Ancora oggi in compagnia e a colloquio con il mio Maestro Virgilio Andrioli
Intervista di Vincenzo Antonio Poso ad Andrea Proto Pisani
Andrea Proto Pisani è nato il 10 novembre 1939 a Napoli, dove si è laureato nel 1961 con il Prof. Virgilio Andrioli, il più giovane allievo di Giuseppe Chiovenda. Docente di diritto processuale civile dal 1968, dopo Siena e Bari, dal 1974 al 2009 ha insegnato nell’Università degli Studi di Firenze. Dal 1994 al 1998 ha ricoperto l'incarico di componente laico di nomina parlamentare del Consiglio Superiore della Magistratura. Dal 2001 è socio dell'Accademia dei Lincei, nominato su proposta di Pietro Rescigno e Rodolfo Sacco, anche per i Suoi studi sempre connessi al diritto sostanziale. Dal 1961 collabora continuativamente alla redazione della rivista Il Foro Italiano, della quale è stato anche condirettore dal 2012 al 2015. Della sua estesa produzione scientifica meritano qui di essere ricordate le Lezioni di diritto processuale civile, pubblicate da Jovene Editore, che dal 1994 hanno avuto diverse edizioni.
V. A. Poso «L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un Maestro: Virgilio Andrioli» è il libro pubblicato, alla fine di settembre di quest’anno, per i tipi di Jovene Editore, da Lei curato, che raccoglie alcuni ricordi degli allievi e alcune lettere. Iniziamo da qui. Chi era, nei Suoi ricordi universitari, Virgilio Andrioli?
A. Proto Pisani Quando nell’ottobre 1959, nel programmare le lezioni da seguire nel terzo anno di giurisprudenza, mio padre – unica vera interferenza nei miei studi universitari – mi consigliò di anticipare di un anno la frequenza al corso di diritto processuale civile, perché era tenuto da un ottimo professore, Virgilio Andrioli, il quale per me era poco più che l’Autore dei primi tre densi volumi della terza edizione del Commento al codice di procedura civile, che campeggiavano nella colta biblioteca di mio padre (ottimo avvocato “monocratico” di un tempo passato, specializzato prevalentemente nel diritto commerciale), a fianco del suo disordinato scrittoio, che lui frequentemente consultava.
L’Università era allora ancora un’università di elite, ed io avevo avuto la fortuna di studiare (e frequentare le lezioni) con ottimi professori. Innanzi tutto Giuseppe Auletta, che insegnava dall’inizio alla fine le intere Istituzioni di diritto privato, attraverso una miriade di lezioni e un parallelo corso di esercitazioni (talora aiutato da un brillante libero docente, Alberto Auricchio, amico della mia prima sorella); Antonio Guarino (allievo di Vincenzo Arangio Ruiz), severo professore di Istituzioni di diritto romano, il cui studio, se probabilmente era poco apprezzato dagli storici, era utilissimo, per chi non aveva vocazioni storiche, perché ripercorreva il diritto privato romano attraverso la dommatica civilistica; Francesco De Martino, che nelle sue lezioni del sabato e del lunedì ripercorreva la storia pubblica del diritto romano, fornendo un raffinato esempio di analisi storica; Augusto Graziani, giovane libero docente di economia politica, che già allora nelle sue esercitazioni affascinava per una materia dai mille risvolti politici. E poi al secondo anno tutti Maestri quali Alessandro Graziani, Giuliano Vassalli, Bruno Paradisi, Mario Lauria. Unico vero, grosso e importantissimo vuoto era l’insegnamento di diritto costituzionale, che, ancorato a problemi di teoria generale del diritto pubblico degli anni trenta, ignorava, nella sostanza, i valori della Costituzione del 1948, e per di più era tenuto da un docente non solo mediocre, ma anche di più che dubbia moralità accademica, il quale, divenuto padrone assoluto della Facoltà, ne avrebbe determinato il rapido declino (ancora nel 1965 Lino Jannuzzi dedicava sull’Espresso del 30 maggio un ampio articolo di denuncia delle malefatte della dinastia sua e di suo fratello: conservo ancora l’estratto di quell’articolo, che fu diffuso ampiamente).
In questo contesto (come accennato sopra) si collocava, al terzo o al quarto anno, l’insegnamento di Andrioli di diritto processuale civile.
Ebbene, il salto, lo stacco rispetto agli altri insegnamenti (a Napoli come nelle numerose altre università in cui Andrioli ha insegnato, da Trieste a Pisa, da Genova a Roma) era enorme e percepito da tutti quanti sono stati Suoi studenti, che lo ricordano ancora spesso con commozione.
Innanzitutto è esperienza comune che nella Facoltà di Giurisprudenza la frequenza dei corsi diminuisca in modo nettissimo negli anni successivi al primo; a fronte delle aule di grandi dimensioni e pienissime del primo anno, negli anni successivi il numero degli studenti frequentanti si riduceva (e ancora oggi si riduce) a poche decine, e ciò indipendentemente dal valore scientifico, talvolta elevatissimo, dei Professori.
Le aule in cui Andrioli insegnava erano sempre pienissime e il numero degli studenti frequentanti tornava ad essere elevatissimo, come al primo anno. Nonostante la circostanza che il diritto processuale civile sia materia, almeno apparentemente, tra le più aride del diritto, le lezioni di Andrioli incantavano l’uditorio per una pluralità di fattori: per la chiarezza dell’esposizione, per il continuo richiamo al diritto costituzionale, civile, commerciale e così via dicendo; per la capacità di rendere viva, come nello scorrere di un film, la trattazione dei singoli argomenti sempre saldamente inseriti nel contesto dei vari settori di riferimento, nonché per l’esposizione sempre aperta alla giurisprudenza, anche costituzionale. Il diritto cessava di essere qualcosa di statico e diventava nelle sue parole qualcosa di vivo, di mobile, in movimento.
Il corso di Andrioli era strutturato in cinque ore di lezione settimanali (con inizio all’ora esatta e con intervalli brevissimi, ove si svolgesse in due ore) e da un corso di esercitazioni di tre ore settimanali con la partecipazione solo degli studenti che avessero davvero interesse agli approfondimenti: per ogni esercitazione si doveva leggere e studiare una bibliografia indicata preventivamente; io conservo ancora il quadernone con gli appunti sui vari argomenti: dalla giustizia costituzionale, con cui Andrioli ci introdusse alla teoria dell’interpretazione e, in particolare, al pensiero di Tullio Ascarelli; alla teoria dell’azione con il suo carattere atipico e a tanti altri argomenti che non è qui possibile indicare.
Gli esami erano tutti personalmente tenuti dal Professore con la presenza in senso letterale di un assistente ordinario. Erano molto rigorosi, ma, una volta appresa, la materia non si dimenticava più. Quanto ai sussidi didattici Andrioli redasse durante gli anni napoletani un corso scritto di lezioni, corso valutato in modo entusiastico da Francesco Carnelutti, che già aveva recensito negli stessi termini la prima edizione del Commento del Codice di Procedura Civile concludendo con queste parole: «Come sarebbe contento oggi Chiovenda, se potesse leggere questo libro, pur così avanzato rispetto alla posizione di ieri ma così pregno del suo spirito, che era di lavoro indefesso e perciò di quotidiano superamento!». Le Lezioni del 1959 erano sostanzialmente una rilettura dei Principi di Chiovenda a distanza di cinquanta anni, alla luce della Costituzione del 1948 e del nuovo Codice di procedura civile. Come in quasi tutte le opere scritte, Andrioli abbandonava la limpidezza delle lezioni orali e diventava uno scrittore di grande difficoltà, dalle frasi lunghissime, nell’ansia di non omettere niente della complessità dell’argomento trattato.
