ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Svolgimento delle udienze dibattimentali a seguito dell'entrata in vigore del D.L. n. 149/2020 del 9.11.2020, art. 24.
Dopo l’entrata in vigore del DL n. 137/2020 del 28.10.2020, art. 23, [1], il legislatore è nuovamente intervenuto sulle modalità di svolgimento dei procedimenti penali nel periodo emergenziale con l’art. 24 del D.L. n. 149/2020, che contiene le "Disposizioni sulla sospensione del corso della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali...nel periodo di emergenza epidemiologica da C0V1D-19".
Ai sensi di detta norma, a partire dal 9.11.2020 i giudizi penali sono sospesi durante il tempo in cui l'udienza è rinviata per l'assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell'imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova, "quando l'assenza è giustificata dalie restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dalla sottoposizione a isolamento fiduciario" in conseguenza delle misure urgenti in materia di contenimento e gestione della emergenza epidemiologica da COVID-19.
Tale disposizione chiarisce l'inapplicabilità automatica, allo stato attuale, dell'istituto del legittimo impedimento per i casi di provenienza da aree del territorio nazionale caratterizzate da uno scenario di massima gravità e da un livello di rischio alto (cd. zone rosse), in relazione alle quali ai sensi dell'art. 3 del DPCM 3.11.2020:
"a) è vietato ogni spostamento in entrata e in uscita dai territori di cui al comma 1, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute."
La partecipazione al processo quindi rientra fra i motivi di deroga al divieto di spostamento.
Sono fatte salve ovviamente le valutazioni sul caso singolo da parte del giudice.
Si pubblicano al riguardo le “indicazioni” (è sempre fatta salva infatti l’autonoma valutazione del giudice nel caso specifico) elaborate dalla Sezione penale di Vicenza[2] riguardo alla trattazione dei processi penali in relazione all’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell'imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire per esigenze di acquisizione della prova.
[1] Commentato da questa Rivista con l’articolo “Decreto legge Ristori, disposizioni emergenziali per l’esercizio della attività giurisdizionale, di Marta Agostini e Michela Petrini.
[2] I giudici che hanno partecipato a questa elaborazione sono Camilla Amedoro, Antonella Crea, Chiara Cuzzi, Deborah De Stefano, Filippo Lagrasta, Luigi Lunardon, Claudia Molinaro, Lorenzo Miazzi, Giulia Poi, Alessia Russo e Veronica Salvadori.
La Corte di assise nell’ordinamento giudiziario e nelle tabelle
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. Tabelle e composizione della Corte di assise - 2. La Corte di assise nell’ordinamento giudiziario e nella legge del 1951 (ancora vigente) - 3. Dalla “nomina” alla “destinazione”: l’intervento del D.p.r. n. 448 e l’inserimento nelle tabelle - 4. La disciplina sulla composizione della Corte di assise - 5. La scelta dei componenti della Corte di assise - 6. Componenti supplenti - 7. I componenti aggiunti dei “collegi bis”.
1. Tabelle e composizione della Corte di assise
Chi cerca, nei più diffusi “codici di procedura penale e leggi complementari”, la voce “Corti di assise”, trova una sola legge, la n. 287 del 1951, con appena l’avvertenza che dove si parla del Pretore ora si intende Tribunale, e con gli ultimi aggiornamenti risalenti al D.L. n. 394 del 1987. Lo stesso accade compulsando Normattiva.
Basta però la lettura di poche righe per capire che c’è qualcosa che non va, soprattutto per la componente togata, la cui nomina si avrebbe all’esito di una procedura piuttosto anomala e si formalizzerebbe con un decreto del Presidente della Repubblica. La lettura complessiva della legge del 1951, poi, rimanda con evidenza a un ordinamento giudiziario che non c’è più, in cui la Corte di assise era un organo autonomo rispetto ai tribunali, istituito e disciplinato secondo regole all’evidenza superate.
Però se, col procedimento opposto e quindi partendo dall’attualità, si cerca la voce Corte di assise nella nuova circolare sulle tabelle[1], confidando che le regole pratiche sulla sua composizione si trovino lì, si rimane parimenti delusi, perché in qualche punto si parla di questo organo, ma solo per dettagli che non consentono di ricostruire il quadro.
E la ricostruzione del quadro non solo non è facile, ma non dà certezza di quale sia oggi il diritto positivo ordinamentale che lo costituisce. Proviamo.
2. La Corte di assise nell’ordinamento giudiziario e nella legge del 1951 (ancora vigente)
Nell’ordinamento giudiziario del 1941 la Corte di assise è un organo autonomo tanto che, come recita l’art. 60, “le altre norme riflettenti l'ordinamento della corte di assise sono dettate da legge speciale”. La Corte di assise ivi prevista ha competenza ordinariamente distrettuale[2], è articolata in sezioni che possono avere sede in più tribunali, ha la durata temporanea di un anno[3].
La sua composizione, anche in primo grado, rivela la sua anomalia: “la corte di assise e' composta: a) da un presidente di sezione di corte di appello che la presiede; b) da un consigliere di corte di appello ovvero da un presidente o presidente di sezione di tribunale; c) da cinque assessori.”
E’ un organo che richiama le itinerant courts anglosassoni: i componenti togati sono nominati ogni anno, sono (tendenzialmente) unici per distretto e girano per le varie Corti, integrandosi con gli “assessori”, cioè i giudici popolari locali.[4]
La Corte di assise descritta dalla legge sull’ordinamento giudiziario è dunque un organo palesemente eccentrico. Perciò la legge n. 287 del 1951 procede al suo riordino, e detta la norma per la sua composizione, che, attraverso una serie di modifiche[5], è tuttora in vigore:
"Art. 3 (Composizione delle corti di assise). - La corte di assise e' composta: a) di un magistrato del distretto scelto, tra quelli aventi funzioni di appello, che la presiede o, in mancanza o per indisponibilita', tra quelli aventi qualifica non inferiore a magistrato di appello; b) di un magistrato del distretto avente le funzioni di magistrato di tribunale; c) di sei giudici popolari".
3. Dalla “nomina” alla “destinazione”: l’intervento del D.p.r. n. 448 e l’inserimento nelle tabelle
La disciplina relativa alla nomina[6] è stato modificata invece dal D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, che ha introdotto nell’ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) gli artt. 7-bis e 7-ter, e dall’art. 1, comma 1, l. 12 gennaio 1991, n. 13.
Per la normativa vigente, quindi, la destinazione (quindi non più la nomina) dei singoli magistrati alle corti di assise è stabilita ogni biennio con decreto ministeriale, in conformità delle deliberazioni del C.S.M. assunte sulle proposte dei presidenti delle corti di appello, sentiti i consigli giudiziari[7].
Dunque, la disciplina tabellare relativa alla “destinazione” dei giudici alla Corte di assise si è interamente sostituita a quella originaria sulla “nomina” dei magistrati; afferma il CSM[8] che l’entrata in vigore del nuovo codice di rito e, soprattutto, del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, induce ad un’attenta rimeditazione della questione dell’autonomia giurisdizionale delle Corti di assise “avendo la corte di assise perso le essenziali caratteristiche sulla cui base era stata ritenuta la natura di “organo giurisdizionale autonomo… Ne consegue che le corti di assise sono considerate articolazioni, sia pure con competenze particolari, degli uffici presso i quali sono istituite, cioè del tribunale e della corte di appello”[9].
4. La disciplina sulla composizione della Corte di assise
Il D.p.r. n. 448 non è però intervenuto sulla disciplina relativa alla composizione della Corte di assise, che rimane quindi quella della legge del 1951: essa è quindi composta[10] da “un magistrato … scelto tra quelli … aventi una qualifica non inferiore a magistrato di appello”, che presiede; e da “un magistrato avente le funzioni di magistrato di tribunale”, che siede a latere.
Originariamente, la magistratura era strutturata in funzioni di rango diverso[11]. Richiedendo le funzioni di giudice di tribunale, la ratio delle leggi del 1941 e del 1951 era quella di evitare che andassero a comporre tale organo i pretori (che erano all’epoca magistrati di rango inferiore) e gli uditori giudiziari, anche con funzioni. La richiesta di esperienza si era conservata anche per il periodo successivo: il presidente (che prima doveva avere le funzioni di appello) doveva avere almeno la qualifica di magistrato di appello, che si raggiungeva dopo 11 anni di funzioni di magistrato di tribunale. La nomina a magistrato di tribunale, a sua volta, aveva luogo al compimento di due anni dalla nomina a uditore giudiziario[12]. Quindi, occorrevano 13 anni di esperienza giudiziaria per presiedere una Corte di assise, due per sedere a latere.
Con la legge 160/2006 (modificata dalla l. 111/2007) cambia la normativa, per cui ora i magistrati ordinari si distinguono secondo le funzioni esercitate; le funzioni giudicanti sono: di primo grado, di secondo grado e di legittimità. Vengono introdotte per la progressione le valutazioni di professionalità.
