ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Oltre Granital. Divisione o fusione degli orizzonti di senso?*
di Andrea Morrone
1. Non si può comprendere quello che molti hanno qualificato come un nuovo corso della giurisprudenza costituzionale senza capire o senza tornare a riflettere sul precedente da cui tutto ha preso le mosse. E, quindi, sul significato che la sent. n. 170 del 1984 (Granital) ha avuto nella definizione dei rapporti inter-istituzionali in Europa, non soltanto tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, quanto pure tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento europeo.
Partire da quella lontana ma attualissima pronuncia deriva dal fatto che essa – al pari di altre storiche decisioni di altri giudici costituzionali degli stati membri dell’Unione europea, tra cui soprattutto quelle del Bundesverfassungsgericht [1] – ha rappresentato il punto di sutura di un conflitto, per usare una categoria rilanciata da Francesco Medico (MEDICO 2020), che aveva visto lungamente distanti le posizioni rispettive dei due custodi della legalità in Europa. La sent. n. 170 del 1984 offriva un punto di equilibrio, nella sua struttura euclidea, che rappresentava finalmente il traguardo – o, almeno, così si pensava – di un’integrazione che, forse, non avrebbe chiesto niente di più di quello che si poteva pretendere dal punto di vista costituzionale, e che non fosse già stato raggiunto. Come ogni altra soluzione di un conflitto, quel compromesso rappresentava l’approdo su una posizione di armonia nel quadro dei rapporti tra ordinamenti giuridici considerati, e non a caso, «separati ma coordinati» [2], assicurando così quella condizione minima di certezza giuridica necessaria tanto ai singoli individui quanto agli operatori economici.
Dal punto di vista del diritto, si stavano salvando sia l’ordinamento costituzionale sia l’ordinamento europeo, ai quali si consentiva di svolgere una coesistenza non polemica, all’interno di coordinate certe (e non oltre), che avrebbero dovuto contenere gli sviluppi a venire dell’integrazione [3]. Com’è noto, la quadratura del cerchio, offerta dal teorema di Granital elaborato dalla sent. n. 170 del 1984, è stata rinvenuta nella contemporanea esistenza di due principi: il primato della costituzione nei suoi principi e diritti fondamentali da un lato, l’applicazione diretta del diritto europeo dall’altro. L’art. 11 Cost. ha svolto una funzione ultra vires ma perfettamente utile a questo riguardo. Ha legittimato la posizione assunta dalla Corte di giustizia sulla primauté e sulla conseguente applicazione diretta del diritto europeo e, al contempo, ha permesso la salvaguardia del nucleo duro dell’ordinamento costituzionale, valorizzato dalla dottrina dei controlimiti alle limitazioni di sovranità rese possibili da quella clausola costituzionale. Una geometria euclidea che, nella sua coerenza formale, non avrebbe ammesso deroghe. O, almeno, così sembrava. Il punto di una possibile rottura, infatti, sarebbe stato (solo) la messa in discussione dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili che, tuttavia, la Corte costituzionale e la dottrina nettamente prevalenti non erano (e non sono) disposti ad accettare – e non solo in Italia. Ma una simile soluzione eversiva non avrebbe potuto compiersi, se non per mezzo di un processo costituente europeo che, però, il tempo ha dimostrato tutt’altro che prossimo dal venire. La stessa vicenda Taricco [4] – nel dare concretezza a ciò che la stessa Corte costituzionale considerava allora «sommamente improbabile» anche se «pur sempre possibile» [5], ossia una effettiva violazione dei controlimiti – ha dimostrato tutta la stringente attualità del teorema Granital; e, all’esito del fecondo dialogo inscenato in quella saga tra il nostro giudice e la Corte di giustizia, ha confermato che nessuno dei due protagonisti sia disposto a rinunciare alle virtù moderatrici del compromesso raggiunto negli anni Ottanta del secolo scorso.
2. Nel nuovo millennio, viceversa, ci siamo resi conto di quanto quell’equilibrio potesse divenire – più che essere in sé – precario. La novità della sent. n. 269 del 2017 sta soprattutto nell’avere squarciato il velo di ignoranza.
Il motivo fondante che ne ha giustificato l’elaborazione – fatta attraverso un obiter dictum che, però, è tale solo rispetto alla vicenda che ne ha dato il là, ma che ha il pregio di un’autentica dottrina, che la giurisprudenza ha fatto propria a partire dalla teoria elaborata da Augusto Barbera (BARBERA 2018, pp. 149 e ss.) [6] – è che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) contiene principi e situazioni giuridiche soggettive che hanno un tono costituzionale, che sono, per dirla con Antonio Ruggeri (RUGGERI 2017, pp. 1 e ss.) [7], materialmente costituzionali e che, come tali, non possono non entrare in dialettica con i principi e i diritti della Costituzione. Da questa premessa discende la specifica soluzione offerta: ovvero che il giudice comune, di fronte a una disposizione che, al contempo, si ponga in contrasto tanto con la Costituzione quanto con la Carta dei diritti, sia tenuto a sollevare una quaestio legitimitatis, rendendo così prioritaria la pregiudiziale di costituzionalità su qualsiasi valutazione concernente (pure) la compatibilità del diritto interno con il diritto europeo (rectius: con la Carta dei diritti).
Che questa esatta lettura sia stata scalfitta o emendata nella giurisprudenza successiva non mi pare decisivo (anche se piace discorrerne all’infinito, specie da parte dei cultori dell’entomologia costituzionale) [8]. Il punto centrale della sent. n. 269 del 2017 è invece un altro. La pregiudizialità costituzionale ha la priorità, anzi deve essere oggetto di un accertamento pre-giudiziale, proprio perché nella species facti è concretamente possibile fare applicazione della norma europea e, quindi, il giudice comune è tenuto a investire il giudice delle leggi indipendentemente dall’applicazione della norma europea. Quel che voglio dire è che con la sent n. 269 del 2017 non si sta ponendo la questione del conflitto tra pregiudiziali (quella costituzionale e quella europea): questo modo di vedere, diventato oramai un luogo comune nel dibattito scientifico, non è corretto fino in fondo, e non solo per i motivi di cui discorre Roberto Mastroianni in un saggio recente (MASTROIANNI 2020, pp. 1 e ss.) [9]. Porre nella sent. n. 269 del 2017 la questione della pregiudiziale costituzionale è funzionale ad affermare quel che è proprio di un giudice costituzionale: il primato della costituzione su qualsiasi altra fonte o norma giuridica. Se il contenuto della Carta dei diritti è materialmente costituzionale, proprio per questo quel suo contenuto di principi e di diritti fondamentali non può essere trascurato da un custode della Costituzione. La priorità del thema costituzionale, detto altrimenti, si giustifica in sé e per sé dal punto di vista di una Corte costituzionale. E, come corollario, ne consegue che l’accertamento pregiudiziale della compatibilità costituzionale della norma interna, vieppiù qualora la stessa si ponga in problematico rapporto con la Carta dei diritti, non può che precedere (logicamente, oltreché per il diritto positivo vigente) il tema (eventuale, perché tutto da stabilire in concreto) della applicazione diretta della carta dei diritti (o, in genere, del diritto europeo).
3. Nel ragionamento della Corte costituzionale, rimane aperto un dubbio, che non è stato chiarito neppure dalla giurisprudenza successiva alla sent. n. 269 del 2017. Il riferimento alla Carta dei diritti e, come nella sent. n. 20 del 2019 al diritto derivato quale strumento di attuazione dei principi e dei diritti derivanti dalla carta europea, va inteso in questi limiti stringenti? Oppure, siamo alle soglie di un orientamento che – nella prospettiva di un deciso ri-accentramento di poteri operato dalla giurisprudenza costituzionale più recente, come rilevato dall’attenta analisi di Diletta Tega in un bel libro recente (TEGA 2020) – è diretto ad affermare la priorità della questione di costituzionalità avente ad oggetto qualsiasi conflitto tra norma interna e norma europea?
Se fosse vera questa seconda, e ben diversa, lettura, allora saremmo certi che la geometria del teorema di Granital sarebbe stata superata definitivamente. Detto altrimenti: in questa seconda interpretazione, l’applicazione interna del diritto dell’Unione europea si avrebbe solo previo accertamento della compatibilità costituzionale della norma europea e non solo di quella della Carta europea dei diritti. La soluzione, allora, sarebbe un allineamento, nel trattamento giurisprudenziale, tra la norma europea e la norma convenzionale, nella maniera tracciata a partire dalle sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007, ma con un evidente superamento della sostanziale differenza stabilita proprio in quest’ultima giurisprudenza tra il regime dell’una e dell’altra [10].
Una simile prospettiva, che nel campo dell’integrazione europea riporterebbe le lancette dell’orologio agli anni Settanta – ad un momento, quindi, addirittura precedente a quello del teorema di Granital – cacciata dalla finestra, tuttavia, potrebbe rientrare dalla porta.
Se la sent. n. 269 del 2017 si riferisce direttamente alla Carta dei diritti, la successiva giurisprudenza prende in considerazione atti europei di diritto derivato, direttamente e indirettamente riconducibili ai principi e ai diritti fondamentali enunciati nella Carta di Nizza. È, però, evidente che il confine tra il diritto europeo conseguente all’attuazione della Carta dei diritti e il diritto derivato che nulla ha a che vedere con la Carta dei diritti può presentare un’utilità sul piano scientifico; ciò, tuttavia, non ha pregio dal punto di vista empirico, dove ogni limen è destinato a sfumare, e dove ogni interpretazione può avere dalla sua margini di verosimiglianza apprezzabili e non trascurabili. Del resto, noi popoli latini non siamo climaticamente e, quindi, culturalmente avvezzi alle traiettorie, così nette e sicure, che orientano la giurisprudenza tedesca [11]. La separazione tra un ambito di diritto armonizzato e uno di diritto non armonizzato, che darebbe luogo a due diversi approcci del giudice costituzionale di Karlsruhe, mi pare di difficile innesto nella nostra tradizione giuridica: anche perché oltralpe si ammette che il Bundesverfassungsgericht operi come giudice europeo nell’ambito di applicazione del diritto armonizzato, mentre la Corte italiana sembra meno disposta fino in fondo a svolgere questo ruolo, riservandosi piuttosto e in ogni caso quello consueto di giudice della Costituzione (e, quindi, del diritto europeo).
