), che riprendono peraltro l’orientamento già espresso in Vejdeland c. Svezia (9 febbraio 2012, ric. n. 1813/07) – ha chiaramente affermato che il ricorso alla norma penale per limitare la libertà di espressione è consentito e non viola la Convenzione qualora sia diretto a colpire attacchi ai diritti e alla dignità di altri con chiaro intento discriminatorio. Analoga posizione è stata di recente espressa dalla Corte di Giustizia UE nel caso NH c. Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford (23 aprile 2020, in c. C-507/18, specie par. 52).
Sebbene dunque l’equilibrio tra le contrapposte istanze fosse già desumibile dall’ordinamento vigente, nel corso dei lavori parlamentari la maggioranza ha accolto la sollecitazione proveniente da alcuni settori interni a essa e dal gruppo di Forza Italia e volta a introdurre una specifica salvaguardia per la libertà di espressione. Su questa base, è stato inserito, già in Commissione, l’articolo 3, rubricato “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte” e formulato nei termini di una norma di principio secondo cui “ai sensi della presente legge, sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Anche su tale disposizione si è appuntata una condizione posta dalla Commissione Affari costituzionali nel proprio parere per l’Aula, con la richiesta di formulare l’enunciato in termini più precisi e idonei a delimitare l’ambito della salvaguardia. Esclusa – come ben testimoniato dal dibattito d’Aula del 28 ottobre 2020 – la possibilità di riformulare la disposizione nei termini di una esclusione a priori della punibilità di talune opinioni o condotte (ipotesi non coerente con gli equilibri già consolidati richiamati in precedenza e, soprattutto, suscettibile di radicare una irragionevole disparità di trattamento tra i beni già protetti dagli articoli 604-bis e 604-ter c.p. e quelli protetti dalla novella in commento), è stato approvato un emendamento che: a) precisa che la salvaguardia vige non “ai sensi” ma “ai fini della presente legge”, così ancorandola più decisamente alla finalità antidiscriminatoria della medesima; b) sostituisce “sono consentite” con “sono fatte salve”, così testimoniando in modo ancor più preciso che la legge si limita a ribadire in termini di principio gli approdi già raggiunti dalla giurisprudenza; c) afferma in modo esplicito che la salvaguardia opera, purché opinioni e condotte non siano idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.
6. È stato così individuato dal legislatore, in una parola, il punto di equilibrio tra riconoscimento e solidarietà, nel quadro di un intervento normativo rivolto a reprimere discriminazione e violenza, e a superarne le condizioni strutturali e sistemiche. Da un lato, infatti, nell’immagine del soggetto giuridicamente rilevante entrano a pieno titolo le diverse dimensioni dell’identità affettiva, sessuale e di genere così come la specifica condizione di vita ed esperienza delle persone con disabilità. Dall’altro, il riconoscimento di profili identitari e caratteristiche personali è messo a sistema con la salvaguardia della molteplicità di visioni del mondo e della vita che, quando non attingono la soglia di offensività delle condotte discriminatorie e violente, trovano tutela nelle dinamiche di un sistema costituzionale aperto, democratico, pluralista ma, al tempo stesso, saldamente orientato al rispetto della dignità personale nelle sue diverse dimensioni, anche relazionali.
Giandomenico Dodaro
La problematica criminalizzazione degli “atti di discriminazione” non violenti nei delitti contro l’eguaglianza. Una riflessione a partire da d.d.l. Zan e altri in materia di misure di prevenzione e contrasto delle discriminazioni omo-transfobiche.
1.Contro l’odioso fenomeno delle discriminazioni di persone Lgbt il disegno di legge Zan e altri, approvato dalla Camera dei deputati il 4 novembre 2020, estende l’ambito applicativo degli artt. 604-bis e ter c.p. della Sezione I-bis – Dei delitti contro l’eguaglianza, ai comportamenti motivati da sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere[1].