V. A. Poso Il percorso accademico di Virgilio Andrioli è stato molto frastagliato, se non erro.
A. Proto Pisani Mi sembra opportuno a questo punto cercare di spiegare perché la permanenza a Napoli di Andrioli durò appena quattro anni, nonostante l’importanza degli scritti pubblicati in quel periodo e nonostante il successo sia fra gli studenti sia fra gli allievi che aveva avviato alla prosecuzione degli studi. La spiegazione è triste, ma molto semplice. Andrioli fu chiamato a Napoli nel 1957, a seguito, si dice, di un Consiglio di Facoltà tempestoso e per un solo voto in più rispetto ad un altro concorrente. Io mi laureai con lui nel luglio del 1961, e immediatamente dopo Andrioli, pur risiedendo a Roma, abbandonò la Facoltà di Giurisprudenza napoletana per trasferirsi a Genova, nonostante i disagi derivanti dalla distanza e la lunghezza del viaggio in treno da Roma a Genova.
Il motivo di questo abbandono è presto detto. Andrioli era una persona assolutamente libera e come dopo la vittoria nel concorso nel 1937 aveva preferito essere chiamato a Trieste (insieme a Domenico Barbero e Giuseppe Branca) anziché “brigare” per essere chiamato a Roma dalla Facoltà di Economia e Commercio, così nel 1961 decise di abbandonare Napoli, per rispetto della propria dignità, rifiutando di approvare la prassi per cui, almeno secondo la leggenda, le delibere, anziché essere discusse nel Consiglio di Facoltà, erano decise nello studio professionale di chi, con la connivenza di molti, deteneva il potere assoluto in Facoltà. E non è un caso che Giuseppe Auletta (non a caso allievo di Tullio Ascarelli), abbandonò Napoli dopo appena un anno, o, per citare un esempio eclatante, Gustavo Minervini, commercialista di razza, ma non disposto a servire, fu con tanti altri esiliato nella Facoltà di Economia e Commercio e non fu mai chiamato a Giurisprudenza.
Per tornare ad Andrioli è poi da dire che riuscì a trasferirsi alla Facoltà di Giurisprudenza di Roma solo nel 1967, ma per insegnare diritto fallimentare e non diritto processuale civile, cattedra questa che Salvatore Satta si rifiutò di sdoppiare fino al pensionamento avvenuto nel 1974; solo dopo tale data Andrioli sarà chiamato a insegnare la sua materia, insieme, però, ad altri processualcivilisti molto più giovani.
V. A. Poso Qual è stato il contributo di Virgilio Andrioli, in continuità con l’insegnamento di Giuseppe Chiovenda, nella cultura giuridica italiana?
A. Proto Pisani Il contributo di Andrioli è stato quello di accentuare il carattere strumentale del processo civile rispetto al diritto sostanziale.
Come probabilmente è noto, Chiovenda soleva riassumere questa strumentalità attraverso questa frase: «il processo deve dare a chi è titolare di un diritto, tutto quello e proprio quello che è previsto dal diritto sostanziale».
Questa frase trovava attuazione:
a) a livello di diritto di agire in giudizio attraverso l’affermazione della atipicità del diritto di azione, nelle tre classiche forme non solo della azione di condanna e della conseguente possibilità di attuazione della condanna, ma anche nella atipicità dell’azione di mero accertamento (atipicità contestata da Salvatore Satta) e nell’azione costitutiva, non solo nella costituzione di servitù coattive o di annullamento o risoluzione del contratto, ma anche da utilizzare per potere ottenere tramite il processo gli stessi effetti del contratto definitivo non concluso in caso di inadempimento del contratto preliminare (come è noto questa possibilità fu contestata in dottrina ad es. da Leonardo Coviello e dalla giurisprudenza, e troverà attuazione solo con l’emanazione dell’art. 2932 del Codice civile del 1942);
b) a livello di azione sommaria cautelare ogni qual volta il periculum in mora fosse tale da provocare un pregiudizio grave o addirittura irreparabile a causa del protrarsi dell’inadempimento durante tutto il corso del processo a cognizione piena, anche al di là delle misure cautelari tipiche previste dalla legge (quali ad esempio i sequestri giudiziari a tutela del proprietario o a tutela del credito), e ciò tramite la deduzione dal sistema della c.d. azione assicurativa generale (come è noto questa soluzione fu respinta non solo dalla giurisprudenza, ma anche da parte di uno studioso che pure affermava di essere un chiovendiano di ferro, come Piero Calamandrei, al quale, però, è da riconoscere il merito di avere favorito l’emanazione dell’art. 700 del Codice di procedura civile, nel corso della sua assidua collaborazione con il Guardasigilli Grandi nella fase finale della redazione del nuovo Codice).
Orbene il contributo di Virgilio Andrioli alla continuità con l’insegnamento di Chiovenda lo si coglie non solo in tutta la Sua opera volta a favorire al massimo la strumentalità del processo, ma anche nelle quasi mille pagine della terza edizione del Suo Commento al quarto libro del Codice di Procedura Civile (pubblicata nel 1966), in cui fra l’altro spazza via le obiezioni oggettivamente reazionarie, nella sostanza, di Salvatore Satta e anche di Luigi Montesano, volte a escludere l’applicazione dell’art. 700 a tutti i diritti a contenuto e funzione non patrimoniale. Ma ovviamente non è questa la sede per approfondire un discorso cui personalmente ho dedicato forse la parte più rilevante della mia attività di studioso.
V. A. Poso Fondamentale è stato il contributo di Virgilio Andrioli alle riforme processuali del lavoro degli anni ’70 del secolo scorso.
A. Proto Pisani A questo tema ho dedicato la relazione introduttiva nelle Conversazioni sul lavoro promosse dagli allievi di Giuseppe Pera nel 2019 nel Convento di San Cerbone, sul processo del lavoro, dedicate proprio al ricordo di Virgilio Andrioli, che Pera considerava suo secondo Maestro, dopo Luisa Riva Sanseverino (Virgilio Andrioli e le riforme processuali degli anni ’70: quasi un racconto, in Riv. Dir. Proc., 2020, 656 ss.).
In questa sede mi limito pertanto a rinviare a quella relazione per quanto concerne il contributo determinante di Andrioli e svolgere due sole osservazioni su questo tema:
a) richiamare nuovamente l’importanza storica del procedimento di repressione della condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. n. 300/1970 (c.d. “Statuto dei diritti dei lavoratori”), in quanto prima volta nella storia dell’Italia liberale, fascista prima e repubblicana poi della utilizzazione in via tipica della tutela sommaria (non cautelare) a garanzia di un diritto di libertà;
b) rilevare che nel 1973, su sollecitazione di Andrioli, dedicai un ampio articolo (apparso su Il Foro Italiano del 1973 e destinato agli studi in onore di Costantino Mortati) dal titolo Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro”. Questa espressione, pur essendo in sé altamente equivoca, per un verso ebbe notevole successo specie negli studi processualistici dell’America Latina, per altro verso determinò attacchi violenti da parte di alcuni studiosi italiani i quali mi attribuirono la volontà di sostenere la sommarizzazione del processo civile (rinvio al riguardo alla mia relazione e alla mia replica che ho svolto nel Convegno di Catania del 1979 della Associazione Italiana fra gli Studiosi del Processo Civile, Atti, Milano, 1981, e da me ripubblicato anche in Le tutele giurisdizionali dei diritti, Studi, Napoli, 2003, pp. 227-292). Le critiche non erano del tutto infondate in quanto l’espressione “tutela giurisdizionale differenziata” utilizzava le stesse parole per riferirsi a due temi notevolmente diversi:
aa) riti speciali a cognizione piena;
bb) ricorso ad ipotesi di tutela sommaria (cautelare o non cautelare): il che fu fonte di equivoci, equivoci però che con un po' di maggiore attenzione i miei critici avrebbero potuto agilmente superare.