Sia come sia, seguire quella strada non risolverebbe il nodo centrale, che sta a monte del giudizio sull’esistenza o meno di un’armonizzazione: quali sono i criteri per stabilire quando siamo all’interno dei margini della Carta dei diritti e quando fuori di essi? Per via di metafora: l’attuazione costituzionale non è un fenomeno che si risolve solo nella puntuale esecuzione di disposizioni fondamentali della costituzione; ma si estende a qualsivoglia norma legislativa che sia riconducibile in qualche modo nel recinto della costituzione. Lo stesso discorso può valere oggi, soprattutto dopo la sua incorporazione nei Trattati, per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: il diritto derivato tutto, oggi, trova la sua legittimità nei Trattati e nella Carta. Sicché, quindi, direttamente o indirettamente, tutte le norme europee poste dagli atti fonte derivati possono trovare a monte un riferimento in questo o quel principio, in questo o quel diritto della CDFUE.
In definitiva, dunque, anche se il margine oggettivo della sentenza n. 269 del 2017 sia quello della Carta dei diritti e del diritto derivato che ad essa direttamente si riferisce, nulla impedisce di considerare quei confini estensibili a qualsiasi norma europea, la cui legittimità non può che essere tracciata dai Trattati e dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il problema qui evocato, dunque, non è chiuso: anche il teorema di Granital, come la geometria euclidea di fronte alle geometrie non-euclidee, potrebbe conoscere la via di un suo superamento.
4. Resta allora da chiedersi, rebus sic stantibus, se la sentenza n. 269 del 2017 possa essere ricondotta al teorema Granital, ossia se essa rappresenti, nonostante l’enfasi nuovista, un ritorno allo spartiacque tracciato nel secolo scorso tra primato della costituzione (rectius: dei controlimiti) e applicazione diretta del diritto europeo. Se così fosse non si tratterebbe di una novità autentica. Neppure potrebbe parlarsi di una dottrina del ri-accentramento, facendo cadere il presupposto degli studi che rimarcano questo profilo [12]. Ciò nonostante, anche i tentativi di riconduzione della sentenza n. 269 del 2017 nei margini del teorema Granital mi paiono, come in fondo ciò che da essa deriva, un po’ grossiers.
Il nostro sforzo va rivolto su tutt’altro orizzonte. Andrebbe sviluppato o, meglio, va portato allo scoperto il non detto della sent. 269 del 2017, ovvero ciò che la dottrina in essa contenuta potrebbe offrire al discorso pubblico europeo nel terzo millennio. La precedenza della pregiudiziale costituzionale dovrebbe essere esattamente intesa come l’affermazione della priorità del giudizio costituzionale non solo e non tanto per assicurare la supremazia della costituzione, ma anche e soprattutto per fare dire, alla Corte costituzionale, la propria parola sulla Carta dei diritti dell’UE; o, anche, e meglio, sui rapporti tra la Costituzione italiana e la Carta dei diritti europei. Questa è la posta in gioco; e da come essa sarà trattata da parte del giudice costituzionale dipenderanno l’andamento dei rapporti tra le Corti, e i contenuti del diritto europeo di matrice giurisprudenziale.
La priorità del giudizio costituzionale è un mezzo e non il fine. L’obiettivo sotteso alla presa di potere della nostra Corte costituzionale è quello di stabilire il significato e il contenuto della materia costituzionale in gioco nei casi concreti, sia che quella materia sia direttamente riconducibile alla nostra Costituzione, sia che essa derivi direttamente o mediatamente dalla Carta dei diritti e per effetto della sua incidenza sulla Costituzione. Anzi – questa la consapevolezza del giudice costituzionale (nel quadro di una tendenza che è, e sarà in futuro, comunque, sviluppata anche da qualsiasi altro giudice costituzionale di uno stato membro) – proprio perché c’è ora la Carta dei diritti, che contribuisce a determinare i margini della materia costituzionale, il Custode della legalità di quest’ultima non può che dire la sua parola, e pretendere, quindi, dai giudici comuni, che sia messo in condizione di farlo sempre.
Siamo nell’ambito di quella che si chiama la diuturna lotta per il diritto: una contesa alla quale la Corte costituzionale vuole partecipare da protagonista, il cui oggetto specifico è il diritto europeo, in tutte le sue possibili accezioni (sia come diritto altro rispetto al diritto nazionale, sia come diritto espressione di una koinè comune a tutti gli ordinamenti degli stati membri e dell’Unione europea).
Tre possono essere gli ambiti di determinazione di questa materia costituzionale e dei relativi contenuti. Essa riguarda: 1) i margini della Carta dei diritti e dei suoi possibili significati; 2) i margini e i significati della Costituzione in rapporto alla Carta dei diritti; 3) i margini e i significati desumibili dalle ipotesi di conflitto normativo tra la Costituzione e la Carta dei diritti.
Viene così in rilievo una cognizione del giudice costituzionale ad ampio raggio, che può avere diversi contenuti, che vanno dalla possibilità di interpretare il senso proprio delle disposizioni di principio della Carta dei diritti, di allargare le ipotesi di lettura della Costituzione alla luce della portata normativa della Carta dei diritti, per arrivare alla soluzione estrema di risolvere gli eventuali contrasti tra le disposizioni della Costituzione e quelle della Carta dei diritti. Il problema della competenza – soprattutto della Corte costituzionale a pronunciarsi su un atto che, sì, è formalmente atto normativo di un altro ordinamento ma che, tuttavia, materialmente è parte integrante del nostro diritto positivo – resta ai margini (senza, con ciò, perdere di pregnanza: ma è un altro discorso).
Le conseguenze di un simile sfondo, almeno nell’ordinamento interno, sarebbero le seguenti: per un verso, la Carta dei diritti (e, per estensione, il diritto dell’Unione europea), anche se lo fosse per l’ordinamento europeo, non potrebbe essere applicata direttamente da parte dei giudici comuni; per altro verso, la Carta dei diritti, nei suoi principi e nei suoi diritti fondamentali, sarebbe il prodotto dell’interpretazione della giurisprudenza tanto della Corte di giustizia quanto – questa la novità assoluta – della Corte costituzionale.
Insomma, se fosse questo il quadro concettuale nel quale andrebbe collocata la svolta operata dalla sent. n. 269 del 2017, la domanda fatta dalla Corte costituzionale, nei confronti dei giudici comuni, sarebbe quella di accentrare il discorso sui principi e sui diritti discendenti dalla Carta dei diritti, nella prospettiva, immediata, di contribuire a stabilirne la portata normativa e, in un percorso di più lungo termine, di contribuire a realizzare un’integrazione normativa tra paramount laws. Coloro che, come la stessa Corte costituzionale, hanno valorizzato il tema delle tradizioni costituzionali comuni, credo colgano nel segno: se, ovviamente, il senso del richiamo è che ciò che la Corte costituzionale pretende ora, è di offrire il proprio contributo all’elaborazione dei contenuti di quella categoria giuridica, al fine di fornire una base costituzionale alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che possa superare dialetticamente eventuali conflitti in materia (costituzionale) europea.
5. La sentenza 269 del 2017 è un dispositivo di conoscenza che trascende la sua stessa portata ma che dirige la riflessione scientifica verso un nuovo corso. Mi sono tornate in mente, a questo proposito, i versi di Dante Alighieri: «Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte» (ALIGHIERI 1965, p. 200) [13].
La svolta impressa alla giurisprudenza costituzionale – che, dopo le procelle, era finalmente approdata ai quieti lidi della sent. n. 170 del 1984 – va apprezzata guardando in avanti piuttosto che rivolgendosi all’indietro. Questo è il primo importante risultato della sentenza n. 269 del 2017: l’orizzonte sta davanti a noi e non dietro di noi. Se tenessimo lo sguardo – come probabilmente molti di noi hanno fatto, io stesso – rivolto soltanto all’interno, la sent. n. 269 del 2017 presenterebbe più di un punto critico.
Nei confronti dei giudici comuni, essa costituisce un’incursione netta nella trama delle relazioni, fortemente embricate e consolidate, tra la Corte di giustizia e la magistratura, che si dipanano mediante il rinvio pregiudiziale. La Corte costituzionale si è ora immessa da protagonista in quella rete, riempendo uno spazio forse finora troppo generosamente lasciato agli altri giudici, di fronte all’esigenza di dare piena tutela a principi e diritti che si arricchiscono di valore e di contenuto proprio grazie alla prescrittività piena acquisita dalla Carta dei diritti dopo il Trattato di Lisbona. In ottica di retroguardia, del resto, potrebbe vedersi la sentenza n. 269 del 2017 anche riguardo alla particolare lettura che, del processo di integrazione europea, è in quella decisione offerta dalla Corte costituzionale. Io stesso ho contestato, commentando a caldo, che questa giurisprudenza costituzionale fosse espressione di un (preoccupate) atteggiamento conservatore: un retrocedere nella lotta per l’unificazione politica in Europa, sintomo dei tempi correnti, che potrebbe offrire il destro – questo l’aspetto più problematico – alle tendenze politiche, oggi di moda, verso chiusure nazionaliste e sovraniste dello Stato.
Tali ultime considerazioni non perdono di attualità. Vanno, tuttavia, allargate, inserite in una visione presbite, coerente con gli sforzi di una politica e di una cultura giuridica diretti ad edificare un’Unione sempre più stretta tra i popoli europei.