La proposta è frontalmente avversata, innanzitutto, da coloro i quali, dentro e fuori il mondo cattolico, sono contrari al riconoscimento da parte dello Stato della rilevanza giuridica di orientamenti sessuali e identità di genere, non allineati o non “adeguati” al sesso biologico della persona, in quanto implicherebbe una espressa ricezione di una concezione, quella gender, tutt’altro che pacifica a livello culturale e scientifico, accrescendo in ambito giuridico le incertezze interpretative e applicative relative alla stessa nozione di discriminazione. Argomentano, inoltre, i più che l’incriminazione dell’istigazione, in forma individuale o associata, e della commissione di atti dalla dubbia natura discriminatoria comporterebbe un’ingiustificata compressione di libertà costituzionalmente tutelate (ricerca, educazione, associazione, educazione, religione). Più in particolare, il delitto dell’art. 604-bis lett. a) c.p., adombrando una sorta di reato d’opinione, realizzerebbe primariamente una compressione della libertà di espressione e della libertà di agire nelle relazioni interpersonali, nei più disparati contesti di vita, coerentemente alle proprie convinzioni religiose o morali relative a ruoli, identità, affetti, sessualità e relazioni. In definitiva, la norma penale non si limiterebbe a incriminare solamente la realizzazione di veri e propri atti di discriminazione soggettiva nei confronti delle persone Lgbt, ma anche disparità di trattamento che trovano giustificazione nell’esercizio di libertà costituzionali, accrescendo il rischio di incorrere nel delitto per credenti e non credenti impegnati nella difesa di concezioni dell’identità contrarie alla teoria gender. Per queste ragioni si ritiene preferibile continuare a contrastare gli episodi di omo-transfobia facendo applicazione delle norme incriminatrici vigenti, eventualmente aggravate dalla circostanza dei “motivi abietti o futili” di cui all’art. 61, n. 1 c.p., o mediante il ricorso all’apparato del c.d. diritto antidiscriminatorio, che tutela alcuni dei caratteri che contribuiscono a definire l’identità della persona, in alcuni ambiti e a determinate condizioni, e per lo più con sanzioni civilistiche.
2.Tali critiche e preoccupazioni escono ridimensionate solo in parte dal testo approvato dalla Camera dei deputati.
È confermato l’impianto di fondo della proposta, focalizzata sulla criminalizzazione della discriminazione, violenta e non violenta, agita o istigata, con esclusione della mera propaganda di idee. Ad entrare in tensione con l’art. 21 Cost. continua a essere l’incriminazione dell’istigazione. La questione può forse ritenersi sdrammatizzata, non certamente superata, dall’inserimento nell’art. 4 di una clausola di stile, che afferma, recependo un costante indirizzo di giurisprudenza costituzionale e convenzionale, che «ai sensi della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti». Il riconoscimento della legittimità dell’istigazione solo a determinate condizioni segna un punto di equilibrio coerente con la Costituzione, che però conferma il carattere problematico della compatibilità dei delitti d’opinione con le esigenze della convivenza all’interno di una società plurale, come continua a ribadire ampia parte della letteratura giuridica.
Inoltre, per cercare di contenere la vaghezza del significato normativo dell’espressione discriminazione per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, il disegno di legge introduce all’art. 1 le definizioni dei suddetti caratteri identitari. Si tratta di nozioni conformi a letture mainstream, tutt’altro che esaustive e condivise nel dibattito scientifico, sulle quali è prevedibile che si appunterà l’analisi critica dei commentatori.
La distinzione tra discorsi leciti e atti vietati non sembra riuscire a superare in maniera convincente e risolutiva le critiche più severe mosse contro la proposta di riforma, la quale sembra rappresentare, anche per ulteriori ragioni che nello spazio ristretto di questo contributo non potranno essere analizzate (es. perseguibilità d’ufficio, irrigidimento della disciplina delle circostanze del reato), l’ennesima dimostrazione di un uso simbolico e particolaristico del diritto penale.