Non viene aggiornata però la normativa sulla Corte di assise. Si deve tradurre allora la nozione di “qualifica non inferiore amagistrato di appello” e di “magistrato di Tribunale” con la nuova disciplina.
La cosa pare più semplice per il Presidente: fra le funzioni giudicanti di secondo grado è compresa quella di Consigliere di appello, che pare agevolmente equiparabile alla “qualifica di magistrato di appello”, e per la quale è richiesto (art. 12 comma 3) il conseguimento almeno della seconda valutazione di professionalità, quindi (solo, ndr.) 8 anni di esercizio delle funzioni giudiziarie.
La questione è più complessa per il giudice a latere.
Infatti (art. 12 comma 2) per il conferimento delle funzioni giudicanti di primo grado è richiesta la sola “delibera di conferimento delle funzioni giurisdizionali al termine del periodo di tirocinio”. Si può quindi sostenere che la qualifica di magistrato di Tribunale, che richiedeva l’esercizio di almeno due anni di funzioni giudiziarie, sia ora attribuibile al “magistrato di primo grado”, cioè al magistrato ordinario in tirocinio che assume le funzioni, senza esperienza giudiziaria. Al contrario, si può sostenere che, dato che la legge richiede un’anzianità di due anni almeno per fare il giudice a latere, la qualifica ora è attribuibile ad un magistrato che abbia la prima valutazione, o quantomeno a un “magistrato di primo grado” che abbia svolto funzioni per almeno due anni.
Sul punto le nuove tabelle non prendono posizione, come anche le precedenti, in vigenza delle quali si erano create due prassi, conformi ai due orientamenti.
Secondo il primo orientamento, la normativa prevedendo che si debba aver conseguito la qualifica di magistrato di tribunale, esclude i MOT che cominciano a svolgere funzioni giurisdizionali nei primi due anni, pari al tempo necessario in precedenza per poter conseguire la qualifica di magistrato di tribunale; anzi, secondo alcuni il riferimento al requisito della qualifica superiore a quella iniziale (cioè “magistrato di tribunale” anziché “uditore con funzioni”) sembra evidenziare chiaramente la necessità che, per comporre la Corte di assise, il neo magistrato di primo grado sia stato sottoposto alla prima valutazione di professionalità con esito positivo. Con la disciplina attuale, come si è detto, la prima valutazione di professionalità necessita del decorso di 4 anni e non più di due.
Un secondo orientamento, invece, afferma che “magistrato di tribunale” oggi equivale a “magistrato di primo grado” in quanto primo grado della “carriera” del giudice; un orientamento che certo è rafforzato dallo “stato di necessità” in cui si trovano alcuni tribunali, specialmente del sud.
A mio avviso trova maggiore supporto normativo il primo orientamento. In particolare, la circolare sulle valutazioni di professionalità sembra equiparare il diritto alla valutazione secondo la previgente qualifica di magistrato di tribunale a quella prima valutazione di professionalità[13]. Ancora più rilevante è la circolare in materia di supplenze e applicazioni, che prevede non possano essere destinati in supplenza i magistrati con qualifica inferiore alla prima valutazione, con ciò evidenziando sia di non poter turbare il percorso formativo del neo magistrato, sia di richiedere la preventiva acquisizione di una qualche professionalità prima di assumere ruoli diversi dal proprio[14].
5. La scelta dei componenti della Corte di assise
Altro punto controverso, su cui la Circolare sulle tabelle non fornisce chiarimenti, riguarda le modalità della nomina. Una vota sciolto il primo dubbio e deciso quali magistrati possono farne parte, come sceglierne i componenti?
Anche in questo caso, le prassi seguite sono diverse. Si va da chi non ritiene esista il problema, inserendo i componenti dell’assise in tabella come quelli di un normale collegio della sezione penale, a chi all’opposto bandisce un vero e proprio concorso per titoli. Non mancano, ovviamente, vie mediane.
E’ quella del concorso separato, a mio avviso, la scelta più aderente al dato normativo. Pur avendo perso la sua originaria autonomia ed essendo un organo tabellare di giurisdizione penale, infatti, la Corte di assise non si identifica con la sezione penale (formata da un Presidente nominato dal CSM e da magistrati “semplici” di ogni anzianità) ma è, per usare le parole del CSM, una articolazione con competenze particolari del Tribunale, dato che la sua composizione è normata con regole speciali dettate dalla legge: un magistrato con qualifica di appello per presiederla, un magistrato con funzioni di tribunale come giudice a latere. Nella sezione ordinaria in mancanza di magistrati più anziani un collegio può essere presieduto da un magistrato di prima valutazione e anche da un ex uditore con funzioni, oggi magistrato di primo grado; a presiedere tabellarmente la Corte di assise in mancanza di un giudice interno alla sezione penale dotato della qualifica necessaria, deve essere chiamato un altro giudice del Tribunale avente la qualifica di appello, anche se per ipotesi proveniente dal civile o dal GIP, o lo stesso Presidente del Tribunale, pena una composizione illegittima.
Se possono farne parte anche giudici esterni alla sezione penale, allora la possibilità di chiedere di entrare nella Corte di assise deve essere riconosciuta anche ad essi, e quindi deve essere emanato un interpello per la destinazione all’organo; e a questo punto la scelta non può che avvenire sulla base dei titoli che dimostrino i requisiti di attitudini, servizio e ruolo (oggi con le nuove tabelle invertiti).
6. Componenti supplenti
La specificità ordinamentale della Corte di assise emerge anche dalla disciplina delle supplenze e applicazioni, del tutto diversa da quella ordinaria.
L’art. 8 l. 10 aprile 1951, n. 287, nel testo introdotto dall’art. 3 d.l. 25 settembre 1987, n. 394, prevede la nomina anche di un presidente ed un magistrato supplente per ogni corte di assise o di assise di appello[15]. Come evidenziato anche dal CSM nel parere 23.10.1996, tale disposizione non può ritenersi implicitamente abrogata (come invece i commi 1 e 3) “atteso che nulla dispone in proposito l’ordinamento giudiziario”.
Premesso quindi che vanno nominati anche i componenti supplenti, l’art. 97 ord. giud., che disciplina le supplenze dei magistrati negli organi giudiziari collegiali, al comma 3 prevede che “il presidente della corte di appello provvede [alla supplenza] per i magistrati che compongono le corti di assise di appello, le corti di assise e i tribunali regionali delle acque pubbliche”.
Non solo: esiste un’altra disposizione concernente la supplenza dei magistrati che trova applicazione anche con riferimento alla corte di assise. Si tratta dell’art. 2 d.lgs. lgt. 3 maggio 1945, n. 232, per il quale “qualora sorga l’improvvisa ed urgente necessità di sostituire magistrati mancanti, assenti o impediti, per assicurare il funzionamento di un ufficio o la composizione di un collegio, i capi delle Corti, secondo le rispettive attribuzioni, possono, in deroga alle vigenti norme in materia, provvedere alla supplenza anche con magistrati del grado inferiore, appartenenti allo stesso o ad altri uffici del distretto...”. Ciò consente di nominare anche magistrati non del Tribunale, ma del distretto.
Tale norma risulta tuttora vigente, in quanto prorogata “fino a nuova disposizione” dall’art. 1 l. 5 marzo 1951, n. 190. L’applicabilità della stessa è stata ritenuta ancora pienamente legittima dal C.S.M.[16] in quanto destinata a far fronte a situazioni di “improvvisa ed urgente necessità”,
In questo complesso quadro normativo, il CSM ritiene che l’art. 97 ord. Giud. (che esplicitamente definisce “frutto probabilmente di un difettoso coordinamento delle nuove norme”) operi non in sede preventiva ma in sede successiva, quando la previsione tabellare risulti non sufficiente a soddisfare le esigenze di funzionamento ed efficienza degli uffici.
Pertanto si può affermare che anche l’indicazione dei componenti supplenti deve avvenire primariamente in sede tabellare, nel rispetto del principio della precostituzione del giudice previsto dagli artt. 7-bis e 7-ter ord. giud..
L’art. 97 ord. giud. prevede invece un potere di supplenza sussidiario, destinato ad operare, nel caso di impedimento del magistrato supplente già indicato nelle tabelle. Tale potere di supplenza, secondo il CSM, “deve essere esercitato in accordo con il principio generale previsto dall’art. 7-ter ord. giud., per il quale la sostituzione del giudice impedito deve avvenire nell’ambito dei criteri stabiliti dal C.S.M., introdotti per ciascun ufficio all’atto di approvazione della proposta tabellare del presidente della corte di appello.”