La prospettiva presbite di cui parlo, che a mio parere può (e deve) leggersi nella sent. n. 269 del 2017, sta in un rinnovato e convergente dialogo tra la Corte costituzionale e Corte di giustizia: dalla dialettica dei giudici degli ordinamenti parte del processo di unificazione europea dovrebbe derivare una sorta di fusione degli orizzonti interpretativi che abbia come contenuto (e, in definitiva, come obiettivo) la costruzione di un diritto comune giurisprudenziale, quale base su cui edificare il diritto costituzionale europeo.
Non so se questa che immagino sia anche la visione della Corte costituzionale di oggi: ma dovrebbe esserlo, almeno per alleggerire le ipoteche che altrimenti graverebbero sulla domanda di centralità, che il giudice delle leggi ha manifestato a chiare lettere, in ordine al controllo della materia costituzionale, i cui confini sono stati riscritti proprio dalla Carta dei diritti.
Il futuro dell’integrazione europea, nei ritardi e nelle incertezze della politica dei piccoli passi intrapresa dai governi statali e del governo europeo – al netto, ovviamente, degli scenari aperti a seguito dell’emergenza sanitaria da Covid-19 che sono ancora di là dal venire – è per molti motivi anche il futuro del diritto dell’Unione europea. Un diritto positivo, piaccia o non piaccia, razionalizzato soprattutto dalla giurisprudenza, a tutti i livelli del processo d’integrazione. Che questo diritto comune costituzionale sia contingente o in grado di stabilizzarsi non è predicibile. Quel che può immaginarsi è la direzione di marcia, differente a seconda che si segua la strada della divisione o della fusione degli orizzonti di senso. La portata della svolta operata dalla sent. n. 269 del 2017, nella dimensione presbite nella quale va correttamente collocata, in definitiva, può essere apprezzata da entrambi i punti di vista: l’esito, tuttavia, è opposto. Inutile dire che come giuristi europei la nostra preferenza non può che andare nella seconda direzione, contribuendo così, a partire da quella teleologia, alla lotta per il diritto europeo di domani.
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* Il presente scritto è in corso di pubblicazione in C. Caruso, F. Medico, A. Morrone (a cura di), Granital revisited? L’integrazione europea attraverso il diritto giurisprudenziale, Bononia University Press, Bologna, 2020.
[1] BVerfGE 73, 339, 22 ottobre 1986, Solange II la quale costituisce la versione tedesca del teorema Granital della Corte costituzionale italiana.
[2] Secondo la formula che ha contraddistinto la giurisprudenza degli anni Settanta e Ottanta e che è stata scolpita proprio nella Corte cost. sent. n. 170 del 1984.
[3] In altre parole: la Corte cost. sent. n. 170 del 1984, nell’indicare nei controlimiti la cornice di legittimità (costituzionale) del primato del diritto europeo e dell’applicazione delle norme europee, finiva per chiudere a qualsiasi sviluppo dell’integrazione europea che, per via del diritto derivato o della giurisprudenza della Corte di giustizia, fuoriuscisse dai suoi confini. Il Trattato di Lisbona ha sostanzialmente confermato quel compromesso, nella misura in cui ha giustapposto identità europea e identità nazionali (MORRONE 2018).
[4] Corte giust., C-105/14, Taricco e altri, 8 settembre 2015; Corte cost. ord. n. 24 del 2017; Corte giust., C-42/17, M.A.S. e M.B., 5 dicembre 2017; Corte cost. sent. n. 115 del 2018.
[5] Corte cost. sent. n. 232 del 1989.
[6] La tesi esposta nel saggio citato era stata annunciata dal Maestro della Scuola bolognese nella Relazione sullo stesso tema tenuta a Siviglia il 26-28 ottobre 2017.
[7] La tesi per cui i diritti dell’ordinamento eurounitario (come piace dire ad Antonio Ruggeri) e dell’ordinamento della CEDU fanno parte di un’unitaria materia costituzionale percorre ormai la produzione più recente del Nostro Autore (scritti pubblicati in RUGGERI 2020).
[8] Dopo la Corte cost. sent. n. 269 del 2017, la Corte costituzionale è tornata più volte sul medesimo tema: cfr. Corte cost. sentt nn. 20, 68, 113 del 2019, e Corte cost. ord. n. 117 del 2019. Non mi pare, tuttavia, che siano venute meno le ragioni ispiratrici della prima decisione, semmai sono state precisati alcuni passaggi e chiariti taluni dubbi (come quello relativo alla possibilità per il giudice comune di continuare a poter esperire, se necessario, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia che, in linea con la giurisprudenza inaugurata dai giudici di Lussemburgo in, Corte giust. C-188 e 189/10, Melki e Abdeli, 27 luglio 2010, la stessa Corte costituzionale non aveva vietato nella Corte cost. sent. n. 269 del 2017).
[9] Mastrioanni, in particolare, contesta l’abusata locuzione “doppia pregiudizialità” per la «confusione che il suo utilizzo (anche in alcune recenti sentenze della Corte costituzionale) ha provocato»: la «consequenzialità», infatti, delle due pregiudiziali «non sussiste» perché di fronte alla norma europea il giudice comune può o interpretare in modo conforme o disapplicare, essendo il rinvio solo «possibile».
[10] Com’è noto, le sentenze gemelle, nel vietare l’applicazione diretta della CEDU da parte del giudice comune, salva solo l’interpretazione conforme, hanno inaugurato una (ulteriore) centralità della Corte costituzionale nel valutare la validità e, di conseguenza, il significato delle norme convenzionali richiamate per mezzo del rinvio mobile disposto dall’art. 117, c. 1, Cost. Sull’esatta lettura di questa giurisprudenza (MORRONE 2011, pp. 189 e ss.).
[11] Mi riferisco alle recenti decisioni del I Senato del BVerfG del 6 novembre 2019, BVerfGE, 1 BvR 16/13 – Right to be forgotten I e 1 BvR 276/17 – Right to be forgotten II (su di esse, ROSSI 2020).
[12] E che anche io ho sostenuto nella critica al nuovo corso della giustizia costituzionale (MORRONE 2019, pp. 251 e ss.). I temi toccati da quello scritto hanno suscitato reazioni diverse e critiche serrate (BIN 2019, pp. 757 ss., CHELI 2019, pp. 777 e ss, VON BOGDANDY, PARIS 2020, pp. 9 e ss.).
[13] Cfr. Il XXII canto del Purgatorio, vv. 67-69.
Recensione a Franco Della Casa - Glauco Giostra, Manuale di diritto penitenziario, Giappichelli, Torino 2020
di Guido Colaiacovo
È una disciplina complessa il diritto penitenziario: serve a determinare i modi nei quali lo Stato, eseguendo una sentenza, priva il condannato della libertà personale, assumendone la custodia e, con essa, l’obbligo di tutelarlo. Diritti della persona e interesse pubblico finiscono, così, per confliggere su aspetti cruciali, soprattutto quando l’esecuzione della pena detentiva diventa una esibizione muscolare, peraltro effimera, tesa a rassicurare l’opinione pubblica. È per questa ragione che la materia è animata da vibranti tensioni, come testimoniano i reiterati interventi del legislatore e della Corte costituzionale.
Il Manuale di diritto penitenziario a cura di Franco Della Casa e Glauco Giostra, che hanno coordinato il lavoro di studiosi e magistrati esperti del settore, è uno strumento fondamentale per orientare l’indagine in questo non sempre armonico avvicendarsi di norme e sentenze.
Strutturato in otto capitoli, che tracciano le linee della trattazione, il Manuale è una bussola che consente di mantenere la rotta sia allo studente che si accinge a sostenere l’esame, sia allo studioso e al professionista del diritto che necessitino di comprendere i meccanismi del sistema espiativo. Conoscenze teoriche ed esperienza pratica si incontrano, conferendo al volume il taglio giusto per interpretare e risolvere le problematiche che si presentano tanto in una sala studio universitaria che in un’aula di giustizia.
L’opera muove dall’inquadramento della disciplina nei principi costituzionali e sovranazionali (Della Casa - Giostra), fondamentali per comprendere “l’essere e il dover esser” dell’esecuzione penitenziaria e decifrare un’evoluzione normativa che non ha ancora raggiunto un punto di quiete. È una premessa ineludibile, poichè descrive i concetti che, declinati in relazione ai singoli istituti, riecheggiano e forniscono la chiave di lettura per i passaggi successivi. Da qui, infatti, si passa all’esame del corpo normativo, iniziando dalla vita detentiva: il secondo capitolo affronta il tema dell’osservazione e del trattamento penitenziario nei principi (Fiorentin) mentre il terzo descrive gli strumenti attraverso i quali la pena può assolvere la finalità rieducativa che le affida la Costituzione (Ruaro - Bronzo).
Particolare attenzione, nel quarto capitolo, è rivolta al tema della tutela dei diritti dei detenuti, la cui analisi consente di cogliere i progressi compiuti sulla strada verso il riconoscimento in favore del detenuto della possibilità di far valere i propri diritti – che non perde insieme alla libertà personale - dinanzi a un giudice. Il quinto capitolo si sofferma, infine, sull’organizzazione penitenziaria e sulla tutela dell’ordine e della sicurezza (Gianfilippi - Lupària).
Un capitolo a parte è riservato alle misure alternative alla detenzione (Carnevale - Siracusano - Coppetta), a sottolineare il ruolo strategico che, pur in tono minore rispetto agli auspici formulati dalla dottrina e nei progetti di riforma, esse hanno assunto in un modello di esecuzione penale che ambisce a superare la tradizionale impostazione “carcerocentrica”.
La trattazione si conclude con una approfondita analisi delle procedure di sorveglianza (Della Casa - Vicoli), la cui conformazione è stata oggetto recentemente di rimarchevoli perfezionamenti, e dell’ordinamento penitenziario minorile (Caraceni), la cui introduzione ha finalmente colmato una grave lacuna del sistema italiano
Il Manuale fornisce dell’ordinamento penitenziario una illustrazione esaustiva e aggiornata, che analizza il dato normativo attraverso le origini storiche e l’elaborazione giurisprudenziale, non mancando mai di segnalare profili critici e questioni problematiche.