Ci limitiamo a rilevare che nell’incriminazione dell’art. 604-bis lett. a) c.p., rimane irrisolta la questione relativa a cosa debba intendersi per “discriminazione”, e a quali condizioni si possa ritenere che la discriminazione di una persona raggiunga la soglia dell’offensività penalmente rilevante. L’interrogativo è tutt’altro che marginale e tocca direttamente il cuore del problema di un delitto contro l’uguaglianza. Basti fare un esempio: sarebbe qualificabile come istigazione punibile l’organizzazione di una manifestazione finalizzata a esercitare pressione sulle forze politiche di orientamento cattolico, affinché votino contro una proposta di legge mirante a riconoscere a coppie omosessuali il diritto di contrarre matrimonio? Stante la polisemia del termine, è arduo non considerare discriminatorio il voto del parlamentare, non avendo alcun pregio rilevare che l’art. 68 Cost. garantisce l’insindacabilità per i voti dati.
3.Discriminatorio può ragionevolmente ritenersi un atto di violenza o un qualsiasi reato motivato dal sesso, dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere della vittima. Il rispetto dei diritti fondamentali non ammette distinzioni basate sulle caratteristiche soggettive costitutive dell’identità della persona.
Trattandosi di fatti già penalmente rilevanti, si potrebbe discutere della reale utilità di un ulteriore irrigidimento sanzionatorio (artt. 604-bis e ter c.p.), ritenendosi, invece, pacifica la sua giustificazione. Un regime sanzionatorio più severo per reati commessi per ragioni omo-transfobiche trova un fondamento nel carattere plurioffensivo del fatto, lesivo non solo dei singoli beni giuridici tutelati dalla norma di parte speciale, ma lesivo altresì del bene dell’uguaglianza, negata da un reato la cui commissione, secondo la definizione di hate crime fornita dall’Ocse, trova origine proprio in un motivo di pregiudizio contro una caratteristica soggettiva, l’identità sessuale, protetta dall’ordinamento giuridico contro eventuali discriminazioni.
Problematica è, invece, la qualificazione di atti, normalmente leciti, che assumono natura penale in quanto motivati da sesso, genere, orientamento sessuale o identità di genere, i quali sono potenzialmente in grado di essere ricondotti al delitto dell’art. 604-bis lett. a) c.p. Per quanto l’incriminazione abbia carattere residuale, la sua sfera applicativa è potenzialmente molto estesa, corrispondente al significato che si ritiene corretto assegnare al termine discriminazione, ed è in grado di proibire anche fatti bagatellari. La scarsa o nulla applicazione giudiziaria dell’incriminazione non consente di desumere utili criteri interpretativi, alimentando semmai ulteriori perplessità sulla reale utilità della norma. Peraltro, non è affatto chiaro quali comportamenti i sostenitori della riforma ritengano debbano essere puniti attraverso il delitto dell’art. 604-bis lett. a) c.p. Se l’obiettivo che si vuole colpire, sono i biasimevoli comportamenti, di cui si sente parlare nel dibattito parlamentare, di genitori che “buttano fuori di casa” il figlio maggiorenne ed economicamente indipendente perché omosessuale, o che rifiutano di affittagli casa per andare a vivere con il compagno transessuale, la scelta di estendere l’incriminazione appare ancora più discutibile per l’ingerenza che si realizzerebbe in un contesto complesso come le relazioni familiari.
4.Per comprendere l’espressione “discriminazione” il giudice penale trova punti di riferimento nella legislazione antidiscriminatoria, nazionale e sovranazionale, relativa a diversi campi di materia, dalla quale mutua accezioni differenti del termine.
Nel diritto antidiscriminatorio convivono, ormai da tempo, più nozioni di discriminazione, corrispondenti a diversi paradigmi discriminatori e correlate a distinte concezioni dell’uguaglianza, affermatesi nel diritto comunitario. La frammentazione dell’idea di uguaglianza non sarebbe l’espressione di un atteggiamento ambivalente del legislatore, ma semmai la dimostrazione della consapevolezza della necessità di dare risposte diverse a forme diverse di discriminazione, e dello spostamento del baricentro della tutela antidiscriminatoria dall’uguaglianza alla differenza in ragione dell’affermarsi della dignità umana come valore dotato di significato normativo.