Quindi, ove le tabelle in vigore già prevedano un sistema automatico e predeterminato di individuazione del magistrato destinato alla supplenza ex art. 97, comma 3, ord. giud., il presidente della corte dovrà emanare un provvedimento che, in attuazione dei criteri indicati, individui il magistrato.
Quanto alla supplenza ex art. 2 .lgs. lgt. 3 maggio 1945, n. 232, che va disposta dal presidente della corte di appello, secondo il CSM l’eccezionalità che la caratterizza induce a ritenere che trattasi di un meccanismo cui può ricorrersi in via ulteriormente subordinata rispetto a quelli, sopra descritti, degli artt. 7 bis, comma 2, e 97, comma 3, ord. giud..
In conclusione: i supplenti di Corte di assise vanno nominati espressamente nelle tabelle, che possono prevedere il magistrato “ulteriormente supplente” ex art. 97 ord.giud.; qualora manchi o sia impedito il magistrato supplente, il Presidente della Corte d'appello nomina il supplente ex art. 97 secondo l’indicazione delle tabelle, o in mancanza secondo i criteri tabellari delle supplenze; in caso di urgenza e di impossibilità di provvedere ex art. 97, effettua la nomina ex art. 2 l. n. 232/1945 anche attingendo a magistrati di altri uffici giudiziari del distretto.
7. I componenti aggiunti dei “collegi bis”
L’art. 10 D.Lvo 28 luglio 1989, n. 273 dispone che “Per i dibattimenti della corte di assise e della corte di assise di appello che si prevedono di durata particolarmente lunga, il presidente della corte di appello ha facolta' di disporre che prestino servizio due magistrati, i quali assistono al dibattimento in qualita' di aggiunti.”
E’ chiaro che si tratta di una funzione distinta da quella dei magistrati supplenti. Anche in questo caso si derogano completamente i criteri ordinari, in quanto i magistrati aggiunti, prosegue la norma, sono prescelti dal Presidente della Corte d'appello (non all’interno del Tribunale presso cui è istituita la Corte di assise, ma) tra quelli in servizio presso la corte di appello o presso i tribunali del circolo in possesso, almeno uno, della qualifica di magistrato di appello e l'altro con qualifica non inferiore a magistrato di tribunale.
Tuttavia la circolare sulle tabelle 2020-2022 detta un disciplina[17] in qualche modo autonoma, disponendo che siano le Tabelle a prevedere i criteri per la costituzione dei “collegi bis” indicando i nominativi di due magistrati da designare come aggiunti o in alternativa i criteri di designazione dei medesimi.
Pare chiaro che si debba seguire la procedura prevista dalle tabelle e solo in mancanza si possa attivare il potere sostitutivo, residuale, del Presidente della Corte d'appello.
Mentre la norma istitutrice prevede come presupposto semplicemente la previsione di una lunga durata dei dibattimenti, la norma tabellare richiede che siano indicati i “criteri generali” che portano a prevedere la costituzione del collegio bis, criteri che certo non si possono ridurre alla previsione della durata, ma devono esporre le ragioni straordinarie di una eccezione così profonda alla regola procedurale.
La legge prescrive anche che i criteri che consigliano l’istituzione del collegio bis siano il punto di riferimento per la formazione del collegio; la norma non è chiarissima, ma certo rafforza la necessità di una motivazione specifica e adeguata. È possibile designare come aggiunto un unico magistrato; anche se l’art. 10 D.Lvo 28 luglio 1989, n. 273 non lo prevede espressamente, appare opportuno che abbia la qualifica di magistrato di appello, potendo in tal caso sostituire il Presidente[18].
Gli aggiunti potrebbero essere teoricamente i supplenti, ma la ratio della loro previsione è molto diversa e sembra sconsigliare tale soluzione. Infatti, se i componenti effettivi sono impegnati in un processo di particolare durata, eventuali altri processi di assise dovrebbero essere tenuti dai supplenti; che però sarebbero a loro volta impediti se fossero “aggiunti” nel collegio bis del processo di lunga durata.
[1] Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti (delibera CSM 23 luglio 2020).
[2] Ma possono essere costituite più Corti di assise: infatti sono decine le leggi istitutive di Corti di assise per singoli tribunali.
[3] Il nome Corte di assise origina dal francese “assises”, che indicava un collegio (un tribunale o un’assemblea) in seduta; a sua volta derivante dal latino “assisa” (seduta).
[4] “I presidenti e gli altri magistrati che compongono le corti di assise sono nominati ogni anno e possono essere destinati a presiedere o a comporre piu' corti di assise comprese nel distretto della corte di appello.”: art. 61 Ord. Giud. del 1941.
[5] L’ultima avviene con la legge n. 479/1987; le successive leggi, comprese quelle sul “nuovo codice di procedura penale”, interverranno su altri aspetti ma non su questi.
[6] Nella legge del 1987 la nomina era prevista dall'art. 8: "Art. 8 (Nomina dei magistrati componenti le Corti di assise e le Corti di assise di appello) La nomina del presidente e degli altri magistrati che compongono le corti di assise e le corti di assise di appello è effettuata con decreto del Presidente della Repubblica in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura e con efficacia per il periodo in esse indicato.."
[7] Art. 7 bis, comma 1, ord. giud.
[8] Che si esprime nel parere del 23 ottobre 1996 sulle modalità di sostituzione dei membri della Corte di assise.
[9] Questi i motivi secondo il Consiglio: “A tal fine risultano di decisiva rilevanza alcune indicazioni normative. In primo luogo, l’art. 33, comma 1, D.P.R. n. 449/88, secondo cui “la corte di assise e la corte di assise di appello tengono quattro sessioni annuali della durata di tre mesi”: la disposizione, ha trasformato le corti di assise da organi non permanenti a organi permanenti, allineandoli così a tutti gli altri organi giurisdizionali, in particolare alle altre articolazioni interne del tribunale e della corte di appello. In secondo luogo, l’art. 7-bis ord. giud., introdotto dal D.P.R. n. 449/88, su cui ci si è già soffermati supra sub § 1, dedicato alle tabelle degli uffici giudiziari. Da tale norma sono ricavabili logicamente le seguenti conclusioni: la destinazione dei magistrati ordinari a presidente e giudice a latere delle corti di assise è disciplinata in modo omogeneo a quella dei singoli magistrati alle varie sezioni dell’ufficio giudiziario (tribunale e corte di appello) presso il quale ciascuno di essi svolge le sue funzioni a seguito di assegnazione o trasferimento da parte del C.S.M., il quale non “assegna o trasferisce” alle corti di assise, bensì al tribunale e alla corte di appello. Ne consegue che le corti di assise sono considerate articolazioni, sia pure con competenze particolari, degli uffici presso i quali sono istituite, cioè del tribunale e della corte di appello…”
[10] Questo escludendo, per incompatibilità con la disciplina tabellare sulla destinazione appena descritta, che il Presidente debba avere le funzioni di appello, come prevedrebbe testualmente la norma.
[11] Art. 118 ord. Giud., mai abrogato peraltro.
[12] Il sistema era così strutturato: l'anzianità necessaria per la nomina alla qualifica di magistrato di tribunale è di due anni a decorrere da quella di uditore con funzioni (cfr. l. 2 aprile 1979, n. 97); dopo undici anni di funzioni, i magistrati di tribunale possono essere nominati alla qualifica di magistrato di corte d'appello (l. 25 luglio 1966, n. 570); l'anzianità richiesta per la dichiarazione di idoneità alla nomina a magistrato di cassazione è di sette anni a decorrere dalla nomina a magistrato di corte d'appello; decorsi ulteriori otto anni i magistrati possono essere dichiarati idonei per la nomina alle funzioni direttive superiori (l. 20 dicembre 1973, n. 831).
[13] Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati, paragrafo XX- disposizioni transitorie, punto 2.1
[14] Pratica num. 336/VV/2011 - Disposizioni in materia di supplenze, assegnazioni, applicazioni e magistrati distrettuali per assicurare il regolare svolgimento della funzione giurisdizionale in presenza di difficoltà organizzative, Delibera Plenum del 20 giugno 2018, srt. 20 comma 2.
[15] Art. 8 comma 2: “Con l'osservanza delle disposizioni di cui al comma precedente [con decreto del Presidente della Repubblica in conformita' delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ndr.] sono nominati un presidente e un magistrato supplenti per ogni corte di assise o corte di assise di appello”.
[16] Nella citata Risposta a quesito del 23 ottobre 1996, p. 2
[17] Articolo 201, Collegi bis per le Corti di assise e per le Corti di assise d’appello:
1. Le proposte tabellari indicano, per le corti di assise e per le corti di assise d'appello, i criteri generali che consigliano la istituzione dei cosiddetti collegi bis, ai sensi dell'articolo 10 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273.
2. La formazione dei collegi bis è specificamente motivata con riferimento ai criteri indicati nel comma che precede, ovvero alle peculiari ed eccezionali ragioni della eventuale deroga.