V. A. Poso Nella lunga attività universitaria e forense di Virgilio Andrioli una parte fondamentale è stata rappresentata dalla «scuola» de Il Foro Italiano, officina nella quale hanno prestato la loro opera i Suoi allievi. Quale metodo vi ha insegnato Virgilio Andrioli, con riferimento in particolare all’analisi e al commento della giurisprudenza?
A. Proto Pisani Certamente sia Virgilio Andrioli, sia chi scrive ha dedicato grande rilievo alla «scuola» offerta dalla collaborazione al Foro Italiano.
Occorre, però, dire subito che l’impegno da me dedicato al Foro italiano non sia comparabile in modo alcuno a quello di Virgilio Andrioli, il quale iniziò la Sua collaborazione appena laureato nel 1931, collaborazione che si tradusse nel 1961 per quasi venticinque anni nello svolgimento del compito di direttore unico. In quegli anni Andrioli selezionò tutte le sentenze della Corte di Cassazione e di merito da pubblicare; redasse i “neretti” indicando in tal modo le parti delle sentenze da massimare; individuò i collaboratori selezionati quasi sempre tra i Suoi studenti migliori (Giuseppe Pera, Alessandro Pizzorusso, Giuseppe Borrè, Franco Batistoni Ferrara, Modestino Acone, Giovanni Verde, Lucio Florino, Sergio La China, Mario Bessone, Luigi Rovelli, Carlo Maria Barone, Giancarlo Pezzano, Maurizio Converso e tanti altri), ai quali inviare le singole sentenze; controllò le note redazionali integrandole e coordinandole; impostò il fascicolo e la sua copertina; riguardò ed effettuò la prima correzione delle bozze. Alla collaborazione al Foro italiano dedicò oltre cinque ore al giorno, sottraendole, spesso con dolore, alla pubblicazione di saggi, alla moglie, Signora Adriana, e anche al sonno.
Quando, intorno al 1975, Andrioli cessò la Sua collaborazione, il Foro italiano era di certo diventata la prima rivista italiana di giurisprudenza, con oltre sedicimila abbonati (ricevendo solo negli ultimi anni un compenso di cinquecentomila lire al mese).
Carlo Scialoja, con la sua signorile eleganza, e soprattutto il lavoro a tempo pieno di un giovane, Maurizio Converso (nei primi anni retribuito con un compenso da fame) compirono il miracolo di evitare il tracollo della Rivista tramite la chiamata a raccolta dei vecchi (e sempre più stanchi) collaboratori e soprattutto per la capacità di Maurizio Converso di trovarne di nuovi (con la partecipazione assidua a tutti i convegni di qualche rilievo), di addestrarli al difficile mestiere di redattore, rivedendo e coordinando le note redazionali. Certamente anche io, specie tramite i miei allievi, cercai di svolgere la mia parte, ma senza paragone alcuno con quella determinante di Maurizio Converso.
Poi nei primi anni di questo secolo sopravvenne l’informatica con tutto quello che ne seguì. A questo punto la proprietà (ceduta a buon prezzo dal previdente editore Zanichelli), anziché puntare sulla competenza di un esperto (quale certamente era Maurizio Converso che da anni insegnava Informatica Giuridica all’Università), il quale sapesse dirigere la non semplice rapida trasformazione del Foro cartaceo in rivista soprattutto on line, pensò bene di poter fare da sola col conseguente inevitabile crollo non solo degli abbonamenti (ridotti a quattromila), ma soprattutto delle tradizioni della Rivista, forse anche per l’incapacità di capire i cambiamenti in corso nell’editoria giuridica dei direttori, tra i quali anche chi scrive, che solo dopo tre anni e mezzo (i primi due però trascorsi insieme a Maurizio Converso) si dimise da tale incarico (cominciando anche a destinare prevalentemente ad altre riviste i propri scritti, sempre più ridotti per il sopravvenire della vecchiaia).
Chiuso questo triste capitolo, per completare la risposta alla domanda rivoltami, mi sembra che sia da dire che il “metodo” insegnatoci da Andrioli si può condensare in questi tre punti. Innanzitutto la modestia ed essere disposti a subire e sapere recepire le critiche (io, personalmente, scrissi e riscrissi ben cinque volte la prima nota a sentenza assegnatami da Andrioli, subito dopo la laurea). In secondo luogo, l’importanza della ricerca avente ad oggetto l’individuazione e la lettura di precedenti facendo estrema attenzione a tenere conto della particolarità del caso concreto, ed evidenziandole nelle massime (al riguardo Andrioli redasse un libretto di istruzioni, in cui io ritrovo il richiamo all’importanza dell’evoluzione della realtà sociale secondo il metodo realistico di Ascarelli che Andrioli mi aveva insegnato). In terzo luogo, in caso di preparazione di una sentenza di merito, il divieto assoluto di apprezzamenti sul contenuto della decisione, per evitare l’utilizzazione della rivista di giurisprudenza per pilotare l’accoglimento o il rigetto dell’impugnazione di una parte (cosa purtroppo diffusa anche tra qualche mio collega), nonché l’assoluto divieto di utilizzare scritti difensivi nella redazione della eventuale nota di commento.
V. A. Poso La nomina nel 1978 da parte del Presidente della Repubblica Sandro Pertini a Giudice della Corte Costituzionale (della quale è stato anche Vicepresidente) segna una tappa fondamentale dell’esperienza professionale di Virgilio Andrioli; del resto alla giustizia costituzionale sono dedicati alcuni saggi importanti raccolti nel 1992 da Alessandro Pizzorusso in un volume, che completa gli scritti del Maestro (Studi sulla Giustizia Costituzionale, Giuffrè, 1992). Quali sono state le sentenze più significative dovute alla penna del Giudice Costituzionale Virgilio Andrioli?
A. Proto Pisani Come Alessandro Pizzorusso, nonostante una vita dedicata allo studio del diritto costituzionale, della giustizia costituzionale, delle centinaia di decisioni della Corte costituzionale da lui preparate e commentate sul Foro (e su altre riviste) e del rilievo internazionale della sua opera scientifica, non fu mai nominato giudice costituzionale perché troppo indipendente sia rispetto ai partiti politici sia rispetto ad altri centri di potere, così Virgilio Andrioli non sarebbe mai entrato nel Palazzo della Consulta se la Sua indipendenza non si fosse incontrata con quella di un uomo politico particolarissimo come Sandro Pertini.
Fu così che una mattina dell’ottobre del 1978, Sandro Pertini chiamò al telefono Andrioli per dirgli che lo avrebbe nominato giudice della Corte Costituzionale. Incarico che Andrioli accettò, pur sapendo che molto probabilmente avrebbe trascorso alla Corte gli ultimi anni che avrebbe invece dedicato ai Suoi studi (del 1979 è la pubblicazione del poderoso volume Diritto processuale civile, I, dedicato alla parte generale, ai processi a cognizione piena e alle impugnazioni).
L’indicazione analitica delle sentenze redatte dal giudice Andrioli, è stata effettuata da Giuliano Scarselli in un articolo, (pubblicato in Foro it., 2008, V, 132 ss.).
In questa sede vorrei soffermarmi sulla sentenza della Corte Costituzionale n.190/1985 (in Foro it. 1985, I, 1881 ss.), pronunciamento con il quale Andrioli trapiantò nel processo amministrativo la tutela cautelare atipica prevista dall’art. 700 c.p.c., colmando in tal modo un grave vuoto di tutela (che alcuni pretori avevano avuto il coraggio di colmare con decisioni ritenute troppo ardite per essere condivise dalla generalità: v. per tutte l’importantissima sentenza della Pretura di Pisa 30 luglio 1977, Est. Salvatore Senese, in Foro it. 1977, I, 2354, con ampia nota di richiami).