Accanto alla tradizionale teoria dell’uguaglianza come parità di diritti, un nuovo paradigma è venuto a delinearsi nelle fonti sovranazionali di nuova generazione, le quali mostrano la tendenza a un allargamento di tipo universalistico della tutela antidiscriminatoria a favore delle differenze soggettive, ritenute in sé portatrici di un autonomo e uguale valore. Questo nuovo approccio si manifesta in maniera evidente in quella particolare nozione di discriminazione che fa coincidere il comportamento vietato con la molestia, definita come «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo» (art. 26 “Codice di pari opportunità”). Questa nozione allargata di discriminazione, dai confini difficilmente definibili, segna un punto di rottura con il passato. Riconoscendo all’individuo un diritto assoluto a non essere discriminato, appresta una tutela diretta alla dignità, il cui attivarsi sembrerebbe prescindere dalla comparazione tra fattispecie omogenee rispetto al riconoscimento di diritti in condizioni di parità. A quest’ultimo modello di uguaglianza sembrerebbe ispirarsi la nozione di discriminazione cui guarda con favore una parte della dottrina penalistica, che ritiene di poter identificare nella violazione del principio dell’uguale valore delle differenze l’essenza stessa dei crimini d’odio, sulla falsariga della legislazione penale antidiscriminatoria di altri Paesi (Francia e Spagna).
Nel complesso quadro giuridico attuale non risulta, dunque, possibile stabilire una nozione unitaria di discriminazione, rilevante per l’art. 604-bis c.p., il quale appare destinato a operare sulla base di una pluralità di accezioni normative di discriminazione, a seconda del campo di materia.
La frammentarietà della nozione di discriminazione non solo appare difficilmente conciliabile con le esigenze di determinatezza della fattispecie penale, ma si riflette negativamente anche sulla possibilità di ravvisare, nella multiforme varietà degli atti di discriminazione per sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere, la sussistenza di un’offesa al bene giuridico, quale che sia il modello di uguaglianza cui essa fa riferimento. Tale rischio aumenterebbe in maniera esponenziale, qualora si affermasse la tendenza, suggerita anche dal diritto penale antidiscriminatorio straniero, a leggere il delitto come ulteriormente sanzionatorio di ipotesi di discriminazione di matrice extra-penale, o si slargasse la nozione di discriminazione appiattendola sul concetto giuslavoristico di molestia.
Che si intenda per “atto di discriminazione” la negazione dell’uguaglianza delle differenze o una disparità di trattamento ingiustificata, il giudice sarà chiamato al difficile compito di valutare la rilevanza del motivo che spiega il comportamento oggetto di giudizio, nel primo caso al fine di accertare la lesività dell’atto in sé, nel secondo caso per valutare la ragionevolezza del trattamento differenziato. Se in alcuni casi la valutazione non porrà soverchie difficoltà, in altre situazioni, specie di fronte a nuove domande di riconoscimento di diritti (matrimonio, adozione, Pma e, in specie, Gpa), si tratterà di un esame dagli esiti incerti, che richiederà al giudice di prendere posizione in un dibattito scientifico tuttora aperto. Al giudice, più che al decisore politico, il disegno di legge finisce per assegnare un ruolo cruciale nell’eliminazione delle disuguaglianze, con il rischio di surriscaldare ed esacerbare ulteriormente attraverso decisioni di segno contrario un dibattito già molto intenso, a discapito, potenzialmente, delle libertà costituzionali.
Le critiche mosse al disegno di legge mettono in evidenza una serie di criticità specifiche e generali dei delitti contro l’uguaglianza, che giustificherebbe un significativo e complessivo ripensamento del diritto penale antidiscriminatorio italiano.
[1] La sfera applicativa delle due fattispecie normative viene estesa, altresì, ai comportamenti discriminatori contro persone con disabilità.