3. Le proposte tabellari indicano i nominativi di due magistrati da designare per i dibattimenti che si prevedono di durata particolarmente lunga, in qualità di aggiunti a norma dell’articolo 10 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 273, precisando i criteri della scelta.
4. In mancanza dell’indicazione dei nominativi, vanno specificati i criteri di designazione dei magistrati che presteranno servizio a norma del citato articolo 10.
5. In linea generale, salvo casi particolari, è possibile designare come aggiunto un unico magistrato.
[18] L’art. 10 prevede solo che il collegio venga presieduto, in caso di impedimento del presidente, dal componente piu' anziano.
CEDU e cultura giuridica italiana. 12) Carta dei diritti fondamentali UE e CEDU.
Intervista di Roberto Conti al Prof. Enzo Cannizzaro
Riprendiamo il filo delle interviste che Giustizia Insieme ha, prima della crisi pandemica, dedicato al ruolo della CEDU nell'ordinamento interno, ora approfondendo i nessi di collegamento, non sempre nitidi, con la Carta UE dei diritti fondamentali. L'argomento è di notevole importanza anche in relazione alle recenti prese di posizione della Corte Costituzionale sul ruolo della Carta UE nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e del giudice comune rispetto alle ipotesi di concorrente rilevanza della Costituzione. Le risposte del Prof. Cannizzaro indagano in modo profondo sulle disposizioni delle due Carte dei diritti sovranazionali ed offrono orizzonti di notevole profondità non soltanto dogmatico, individuando operativamente le prospettive che dovrebbero animare i giudici -comune e non - nell'opera di armonizzazione dei livelli di protezione dei diritti - che trovano concorrente protezione nelle tre Carte - e di individuazione dello standard più elevato di tutela. Emerge, così, una prospettiva dinamica che sembra nettamente valorizzare il piano dell'interpretazione per gestire quello delle fonti, nella quale l'opera del diritto vivente risulta tanto affascinante quanto impegnativa, evocando livelli di conoscenza e di approfondimento dei paradigmi normativi che chiamano, ancora una volta, gli operatori pratici del diritto a livelli di responsabilità e professionalità certamente elevati.
1) Qual è, a suo giudizio, il metodo che l’interprete deve adottare per individuare, all’interno della Carta UE, i diritti immediatamente precettivi e i principi, al fine di modularne l’efficacia nei rapporti verticali ed orizzontali?
Non è facile attribuire un contenuto normativo alla distinzione fra regole e principi nei termini indicati dall’art. 52, par. 5, della Carta. Tale disposizione, difatti, non indica alcun criterio che consenta all’interprete di operare tale distinzione.
La prima parte della disposizione indica che “(l)e disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze”. Questa frase dovrebbe valere, indistintamente, per tutte le disposizioni della Carta e non soltanto per quelle che contengano principi. Sarebbe ben strano che le norme della Carta che formulino regole possano essere attuate da atti delle Istituzioni e da quelli degli Stati membri al di fuori dall’ambito delle proprie competenze. Una considerazione analoga vale altresì per la seconda frase dell’art. 52, par. 5, la quale indica che i principi “possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”. Non si vede, francamente, a quale altro fine potrebbero essere invocate le disposizioni della Carta che costituiscono regole.
Dato che l’art. 52, par. 5, non fornisce alcun elemento per determinare la differenza fra regole e principi, è ragionevole ritenere che la qualificazione di una disposizione della Carta come regola ovvero come principio dovrà essere compiuta caso per caso, sulla base di una interpretazione delle singole disposizioni della Carta.
Ciò è quel che ha fatto la Corte di giustizia. Partendo dal presupposto che, rispetto alle regole, i principi dovrebbe avere, logicamente, una contenuto normativo “attenuato”, la Corte ha, in varie occasioni, identificato dei principi sulla base di una interpretazione casistica. In particolare, la Corte di giustizia ha teso a qualificare come principi quelle disposizioni della Carta il cui contenuto va identificato attraverso l’attività legislativa di esecuzione. Così, nella nota sentenza AMS (15 gennaio 2014, C‑176/12), la Corte, pur senza qualificare l’art. 27 della Carta come un principio, ha indicato che “(r)isulta dunque chiaramente dal tenore letterale dell’articolo 27 della Carta che tale articolo, per produrre pienamente i suoi effetti, deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale”.
Di converso, nella sentenza 6 novembre 2018, causa C-684/16, Max Planck, la Corte ha precisato che “(d)isponendo, in termini imperativi, che «[o]gni lavoratore» ha «diritto» a «ferie annuali retribuite», senza segnatamente rinviare in proposito – come fatto, ad esempio, dall’articolo 27 della Carta, che ha dato luogo alla sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale – ai «casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali», l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, riflette il principio essenziale del diritto sociale dell’Unione al quale non è possibile derogare se non nel rispetto delle rigorose condizioni di cui all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta …”.
Insomma, nel medesimo settore dei diritti sociali, la Corte sembra indicare che, al fine di determinare la natura di una disposizione della Carta, occorra guardare al grado della completezza dispositiva al fine di verificare se essa sia capace di incardinare un diritto fondamentale in capo ai singoli senza l’assistenza di norme di esecuzione, europee o nazionale.
Questa conclusione sembra evocare la notissima distinzione fra norme dell’Unione aventi effetti diretti e norme dell’Unione che ne sono invece prive. Questa distinzione, però, mal si attaglia al campo dei diritti fondamentali. Una norma europea non aventi effetti diretti, infatti, non può essere applicata dal giudice nazionale se non a fini interpretativi mentre, come si è detto, l’art. 52, par. 5, prevede che una disposizione della Carta che formuli un principio ben potrà essere utilizzata non solo come parametro di interpretazione, ma anche come parametro di validità del diritto dell’Unione e delle norme nazionali che ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Se così non fosse, infatti, si riproporrebbe, su base europea, la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, che venne spazzata via già dalla prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale
Ritengo, quindi, che la differenza fra regole e principi nell’ambito delle disposizioni della Carta vada compiuta sulla base di una analisi caso per caso, che tenga conto del contenuto della disposizione della Carta ma anche di altre disposizioni che potrebbero contribuire alla determinazione di tale contenuto. Nella citata sentenza Max Planck, difatti, la Corte ha ricostruire il contenuto del diritto alle ferie retribuite sulla base di atti internazionali vincolanti per l’Unione. Non è escluso che tale metodo non possa essere utilizzato anche per interpretare le disposizioni della Carta che prevedono una attività di integrazione e precisazione ad opera di norme derivate, europee o nazionali.
Ritengo altresì che la differenza fra regole e principi non attenga alle conseguenze giuridiche prodotte. Sia le regole che i principi, infatti, orientano l’interpretazione degli atti europei e di quelli nazionali che operano nella sfera del diritto dell’Unione e costituiscono parametro di validità per tali atti. La differenza dovrebbe invece consistere nella circostanza che i principi, a differenza delle regole, potranno essere precisati nel loro contenuto attraverso una attività interpretativa che consideri altre norme del sistema.
In ogni caso, sia le regole che i principi della Carta non possano essere applicate al di là dell’ambito di applicazione del diritto europeo. In particolare, una disposizione della Carta non potrà attribuire ad un atto europeo effetti che esso non possa di per sé produrre.
2) L’orientamento inaugurato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/2017 ed i successivi seguiti (Corte cost. nn.20/2019, 69/2019, 117/2019 e 182/2020) in che misura può determinare una diversità di tutela fra i diritti contemplati nella Carta UE e nella CEDU e, in caso di risposta positiva, presta il fianco a critiche?
Il sistema presupposto dal noto dictum formulato dalla Corte costituzionale nella sentenza 269/2017, era teso a risolvere il problema della doppia pregiudizialità attraverso un criterio di priorità: una legge confliggente, in ipotesi, sia con i diritti tutelati dalla Carta che con quelli garantiti dalla Costituzione avrebbe dovuto far preliminarmente oggetto di rinvio incidentale di costituzionalità. L’inevitabile conseguenza di tale regola sarebbe stato l’accentramento in capo alla Corte costituzionale del potere di disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione riferito a disposizioni della Carta.
Dal dictum della Corte, peraltro irragionevolmente sintetico, si può trarre una seconda regola, di carattere sostanziale, che si accompagna a tale criterio di priorità. Tale regola riguarda lo standard di tutela dei diritti: un problema centrale nell’attuale coesistenza di sistemi alternativi di tutela. La Corte ha precisato, infatti, che, nel considerare le disposizioni della Carta, ne avrebbe assicurato una interpretazione conforme rispetto alla Costituzione.
Ambedue le regole - quella procedurale sull’ordine di priorità e quella sostanziale sui parametri interpretativi e sugli standards di tutela - appaiono molto criticabili e ispirate a posizioni ideologiche piuttosto che a una equilibrata esigenza di cooperazione.