La sentenza n. 190/1985 della Corte Costituzionale è di grossa importanza anche sul piano scientifico, perché fondata sulla costituzionalizzazione del principio cardine del sistema chiovendiano secondo cui la «durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione». Andrioli stesso colse immediatamente l’importanza pratica e teorica della decisione, tanto che la segnalò con soddisfazione alla figlia di Chiovenda, Signora Beatrice Canestro Chiovenda.
Detto questo, e rinviando all’articolo di Scarselli per le indicazioni di altre decisioni di rilievo redatte da Andrioli, devo, però, aggiungere che la sua esperienza di giudice della Corte Costituzionale non fu fra le più felici. Questo mi sembra di poter dire per varie ragioni: il carattere burbero di Andrioli lo rendeva inadatto alla partecipazione ad un collegio ampio come quello della Corte e ciò fece sì che Andrioli spesso aggredisse attraverso parole pesanti i colleghi dei quali non condivideva le proposte di decisione; si aggiunga anche che il novennio di giudice costituzionale coincise con l’invecchiamento indubbio del mio Maestro, invecchiamento che dopo appena tre o quattro anni sarebbe esploso con il Suo smarrimento nell’appennino fra i boschi di Vallombrosa.
V. A. Poso Nel Suo lungo peregrinare in Italia (Trieste, Pisa, Napoli, Genova, Firenze, Roma), Virgilio Andrioli ha seminato in ogni università moltissimi allievi, studiosi di spessore, non solo di diritto processuale civile, alcuni dei quali sono diventati a loro volta Maestri. Qual è stato il tratto caratteristico del rapporto di questo grande Maestro con i Suoi allievi e di questi con Lui?
A. Proto Pisani Recentemente, scrivendo l’introduzione al volume di ricordi di Virgilio Andrioli citato all’inizio, prima di parlare dei Suoi allievi divenuti docenti universitari, ho sottolineato come si è venuta a creare una comunità informale degli “studenti” di Andrioli, di coloro che hanno partecipato a quell’esperienza per tutti parimente indimenticabile di aver partecipato ad un Suo corso di lezioni. Quando per caso ci si incontra si constata pressoché sempre che quel corso di lezioni ha lasciato il segno: sia per l’intransigenza morale nell’adempimento dei propri doveri professionali di docente, magistrato o avvocato, sia per l’attenzione ai soggetti deboli e l’affezione ai valori costituzionali, ecc. ecc.
Questa è l’eredità più profonda che Andrioli ha lasciato ai Suoi studenti; poi fra questi ci sono quelli che sono divenuti docenti universitari, di diritto processuale civile come chi scrive e come Pino Borrè, libero docente di procedura civile con una monografia ancora attuale sulla esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare e, allo stesso, tempo magistrato, impegnato nelle correnti della magistratura, particolarmente attento alla interpretazione delle leggi ordinarie alla luce dei principi rivoluzionari della Costituzione del 1948, e ancora fondatore di una rivista di grosso valore, anche scientifico, Questione Giustizia e tanto altro che occorrerebbe parlare per oltre un’ora; o Beppe Pera e Maria Vittoria Ballestrero (Sua studentessa a Firenze di un singolare corso di procedura penale), divenuti docenti di diritto del lavoro (quanto a Pera dovrò ritornarvi nel corso di questa intervista); docenti di diritto privato come Mario Bessone o Luigi Rovelli (docente e magistrato ad un tempo); o ancora altri docenti di diritto processuale civile come Modestino Acone, Giovanni Verde o Sergio La China (Suo assistente a Genova, originariamente allievo di Salvatore Satta); e ancora Carlo Maria Barone e Giancarlo Pezzano Suoi assistenti a Roma e coautori, insieme a me, col Maestro di un vero e proprio «trattato» – come fu definito da alcuni - sulle controversie individuali di lavoro ( prima edizione Zanichelli del 1974); e poi Alessandro Pizzorusso, di cui già si è detto; Tonino Tizzano, docente di diritto internazionale (che fra l’altro fu chiamato a realizzare per il Foro la parte IV, relativa soprattutto alla giurisprudenza europea, originariamente caratterizzato dalle pagine di colore verde); o Franco Batistoni Ferrara, pisano, docente di diritto tributario.
Quanto al metodo di Andrioli nel seguire i Suoi allievi aspiranti docenti universitari, ho cercato di indicarlo riportando le lettere inviatemi da Andrioli nell’ultima parte del volume dedicato al Suo ricordo.
Severità, severità soprattutto nei primi studi monografici. Nessuna apertura alla retorica senza “costrutto”; indicazione dei dati bibliografici di diritto tedesco e straniero da cui prendere le mosse; concentrazione iniziale sul dominio della dommatica concettuale, quindi apertura verso il mondo dei valori, soprattutto costituzionali; verifica almeno mensile dello stato di avanzamento del lavoro attraverso una disponibilità, da parte Sua assoluta, alla lettura anche dalle prime stesure, seguita poi da incontri a Roma, in Via Tevere, e dopo in Via Tolmino; disposizioni alla sua segretaria di mettere i Suoi allievi in contatto telefonico con lui, quali che fossero i Suoi impegni; esame e riesame dello schema del lavoro; una lettura complessiva finale seguita poi dalla lettura delle bozze con gli ultimi suggerimenti. Libertà assoluta di indipendenza dal Suo pensiero, ma richiamo continuo all’attenzione ai classici.
Direi che pochi sono stati gli allievi fortunati come quelli che potevano contare su un’attenzione così continua nella stesura dei primi lavori monografici.
E il sentimento profondo di noi tutti è quello di un’infinita riconoscenza nei confronti del proprio comune Maestro, che poi ci avrebbe continuato a seguire dopo il superamento del concorso, dell’ordinariato ecc. ecc.
Un’ultima osservazione è quella relativa alla Sua indisponibilità a partecipare ai gruppi di potere (di tutte le materie giuridiche) allo scopo di essere nominato componente della commissione esaminatrice del concorso. Qui Andrioli abbassava le armi e si diceva incapace di scrivere più di una ventina di lettere di segnalazione del Suo interesse, in quanto non poteva scrivere a “delinquenti” o più genericamente a colleghi che disistimava.
Questo comportava probabilmente la sua esclusione dalle commissioni di concorso, ma l’autorevolezza dell’essere Suo allievo compensava ampiamente le possibilità di vittoria.
Dico questo come testimonianza personale; non so invece cosa accadesse se oltre al Suo appoggio ci si adoperasse per coinvolgere a proprio favore anche qualcuno di quei gruppi di potere cui Andrioli volutamente voleva restare estraneo.
V. A. Poso Il rapporto che Lei ha avuto con Virgilio Andrioli è stato determinante non solo nella Sua vita di studioso, ma anche sul piano umano per le sue accentuate doti di moralità, anche nella vita universitaria. È questo lo stigma del Maestro?
A. Proto Pisani Sì, certamente, è questo il Suo insegnamento.
Qui vorrei anche accennare all’aiuto che Andrioli mi dava nei momenti di stanchezza nervosa. Mi scriveva lettere in cui per un verso mi invitava a non sopravvalutare la stanchezza che derivava dai miei studi, per altro verso richiamava la mia attenzione a guardare coloro che stavano peggio di me e quindi a non autocommiserarmi troppo.
Per me era importante anche il Suo richiamo ai valori di un impegno cristiano verso i più deboli e il richiamo alla lettura di Esprit o al mio impegno nel Tetto, una rivista cattolica napoletana. Ricordo quando richiamò la mia attenzione sulla lettura della domenica precedente del richiamo di Amos: “misericordia voglio non sacrifici”.