Luciana Goisis
Brevi riflessioni sulla recente proposta di legge in materia di crimini d’odio omotransfobico, di genere, per disabilità
1. La categoria dei crimini d’odio. Solo tematizzando la categoria dei crimini d’odio si può cogliere l’esigenza di una legge contro l’omotransfobia e le discriminazioni di genere, nonchè l’abilismo.
Volendo accogliere la definizione più accreditata di crimine d’odio, emersa in sede europea grazie all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione, nonché nell’ambito anglosassone ove la categoria nasce, si tratta di crimini che si compongono di due elementi: una condotta che costituisce reato; inoltre, la commissione di tale condotta deve essere ispirata da un motivo di pregiudizio contro una “caratteristica protetta”, appartenente ad un gruppo, come può essere la razza, la lingua, la religione, l’etnia, la nazionalità o altre caratteristiche simili, nelle quali si annoverano il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere (talvolta, la disabilità).
A tale categoria vanno dunque ascritti oggi anche i crimini d’odio omotransfobico, nonché i crimini d’odio fondati sul genere, nei quali rientra la violenza di genere, e altresì i crimini d’odio verso disabili. A corroborare quest’ultima conclusione contribuisce l’apertura alla prospettiva comparata ove sono molte le legislazioni europee ed extraeuropee che contemplano una disciplina penalistica, oltre che in materia di crimini d’odio razziale e religioso, anche in materia di crimini d’odio omotransfobico e di genere (e talora per disabilità).
2. Il d.d.l. Zan et Alii. Se paragonata con il panorama legislativo straniero, l’esperienza italiana in materia di discriminazioni a sfondo omotransfobico e di genere è desolante. Il nostro Paese non dispone di alcuna legge antiomofobia, né contempla norme penali, di rango ordinario, che incriminino o aggravino il trattamento sanzionatorio per la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, nonché sul genere della vittima. Scarne anche le norme in materia di abilismo.
Tuttavia, il quadro legislativo italiano sembra oggi destinato a mutare.
È noto che il disegno di legge Zan et Alii, dal nome del relatore, approvato, come testo unificato (A.A. C. 107, 569, 868, 2171 e 2255), il 30 luglio 2020, in Commissione Giustizia e recante “Modifiche agli artt. 604-bis e ter c.p., in materia di violenza o discriminazione per motivi di sesso, di genere, di orientamento sessuale e di identità di genere”, si compone di 10 articoli, attraverso i quali si punta sia sulla strategia repressiva che su quella preventiva, al fine di contrastare le forme di discriminazione e violenza omotransfobica e misogina. Ad oggi, 4 novembre 2020, il d.d.l. ha superato il vaglio dell’Assemblea, con una doverosa estensione della disciplina, da noi già in altra sede auspicata, anche alla disabilità.
Gli attuali artt. 2 e 3 del d.d.l. modificano i delitti contro l’uguaglianza previsti agli artt. 604-bis e ter c.p. per aggiungere alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi gli atti discriminatori fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. L’estensione riguarda le fattispecie di istigazione al compimento o di compimento di atti discriminatori e violenti, nonché la fattispecie associativa, mentre non si opera, opportunamente, l’ampliamento della fattispecie di propaganda (nonché dell’ipotesi del negazionismo), evitando così di entrare in potenziale collisione con la libertà d’espressione. L’art. 3 estende l’aggravante c.d. dell’odio razziale alle condotte fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità. L’art. 4, frutto del c.d. emendamento Costa, reca una clausola dedicata al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte. L’art. 5 modifica l’art. 1 della l. 25 giugno 1993, n. 205 prevedendo il lavoro di pubblica utilità, già pena accessoria, anche nell’ipotesi di sospensione condizionale della pena e di sospensione del procedimento con messa alla prova. L’art. 6 modifica coerentemente l’art. 90-quater c.p.p. Infine, gli artt. 7, 8, 9 prevedono politiche di promozione della pari dignità delle persone LGBT e azioni di sostegno a favore delle vittime di reato. L’art.10 prevede un sistema di rilevazione statistica sulle discriminazioni e sulla violenza.