Innanzitutto, l’imposizione di un dovere in capo al giudice di disporre un rinvio incidentale di costituzionalità di una legge confliggente con una disposizione della Carta avrebbe privato il giudice nazionale simultaneamente di due prerogative delle quali esso dispone in virtù del diritto europeo: il potere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia e il potere, o fors’anche il dovere, di disapplicare la legge reputata in conflitto con una disposizione di diritto europeo dotata di effetti diretti.
Una tale privazione sarebbe stata ancor più penalizzante qualora la vicenda normativa all’attenzione del giudice nazionale avesse richiesto un rinvio pregiudiziale di validità ovvero un rinvio in parte di interpretazione e in parte di validità. Ciò sarebbe avvenuto, in tutta evidenza, qualora l’interpretazione di una norma della Carta fosse stata richiesta dal giudice nazionale al fine di determinare la validità di un atto europeo frapposto fra la Carta e la legge nazionale.
Lungi dal rappresentare una ipotesi teorica, questa appare, al contrario, la tipica vicenda giuridica che metta in essere l’interpretazione della Carta. È noto, infatti, che la Carta opera, ai sensi del suo art. 51, par. 1, rispetto ad atti dell’Unione nonché ad atti nazionali che ricadano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Or bene, la tipica situazione nella quale un atto legislativo nazionale ricade nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione è data da una legge nazionale adottata in attuazione di un atto dell’Unione. In tal caso, un giudice nazionale potrebbe disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione rispetto ad una norma della Carta proprio al fine di valutare la compatibilità con la Carta della sola legge nazionale, ovvero dell’atto europeo, ovvero di ambedue. In tali situazioni, che possono mettere in gioco sia l’interpretazione della Carta che la validità di un atto europeo, il giudice nazionale, pur se non di ultimo grado, avrebbe l’obbligo incondizionato di disporre il rinvio pregiudiziale.
Né appare convincente la seconda pretesa, di carattere sostanziale, che si rispecchia nella sentenza 269/2017: quella di modellare il contenuto dei diritti formulati dalla Carta secondo i canoni interpretativi e le esigenze proprie del proprio ordine costituzionale nazionale. Ciò, infatti, condizionerebbe in maniera impropria le politiche interpretative della Corte di giustizia. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la funzione del rinvio pregiudiziale è proprio quella di evitare il rischio di orientamenti interpretativi nazionali che frammenterebbe l’uniforme applicazione del diritto europeo. Una tale pretesa, se realizzata, avrebbe l’effetto di moltiplicare i conflitti fra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, per la quale sarebbe davvero inaccettabile una ricostruzione del contenuto dei diritti della Carta operata sistematicamente alla luce delle esigenze costituzionali di uno Stato membro. L’idea stessa di una armonizzazione europea dei diritti fondamentali e dei loro meccanismi di tutela verrebbe svuotata di ogni significato.
Né tale pretesa potrebbe costituire un contributo proveniente da una esperienza giuridica nazionale, a ricostruire il contenuto dei diritti fondamentali europei attraverso l’interpretazione delle disposizioni della Carta. Per assolvere a tale funzione, di carattere essenziale nelle dinamiche giurisprudenziali europee, occorrerebbe una disponibilità a mettere in gioco le proprie tradizioni giuridiche e accettare che esse vengano composte con quelle europee dall’unico organo abilitato a farlo, vale a dire la Corte di giustizia. Ma non è questo il motivo che ha ispirato la redazione del dictum della sentenza 269/2017. Al contrario, esso sembra proprio teso a rivendicare un monopolio interpretativo della Corte costituzionale nella ricostruzione dei diritti fondamentali europei in virtù della loro sovrapposizione con gli analoghi, ma non identici, diritti tutelati dalla Costituzione italiana.
Insomma, la soluzione adottata dalla sentenza 269/2017 non sembra coerente con l’esigenza di apertura dell’ordinamento costituzionale al processo di integrazione europea: una esigenza anch’essa tutelata dalla Costituzione e, addirittura, da uno dei suoi principi fondamentali, vale a dire l’art. 11 Cost. Sfortunatamente, tale norma sembra aver smarrito il proprio ruolo negli orientamenti interpretativi della Corte costituzionale negli ultimi anni (sia consentito rinviare, in proposito, al mio scritto I valori costituzionali oltre lo Stato, in Osservatorio delle fonti, 2018, n. 2).
3) Quando la Corte costituzionale afferma che occorre assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito (Corte cost.nn.269/2017, 20/2019, 112 e 117 del 2019) intende rivolgere tale indicazione metodologica anche al giudice comune nazionale e quali sono gli effetti derivanti dall’inosservanza di tale indicazione nel processo?
I richiami alla prassi interpretativa nazionale operati dalla Corte costituzionale al fine di ricostruire il contenuto dei diritti della Carta alla luce delle tradizioni costituzionali italiane sembrano proprio diretti ad imporre una interpretazione costituzionalmente orientata della della Carta da parte dei giudici nazionali.
L’idea che gli organi giudiziari nazionali possano contribuire alla ricostruzione del contenuto dei principi della Carta dei diritti fondamentali non appare né irragionevole né contraria al diritto europeo. Al contrario, tale contributo ben potrebbe aiutare a risolvere un evidente paradosso insito nel sistema europeo dei diritti fondamentali.
Tale paradosso deriva dalla difficile coesistenza di più sistemi concorrenti di diritti fondamentali, il cui concorso è disciplinato da una serie quanto mai incerta di criteri ordinatori. Il principale, ai fini del problema in esame, è quello relativo all’ambito di applicazione del diritto europeo. Come è noto, i diritti fondamentali europei operano solo nell’ambito di applicazione del diritto europeo, mentre i diritti nazionali, inclusi quelli di origine internazionale quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, operano in via residuale, vale a dire nell’ambito di situazioni puramente interne.
Tuttavia, questo criterio presenta lo svantaggio di provocare una sorta di discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali. Infatti, dato che la distinzione fra l’ambito delle situazioni regolate dal diritto europeo e quello relativo alle situazioni puramente nazionali ha carattere funzionale, ben può accadere che situazioni giuridiche materialmente identiche siano governate da diritti appartenenti a sistemi diversi. Né si tratta di una differenza puramente formale, dato che il contenuto dei diritti, come è noto, corrisponde, appunto, a prassi e a tradizioni interpretative proprie del sistema al quale appartengono.
Or bene, questa conseguenza potrebbe essere attenuata qualora il contenuto dei diritti provenienti dai vari sistemi concorrenti di tutela convergesse verso un contenuto più o meno uniforme. A tal fine occorrerebbe, evidentemente, che le prassi e tradizioni costituzionali proprie di ciascuno Stato membro, insieme al sottostante assetto di valori e interessi che le ispira, contribuissero alla definizione di uno standard uniforme di tutela dei diritti fondamentali, propri sia all’ordinamento europeo che a quelli dei suoi Stati membri. Si tratta, evidentemente di una prospettiva ben diversa rispetto alla astratta rivendicazione di un monopolio nella definizione dell’assetto assiologico del proprio ordinamento. Tale prospettiva comporta, infatti, un processo dinamico di definizione di tale standard uniforme, al quale sono chiamati a partecipare sia le Corti costituzionali nazionali, sia la Corte di giustizia, sia, infine, i giudici nazionali. Essi, infatti, costituiscono parte essenziale del complesso ordinamento giudiziario europeo e hanno la prerogativa di poter dialogare con la Corte di giustizia anche esprimendo posizioni difformi dalle rispettive Corti costituzionali.
In questa prospettiva concettuale, che sembra descrivere l’attuale sistema dei rapporti fra Costituzioni nazionali e Carta dei diritti fondamentali, la pretesa di una Corte costituzionale di dettare ai giudici comuni una linea di condotta orientata univocamente alla salvaguardia delle prassi e tradizioni interpretative nazionali appare irragionevole se non anche antistorica. La logica del rinvio pregiudiziale è proprio quella di consentire a qualsiasi giudice nazionale di prospettare alla Corte di giustizia gli elementi per la ricostruzione dei diritti fondamentali e, più in generale, del diritto europeo. Si tratta di un compito affidato ai giudici dai Trattati istitutivi, in particolare dall’art. 267 del TFUE. Un tale compito non viene meno rispetto all’inquadramento formale di tali giudici nell’ambito di un ordinamento nazionale, a meno di non alterare l’assetto dei principi strutturali sui quali si fonda l’ordinamento europeo.
4) L’uso che il giudice nazionale fa della Carta UE può considerarsi, a suo avviso, appagante? I sistemi di raccordo fra Carta UE e CEDU introdotti all’interno della Carta stessa consentono di individuare delle linee guida per il giudice nazionale chiamato a fare applicazione di un diritto contemplato dalla Carta che riproduce il contenuto di una disposizione della CEDU?