Covid, mascherine e diritto penale: precisiamo
di Andrea Apollonio
Non c'era prima, e non c'è oggi, alcuna situazione di antinomia normativa, di frontale contrasto tra precetti, per cui una norma (precedente o successiva, di grado inferiore o superiore) possa dirsi implicitamente abrogata. In questo senso il lettore va rassicurato: il nostro ordinamento è perfettamente armonico e coerente al suo interno, ieri (con il DPCM) come oggi (con il decreto legge).
Per concludere, sempre rassicurando il lettore: l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto o in luoghi chiusi aperti al pubblico è non solo (ovviamente) legittimo sotto l'aspetto giuridico, ma neppure importa (ovviamente) alcuna conseguenza penale per chi la osserva: al contrario, potrebbe avere conseguenze penalmente rilevanti disattendere tale obbligo.
Nonostante il XX secolo abbia avuto numerosi geniali scrittori distopici e fantapolitici, non un Huxley, non un Orwell sono riusciti ad immaginare gli scenari che, da un paio di settimane a questa parte, ci sono (tristemente) noti: infatti, con decreto legge n. 125 del 7 ottobre 2020 è stato introdotto l'obbligo, legato alla diffusione del virus Covid19, di indossare la mascherina all'aperto. E' quindi trascorso il secondo fine settimana con vie e piazze - va detto: popolate quanto e più di prima - a presentare uno scenario degno di un film di George Lucas: tutti col viso coperto dalle mascherine. Tutti o quasi.
Perché non tutti si sono adeguati all'obbligo imposto dalla legge, chi per incoscienza chi per una netta presa di posizione personale. E' il caso dei c.d. "no mask", di coloro cioé che ritengono di non dover utilizzare la mascherina, da un lato perché dannosa alla salute (con il naso coperto dal dispositivo di protezione si respirerebbero microparticelle cancerogene), dall'altro, perché tale obbligo sarebbe illegittimo, frutto di una inconcepibile "dittatura sanitaria". Per forza di cose tra i "no mask" si annidano, in rapporto di genere a specie, anche i c.d. "negazionisti Covid" (quanti neologismi in tempi di pandemia...) secondo i quali il virus sarebbe un'invenzione della politica e dei media. Una clamorosa montatura funzionale agli scopi delle oligarchie mondiali - chi siano però i beneficiari ultimi di questo "complotto", non è dato sapere.
Veniamo a noi. Il tema che, in astratto considerato, per un giurista può suscitare interesse è quello relativo alla legittimità del precetto e quindi, nel nostro caso, alla fondatezza dell'obbligo di indossare le mascherine. Tema che ha già trovato una prima articolazione su questa Rivista nello scritto pubblicato il 16 giugno 2020 da Alberto Rizzo, titolato "Covid e mascherine": un contributo che, senza scendere nel merito della funzionalità tecnica di questi dispositivi "la cui valutazione è opportuno lasciare alle menti scientifiche", prova a rispondere alla domanda: "i regolamenti regionali e ministeriali che impongono alla popolazione di indossare le mascherine sono davvero del tutto legittimi?". Nel momento in cui è stato scritto l'articolo, infatti, non c'era una legge (recte: un atto avente forza di legge, quale il decreto emergenziale) a disciplinare l'obbligo, bensì un DPCM (quello del 26 aprile 2020) che provava a mettere ordine tra le varie ordinanze regionali e sindacali; inoltre, quattro mesi fa l'obbligo era meno invasivo riferendosi essenzialmente ai luoghi chiusi accessibili al pubblico. Sostituita la fonte, ampliato il divieto, l'interrogativo assume una sua problematicità giuridica e merita oggi una risposta più rigorosa ed esaustiva.
Partendo, anzitutto, da alcuni spunti dell'autore, il quale fa riferimento a due norme di carattere penale, che vietano di comparire mascherati o comunque travisati in un luogo pubblico: l’art. 85 del Testo Unico di legge sulla pubblica sicurezza (R.D. n. 773 del 18 giugno 1931) e l’art. 5 della L. n. 152 del 22 maggio 1975 (c.d. Legge Reale). Questo, in sintesi, il ragionamento seguito da Rizzo: poiché in particolare l'art. 5 sanziona penalmente l'utilizzo di ogni mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, e poiché quello da cui origina la pandemia non è "un virus che aleggia libero nell’aria e, d’altronde, ad oggi non ci sono protocolli sanitari che chiariscono come l’uso delle mascherine in luoghi aperti e non affollati sia funzionale a prevenire la diffusione del contagio" (questa, l'opinione dell'autore), indossare la mascherina all'aperto non andrebbe a costituire un "giustificato motivo": facendone discendere la conseguenza che tutti quelli che oggi la indossano potrebbero essere passibili di sanzione penale. Sollevando un ulteriore dubbio di tenuta ordinamentale: "o è avvenuta un’abrogazione implicita degli artt. 5, L. 152/75, e 85 R.D. 773/1931, poiché il loro contenuto è completamente contrastante con i nuovi regolamenti e decreti che impongono di andare in giro mascherati, oppure questi ultimi andrebbero disapplicati in favore delle leggi penali di rango superiore".
Anche al di là del fatto che, come detto, l'obbligo di indossare le mascherine sia stato recentemente introdotto con un decreto legge (e quindi, ragionando in termini costituzionali: è stato elevato il rango della fonte normativa), e al netto di quelle che appaiono inesattezze sul piano della teoria del reato (es.: una legge penale, anche se di rango superiore, non potrà mai prevalere su un successivo atto normativo relativo alla stessa materia più favorevole o addirittura scriminante; es.: una pena è applicabile al cittadino solo in quanto accessibile e prevedibile, giammai lo sarebbe se fosse l'Autorità - o addirittura lo stesso legislatore - ad imporre la condotta prevista dalla norma penale, acriticamente valutata), oggi appaiono doverose alcune specificazioni.
Non c'era prima, e non c'è oggi, alcuna situazione di antinomia normativa, di frontale contrasto tra precetti, per cui una norma (precedente o successiva, di grado inferiore o superiore) possa dirsi implicitamente abrogata. In questo senso il lettore va rassicurato: il nostro ordinamento è perfettamente armonico e coerente al suo interno, ieri (con il DPCM) come oggi (con il decreto-legge).
L'art. 5 della Legge Reale adotta infatti una tecnica normativa talvolta utilizzata nella formulazione dei precetti penali: viene definita una condotta (andare in giro col volto coperto, da caschi o da altro) penalmente rilevante ma si introduce al contempo una clausola scriminante, di salvaguardia in punto di illiceità, che è appunto il "giustificato motivo": questa locuzione, che può apparire ad occhi inesperti una formula di stile, è in realtà il principale elemento normativo della fattispecie penale, perché ne consente - per meglio definire i contorni della condotta - una integrazione eteronoma: dentro o fuori il sistema penale, prima o dopo l'entrata in vigore del reato, con norma di rango primario o secondario è possibile - in questo caso - legittimare l'individuo a "mascherarsi", per ogni ragione che, in virtù di un interesse pubblico (quello a cui ogni norma deve tendere), viene in astratto individuata.
In questo modo i compilatori della Legge Reale (una legge che peraltro aveva una finalità ben precisa, di tutela della pubblica sicurezza, emanata in un periodo storico in cui mafia, terrorismo e delinquenza comune - "a volto coperto" - rappresentavano il principale rischio di tenuta per il Paese) avevano intelligentemente prospettato una incriminazione che si espande e si riduce a seconda di altre e diverse esigenze che l'ordinamento deve assicurare all'individuo, giustificando talune sue azioni. Il concetto stesso di "giustificazione" esprime non solo la mera non punibilità, ma qualcosa di più: l'assenza di contrasto con l'ordinamento giuridico complessivamente inteso. Cosicché, il fatto che una norma (ieri di rango secondario: il DPCM; oggi di rango primario: il decreto legge) imponga l'utilizzo della mascherina anche all'aperto per chiare esigenze di carattere sanitario non collide in alcun modo con una fattispecie penale dal precetto elastico (che accoglie già, in via preordinata e astratta, diritti, facoltà e obblighi aliunde previsti nell'ordinamento); la quale peraltro, volendola analizzare sotto l'aspetto teleologico, primo vero criterio interpretativo, è stata ideata per contrastare fenomeni che, con il virus Covid19, non hanno nulla a che fare.
Stesso discorso vale per le esigenze religiose di ciascuno. In questo senso, non appare conferente il richiamo che Rizzo fa, quale termine di confronto del tema trattato, alle problematiche sollevate dall'utilizzo del burqa. Non a caso, alla domanda che egli si pone ("Una donna che va in giro indossando il burqa quale strumento di espressione della sua appartenenza religiosa, può considerarsi “mascherata” ai sensi delle leggi citate e, quindi, sanzionabile penalmente?") seguono riferimenti a pronunce del Consiglio di Stato, verosimilmente compulsato a seguito dell'emanazione di atti amministrativi: segno tangibile che la questione, al di là delle speculazioni che possono farsi in astratto, non ha mai avuto significativi dibattiti nel campo giurisprudenziale penale: e possiamo facilmente immaginarne le ragioni.
L'oscillazione tra le due possibili soluzioni prospettate (esser incriminati per aver indossato la mascherina o ritenere abrogata la relativa fattispecie incriminatrice) sconterebbe quindi, a nostro avviso, una fallacia argomentativa che non tiene conto da un lato dei meccanismi dell'incriminazione, in ogni caso conformati sul principio di effettiva rimproverabilità del soggetto agente, e dall'altro del concreto dispiegarsi del fenomeno dell'abrogazione implicita, cui l'ordinamento ricorre solo nell'estrema ipotesi in cui un legislatore strabico disciplini diversamente - in termini speculari e opposti - anche in tempi diversi una stessa materia.