Veniamo, entrando in medias res, all’obiezione più di frequente mossa a tale disegno di legge (essendo oggi superata quella circa la precisione o tassatività normativa grazie ad una norma definitoria da ultimo inserita nel testo di legge all’art. 1)[2] – la sua presunta natura liberticida, invocata, come noto, nel dibattito pubblico, da esponenti delle forze conservatrici, nonché dalla stessa CEI in alcune esternazioni recenti: si tratta di obiezione pretestuosa.
In primis, la proposta di legge non estende la tutela alla fattispecie di propaganda, come si diceva. Ciò solo basterebbe ad escludere ogni preoccupazione in ordine a future limitazioni della libertà di espressione.
L’obiezione è strumentale altresì perché non tiene conto degli approdi giurisprudenziali consolidati nel nostro ordinamento giuridico: è pacifico che la giurisprudenza costituzionale, nonché quella ordinaria, ha costantemente interpretato le fattispecie istigatorie alla luce del pericolo concreto, bilanciando gli interessi in gioco – libertà di espressione e dignità umana – a favore della seconda, la pari dignità appunto, il bene giuridico tutelato dai delitti contro l’uguaglianza. In altre parole, la libertà di opinione non è posta in pericolo da tale riforma: né, del resto, si comprende perché l’obiezione debba valere solo per le discriminazioni omotransfobiche e di genere (ed oggi per disabilità) e non per quelle razziali e religiose, da sempre oggetto di presidio penalistico.
Ciononostante, come da noi sottolineato in audizione informale alla Commissione Giustizia, sarebbe stato opportuno prevedere, onde fugare ogni dubbio sul punto, al pari che negli ordinamenti anglosassoni, una clausola di salvaguardia della libertà d’espressione: in questa direzione, si è salutato con favore, pur nella perfettibilità della formulazione, il citato emendamento Costa che, accogliendo il suggerimento della Commissione Affari Costituzionali, ha inserito l’art. 3 (oggi art. 4) nel testo di legge unificato, recante una clausola siffatta. Tale clausola – apparentemente una causa di non punibilità – è stata oggi, a nostro avviso proficuamente, così riformulata, in linea con gli orientamenti giurisprudenziali or ora ricordati: “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”.
3. La necessità dell’intervento legislativo. Una seconda obiezione mossa nei confronti della proposta di legge attualmente all’esame del Parlamento si appunta sulla natura non necessitata dell’intervento legislativo. A nostro avviso, ci sono tre ragioni dirimenti che depongono, al contrario, nel senso della irrinunciabilità della riforma in gestazione: la presenza di un obbligo internazionale alla criminalizzazione, obbligo corroborato dalla giurisprudenza della Corte EDU, il dato vittimologico, nonché ragioni di costituzionalità.
I documenti internazionali in ordine all’omofobia consentono di evincere la sussistenza di un obbligo di incriminazione quantomeno implicito per i crimini d’odio omofobico.
Il complesso delle disposizioni internazionali contempla i numerosi documenti pattizi che prevedono un divieto di discriminazione (art. 14 CEDU; art. 2 Trattato sull’Unione europea; art. 21 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 10/art. 19 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Vi sono altresì importanti strumenti di soft law: le Risoluzioni sull’omofobia del Parlamento europeo del 2006 e 2012 che impongono l’intervento del diritto penale nella lotta contro l’omofobia. Tali strumenti, se non comportano un obbligo espresso di incriminazione, rappresentano tuttavia un monito non trascurabile per il legislatore nazionale. Vi è unanimità di vedute in sede internazionale sull’opportunità del ricorso al diritto penale nella lotta ai discorsi d’odio, laddove essi si rivelino concretamente pericolosi: ciò per l’operare della Convenzione di New York del 1965, della CEDU, dello stesso Statuto della Corte penale internazionale. Tanto che si potrebbe ritenere che un obbligo di incriminazione, sulla base di siffatte norme, sussista anche per i crimini d’odio omotransfobico.