Sfortunatamente quando si passa dal piano dei ragionamenti per principi e si scende nell’analisi tecnica, ci si avvede della precarietà logica delle soluzioni adottate dalla Carta in tema di rapporti con le altre fonti dei diritti fondamentali, in particolare con la Convenzione europea. I rapporti fra gli standards di tutela derivanti dalla Carta e quelli derivanti dalla Convenzione europea sono, come è noto, regolati dal criterio della protezione più estesa. Sia la Carta che la convenzione prevedono, ambedue all’art. 53, che l’adozione di uno standard di tutela abbia un contenuto minimo e non pregiudica l’applicazione dello standard di tutela dei diritti fondamentali più alto assicurato dall’altro strumento di tutela.
Purtroppo, è più facile enunciare il criterio della protezione più estesa che applicarlo in pratica. A ciò concorrono due motivi. Il primo è di carattere sistematico; il secondo è piuttosto relativo alle caratteristiche diverse dei due cataloghi di diritti.
Il motivo di carattere sistematico, molto noto, è dato dalla circostanza che il contenuto e l’intensità della tutela di un diritto fondamentale sono necessariamente fondati su un bilanciamento fra le esigenze sottese a tale diritto e quelle relative ad altri diritti o interessi, di carattere individuale e collettivo. Ne consegue una evidente difficoltà di determinare lo standard di tutela più alto i diritti individuali, dato che l’innalzamento del livello di tutela di un diritto fondamentale potrebbe comportare una corrispondente riduzione di tutela per altri, soventi altrettanto fondamentali.
Vi è, però, un altro motivo, riconnesso alla profonda eterogeneità nella natura e nella funzione della Carta rispetto a alla Convenzione. Con stretto riferimento alla domanda posta, è sufficiente ricordare che la Carta intende armonizzare i diritti fondamentali operanti nell’ordinamento europeo al fine di evitare che una frammentazione su base nazionale dello standard di tutela possa pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto europeo. Or bene, ciò è quel che potrebbe accadere se si applicasse, nei rapporti fra Carta e Convenzione, il principio della protezione più estesa. In forza di tale principio, infatti, un giudice nazionale, tenuto ad applicare lo standard di tutela di un diritto - in ipotesi più elevato - assicurato dalla Convenzione, sarebbe legittimato a disapplicare una norma europea incompatibile con tale livello di tutela ma compatibile con il livello di tutela, in ipotesi meno elevato, assicurato dalla Carta.
Questo esempio chiarisce, a mio avviso, le grandi difficoltà tecniche nel delineare un equilibrato rapporto fra gli strumenti di tutela apprestati rispettivamente, dalla Carta, dalla Convenzione europea e dalle Costituzioni nazionali.
La mia opinione è che tali difficoltà, difficilmente superabili sul piano tecnico, potrebbero ridursi grandemente attraverso il circolo virtuoso che ho delineato nella risposta alla precedente questione. Tale circolo è composto, idealmente, da due fasi. La prima è la fase nella quale gli organi giudiziari determinano il livello di tutela di un diritto fondamentale attraverso un processo di bilanciamento degli interessi e valori confliggenti, sulla base delle prassi e tradizioni interpretative di ciascuno dei sistemi concorrenti: la Carta, la Convenzione, gli ordinamenti nazionali. La seconda fase è quella nella quale gli attori percepiscono, anche attraverso conflitti laceranti, l’esigenza di armonizzazione del contenuto e dell’intensità della tutela dei diritti fondamentali come un valore prevalente rispetto all’esigenza di realizzare integralmente le esigenze del proprio sistema di tutela. La determinazione di tale standard uniforme consegue, quindi, alla rinuncia di ciascuno degli attori in gioco a risolvere i conflitti sulla base di criteri formali, quale l’ordine gerarchico di un giudice, ovvero la sua pretesa di esprimere l’identità nazionale o addirittura la sovranità assiologica del proprio ordinamento di appartenenza.
Franco Benigno, ordinario di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nella sua precedente opera dal titolo “La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878” (Einaudi, 2015) aveva rilustrato il rapporto fra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata avvalendosi delle fonti, poliziesche giudiziarie e giornalistiche dell’epoca.
Nel recente “L'Italia Come Storia: Primato, Decadenza, Eccezione” (Viella, 2020), scritto assieme a Igor Mineo, docente di Storia medioevale nell’Università di Palermo, si interroga circa il metodo e il merito dell’indagine storiografica sull’Italia, sul carattere degli italiani e sulla loro presunta ‘eccezione’ rispetto alle virtù delle altre genti, anche considerando che i rivolgimenti successivi al 1989 hanno cambiato profondamente la prospettiva sulla storia dell’Italia.
Su questo tema è centrato l’articolo da lui scritto per Giustiziainsieme
Superare l’eccezionalismo come visione della storia d’Italia
Fra pratica storiografica e polemica pubblica il canone nazionale italiano, ovvero un insieme di temi e problemi fondamentali relativi all’identità storica del paese, si aggira nella sfera pubblica e nei testi accademici, sia pure ormai solo come spettro. Esso tiene assieme, come due facce della stessa medaglia, discorsi sul primato e discorsi sul ritardo o sulla decadenza, con l’avvertenza che, sul lungo periodo, questi ultimi si sono rivelati più̀ resistenti e influenti dei primi. Il suo principale segno di riconoscimento è in una forma di eccezionalismo, che non consiste solo nell’idea di una storia speciale, peculiare e distinta da quella del resto del mondo ma in qualcosa di più: la fisionomia dell’Italia di oggi, e soprattutto i suoi mali, vi appaiono non come l’effetto di una serie di condizioni rintracciabili nel presente o nel passato recente, ma come il risultato di un sedimentato deposito di tare originarie, tali da definire una contorta morfologia storica.
La genealogia esplicativa per via d’eccezione ha goduto negli ultimi anni di una rinnovata fortuna nell’opinione pubblica. Connessa a bisogni politici immediati, oltreché a un diffuso sentire collettivo, essa tende a raccontare la vicenda del paese come un succedersi di vuoti e di carenze, di ritardi e di mancanze, rimandando a un «peccato originale», identificato nei modi più̀ vari, tra cui la mancanza vuoi di una riforma protestante, vuoi di una vera rivoluzione, vuoi di un’autentica dimensione statuale. Più spesso l’essenza di tale fenomeno è stata identificata in un presunto «carattere degli italiani», espresso da una serie di tratti perniciosi quali l’individualismo, l’intelligenza furbesca, lo scarso senso civico, il familismo e, sul piano politico, il conformismo delle élites e il radicato quietismo delle maggioranze di governo. Ne è risultato una sorta di patriottismo alla rovescia, un atteggiamento pesantemente autocritico spinto fino alla fustigazione di sé e addirittura al sentimento dell’intima vergogna nel dirsi italiani
Soprattutto, nel caso italiano il senso comune eccezionalista ha imposto agli intellettuali la funzione non di interpreti dei processi della modernizzazione economico-sociale e politico-istituzionale del paese, ma di denunciatori dei ritardi e delle insufficienze di quegli stessi processi, della progettualità sconfitta, delle riforme inattuate e delle rivoluzioni mancate. La formula dell’«ideologia dell’assenza» risulta azzeccata: la tendenza, evidente già agli inizi del XX secolo (senza risalire più indietro, come sarebbe possibile, a Leopardi per esempio), a leggere la storia d’Italia come marcata da ciò che non è molto più che da ciò che è, dai vuoti più che dai pieni.
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità, il nucleo profondo di tali tendenze sarebbe risultato ancora visibile, e con esse l’antica querelle sulle radici profonde del fascismo nei vizi antichi della nazione italiana. E’ proprio di questi anni una storiografia di successo che, insieme alla contestazione della tradizionale storia etico-politica e di una retorica celebrativa divenuta col tempo stantia, recupera parti significative del paradigma rielaborando, su basi metodologiche aggiornate, la continuità tra Risorgimento e fascismo: riafferma così qualcosa tradizionalmente rivendicato da parte dell’Italia d’opposizione, l’idea dello Stato nazionale come “manufatto incompiuto”, incapace di integrare le varie parti del paese, e in specie del Meridione, in un insieme organico.
L’altro terreno decisivo di incubazione dell’eccezionalismo è stato certamente quello dell’economia. Ricostruirne la storia ha significato a lungo discutere sulle insufficienze del processo unitario, inquadrate in un retroterra di lungo o lunghissimo periodo, segnato dal ristagno o dalla decadenza. È facile oggi notare come in questi discorsi economici la prospettiva unitaria proiettata all’indietro risulti, se possibile, ancora più incongrua di quella concentrata sui fenomeni politici, tanto differenziata risulta la mappa delle economie preindustriali in termini di capacità produttiva, di attitudini al consumo, e di modi di integrazione in reti di mercato multiformi, una mappa che con l’ordinata silhouette della penisola non ha alcuna attinenza sensata.