Per concludere, sempre rassicurando il lettore: l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto o in luoghi chiusi aperti al pubblico è non solo (ovviamente) legittimo sotto l'aspetto giuridico, ma neppure importa (ovviamente) alcuna conseguenza penale per chi la osserva: al contrario, potrebbe avere conseguenze penalmente rilevanti disattendere tale obbligo: basti pensare alle responsabilità colpose di contagio - penalmente rilevanti, queste sì - di chi, bizzarramente sostenendo che "il virus non esiste", vada in giro a fare shopping come se nulla fosse, senza adottare alcuna protezione pur essendo infetto, e magari sintomatico; o di chi addirittura sia consapevole di esserlo, con o senza provvedimenti di confinamento a carico. Un obbligo quindi giuridicamente legittimo e, detto per inciso, fondato sotto l'aspetto scientifico, se è vero che questi provvedimenti, ieri e oggi, sono stati adottati di concerto con gli specialisti del relativo campo medico-sanitario.
Perché poi, in fondo, il diritto si trasforma in un vuoto simulacro senza un bagno nell' "immane concretezza" dei fatti concreti. Io, ad esempio, non so se il virus Covid19 "aleggia libero nell'aria" oppure si trasmetta attraverso un "contatto stretto" con la persona infetta; non so neppure se l'utilizzo prolungato di una mascherina determini o meno effetti dannosi per la salute. So soltanto che mentre scrivo il Presidente del Consiglio dei Ministri sta illustrando le nuove regole anti-contagio (sempre suggerite dalla comunità scientifica nazionale) che sembrano preludere ad un nuovo lock-down, e che comunque avranno ricadute disastrose sull'economia - le ennesime. In questo contesto, il problema (giuridico?) della possibile antinomia tra le norme dell'ordinamento e dell'implicita abrogazione di una legge del 1931 (la cui violazione è sanzionata con l'ammenda massima di mille lire...) e della legge Reale del 1975, una volta ribaditi i principi fondamentali, non assume alcuna rilevanza; ed è comunque lontano dalla realtà che oggi ci circonda.
Il CSM ha deciso: Davigo decade
di Mario Serio
Nel pomeriggio di ieri il Consiglio Superiore della Magistratura ha scritto una pagina di alto valore istituzionale nel corso del dibattito e, al termine di esso, del voto circa la legittimità della permanenza in carica di un Consigliere eletto quale magistrato di legittimità e collocato in quiescenza per il raggiungimento dell'età pensionabile durante il quadriennio.
Il valore che qui si riconosce ad un organo di recente percorso da scosse telluriche non dipende in alcun modo dal tipo di deliberazione adottata o dal merito degli argomenti a lungo e meditatamente discussi da ciascuno dei tanti Consiglieri intervenuti. In effetti, ognuno di essi ha offerto argomenti esclusivamente e motivatamente di tecnica giuridica, in particolare indirizzati al rinvenimento dei fondamenti costituzionali delle contrapposte tesi che si sono decorosamente contese il campo. Argomenti seri, serenamente fatti valere, intessuti del dichiarato rispetto per le contrarie opinioni. Si sono confrontate posizioni molto spesso sofferte sul piano umano e, malgrado ciò, mai viziate da ragioni di carattere personale. Si è trattato di un dibattito limpido e palese, ad onta della segretezza del voto: ammirevole esempio di convinzione e fiducia nell'idea senza remore o infingimenti manifestata. Ancor più rassicurante è stata la circostanza che nessuno dei partecipanti fosse portatore di preconcetti in tal misura radicati da impedirgli di apprezzare l'andamento del confronto: la più affidabile prova è costituita dalla riconsiderazione, anch'essa pubblica e plateale, dell'opinione precedentemente espressa e dalla conseguente modificazione della dichiarazione di voto, occorsa in qualche caso. C'è da nutrire la certezza che l'opinione pubblica non rimarrà insensibile, ed anzi si pronuncerà in termini plaudenti, al criterio aperto e leale di svolgimento di un'attività di non comune impegno in ragione sia della decisione da prendere sia dei valori in essa impliciti.
Vi è poi un altro elemento di indubbio, positivo interesse, che consolida una svolta già da qualche mese riscontrabile nella vita consiliare. Si allude all'interpretazione, coraggiosa e franca, che del proprio ruolo all'interno dell'Istituzione, hanno dato i componenti di diritto. Essi – come, appunto, da qualche tempo accade – hanno inteso contribuire al dibattito, e non con dichiarazioni rinunciatarie e di puro stile, sebbene con profonde riflessioni capaci di orientare, non certo per timore reverenziale o opportunistiche abdicazioni, il corso della discussione. Quel che maggiormente e favorevolmente ha impressionato è stato il dichiarato ed evidente fine degli interventi di Primo Presidente e Procuratore Generale della Corte di Cassazione: quello di concorrere all'adozione di una deliberazione che rinsaldasse funzioni, autorevolezza e solidità del Consiglio Superiore. In altri termini, cooperare al mantenimento del relativo prestigio e credibilità. Non viene qui in rilievo il fatto che il voto espresso dai due componenti di diritto abbia o meno in concreto raggiunto lo scopo (né i loro interventi si sono in alcun modo caratterizzati nel senso di aspirare ad un indebito condizionamento dell'organo): la punta di massima utilità è stata toccata nel momento stesso in cui il relativo sforzo argomentativo è stato votato alla stabilità del Consiglio Superiore, onde proteggerne la futura attività dalle insidie rappresentate dalla temuta discontinuità rispetto all'assetto costituzionale quale da essi divisato.
Se un modo andava cercato per rinfrancare la fiducia nell'operato di un organo dalla recente vita "agra", è certo che esso sia stato esattamente e perspicuamente individuato, nel superiore interesse del Consiglio, dall'apice della Magistratura italiana e dal trasparente e non renitente metodo applicato per far valere ( e non per la prima volta) la propria presenza, lontano dai prudenti ed imperscrutabili silenzi del passato.
Fabio Francario
UNA GIUSTA REVOCAZIONE “OSCURATA” DALLA PRIVACY. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866).
Sommario: 1.Le problematiche revocatorie e l’improvvido oscuramento dei dati identificativi degli atti emanati “in nome del popolo italiano” (le sentenze) - 2. La vicenda processuale pregressa - 3. La sentenza di revocazione e la sua motivazione - 4. I limiti intrinseci dell’istituto del giudicato lo rendono idoneo a regolare i rapporti tra decisioni giurisdizionali solo quando queste appartengono ad un medesimo ordine giurisdizionale e non anche quando queste provengono da giudici appartenenti a ordini diversi - 5.Osservazione conclusiva
1.Le problematiche revocatorie e l’improvvido oscuramento dei dati identificativi degli atti emanati “in nome del popolo italiano” (le sentenze).
La sentenza del CGARS n. 866 del 1 ottobre 2020 è meritevole di segnalazione sotto più profili.
Innnanzi tutto perché accoglie un ricorso per revocazione per dolo del giudice, che è di per sé ipotesi non frequente, e per la conseguente puntualizzazione di alcuni profili del regime giuridico dell’istituto della revocazione.
In secondo luogo perché è resa in materia elettorale, ed offre interessanti precisazioni sul tema della rilevanza delle lacune della verbalizzazione delle operazioni elettorali in termini di mera irregolarità o di efficacia invalidante.
In terzo luogo per le precisazioni sul tema dell’effetto espansivo esterno della riforma di una sentenza, dal momento che nel caso di specie la sentenza di merito era stata seguita dal giudizio di ottemperanza e questo a sua volta dalla rinnovazione dell’attività amministrativa.
In quarto luogo per l’attenzione al problema del contenuto e dei limiti del momento rescissorio, con particolare riferimento alle domande risarcitorie e restitutorie proponibili in esito al giudizio di revocazione.
Si potrebbe aggiungere che si segnala anche, non meritoriamente (ma il problema non dovrebbe riguardare il giudicante), per il fatto che un improvvido “oscuramento”, operato arbitrariamente e privo di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali, pregiudica la possibilità di avere piena contezza degli avvenimenti. Non vengono infatti oscurati solo i dati identificativi delle persone fisiche interessate dalla decisione. Anzi, a dire il vero, continuano ad essere chiaramente visibili le generalità di una delle parti del giudizio. Si obliterano però inspiegabilmente i dati identificativi delle pronunce di primo e secondo grado oggetto del giudizio di revocazione, fatto che rischia di render incomprensibile la pronuncia e che comunque di certo non ne agevola la comprensione. Dati identificativi delle pronunce (autorità, data e numero) e dati identificativi delle persone fisiche (generalità e altri dati identificativi della persona) sono cose diverse e sarebbe completamente fuori luogo, ove ne sia stata mai questa la ragione, invocare la possibilità che ciò renderebbe possibile identificare indirettamente la persona fisica, poiché un simile livello di riservatezza è previsto dall’ordinamento solo per le pronunce rese nei confronti di persone offese da atti di violenza sessuale o di minori o in materia di diritto di famiglia e di stato delle persone (articoli 51 e 52 codice della privacy). Allo stato l’oscuramento dei dati identificativi delle pronunce giudiziarie non solo mina l’intellegibilità intrinseca della pronuncia, ma pregiudica la stessa possibilità di controllo democratico delle decisioni giurisdizionali da parte degli operatori del diritto e di ogni singolo cittadino interessato. E’ un problema che va segnalato e sul quale sarà necessario tornare perché sotto questo profilo la pronuncia non è un caso isolato ma espressione di una crescente tendenza ad oscurare i dati identificativi delle pronunce giurisdizionali nonché, come spesso avviene in altri casi, i dati di enti e persone giuridiche che sono notoriamente sottratti alla disciplina della protezione dei dati personali (cfr. art 1 DPGR 2016/679: il Regolamento “stabilisce le norme relative alla protezione dei persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali” e “protegge i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche in particolare il diritto alla protezione dei dati personali”).