V. A. Poso Di alcune cose che ci ha raccontato ne so qualcosa anche io, perché a Pisa sono stato allievo diretto, per la disciplina lavoristica, di Giuseppe Pera, ma sono stato allievo anche di Alessandro Pizzorusso (nella IV Lezione “Luisa Riva Sanseverino” tenuta il 5 maggio 1988 nell’Aula Magna della “Sapienza Pisana”, dedicata al diritto fallimentare, Virgilio Andrioli disse che per distinguerli, Pera e Pizzorusso erano anche molto amici, li chiamava «pera» e «mela»). In quale occasione ha conosciuto Giuseppe Pera e quali sono i Suoi ricordi?
A. Proto Pisani I nomi di Pera come quello di Pizzorusso ricorrevano spesso nel corso delle lezioni universitarie di Andrioli, come quelli dei Suoi allievi pisani, pretori a San Miniato e Moncalieri, che non avevano esitato a rimettere alla Corte Costituzionale articoli di legge di origine fascista lesivi di libertà riconosciute dalla Costituzione.
Quanto a Pera ricordo di essermi recato a Pisa o a Lucca, in occasione dell’invito che mi aveva rivolto a tenere nel 1972 una relazione ad un importante convegno di diritto del lavoro milanese, sull’art. 28 dello Statuto dei diritti dei lavoratori a due anni dalla sua entrata in vigore; ricordo che a Milano conobbi Luigi Mengoni che mi disse di essere rimasto impressionato della ampiezza della mia analisi della giurisprudenza.
Rincontrai certamente Pera in occasione di un pranzo di festeggiamento di Alessandro Pizzorusso per la vittoria del concorso universitario, festeggiamento che si tenne a Montecarlo, un paese nei pressi di Lucca (era presente anche il padre di Pizzorusso, Giuliano, da cui ereditai poi il commento, in più volumi, al codice di procedura civile del 1865 di Luigi Mattirolo). Terminato il pranzo ci recammo tutti nella bella villa di Pera appena fuori Lucca, e conoscemmo anche Pia, sua giovane figlia, allora appassionata di fotografia. Conservo ancora le numerose fotografie di Andrioli, Pera, Pizzorusso, e delle nostre mogli, fotografie che spesso ho visto riprodotte in occasioni di convegni organizzati dalla Fondazione Pera.
Sempre riguardo a Pera ricordo che nel 1973 – 1974, di ritorno da una mia andata a Lucca, mi condusse a Firenze all’Istituto di diritto agrario comparato in occasione della presentazione dei Quaderni fiorentini di storia del pensiero giuridico moderno e mi presentò a Paolo Grossi, che ancora non conoscevo.
V. A. Poso Ai primi di agosto del 1991, durante una breve passeggiata, a seguito della perdita degli occhiali, Virgilio Andrioli, all’epoca ottantaduenne, si perse nei boschi di Vallombrosa e fu ritrovato dai soccorritori dopo tre notti all’addiaccio. Negli anni successivi le condizioni di salute di Virgilio Andrioli peggiorarono sino a costringerlo a letto, per diversi anni privo di conoscenza e in stato vegetale. È una pagina dolorosa anche per Lei (e per gli allievi più affezionati che sono sempre andati a fargli visita), che, quando è stato necessario, fu nominato tutore. Quali sono i ricordi di quegli anni difficili?
A. Proto Pisani Ho più volte detto che quella tragica vicenda di agosto del 1991 può considerarsi il termine dell’attività di Andrioli come studioso.
Nei primi anni successivi all’incidente gli allievi continuarono a fare visita al loro Professore, che ancora si muoveva in macchina con la Signora Adriana. Negli anni (1994 – 1998), in cui fui a Roma come consigliere laico del C.S.M., ricordo di essere uscito più volte con loro.
Ricordo in particolare la visita alla Signora Beatrice Canestro Chiovenda (una vecchietta ultranovantenne molto vivace che, tramite l’intermediazione di Franco Cipriani, ebbi più volte occasione di visitare con mia moglie a Premosello Chiovenda e a casa del figlio a Roma). Non potrò mai dimenticare l’incontro a Roma di Andrioli e la figlia del Suo Maestro: Andrioli assunse l’atteggiamento dello scolaretto intimidito, cosa che non mi era mai accaduto di vedere. Quella visita resterà sempre impressa nella mia memoria.
Verso la fine del secolo scorso i coniugi Andrioli decaddero sempre di più e nel 2000 morì la Signora Adriana. Da quegli anni tutti gli allievi di Andrioli, compresi Pera, Pizzorusso, Barone, cessarono di andarlo a trovare nella Sua casa di Via Tolmino, perché rifiutavano di accettare la Sua decadenza e spesso chiamavano me per avere Sue notizie. Direi che dal 1990 – 1994 in poi la sopravvivenza dei coniugi Andrioli fu assicurata dalla Dott.ssa Maria Rosaria Fruscella, segretaria di Andrioli alla Corte Costituzionale, la quale trovò come autista dell’auto di servizio della Corte una persona dalla grande umanità, Giacomo Malatesta, il quale provvedeva soprattutto a fare la spesa e gli acquisti giornalieri di medicine e, altresì, le badanti (delle quali desidero ricordare Lina che in quegli anni ebbe il dolore di perdere i suoi due unici figli in incidenti di motociclette). Scomparsa la Signora Adriana, fu necessario nominare un tutore al Professore (divenuto un tronco del tutto privo di capacità di intendere e di volere) e in occasione della visita del giudice tutelare la Dott.ssa Fruscella si adoperò perché tutore non fosse nominato il fratello del Professore (a suo avviso non sufficientemente adatto per l’età avanzata) e fece invece il mio nome. A seguito di un incontro col giudice tutelare, fui nominato tutore del mio Maestro (anche perché rinunciando, ovviamente, a percepire qualsiasi compenso o rimborso spese, il giudice tutelare mi disse di sentirsi agevolato nel prospettare la mia nomina ai parenti).
La disponibilità di Giacomo Malatesta e l’aiuto della Dott.ssa Maria Rosaria Fruscella e di Lina resero molto agevole lo svolgimento di questa mia inedita funzione. Anzi il dovermi recare una o più volte al mese a trovare il mio Professore, già allora e anche oggi ripensando a quegli anni, mi provocava e mi provoca ancora un grande senso di tenerezza.
V. A. Poso Dal Suo Maestro ha ereditato il piacere e il dovere dell’insegnamento costruttivo al quale si è sempre dedicato con particolare impegno, per i temi trattati, il numero delle lezioni e i rapporti con gli studenti. Possiamo dire che l’università è stata la Sua prima casa?
A. Proto Pisani Sì, è proprio così, per me l’università era la mia casa.
V. A. Poso «Andrea Proto Pisani arrivava a lezione sempre puntuale, metteva sulla cattedra le sue cose, gli appunti, i codici, dei pennarelli, soprattutto le sigarette e i pocket coffee che utilizzava per il suo relax tra la prima e la seconda ora di lezione, e si concedeva qualche minuto di concentrazione prima dell’inizio delle spiegazioni. Noi studenti attendavamo quasi divertiti il compimento di quei riti, poi la lezione iniziava, e aveva sempre ritmi serrati, veloci, dalle ore 11,00 fino alle ore 13,00, quando la lezione terminava». Con queste parole il Suo allievo Giuliano Scarselli, allora studente nell’anno accademico 1982/1983, ha descritto (Andrea Proto Pisani compie ottantanni, in Judicium, 6 novembre 2019) le Sue lezioni. Un vero e proprio rito.