Naturalmente, se dalla politica e dall’economia si sposta sulla società lo sguardo eccezionalista trova facilmente appigli per ulteriori elaborazioni. Basti pensare alla famiglia, spesso identificata come la causa causans dei guasti della vita pubblica del paese, una sorta di dato di fondo esplicativo della tanto deprecata mancanza di solidarietà e di partecipazione civica. Quante volte è stata declinata la rappresentazione della famiglia italiana come trincea, ghetto egoista, impedimento a un compiuto approdo alla modernità? Oppure quella speculare di un’Italia spezzata, in cui la distanza tra Nord e Sud rimane incolmabile non solo per le congiunture politiche ed economiche, ma in ragione dei processi divergenti di strutturazione dei sistemi parentali?
Il dualismo Nord/sud, la visione della penisola come la giustapposizione di due mondi contrapposti: è indubbio che sia questo uno dei capitoli cruciali del ricco repertorio dell’Italia come eccezione. Stella polare per molto tempo del meridionalismo classico, durante la crisi politica della cosiddetta prima Repubblica, esso è divenuta anche qualcos’altro, il grimaldello su cui far leva per la costruzione della cosiddetta «questione settentrionale». Gli anni Novanta, cioè, quelli in cui è venuta montando la preoccupazione collettiva per la “disunione d’Italia” sono stati anche quelli in cui il Meridione, sorta di quintessenza dei mali del paese, è divenuto il luogo di concentrazione dei timori per il declino nazionale, l’ambiente di propagazione del contagio malefico, l’inferno.
Così, al tradizionale vittimismo meridionale, invocante l’intervento straordinario in ragione dei torti storici inflitti dall’unificazione al Mezzogiorno, ha fatto seguito, come una sorta di copione invertito o di spartito rovesciato, un vittimismo settentrionale di nuovo conio, l’idea di un Nord bloccato dalla «palla al piede» meridionale, e impossibilitato perciò a dispiegare le sue potenzialità virtuose, non solo economiche ma anche implicitamente morali.
Oggi questo momento, in una diversa stagione politica, sembra superato e l’ansia collettiva si rivolge di nuovo alle sorti generali del paese. Colpisce tuttavia il fatto che rimanga inarticolato un ragionamento su quanto simili siano state storicamente la narrazione sull’Italia intera (la sua cultura, il suo “carattere”) e quella sul Meridione del paese (la sua cultura, e anche qui, il suo “carattere”). Si può dire di più. Non appena si scrostano le parole, solo apparentemente dissimili, ci si accorge con chiarezza che si tratta di variazioni sul tema, che ci si appoggia sulla stessa scala valoriale, che si adopera la stessa tavolozza di colori. Ci si rende conto, in altre parole, che il “familismo” è, per il dibattito sulla specificità negativa del Meridione, più o meno ciò che il “particolarismo” rappresenta come singolarità negativa dell’Italia in generale. E ancora, che il “gattopardismo” è per il Sud del paese quel che il “trasformismo” è per l’Italia nel suo insieme. Questo perché tutte queste narrazioni appartengono a uno stesso registro discorsivo polarizzato, quello che definisce in un sistema sociale ciò che è giusto, bello e buono come opposto a ciò che è sbagliato, brutto e cattivo.
Risulta evidente, dopo che se ne sono definiti i contorni, che il paradigma dell’eccezionalismo italiano costituisce in realtà una sorta di costellazione fatta di astri di diversa natura e intensità, alcuni fissi, altri intermittenti. Ciò che forse si può affermare, alla fine, è che l’unico carattere relativamente eccezionale della storia d’Italia è costituito dalla continuità di una riflessione ancipite, di taglio inguaribilmente negativo o superbamente rivendicativo, sulle debolezze del paese e sui vizi che ne connoterebbero la natura, o all’opposto sulla sua speciale funzione di battistrada nei processi di civilizzazione; di una riflessione, in ogni modo, concentrata su una irregolarità. Prevalendo, da circa un secolo e mezzo, il segno negativo di tale irregolarità, «italiano» è diventato alla fine uno stigma, come si è visto, fatto oggetto di lamentazioni ripetute, che hanno assunto non di rado una sofferta intonazione autodistruttiva: il «dolore di essere italiani» comporta automaticamente l’identificazione con una serie di comportamenti deprecabili di cui ci si vergogna, con la conseguenza paradossale che, com’è stato osservato, «italiani sono sempre gli altri».
In conclusione. Per capire come si esce dalla crisi del “canone nazionale”, vera per la storia d’Italia, ma non meno probante altrove, è assai probabile che occorra pensare la storia degli ultimi secoli su una scala diversa, e che forse a un rinnovamento duraturo occorrerebbe un più avanzato processo di costruzione di una «storia d’Europa». Diventerebbe così più praticabile un punto di vista sul passato che non si limitasse a indagare, comparativamente, influssi culturali reciproci, prestiti istituzionali, condizionamenti politici fra aree e fra paesi, mescolanze e concorrenze fra fedi e credi, ma che guardasse in modo integrato alla nascita e alla diffusione di modelli economici e imprenditoriali, di forme di statualità e di disciplinamento, di urbanizzazione, di sistemi di appartenenza e di identificazione collettiva, e così via, cioè dei caratteri che sembrano potere connotare il continente come spazio storicamente intellegibile.
Forse non viviamo un momento favorevole a una simile impresa. I processi di ri-nazionalizzazione sembrano segnare il nostro presente. Sicché v’è da chiedersi quali effetti potrebbe produrre sull’indagine del passato comune europeo il ritorno a letture in chiave statual-nazionale o peggio, etnico-identitaria, condite magari da qualche apertura alla visione globale. Riattivare per davvero la lente del nazionalismo storiografico è, in realtà, molto difficile; è certamente alto tuttavia il rischio che rallenti molto la costruzione dell’unica dimensione che potrebbe ridare senso a una storia, e per noi a una storia d’Italia, sviluppata in chiave non eccezionalista ma critica, la dimensione europea.
Ancora dubbi sulla (nuova) disciplina della discussione orale da remoto (art. 25 d.l. n. 137/2020) [1]
Veronica Sordi
In risposta all’esigenza manifestata dalle associazioni rappresentanti la magistratura amministrativa di disporre interventi normativi urgenti per continuare a garantire la tutela della salute di tutti (magistrati, avvocati, personale amministrativo), oltre che l’efficiente e il regolare svolgimento delle udienze, alla luce dell’evoluzione della pandemia da Covid-19 (consistenti, in particolare, nella richiesta di svolgimento delle udienze da remoto)[2], il Governo ha adottato il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 (“Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da Covid-19”), il quale ha “riportato in vita” il regime emergenziale introdotto, dapprima con l’art. 84, d.l. n. 18/2020 e, successivamente, dall’art. 4[3] d.l. n. 28/2020, come convertito nella l.n. 70/2020[4].
Nello specifico, il nuovo decreto, all’art. 25, rubricato “Misure urgenti relative allo svolgimento del processo amministrativo”[5], ha stabilito
- al primo comma, che le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 soggiacciono alle previsioni dettate dall’art. 4, comma 1, d.l. n. 28/2020, che disciplinano la discussione orale da remoto, a richiesta di tutte le parti costituite o disposta ex officio dal giudice;
- al secondo comma, il passaggio in decisione sulla base degli atti depositati e senza discussione orale - salvo, ovviamente, che non venga disposta la discussione da remoto -, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata ex art. 60 del c.p.a., omesso ogni avviso (analogamente a quanto era stato previsto ai sensi dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020);
- al terzo comma, che l’istanza di discussione orale da remoto per le udienze pubbliche e camerali, nel periodo compreso dal 9 al 20 novembre 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza camerale.
In altre parole, dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021, le udienze, pubbliche e camerali, non si svolgeranno più in presenza, con la conseguenza che le controversie saranno decise senza discussione sulla base degli atti depositati, ferma restando (i) la possibilità, su richiesta di parte o d’ufficio, che venga disposta la discussione orale da remoto, e (ii) la possibilità di definizione del giudizio in sede cautelare con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell'articolo 60 del c.p.a.
Si precisa che (dopo una fase transitoria per le udienze calendarizzate nel periodo dal 9 al 20 novembre, nella quale, ai sensi dell’art. 25, comma 3, l’istanza di discussione poteva essere presentata “fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza camerale”) la discussione orale può essere richiesta dalle parti con apposita istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica (ossia venti giorni prima per il rito ordinario e dieci per quelli speciali) ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima della camera di consiglio.
Alla luce di quanto sin qui illustrato, pare opportuno segnalare che la nuova previsione, “coerentemente” con il regime che l’ha preceduta (in particolare, l’art. 4, d.l. n. 28/2020), lascia ancora aperti molti dubbi interpretativi sulla portata delle disposizioni che la compongono e che delineano il regime processuale “emergenziale” attualmente in vigore[6].