Il profilo che le presenti note intendono prendere in considerazione è però quello forse più delicato tra quelli toccati dalla pronuncia in commento, che è quello del rapporto tra giudicato penale e amministrativo. Di per sé considerata, la questione non avrebbe motivo di apparire problematica nei casi di revocazione straordinaria della sentenza per dolo del giudice, in quanto l’ipotesi normativa dell’art 395 c.p.c. presuppone chiaramente e dichiaratamente che il dolo sia appunto “accertato con sentenza passata in giudicato”. Nel caso di specie, tuttavia, il profilo torna problematico in quanto il giudizio penale, al termine del quale era stata comminata la pena prescritta per il reato di corruzione in atti giudiziari, si era chiuso con sentenza di patteggiamento.
2. La vicenda processuale pregressa.
Nella sua essenza, la vicenda processuale può essere ricostruita nei seguenti termini.
Nel 2012 si svolgono le consultazioni per l’elezione del Presidente della Regione e dell’Assemblea regionale siciliana.
Avverso il risultato delle operazioni elettorali vengono proposti diversi ricorsi al TAR Palermo, rigettati dal giudice di primo grado.
I ricorsi vengono però accolti dal CGARS che, riformando le sentenze di primo grado, ordina il rinnovo delle operazioni elettorali nei seggi interessati e in sede di ottemperanza nomina successivamente un candidato diverso dal controinteressato originariamente eletto.
Il Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa, della Sezione giurisdizionale, del Collegio giudicante, nonché relatore ed estensore delle sentenze d’appello viene successivamente condannato per i reati di cui agli artt. 110 e 319-ter c.p. in relazione all’art. 319 e 318 c.p., a due anni e sei mesi di reclusione, pena sospesa, con contestuale interdizione dai pubblici uffici per lo stesso periodo ex art. 317-bis c.p., versando la somma di € 25.000,00 sul libretto giudiziario a titolo di risarcimento del danno.
Il giudizio penale si conclude con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., depositata il 18 luglio 2019 e passata in giudicato il 14 settembre 2019.
La parte rimasta soccombente in appello, già controinteressata, proponeva a questo punto ricorso chiedendo la revocazione delle sentenze CGARS per dolo del giudice ai sensi all’art. 395, n. 6 c.p.c. e, conseguentemente, il rigetto dei ricorsi in appello e di ottemperanza, la conferma delle sentenze di primo grado e l’annullamento o dichiarazione di nullità del rinnovo parziale delle elezioni, ivi compresa l’avvenuta elezione dell’appellante a deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana in sostituzione del ricorrente in revocazione, nonché la dichiarazione della reviviscenza dell’originaria elezione di quest’ultimo alla carica di deputato dell’Assemblea regionale siciliana con le ulteriori conseguenziali statuizioni restitutorie e risarcitorie.
3. La sentenza di revocazione e la sua motivazione.
In punto di diritto, la necessità di chiarire se e quale efficacia di giudicato possa ritenersi propria della sentenza di patteggiamento ha posto il CGARS di fronte al problema della definizione dei limiti della rilevanza del giudicato penale nel giudizio amministrativo ovvero dei termini del rapporto tra giudicato penale e amministrativo[1].
Si legge nella sentenza: “ In particolare, al Presidente ed estensore delle sentenze di cui è stata chiesta la revocazione sono stati ascritti i reati “di cui agli artt. 110 e 319-ter c.p. in relazione all’art. 319 e 318 c.p., poiché, per favorire -OMISSIS- nei ricorsi presentati innanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa della regione Siciliana per ottenere l’annullamento delle elezioni regionali della Sicilia del 2012, -OMISSIS-, pubblico ufficiale, quale Presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana e consigliere estensore della sentenza del 5-OMISSIS-, sui ricorsi proposti, rispettivamente, da - OMISSIS- e -OMISSIS-, di fatto entrambi nell’interesse di -OMISSIS-, riceveva da - OMISSIS- – che metteva a disposizione la provvista finanziaria – con la mediazione di - OMISSIS- e -OMISSIS-, attraverso -OMISSIS-, somme di denaro non inferiori a 30.000,00 euro”.
Ai fini della decisione rescindente la vicenda penale evidenzia, ad avviso del ricorrente, che le sentenze n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS- del CGARS, alla luce del disegno unitario che le connoterebbe, sono state emesse per effetto del dolo del giudice. Ciò in quanto, nell’impostazione della domanda in esame, il reato proprio di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p. presenta, quale requisito di fattispecie, il dolo specifico di alterare il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria con una condotta non imparziale, favorevole al corruttore.
Il ricorrente ha evidenziato, in particolare, come il pactum sceleris, intercorso fra il corruttore (sig. -OMISSIS-), che ha messo la provvista finanziaria a disposizione del corrotto (l’allora Presidente del CGARS), il quale ha accettato la provvista e ha compiuto l’atto per favorire chi lo ha corrotto, fosse preordinato all’emanazione delle sentenze del CGARS n. -OMISSIS-, n. -OMISSIS- e n. -OMISSIS-, oggetto dell’azione revocatoria in esame”.
Stante la sussistenza di una disposizione come quella recata dall’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. che stabilisce espressamente che la sentenza cd di patteggiamento “non ha efficacia” nei giudizi civili e amministrativi, si è così posto il problema di chiarire se la natura giuridica della sentenza di patteggiamento sia tale da poter far ritenere comunque sussistente l’accertamento del dolo richiesto dall’art. 395, n. 6 c.p.c. per la revocazione della sentenza.
A voler esser più precisi, il problema si pone in quanto l’art. 445 c.p.p., per un verso, ai sensi del comma 1-bis, ultimo periodo, equipara la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a una sentenza di condanna, per l’altro, ai sensi del medesimo comma 1- bis dell’art. 445, ma primo periodo, afferma che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non produce effetti nei giudizi civili o amministrativi, come sopra già ricordato.
Nella sentenza in commento, il CGARS ha ritenuto che “In presenza di una sentenza di condanna emanata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. la valutazione in essa contenuta comprende anche l’elemento soggettivo del reato che, per i delitti, quale si configura la corruzione in atti giudiziari, consiste nel dolo (art. 42, comma 2, c.p.) e, per il reato proprio di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319-ter c.p., richiede il dolo specifico di alterare il corretto svolgimento dell’attività giudiziaria con una condotta non imparziale e scorretta del pubblico ufficiale favorevole a una delle parti” e che ciò sia sufficiente per ritenere che nel caso di specie sia ravvisabile una sentenza di accertamento del dolo nei termini richiesti ai fini della revocazione straordinaria.
In punto d’interpretazione sistematica, la sentenza sottolinea che l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. rappresenterebbe un “frammento” dell'articolata disciplina dei rapporti tra processo civile e amministrativo, da un lato, e processo penale, dall’altro, che va pertanto interpretato alla luce del microsistema prefigurato dal legislatore per il raccordo tra i suddetti giudizi creato dagli artt. 651 e 654 c.p.p. e considerando che il codice del 1988 ha ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale in favore di quello della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e dell'autonomia dei giudizi (Cass., sez. un., 11 febbraio 1998, n. 1445 e sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768), anche se, in specifiche e limitate ipotesi, continua ad attribuire al giudicato penale valore vincolante e/o preclusivo sugli altri giudizi. Muovendo da tali premesse, (con specifico riferimento al fatto che il primo periodo dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. dispone espressamente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti “non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi”) il CGARS ritiene che “gli artt. 651 e ss. c.p.p., di cui l’art. 445, comma 1-bis c.p.p. costituisce un corollario, riferiscono la limitata rilevanza extrapenale della pronuncia penale all’accertamento fattuale, che prescinde dall’elemento soggettivo, che costituisce invece l’unico dato rilevante ai fini della fattispecie di cui all’art. 395, n. 6 c.p.c.” e che “quest’ultima norma quindi si muove, sia da un punto di vista sistematico, sia sulla base dell’interpretazione del dato testuale, in prospettiva diversa dalle disposizioni di cui agli artt. 651, 651-bis, 652, 653 e 654 (e 445, comma 1-bis) c.p.p., non ricadendo quindi nelle preclusioni degli effetti extrapenali dei giudicati penali ivi previste”. La distinzione consente di affermare che “tratto distintivo delle ipotesi di rilevanza extrapenale della sentenza penale è costituito dalla circostanza che esse si riferiscono a casi nei quali il medesimo fatto storico (o parte di esso) rileva nei due giudizi per i diversi fini ai quali questi ultimi sono preordinati”; che “il presupposto della loro operatività è rappresentato dalla necessità di due diversi giudici di accertare la medesima realtà storica, sollecitando quindi un tema di incontrovertibilità del giudicato e di economia processuale, oltre che di garanzia del contraddittorio”; che “in ossequio alla volontà di circoscrivere in maniera chiara e netta l’efficacia extrapenale del giudicato penale, che costituisce una deroga alla scelta sistematica di garantire autonomia e separazione delle giurisdizioni, gli articoli sopra richiamati (651, 651-bis, 652, 653 e 654 c.p.p.) limitano espressamente tale efficacia all'accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, sottostando al limite costituzionale del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 2004, n. 14777), limite che viene in evidenza proprio in ragione dell’identità, almeno parziale, del fatto storico da accertare da parte di due giudici diversi e con regole processuali e di fattispecie differenti”, e che “la fattispecie di cui all’art. 395, n. 6 c.p.c., attribuendo espressamente rilevanza al dolo del giudice accertato con sentenza passata in giudicato, si riferisce, invece, a un’ipotesi processuale del tutto diversa”.
Si raggiunge così la conclusione che “la sentenza penale di accertamento del dolo, resa ai fini penali, costituisce un fatto storico la cui esistenza è idonea a consentire il positivo riscontro della domanda rescindente. Ciò è confermato dalla formulazione testuale del citato n. 6 dell’art. 395 c.p.c., che richiede che l’accertamento del dolo sia stato compiuto, con decisione intangibile, dal giudice a quo, e quindi nell’ambito della decisione resa per gli effetti penali”.