A. Proto Pisani Giuliano Scarselli è sempre con me molto affettuoso, ma è vero che provavo un piacere immenso nel trovarmi in un’aula piena di studenti e dovere tentare ogni anno di spiegare il perché lo studio del processo civile potesse essere di grosso interesse: in quanto indispensabile per il superamento della “crisi di cooperazione” a livello di diritto sostanziale e consentire al titolare di un diritto di ottenere tramite il processo tutto quello e proprio quello che gli è garantito dal diritto sostanziale. E ciò soprattutto se letto alla luce dei valori fondanti della nostra Costituzione repubblicana: e cioè la tutela dei diritti inviolabili della persona (ivi compresi ovviamente la tutela dei diritti e delle libertà in materia di lavoro), l’attuazione dei diritti e dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale (indispensabili per la riduzione delle diseguaglianze), la tutela della dignità della persona come valore prevalente rispetto al diritto di proprietà o alla iniziativa economica e sociale.
Visto in questa ottica il processo cessa di essere un qualcosa di arido rivolto solo agli avvocati e ai magistrati, ma diviene asse portante di un moderno stato sociale di diritto.
Detto questo, vorrei aggiungere che l’insegnamento, nello sforzo di spiegare agli studenti la interconnessione tra diritto sostanziale e processo, è riuscito spesso a consentirmi, nel corso dello svolgimento della lezione, di cogliere collegamenti o di sciogliere problemi, utilissimi anche ad essere sviluppati sul piano strettamente scientifico.
E, infatti, superati i primissimi anni di insegnamento, la mia attività scientifica è stata sempre o quasi frutto dell’insegnamento, fino a sfociare nel 1994 nella sintesi delle Lezioni di diritto processuale civile. Ovviamente non compete a me valutare se ciò ha davvero consentito o no qualche progresso.
V. A. Poso Quindi, usando sempre le parole di Giuliano Scarselli, c’era il desiderio da parte Sua di trasmettere agli studenti (era questa la sensazione da loro percepita) «non solo la conoscenza di una materia bensì anche un metodo, dei valori, la costruzione di un sistema». Teneva, poi, un autonomo corso seminariale annuale destinato solo agli studenti che avessero superato l'esame base, seminari aperti anche ad altri docenti, ai magistrati e agli avvocati, a completamento di un percorso universitario.
A. Proto Pisani Sì, sempre nell’ambito dell’insegnamento va collocato l’impegno (appreso da Andrioli) di affiancare al corso di lezioni esercitazioni, cui dedicare non meno di tre ore di una mattinata (come quella del sabato) libera da altri impegni, con la partecipazione attiva di gruppi ristretti di studenti e solo poi con l’intervento dei docenti.
Dopo alcuni anni dedicati allo studio delle locazioni (specie negli anni ruotanti intorno al 1978 in cui fu emanata la legge sul c.d. equo canone, che suscitò il mio interesse anche per l’instaurazione di un possibile parallelismo fra diritto alla conservazione del posto di lavoro e diritto alla conservazione della locazione della casa di abitazione), a seguito della chiamata a Firenze di Giovanni Fabbrini, si affrontarono prima temi di carattere generale, quali i limiti soggettivi, oggettivi e temporali del giudicato, e poi ci dedicammo al primo esame approfondito di riforme processuali, quali quelle poi sfociate nella l. n. 353/1990.
Senza esitazione, le esercitazioni settimanali con Giovanni Fabbrini (e la partecipazione di avvocati, magistrati e docenti anche non fiorentini) costituiscono nel mio ricordo l’esperienza più utile e gratificante della mia attività di insegnamento. E ciò perché prima occorreva addestrare gli studenti, che avrebbero dovuto introdurre la singola esercitazione, alla ricerca della giurisprudenza e di alcuni scritti specifici; poi, ascoltate le relazioni degli studenti, il discorso si trasformava in un dialogo tra me e Giovanni Fabbrini; dialogo che spesso diveniva una contrapposizione fra due diverse formazioni di pensiero, nell’assoluto rispetto intellettuale dell’opinione di ciascuno, opinioni che entrambi erano disposti a modificare, precisare, ecc.; il che già di per sé era un grosso fatto educativo per gli studenti presenti.
V. A. Poso Quindi a Firenze Lei ha avuto l’occasione di collaborare con l’indimenticabile Giovanni Fabbrini (che in precedenza aveva insegnato anche a Pisa e molti sono i ricordi che ci hanno trasmesso Francesco Paolo Luiso e Sergio Menchini, suo allievo diretto, ma anche Giuseppe Pera, che per un periodo di tempo ha condiviso anche lo studio legale con lui e Fabio Merusi). Quali sono i Suoi ricordi? Ci può tratteggiare un ritratto del Maestro prematuramente scomparso?
A. Proto Pisani A quello che ho già ampiamente detto sopra, ora vorrei aggiungere che Fabbrini è stato un processualcivilista dotato di eccezionali capacità logiche. La sua scomparsa è stata per me non solo la perdita di un amico divenuto fraterno, di un collega esemplare che nonostante i suoi impegni professionali non ritardava mai l’inizio delle lezioni o, peggio, si faceva sostituire, che sosteneva tutti gli esami personalmente, che aveva una non comune capacità di guidare gli studenti alla tesi di laurea; ma anche il venir meno della possibilità di portare a termine il suo programma di redigere un manuale di diritto processuale civile (già programmato con la Cedam) in cui mettere a frutto non solo le sue capacità, ma anche di articolare un discorso, preannunciato dai suoi preziosissimi studi su “i poteri del giudice”, “connessione”, “eccezione” (studi che in parte costituivano la continuazione del suo “Manuale di diritto processuale del lavoro” del 1974, pubblicato da Franco Angeli Editore).
Poiché la speranza è l’ultima a scomparire, confido ancora che il suo, bravissimo, allievo prediletto Sergio Menchini, tra i tanti impegni, trovi il tempo necessario per continuare il lavoro del suo Maestro.
Risalgono (oltre che a Elio Fazzalari) anche ai colloqui fra Fabbrini e Luiso nell’Istituto di diritto processuale civile della Sapienza pisana degli anni ’70, le origini di alcune parti del vero e proprio trattato in cinque volumi del (chiarissimo) Diritto processuale civile, di Francesco Paolo Luiso (edito da Giuffrè).
Vorrei concludere con un’osservazione triste: ho sempre avvertito che se io avessi voluto, avrei potuto porre il veto sulla chiamata a Firenze di Giovanni Fabbrini. Ho parlato di tristezza perché probabilmente l’università andava male già quando era moralmente molto migliore di quella attuale.
V. A. Poso Per molti anni a Firenze, anche negli anni in cui Lei ha insegnato, ha operato come giudice del lavoro Marco Ramat, fondatore di Magistratura Democratica, che nel 1965, partecipando a Gardone come relatore al XII Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati invitò i colleghi a liberarsi dagli isola iuris vetero – positivisti e a seguire nell’esercizio della giurisdizione la bussola della Costituzione. Ci sono anche tanti altri esempi in tal senso, non ultimo quello di Salvatore Senese. A Firenze e in Toscana, peraltro, erano sempre influenti gli insegnamenti improntati al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Don Lorenzo Milani. Quali sono i Suoi ricordi della giurisprudenza dei c.d. «pretori d’assalto»?
A. Proto Pisani Del gruppo di Magistratura Democratica e, in particolare, di Salvatore Senese e Pino Borrè, ho già parlato e ho anche richiamato l’importanza da Essi data alla Costituzione: di conseguenza è fuori discussione il mio favore per la giurisprudenza dei c.d. pretori d’assalto (che brutta espressione, però).