Emblematico di tale quadro è il recente decreto adottato dal TAR Emilia Romagna[7] nell’ambito di una controversia instaurata avverso un provvedimento di aggiudicazione di una gara.
Nella specie, in vista della camera di consiglio del 12.11.2020, la controinteressata aveva presentato, il 9.11.2020, l’istanza di discussione da remoto e, in pari data, la ricorrente aveva proposto opposizione alla predetta istanza, rappresentando che (i) la domanda di discussione da remoto sarebbe stata tardiva in quanto presentata oltre il termine previsto dall’art. 25 comma 3 del d.l n. 137/2020 (secondo cui “l’istanza di discussione orale di cui al quarto periodo del decreto legge n.28 del 2020 può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica”); (ii) il difensore della parte ricorrente sarebbe stato impegnato nello stesso giorno nella discussione da remoto presso il Consiglio di Stato per altre cause dal medesimo patrocinate.
Il giudice amministrativo, nel respingere l’opposizione all’istanza di discussione, ha ritenuto “non ostative” alla discussione richiesta le ragioni avanzate dalla ricorrente. A tal proposito, ha rilevato (i) che la previsione di cui all’art. 25, co. 3, d.l. n. 137 cit. “va interpretata nel senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio” e (ii) che la circostanza che il difensore di parte ricorrente sarebbe stato impegnato nel medesimo giorno in altra udienza non potesse precludere lo svolgimento della discussione orale da remoto, ben potendo l’avvocato farsi sostituire da un collega debitamente delegato.
In conclusione, peraltro, il Presidente del TAR, proprio in ragione degli interessi coinvolti e della peculiare delicatezza delle situazioni e delle questioni oggetto della controversia, sia in punto di fatto che in diritto[8], ha ritenuto “quanto mai utile la discussione orale sia pure da remoto della causa”.
La posizione assunta dal TAR Emilia Romagna, sotto il profilo della non perentorietà del termine dei cinque giorni liberi prima dell’udienza entro cui la parte che ha interesse può presentare l’istanza di discussione da remoto, non sembra condivisa dal Presidente della Seconda sezione del TAR Lazio, che, già nella Comunicazione fornita per la trattazione delle udienze camerali del 12.11.2020, ha espressamente affermato che i “difensori interessati alla discussione orale (mediante collegamento da remoto) delle istanze cautelari inerenti alle cause da essi patrocinate sono tenuti a presentare (attraverso Pat) apposita istanza entro il termine (da ritenersi perentorio) di cinque giorni liberi prima della camera di consiglio fissata per la trattazione collegiale”. In tale ottica, si pongono, peraltro, una serie di decreti[9] con cui il Presidente della Sezione I-bis del TAR Lazio ha dichiarato irricevibili e, pertanto, ha rigettato, le istanze di discussione orale presentate tra il 9.11 e l’11.11.2020 per le camere di consiglio del 13.11.2020 e, quindi, oltre il termine (ritenuto anche in questo caso perentorio) dei cinque giorni liberi prima dell’udienza di cui all’art. 25, co. 3 d.l. cit..
È evidente quindi che la disciplina emergenziale lascia ancora (troppo) spazio alle diverse interpretazioni dei giudici amministrativi mettendo a serio rischio la posizione e gli interessi delle parti in giudizio che, ancora una volta, sono rimesse alla “sensibilità” del giudice chiamato a dirimere la controversia.
Resta, soprattutto, sempre vivo il problema della eventuale esigenza di replicare alle “note di udienza” depositabili, in luogo della discussione, fino alle 12 del giorno antecedente all’udienza[10]. A tale proposito, sarebbe ragionevole che il giudice amministrativo accogliesse la richiesta di discussione da remoto presentata il giorno prima dell’udienza laddove proposta al precipuo scopo di replicare alle note depositate in assenza di fissazione dell’udienza da remoto, ovvero di procedere, in casi estremi, al rinvio dell’udienza stessa. Ciò al fine di garantire il principio del contraddittorio, irrinunciabile espressione del valore del giusto processo sancito a livello costituzionale e sovranazionale.
[1] Per un maggiore approfondimento sul tema sia consentito rinviare a “L’istanza di discussione orale da remoto e la relativa opposizione. Prime applicazioni da parte del giudice amministrativo”, in giustiziainsieme.it, 22 giugno 2020; “Ancora sull'opposizione alla discussione da remoto”, ivi, 30 luglio 2020.
[2] “Nota COVID-19, magistrati amministrativi: Governo ripristini udienze da remoto”, 12 ottobre 2020, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Art. 4, d.l. 28/2020 (come modificato in sede di conversione dalla l. n. 70/2020) “Disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia amministrativa”: “1. All'articolo 84, commi 3, 4, lettera e), 5, e 9, del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, le parole «30 giugno 2020» sono sostituite con «31 luglio 2020». ((All'articolo 7 del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, il comma 4 è abrogato. All'articolo 84 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, l'ultimo periodo del comma 10 è soppresso.)) A decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei difensori all'udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici. L'istanza è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite. Negli altri casi, il presidente del collegio valuta l'istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto. In tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno ((tre giorni)) prima della trattazione, l'avviso dell'ora e delle modalità di collegamento. Si dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge. In alternativa alla discussione possono essere depositate note di udienza ((fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell'udienza stessa)) o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza. Il decreto di cui al comma 2 stabilisce i tempi massimi di discussione e replica. 2. Il comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante le norme di attuazione al codice del processo amministrativo, è sostituito dal seguente: «1. Con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, ((il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative)) che si esprimono nel termine perentorio di trenta giorni dalla trasmissione dello schema di decreto, sono stabilite, nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, le regole tecnico-operative per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico, anche relativamente ai procedimenti connessi attualmente non informatizzati, ivi incluso il procedimento per ricorso straordinario. Il decreto si applica a partire dalla data nello stesso indicata, comunque non anteriore al quinto giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.». 3. A decorrere dal quinto giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del primo decreto adottato dal Presidente del Consiglio di Stato di cui al comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, come modificato dal comma 2 del presente articolo, è abrogato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 16 febbraio 2016, n. 40. È abrogato il comma 2-quater dell'articolo 136 dell'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante il codice del processo amministrativo”.
[4] Per un approfondimento sulle conseguenze della normativa emergenziale sul processo amministrativo si veda G. Veltri, Un primo bilancio del processo amministrativo in periodo emergenziale, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Art. 25, d.l. n. 137/2020 “1. Le disposizioni dei periodi quarto e seguenti del comma 1 dell'articolo 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1 della legge 25 giugno 2020, n. 70 , si applicano altresì alle udienze pubbliche e alle camere di consiglio del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e dei tribunali amministrativi regionali che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e, fino a tale ultima data, il decreto di cui al comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, prescinde dai pareri previsti dallo stesso articolo 13. 2. Durante tale periodo, salvo quanto previsto dal comma 1, gli affari in trattazione passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell'articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Restano fermi i poteri presidenziali di rinvio degli affari e di modifica della composizione del collegio. 3. Per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020, l'istanza di discussione orale, di cui al quarto periodo dell'articolo 4 del decreto-legge n. 28 del 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza pubblica o camerale”.
[6] Tra i primi commenti del regime introdotto dall’art. 25, d.l. n. 137/2020, si veda F. D’Alessandri, Decreto Ristori: ripristino del regime di emergenza nel processo amministrativo con l’udienza in videoconferenza, in Il Quotidiano giuridico, 30 ottobre 2020.
[7] TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 10 novembre 2020, n. 208, Pres. A. Migliozzi.
[8] Non è possibile specificare quali siano tali situazioni e questioni delicate in quanto nulla si evince dal decreto in esame.
[9] TAR Lazio, sez. I-bis, 12 novembre 2020, n. 3420, 3421, 3422, 3423, 3424, Pres. Concetta Anastasi. Più precisamente, nei decreti nn. 3420, 3421 e 3422 le istanze erano state presentate il 9.11.2020 intorno alle 18; nel decreto n. 3423 era stata proposta l’11.10.2020 intorno alle 16, mentre nel decreto n. 3424 l’istanza di discussione era stata presentata il 10.11.2020 intorno alle 11.
[10] Sul punto M.A. Sandulli, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, lamministrativista.it, 1° maggio 2020; Id., Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, 4 maggio 2020, in giustiziainsieme.it; Id., L’emergenza non sacrifichi il diritto di difesa, neppure nel processo amministrativo, in Il Dubbio, 6 maggio 2020; Id., Cognita causa, in giustiziainsieme.it, 6 luglio 2020; C.E. Gallo, La discussione scritta della causa nel processo amministrativo, 16 luglio 2020, ivi.
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