4. I limiti intrinseci dell’istituto del giudicato lo rendono idoneo a regolare i rapporti tra decisioni giurisdizionali solo quando queste appartengono ad un medesimo ordine giurisdizionale e non anche quando queste provengono da giudici appartenenti a ordini diversi.
4.1. In punto di diritto, la necessità di chiarire se e quale efficacia di giudicato possa ritenersi propria della sentenza di patteggiamento[2] ha posto il CGARS di fronte al problema della definizione dei limiti della rilevanza del giudicato penale nel giudizio amministrativo, creando l’occasione per una rimeditazione più generale del problema. Il problema non è stato tuttavia affrontato e risolto in maniera esplicita nei suoi termini generali, ma il percorso argomentativo lascia chiaramente trasparire il convincimento di fondo che il rapporto tra pronunce di giudici appartenenti a diversi ordini giurisdizionali, oggi come oggi, non possa più ritenersi regolato esclusivamente dal principio della rilevanza extra penale del giudicato (penale), riconducendo di volta in volta i singoli casi in una delle ipotesi normativamente tipizzate dagli articoli 651 e seguenti del c.p.p.; ma risponda comunque ad un più ampio principio di non contraddizione degli accertamenti giurisdizionali che è espresso solo in parte dalla disciplina degli effetti extra penali del giudicato.
Il fatto che, nel caso di specie, il problema sia stato risolto assumendo che l’ipotesi del patteggiamento non sia compiutamente riconducibile al sistema delineato dagli articoli 651 e seguenti c.p.p. e che concorra esso stesso alla definizione del sistema dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo, rende evidente lo sforzo di superare i limiti interpretativi che deriverebbero dall’applicazione dell’istituto del giudicato propriamente inteso. Nel caso del patteggiamento, il giudicato non si forma infatti nei termini presupposti ed espressamente indicati dagli artt 651 ss c.p.p. con riferimento ai fatti materialmente accertati nel giudizio penale (accertamento che in termini siffatti non avviene), ma il CGARS ritiene doveroso attribuire rilevanza ed efficacia vincolante al fatto di per sé considerato dell’intervenuta condanna per il reato di corruzione in atti giudiziari.
Se il percorso argomentativo non è perfettamente lineare e in alcuni tratti può destare più di una perplessità, ciò dipende dall’intrinseca inidoneità del giudicato a regolare i rapporti tra le decisioni giurisdizionali quando queste sono rese da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi tra loro.
Non viene delineato chiaramente il principio applicabile e il problema viene risolto applicando la tecnica del distinguo, sottraendo l’efficacia della sentenza di patteggiamento dal micro sistema delineato dagli articoli 651 e seguenti c.p.p.; ma proprio ciò rende evidente come entrambe le ipotesi debbano ritenersi espressione di un più generale principio di non contraddittorietà delle decisioni giurisdizionali, che è doveroso enucleare una volta venuta meno la regola della necessaria pregiudizialità ed affermatasi quella dell’autonomia come regola del rapporto tra giudizi resi da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi.
4.2. I limiti del presente commento non rendono ovviamente possibile ripercorrere le ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali sulla natura e sulla consistenza del giudicato e della cosa giudicata e sulle trasformazioni che l’istituto sta peraltro subendo nei tempi più recenti per effetto dell’evoluzione e/o integrazione dell’ordinamento nazionale con gli ordinamenti sovranazionali, comunitario e internazionale[3]. Riprendendo osservazioni che ho già svolto altrove [4], può essere sufficiente osservare che il giudicato è lo strumento cui ricorre l’Ordinamento per garantire certezza a rapporti giuridici controversi[5] e che il fenomeno del giudicato non è spiegabile né sul piano puramente processuale, né su quello puramente sostanziale, ma diventa pienamente comprensibile solo se visto sul piano dell’ordinamento giuridico generale [6], come momento d’incontro del processo con il diritto sostanziale, finalizzato a creare certezza in ordine ad una determinata situazione o rapporto giuridico.
Le norme creano certezza indicando preventivamente le condotte che possono o devono essere seguite. Le sentenze creano certezza in ordine al fatto che le norme siano state effettivamente osservate o violate. Una volta acquisita l’autorità della cosa giudicata, la sentenza diventa incontestabile ed incontrovertibile; ed in tal modo il giudicato garantisce che l’accertamento, una volta operato e divenuto incontestabile ed incontrovertibile, fornisca risposta alla fondamentale esigenza di certezza dei rapporti giuridici imposta dall’ordinamento generale. Qualunque sentenza, da qualunque giudice pronunciata, ha infatti un contenuto minimo che la caratterizza come atto espressione dell’esercizio della funzione giurisdizionale: l’accertamento[7]. Ciò che al fondo differenzia la sentenza dagli atti tipici degli altri pubblici poteri, la legge e l’atto amministrativo, non è altro che questa attitudine a creare certezza in ordine ad un rapporto giuridico controverso, ad un fatto, atto o comportamento la cui antigiuridicità è meramente asserita in limine litis, ma che risulta certa, in un modo o nell’altro, alla fine del giudizio. Un atto legislativo o un atto amministrativo sono pur sempre modificabili da un successivo atto dotato di pari forza; altrettanto non può dirsi per la sentenza, una volta che abbia acquistato la caratteristica che solo essa può acquisire: l’autorità della cosa giudicata.
All’interno dei diversi sistemi (penale, amministrativo e civile) il giudicato (e con esso il livello di certezza giuridica) non è però configurato in maniera omogenea. Nel sistema penale, la figura è normata essenzialmente dall’art. 649 cpp (divieto di un secondo giudizio): “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”. L’accento è posto soprattutto sul momento /effetto preclusivo del ne bis in idem[8]. Nel sistema civile, la norma di riferimento è recata dall’art. 2909 cod. civ. : “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. E’ evidente la sottolineatura del fatto che il giudicato è destinato a coprire tanto il dedotto, quanto il deducibile [9]. Più relativa appare la certezza nel sistema amministrativo, che presuppone e non definisce la nozione di giudicato. Le disposizioni generali sull’ottemperanza (art 112 c.p.a.) si limitano a prevedere che “i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altri parti” e che “l’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione … delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato” (anche se ormai il passaggio in giudicato non è più presupposto necessario per l’ammissibilità del giudizio); e l’art 34, con riferimento alle sentenze di merito, prevede che “In caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda: a) annulla in tutto o in parte il provvedimento impugnato …” e che “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. Il codice del processo amministrativo non ripropone più espressamente la formula risalente all’art 45 RD 26 giugno 1924 n. 1054 per la quale in caso di accoglimento del ricorso l’annullamento dell’atto amministrativo avviene con salvezza degli “ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”, ma rimane comunque evidente la limitazione al solo dedotto dell’efficacia della cosa giudicata, con significativa differenza rispetto al giudicato civile[10].
Qual che siano i suoi limiti oggettivi, il giudicato pare comunque in grado di assicurare la suddetta esigenza di certezza (non contraddittorietà e coerenza degli accertamenti) all’interno dello specifico sistema giurisdizionale in cui nasce.
Se, com’è nella tradizione e nell’opinione prevalente, cosa giudicata è il solo dispositivo della sentenza, una volta che sia stata già concessa ovvero negata una data misura giurisdizionale, questa non può essere nuovamente richiesta/concessa a/da altro giudice del medesimo sistema.
Nell’ambito di un medesimo sistema, dunque, l’istituto del giudicato è certamente in grado di risolvere il problema: la nuova richiesta di una misura già concessa o negata inter partes è paralizzata dall’eccezione di cosa giudicata.
4.3. Diversamente stanno le cose se il problema di evitare il contrasto tra giudicati viene considerato con riferimento alla funzione giurisdizionale vista nel suo complesso, con riferimento cioè alle decisioni non solo di diversi giudici, ma di giudici diversi (penale amministrativo e civile). In tal caso si deve infatti prendere atto che l’istituto del giudicato, di per sé considerato, non può essere utilmente impiegato a tal fine.
Se si vuole utilizzare l’istituto per risolvere il problema delle possibili reciproche interferenze, bisognerebbe iniziare a chiarire innanzi tutto che il giudicato deve ritenersi inteso in senso estensivo, con estensione cioè dell’autorità del giudicato alla motivazione della sentenza. E’ noto infatti che l’accertamento si distribuisce tra motivazione e dispositivo, tra la parte della sentenza in cui si forma il giudizio di diritto in relazione alla situazione di fatto ricostruita in base alle allegazioni ed alle prove delle parti e quella in cui si esprime il comando del giudice rivolto alle parti; ma è noto anche che è molto discusso cosa effettivamente “passi in giudicato” di una sentenza: se solo il dispositivo o anche la motivazione (e quindi anche le premesse di fatto e di diritto della decisione) [11]. Sul piano della teoria generale, il fenomeno è ampiamente ed approfonditamente studiato nell’ambito della teoria della pregiudizialità, ed in linea di principio porta ad escludere dall’ambito oggettivo della cosa giudicata la questione pregiudiziale che venga decisa nell’ambito del medesimo processo senza trasformarsi in una vera e propria causa pregiudiziale[12]. A rigore, quindi, ciò che rappresenta un antecedente logico della decisione, una questione soltanto pregiudiziale, non verrebbe coperto dall’efficacia della cosa giudicata, sicchè a nulla varrebbe invocare l’avvenuta formazione del giudicato. Si potrebbe tuttavia prendere atto che, specie nel processo civile ed in quello amministrativo, è ormai invalsa la distinzione tra questioni che sono semplicemente un antecedente logico giuridico della decisione, e quelle che rappresentano un presupposto logico necessario del dispositivo; e che tale distinzione ha come conseguenza quella di comprendere queste ultime nell’ambito della cosa giudicata sostanziale[13].
Ma anche estendendo la formazione della cosa giudicata alla motivazione della sentenza e quindi alle questioni pregiudiziali nei limiti e nel senso sopra precisati, bisognerebbe prendere comunque atto che il giudicato ormai da tempo non è più lo strumento in grado di garantire coerenza e uniformità degli accertamenti giurisdizionali di giudici diversi.