Quanto alla violenza di genere, sono noti gli obblighi di criminalizzazione provenienti dalla Convenzione di Istanbul.
Non solo. L’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in materia di omofobia consente di cogliere l’orientamento verso una tutela rafforzata delle minoranze sessuali. Basti citare il noto caso Vejdeland: al pari dei crimini d’odio razziale, anche i crimini d’odio omofobico devono essere contrastati tramite il ricorso al diritto penale. In direzione analoga – sancendo la prevalenza della dignità sulla libertà – si pongono i recentissimi casi Lielliendahl v. Islanda e Beizaras e Levickas v. Lituania. Non è pertanto da escludere che il Governo italiano sia esposto al rischio di una condanna della Corte europea, laddove si palesasse un caso di violenza omofoba, in considerazione del fatto che non si è ancora intervenuti a legiferare in materia.
Pacifico è inoltre l’orientamento della Corte nella lotta alla violenza di genere, considerata un trattamento disumano e degradante (art. 3 CEDU).
Da ultimo, depone nel senso della irrinunciabilità di una legge in materia di omofobia e misoginia, nonché di abilismo, il dato vittimologico.
Con riferimento alla violenza di genere basti ricordare, secondo le ultime rilevazioni Istat, che essa interessa 6 milioni e 788 mila donne che hanno subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita. “Lo zoccolo duro della violenza”, scrive l’ente di ricerca, “non è intaccato: stupri e tentati stupri sono stabili così come le forme più efferate di violenza fisica. La gravità delle violenze sessuali e fisiche è aumentata”. Dati che trovano rispondenza anche nell’indagine dell’Osservatorio per i diritti (Vox) sull’odio verso le donne in rete: si scatena anche quando la cronaca narra casi di femminicidio (dal 2000 al 2018, in media più di 3 a settimana).
La testimonianza della diffusione del fenomeno dell’omofobia è data dalle rilevazioni statistiche dell’Oscad e dall’Unar: si registrano in Italia fra il 2010 e il 2018, 2.532 segnalazioni, di cui una parte costituenti reato. Per il 59,3% sono reati d’odio etnico/razziale, per il 18,9% d’odio religioso, per il 13% d’odio omofobico, per il 7,8% reati contro disabili, per l’1,0% reati d’odio basati sull’identità di genere. Anche se il numero oscuro fa presumere cifre molto più significative. A corroborare i dati statistici, sono intervenuti i dati raccolti da Vox, aggiornati al 2019, che confermano una lieve decrescita dell’odio omofobico, ma segnalano che, laddove si dibatte di famiglie omosessuali, l’odio riemerge e l’aggressività dei messaggi d’odio omofobico è forte. La recrudescenza degli atti di violenza omotransfobica è pertanto un fenomeno presente in Italia: il che dimostra la vulnerabilità dei soggetti LGBT.
Molto consistenti, secondo i dati riferiti, anche i crimini d’odio ai danni dei disabili, soggetti fragili colpiti in ragione della loro diversità.
Tutto ciò rende, a nostro avviso e di parte della dottrina penalistica, urgente e pienamente giustificato l’intervento del legislatore penale, il quale, proprio in ragione del “trattamento differenziato dei distinti”, imposto dall’art. 3 Cost., declinato alla luce del principio di ragionevolezza, dovrà approntare una tutela rafforzata dei soggetti in condizioni di debolezza (v. Direttiva UE 29/2012). Provvido pertanto l’ultimo emendamento al d.d.l., con conseguente nuova intitolazione del provvedimento legislativo e adeguamento delle relative disposizioni, che contempla anche la disabilità fisica e psichica fra i fattori di discriminazione (occorrerebbe tuttavia un coordinamento con la l. 104/1992). Cosicché il testo di legge oggi approvato alla Camera titola così: “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”: esso, contemplando anche la disabilità, si pone all’avanguardia rispetto ad altre legislazioni europee.