Quanto al mio interesse per il cristianesimo sociale di Giorgio La Pira, Don Lorenzo Milani, cui aggiungerei senza esitazione Giuseppe Dossetti, esso risale agli anni ’50 della mia gioventù: e ciò anche per la collaborazione determinante di La Pira e Dossetti nella formulazione degli art. 2 e 3 della Costituzione, sulla base di un accordo sostanziale con Lelio Basso e Palmiro Togliatti sulla redazione di una Costituzione che legittimasse anche diverse realizzazioni di uno stato sociale; forma di Stato che non fu realizzata ( neanche accennata negli anni ’50) per le politiche reazionarie di Luigi Gedda e del Papato di quel tempo, e per le conseguenti scelte da parte del settore maggioritario della Democrazia Cristiana.
V. A. Poso In qualche biografia ho letto che, facendo propria la lezione di Tullio Ascarelli, di Luigi Mengoni e di tanti altri, Lei ha fatto propria la teoria dell'interpretazione come interpretazione sistematica con la Costituzione e i suoi valori tra i quali innanzitutto la dignità della persona. È questa la Sua metodologia di studio e di ricerca?
A. Proto Pisani È indubbio. Sul punto ho in corso di stampa una noterella in cui prendo esplicita posizione, pur senza nominarlo, contro il carattere anticostituzionale delle posizioni di qualche studioso (ivi compreso un mio collega al quale sul piano personale sono legato da profonda e sincera amicizia) il quale aderisce esplicitamente alle posizioni di Carl Schmitt (cioè di uno dei responsabili dell’olocausto), quasi che la difesa dell’impresa debba avvenire a scapito dell’interpretazione fondata anche sui valori costituzionali.
Si giunge così a una utilizzazione rovesciata dell’uso alternativo del diritto in una prospettiva questa sì inaccettabile, in quanto fondata (come un tempo sulla difesa della razza) sulla cancellazione –abrogazione (oltre che dell’art. 2 Cost.) anche dell’esplicito richiamo dell’art. 41 della Costituzione, che subordina la legittimità dell’iniziativa economica privata al rispetto del valore della dignità umana.
Ad Ascarelli e Mengoni aggiungerei Norberto Bobbio e, in particolare, la sua ricostruzione del pensiero di Tullio Ascarelli, successivo al suo rientro in Italia, in tema di interpretazione; e da ultimo il commento di Maurizio Fioravanti all’art. 2 della Costituzione, per la collana sulla “Costituzione italiana” di Carocci, e il volumetto postumo di Vincenzo Scalisi su “L’ermeneutica della dignità”.
Facendo un salto, vorrei dire che l’adozione da parte mia di questa “metodologia della ricerca” si è tradotta nella mia vita di studioso nel rileggere i rapporti tra diritto sostanziale e processo: in gran parte nel tentativo di rileggere le tecniche di tutela storicamente sviluppatesi a tutela del diritto di proprietà, nel senso, non di contestarle in sé, ma in quello diverso della loro utilizzazione oggi a tutela dei diritti della persona: diritti normalmente a contenuto e a funzione non patrimoniale (come tali bisognosi di tutele urgenti). Per citare un solo esempio, utilizzare ( più che la tecnica di tutela del possesso) soprattutto la tecnica raffinata della denuncia di danno temuto (art. 1172 c.c.) a garanzia dei diritti della persona: da questo punto di vista l’operazione tecnica effettuata attraverso l’art. 28 l. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei diritti dei lavoratori) mi sembra davvero rivoluzionaria nella misura in cui, nella sostanza, utilizza la tutela sommaria non cautelare non a favore della proprietà, ma di diritti propri della persona dei lavoratori. Ma su questo ho scritto anche troppo nel corso degli anni e non voglio qui dilungarmi.
V. A. Poso Delle Sue vicende universitarie sappiamo molto, anche per quello che Lei stesso ha scritto nelle Note a margine di una vita universitaria (di un allievo di Virgilio Andrioli), che si possono leggere in Riv.Dir.Proc.,2019, 430 ss.). Sul finire del 2019, per festeggiare in maniera discreta il Suo compleanno, ha dedicato il saggio (pubblicato in Riv. Dir. Proc. 2019, 1429 ss.) «Problemi del processo civile rivisti da un ottantenne» ai Suoi allievi, oltre ottanta, professori, magistrati, avvocati, indicandoli uno per uno per nome, con la speranza di non dimenticarne troppi. Possiamo parlare di una «scuola» di Andrea Proto Pisani oppure, allergico a questa, ha saputo indicare soprattutto un metodo ai suoi tanti allievi?
A. Proto Pisani No, non esiste alcuna “scuola” di Andrea Proto Pisani, ma solo il tentativo di seguire i miei allievi con la stessa attenzione con cui Virgilio Andrioli mi seguì nella mia stesura della Opposizioni di terzo ordinaria e della Trascrizione delle domande giudiziali, cioè delle mie prime due monografie che nulla avevano certamente di rivoluzionario, ma miravano solo a impadronirmi della tecnica (se si vuole della dommatica concettuale) indispensabile per la prosecuzione più o meno fruttuosa dei miei studi in piena autonomia di pensiero (e, se si vuole, di scelte politiche).
V. A. Poso Il Consiglio Superiore della Magistratura (di cui Lei ha fatto parte come componente laico dal 1994 al 1998), organo costituzionale, deve conservare la sua autonomia e deve poter svolgere il suo lavoro, se necessario, con la dovuta discrezionalità. Oggi, però, anche in conseguenza di alcuni procedimenti penali e disciplinari, molte sono le suggestioni per una riforma radicale dell’organo di autogoverno. È un problema di nomine e di come le nomine sono fatte o di regole di condotta e di funzionamento? Qual è la Sua opinione in proposito?
A. Proto Pisani L’autonomia e l’indipendenza della magistratura prevista della Costituzione del 1948, anche attraverso la istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, costituisce un qualcosa che giustamente ci viene (o ci veniva) invidiato dalle altre magistrature europee.
A tale riguardo occorre però procedere con cautela, perché i casi Luca Palamara e Cosimo Ferri hanno scosso giustamente la pubblica opinione, non solo italiana.
Vorrei procedere per gradi.
a) La grossa scelta della Costituzione è consistita nel sottrarre la c.d. amministrazione della giurisdizione (o se si preferisce la “carriera” dei magistrati) all’esecutivo (al Ministro di grazia e giustizia, come previsto fino ad alcuni anni orsono) e averla attribuita al C.S.M., cioè ad un organo costituito per due terzi da magistrati da loro stessi liberamente eletti, e solo per un terzo da docenti e avvocati di lunga esperienza e competenza anche in materia giudiziaria designati dal Parlamento.
b) Effettuato questo primo indispensabile passo, la magistratura ha ottenuto poi che la carriera (e la retribuzione) dei magistrati fosse, almeno in prima battuta, sganciata da concorsi interni gestiti normalmente dai magistrati superiori, ma fosse fondata su valutazioni quadriennali di professionalità effettuate dai c.d. Consigli Giudiziari, cioè organi decentrati del C.S.M. E qui vi è un primo notevole difetto: le valutazioni di professionalità sono compiute dai soli componenti togati del Consigli giudiziari, senza che i componenti laici abbiano potere anche solo di parola; il che è in palese contrasto con la Costituzione là dove essa prevede che tutte le attività del C.S.M. siano gestite senza distinzione anche dai consiglieri laici e non solo da quelli togati.
In tal modo si è cercato di dare attuazione al principio enunciato dall’art. 107, 3° comma, Cost., secondo cui «i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni».
Residuo duro a morire il potere esclusivo del C.S.M. di conferire gli incarichi direttivi e semidirettivi. Abolito come criterio di scelta quello della anzianità, perché questo nulla dice circa le “attitudini” e il “merito” dei singoli magistrati allo stesso incarico direttivo o semidirettivo, ne è seguita la pressoché assoluta discrezionalità del C.S.M. nel conferimento o nella scelta tra i più aspiranti allo stesso concorso: e ciò perché i requisiti della attitudine e del merito sono requisiti desumibili solo da una serie di fatti (c.d. secondari), fonti pertanto di “presunzioni semplici” dalle quali la deduzione della esistenza o no del fatto principale - attitudine o merito - per definizione e prova priva di certezza (e le cose si complicano ancora di più quando occorre addirittura effettuare un giudizio di “prevalenza” fra più aspiranti).