Il sistema anteriore alla riforma del codice di procedura penale del 1988 privilegiava infatti l’impiego della tecnica della sospensione del processo [14]per consentire la previa risoluzione, con forza di giudicato, della “questione” pregiudiziale nell’ambito di quella che diveniva una vera e propria “causa” pregiudiziale (v. artt. 18, 19 20 e 21 cod. proc. pen.). Tale soluzione era sicuramente in grado di assicurare coerenza ed uniformità degli accertamenti, ma è stata ritenuta tale da incidere altresì in modo eccessivamente gravoso sulla speditezza processuale e sul principio della ragionevole durata dei processi; e l’ordinamento si è pertanto orientato nel verso di impiegare la tecnica delle cognizione incidentale in luogo di quelle della sospensione per pregiudizialità. Non essendo più necessario risolvere con forza di giudicato una questione soltanto pregiudiziale, è pertanto possibile che la medesima questione venga adesso conosciuta da entrambi i giudici.
Nel sistema attuale, Cassazione e Consiglio di Stato concordano nel ritenere che “dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale si desume che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità della giurisdizione, ma a quello dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell’uno e dell’altro ramo, delle questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione”; e che “pertanto, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo (civile previste dall’art. 75 cpp nuovo terzo comma) da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e dall’altro il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti” (CASS. Civ. Sez. III, 10 agosto 2004 n. 15477 ; id. Cass. Civ. Sez. II 25 marzo 2005 n. 6478); ovvero che “a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale è stato espunto dall’ordinamento l’art. 3 del previdente cpp il quale prevedeva la possibilità della sospensione del processo civile o amministrativo, conseguentemente i due giudizi sono attualmente dominati dalla regola dell’autonomia” (Cons. Stato, Sez. V 6 dicembre 2004 n. 1462; Id. sez. IV 1 giugno 2004 n. 465).
L’inversione di rotta sul tema della pregiudizialità, puntualmente sottolineata dalla sentenza che si commenta, per un verso dimostra che attualmente l’Ordinamento non sarebbe uniformato al principio dell’unità della giurisdizione, ma al principio dell’autonomia delle singole giurisdizioni; per l’altro deve però anche condurre a concludere che diventa irrilevante e fuorviante l’impiego dell’istituto del giudicato per trarre da esso la regola del rapporto tra accertamenti operati da giudici appartenenti ad ordini giurisdizionali diversi.
5. Osservazione conclusiva.
La sentenza in commento sembrerebbe dunque dimostrare che l’abbandono della tecnica della sospensione per pregiudizialità ha fatto venir meno il ruolo centrale svolto dal giudicato strettamente inteso, ma non ha certamente implicato il venir meno del principio generale che vuole comunque garantita la coerenza e la non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali.
Affermare il principio di autonomia anziché di unicità della giurisdizione non significa affatto escludere la vigenza del principio di coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali[15]. Al contrario, nel momento in cui si chiarisce che l’impiego a tali fini dell’istituto del giudicato avviene in maniera impropria, vale piuttosto a dare ad esso maggior risalto. Se infatti si chiarisce che il doveroso condizionamento che può aversi qualora uno stesso fatto venga conosciuto da più giudici appartenenti ad ordini diversi, fuori dai casi espressamente previsto dagli artt 651 ss c.p.p., non è spiegabile in termini di efficacia propria e diretta del giudicato, bensì appunto per l’osservanza del suddetto principio di coerenza e non contraddittorietà, ciò aiuta sicuramente a far emergere con maggior nitidezza il principio in quanto tale. Ciò che conta è che accertamento giurisdizionale vi sia stato e che, per poter risultare vincolante, esso sia avvenuto nel rispetto del contraddittorio e quindi dell’identità delle parti nei giudizi.
Una volta chiarito che il principio da osservare è quello che impone di assicurare la coerenza e non contraddittorietà degli accertamenti giurisdizionali, ciò ha ricadute che, per loro importanza, non possono essere trascurate. Prima tra tutte quella che l’abbandono del principio di unicità e l’affermazione di un principio di autonomia non possono giungere fino al punto di consentire che giudici diversi possano ricostruire “verità” diverse solo perché appartenenti ad ordini diversi o per via del fatto che il rapporto non può essere regolato attraverso l’efficacia del giudicato propriamente inteso.
La sentenza commentata ha fatto corretta applicazione di tale principio, ritenendo che la sentenza di patteggiamento abbia comunque consumato un (motivato) giudizio che ha portato ad irrogare la pena prevista per il reato di corruzione in atti giudiziari.
[1] Per la ricostruzione tradizionale dei termini generali del problema v. Chiavario, Giudizio (rapporti tra giudizi), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 984 ss; E.T. Liebman, L’efficacia della sentenza penale nel processo civile, in Riv dir proc. 1957, 5 ss; R. Normando, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, VI, 59 ss.
[2] Sulla discussa natura della sentenza di applicazione della pena adottata dal giudice in accoglimento della richiesta delle parti per tutti v. A. Arru, L’applicazione della pena su richiesta delle parti, in G. Spangher (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, 4, I, 38 ss e A. Ruggiero, Patteggiamento, in Dig. Discpl. Pen., Aggiornamento, Milano, 2009, II, 964 ss e ivi ulteriori riferimenti.
[3] Per più ampi riferimenti si rinvia a F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018 e La violazione del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata ingiudicato, in Federalismi.it, 13/2017, entrambi ripubblicati nella raccolta Garanzie degli interessi protessi e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 209 ss e 399. Tra i diversi contributi dottrinari si segnalano comunque in particolare V. Colesanti, La revocazione è diventata un istituto inutile?, in Riv. Dir. Proc., 2014, 1, 26 ss; L.P. Comoglio, Requiem per il processo “giusto”, in Nuova Giur. Civ., 2013, 1 ss.
[4] Sul rapporto, generalmente considerato, tra giudicato penale e amministrativo v. F. Francario, L’accertamento del fatto illecito nel giudizio penale e amministrativo. Problemi e interferenze, in Pubblica amministrazione diritto penale criminalità organizzata, Atti del convegno dell’Osservatorio Permanente sulla criminalità Organizzata – O.P.C.O., Siracusa 14 – 16 luglio 2006, Milano, 2008, 93 ss; con particolare riferimento alle problematiche tipiche della materia edilizia e urbanistica v. anche Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale e amministrativo, in Riv. giur. edil, 4/2015 ripubblicato anche nella raccolta Garanzie degli interessi protessi e della legalità dell’azione amministrativa, cit., 185 ss.
[5] A. Cerino Canova, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Riv. dir. civ., 1977, I, 395 ss; E.T. Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, rist., Milano, 1962; G. Pugliese, Giudicato civile, in Enc. Dir., XVIII,Milano, 1969, 727.
[6] A. Falzea, Accertamento, in Enc. Dir., I, Milano, 1958.
[7] E. Fazzalari, Sentenza civile, in Enc. Dir., XLI, Milano, 1989, 1245 ss; F. Lancellotti, Sentenza civile, in Noviss Dig. It., XVI, Torino, 1969, 1139 ss.
[8] Cfr.: F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, 1083 ss; De Luca, Giudicato (diritto processuale penale), in Enc. Giur., XV, Roma, 1989, 1 ss.
[9] Per tutti v E.T. Liebman, Giudicato (diritto processuale civile), in Enc. Giur., XV,Roma, 1989, 1 ss; S. Menchini, Il giudicato civile, Torino, 2002.
[10] Cfr. C. Cacciavillani, Il giudicato, in Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2013, 559 ss; G. Mari, Giudice amministrativo ed effettività della tutela. L’evoluzione del rapporto tra cognizione ed ottemperanza, Napoli, 2013, 154 ss; S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria dl processo, Milano, 2016; S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017. Fondamentali ancora oggi F. Benvenuti, Giudicato (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969; E. Cannada-Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XII, Milano, 1966, 1080ss. Anteriormente all’entrata in vigore del codice v. anche A. Attardi, In tema di limiti oggettivi della cosa giudicata, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1990, 386 ss; C. Consolo, Oggetto del giudicato e principio dispositivo, in Riv. Trim. Dir. Proc. civ., 1991, 569 ss; B. Sassani, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989.
[11] È d’immediata evidenza che il problema non ha ragione d’essere se il giudicato viene limitato al solo dispositivo della sentenza, al comando del giudice. In tal caso diventa perfettamente inutile invocare l’applicazione dell’istituto del giudicato in quanto le misure giurisdizionali sono tipiche di ciascun ordinamento e non è nemmeno immaginabile che il giudice amministrativo irroghi misure penali o viceversa.
[12] Problematica esemplarmente affrontata da A. Romano, La pregiudizialità nel processo amministrativo, Milano, 1958; per gli ulteriori sviluppi e riferimenti dottrinari mi sia consentito rinviare a F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, 14 ss.
[13] Cfr.: S. Menchini, Il giudicato civile, cit., 76-96; F. Francario, Sentenze di rito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 1/2007, 82 ss. In giurisprudenza v. ad es. Cass. Civ. Sez. I, 5 luglio 2013 n. 16824; Id., 10 settembre 2013 n. 20692;
[14] E. Micheli, Sospensione, interruzione ed estinzione del processo, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1942, 7 ss; E.T. Liebman, Sulla sospensione propria ed “impropria” del processo civile, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1958, 153 ss; Trisorio Liuzzi, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987.
[15] Per spunti in tal senso v. anche E. Follieri, L’autonomia e la dipendenza tra i processi in materia di responsabilità pubbliche, in Dir. Proc. Amm., 2014, 391 ss; E. Picozza, La rilevanza delle pronunce del giudice amministrativo nel giudizio civile ed in quello penale, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Europa del diritto: i giudici e gli ordinamenti. Atti del convegno di Lecce del 27-28 aprile 2012, Napoli, 2012, 294 ss.
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