Sui delitti contro l’uguaglianza incombe attualmente un sospetto di illegittimità costituzionale poiché ancora la disciplina non contempla tutte le caratteristiche protette dall’art. 3 Cost. pur ispirandosi dichiaratamente a tale principio fondante che sancisce la “pari dignità dinanzi alle differenze”. Per questa ragione di costituzionalità, a nostro avviso ineludibile, unitamente agli obblighi internazionali e ai moniti della Corte EDU, al dato vittimologico, nonché al maggior disvalore penale delle condotte ispirate da odio omofobico e di genere, oltre che per disabilità, si legittima pienamente l’attuale riforma di legge – ora destinata all’esame del Senato – che mira, da un lato, a combattere due fenomeni – l’omofobia e la misoginia – i quali sono frutto di una medesima visione patriarcale, non più accettabile né per le società moderne, né per le scienze giuridiche e segnatamente per il diritto penale contemporaneo, dall’altro, a completare il quadro di tutela verso i disabili – un gruppo storicamente oggetto di discriminazione – che sino ad ora prevedeva, quale norma ad hoc, la sola circostanza aggravante di cui all’art. 36 l. 104/1992.
[1] La sfera applicativa delle due fattispecie normative viene estesa, altresì, ai comportamenti discriminatori contro persone con disabilità.
[2] Il testo del disegno di legge approvato alla Camera prevede infatti una esaustiva norma definitoria (art. 1) dei termini “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere”, ricostruiti secondo gli indirizzi ermeneutici prevalenti. Sotto il profilo del rispetto del principio di precisione della fattispecie penale, potrebbe residuare la sola questione della definizione della nozione di “atto di discriminazione” che andrebbe affrontata sulla falsariga di quanto fatto nell’ordinamento francese. La legislazione francese si caratterizza, infatti, per la previsione della discriminazione quale autonoma figura di reato (artt. 225-1 e 225-2 c.p.): qualsiasi distinzione operata fra le persone fisiche, sulla base dei fattori protetti, è punita con la pena di tre anni d’imprisonnement e la pena dell’amende pari a 45.000 euro. La definizione della nozione di discriminazione si ritrova nell’art. 225-2 c.p.: “La discrimination définie aux articles 225-1 à 225-1-2, commise à l’égard d’une personne physique ou morale, est punie de trois ans d'emprisonnement et de 45 000 euros d’amende lorsqu’elle consiste: 1. A refuser la fourniture d’un bien ou d’un service; 2. A entraver l’exercice normal d’une activité économique quelconque; 3. A refuser d’embaucher, à sanctionner ou à licencier une personne; 4. A subordonner la fourniture d’un bien ou d’un service à une condition fondée sur l’un des éléments visés à l’article 225-1 ou prévue aux articles 225-1-1 ou 225-1-2; 5. A subordonner une offre d’emploi, une demande de stage ou une période de formation en entreprise à une condition fondée sur l’un des éléments visés à l’article 225-1 ou prévue aux articles 225-1-1 ou 225-1-2; 6. A refuser d’accepter une personne à l’un des stages visés par le 2° de l’article L. 412-8 du code de la sécurité sociale. Lorsque le refus discriminatoire prévu au 1° est commis dans un lieu accueillant du public ou aux fins d’en interdire l’accès, les peines sont portées à cinq ans d’emprisonnement et à 75 000 euros d’amende”. Una indicazione definitoria di pari tenore si può tuttavia ricavare, in via interpretativa, come già accade ordinariamente nell’applicazione giurisprudenziale dei delitti contro l’uguaglianza, dal ricco quadro della normativa antidiscriminatoria sovranazionale e interna. Sia consentito sul punto, e sulla categoria dei crimini d’odio, il rinvio a L. Goisis, Crimini d’odio. Discriminazioni e giustizia penale, Napoli, Jovene, 2019, passim.
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