Ciò ha fatto sì che, almeno negli ultimi venti anni, i consiglieri del C.S.M., i quali nelle altre materie loro attribuite godono di una discrezionalità pressoché nulla o quasi, siano invece di fatto “liberi” di decidere quale sia il magistrato cui assegnare il singolo incarico direttivo o semidirettivo.
V. A. Poso Nel dibattito di questi ultimi anni in particolare (ma la discussione è risalente nel tempo) molti, pur con le dovute critiche, sostengono che l’associazionismo dei magistrati è un valore aggiunto per la magistratura e che la diversità delle correnti deve essere preservata come espressione di democrazia e di pluralismo culturale. Altri definiscono le correnti solo gruppi di potere, senza distinzione alcuna, dove prevale lo stigma dell’appartenenza. Qual è la Sua opinione in proposito e quali sono i rimedi possibili?
A. Proto Pisani Rispondendo a una precedente domanda ho avuto modo di parlare del Convegno del 1964 di Gardone che diede luogo alla formazione delle “correnti”: ciò avvenne non in prospettiva di future lottizzazioni, bensì sulla base della distinzione delle “correnti” (cioè associazioni di magistrati non sopprimibili perché espressione delle libertà di associazione garantita dall’art. 18 Cost.: cosa che spesso si dimentica quando si vorrebbe “sopprimere” le correnti) a seconda del diverso porsi dei magistrati associati nei rapporti ideali (cioè nel senso positivo) tra magistrato e legge (ivi compresa la Costituzione).
Ebbene, con il trascorrere degli anni, da un lato quelle spinte ideali si sono quantitativamente ridotte, dall’altro la sacrosanta soppressione del criterio dell’anzianità ha progressivamente dato luogo al fenomeno disdicevole della lottizzazione degli incarichi direttivi e semidirettivi tra tutte le correnti, nessuna esclusa (ivi compresa, per intenderci, la corrente costituita nel 1964 da magistrati quali Marco Ramat, Salvatore Senese, Pino Borrè e altri, i quali oggi certamente si staranno “rivoltando nella tomba”).
In questa situazione che fare? Personalmente (me ne sono occupato più volte – ad es. in Foro it. 2008,V, 129 ss., Incarichi direttivi e semidirettivi dei magistrati: la necessità di un taglio netto nel sistema di conferimento, e 2019, V, 301 ss., L’ineludibile «problema» del conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi della magistratura: la necessità di un serio dibattito – da ultimo anche in un articolo in corso di stampa su Il Giusto Processo Civile, scritto a quattro mani da me e Natale Giallongo) sono convinto che l’unica soluzione capace di sopprimere il malcostume denunciato è quello di sottrarre in prima battuta il conferimento esclusivo degli incarichi al C.S.M. e l’attribuzione invece, almeno in prima battuta, di tale potere ai magistrati dello stesso ufficio giudiziario (in modo non molto dissimile di quanto accade per la nomina dei direttori dei dipartimenti universitari), con la previsione espressa della prorogabilità nella stessa funzione una sola volta, e, cessato l’incarico, il ritorno del magistrato a ricoprire le funzioni precedenti di magistrato semplice nello stesso ufficio originario al pari degli altri magistrati. Solo così, oltre a eliminare il sistema della lottizzazione, si abolirebbe anche il fenomeno di una doppia carriera (magistrati semplici e direttivi) e si darebbe applicazione al già richiamato art. 107 Cost. secondo cui i magistrati si distinguono soltanto per diversità di funzioni.
È, però, da osservare conclusivamente che la proposta ora riassunta non mi sembri trovare consenso neanche tra i magistrati più di tutti caratterizzati (almeno alle origini) dalle migliori idealità: probabilmente perché il potere è un qualcosa che logora solo chi non lo ha.
V. A. Poso Restando alla Sua specifica competenza, quali sono le proposte concrete per risolvere o almeno tentare di risolvere le diverse criticità da molti anni riscontrate nei diversi ambiti della giustizia civile a cominciare dagli aspetti generali e organizzativi?
A. Proto Pisani Cerco di affrontare tutti insieme i problemi della crisi del processo civile.
Direi che la modestia scientifica e più in generale culturale del Guardasigilli e del Presidente del Consiglio (che hanno addirittura ottenuto il rinnovo della propria nomina nonostante la radicale modifica della maggioranza di governo) impedisce loro di avere chiarezza sui veri problemi da affrontare.
La crisi del processo civile deriva innanzitutto da deficienze ordinamentali e organizzative: questo è da decenni un dato acquisito da tutti gli operatori del diritto.
Innanzitutto da deficienze sul piano organizzativo.
In primo luogo, il numero insufficiente dei magistrati addetti al ramo civile e inoltre la cattiva distribuzione dei magistrati esistenti. Al riguardo mi sembra opportuno invitare alla lettura della recentissima analisi, completa di tutti i dati numerici e dei costi necessari, svolta da un ex magistrato, Marco Modena, Giustizia civile. Le ragioni di una crisi, Aracne, Roma, 2019 (rinviando ad altra occasione per eventuali chiose che non inficiano in modo alcuno i risultati raggiunti dall’autore).
In secondo luogo, la carenza degli ausiliari amministrativi del giudice: cancellieri e segretari.
In terzo luogo, l’opportunità di sopprimere i giudici onorari di tribunale ( malpagati, privi di autonomia e indipendenza, spesso anche di preparazione adeguata) e la loro sostituzione con la figura di un assistente del giudice, selezionato tramite concorso, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, regolarmente e adeguatamente retribuito, cui attribuire competenze giudiziarie minori (quali, ad esempio, la liquidazione dei compensi di consulenti tecnici, la redazione di decreti ingiuntivi e di progetti di decisione, sempre e soltanto per le controversie semplici, specie se ripetitive, e altro).
Quanto ai giudici di pace possono sopravvivere nella attuale situazione di crisi, ma solo attribuendo loro competenze per materia (allo scopo di assicurarne una formazione efficace) e non competenze per valore che concernono ogni ramo dell’ordinamento.
Alla stregua di un progetto fiorentino (pubblicato in Foro it., 2017, V, 208 ss.) i problemi di tecnica normativa sono relativamente semplici in quanto ampiamente “arati” (anche se sconosciuti a chi ci governa). Li riassumo con la massima semplicità:
a) il modello base del processo di cognizione dovrebbe essere quello del processo del lavoro con integrazione della fase preparatoria relativa a repliche, controrepliche e chiamata in causa di terzi;
b) si arriva così alla prima udienza di trattazione davanti al giudice, per la programmazione della eventuale istruzione o addirittura la decisione immediata;
c) l’appello andrebbe notevolmente modificato con aperture ampie alle nuove prove ed eccezioni (e addirittura consentendo la modifica delle domande ove inerenti allo stesso “rapporto” controverso);
d) si dovrebbe poi prevedere una fase di istruzione preliminare relativa alla assunzione della prova testimoniale, alla esibizione di documenti e alla consulenza tecnica; l’attivazione di una fase di tale specie dovrebbe poter facilitare soluzioni concordate presso gli stessi avvocati con soppressione di quel vero e proprio non senso della mediazione obbligatoria, condizione di procedibilità, che contrasta con la natura volontaria, cioè condivisa, dell’accesso alla mediazione vera e propria;
e) sarebbe, infine, da prevedere il processo contumaciale relativamente alle controversie aventi ad oggetto diritti disponibili e la generalizzazione della condanna con riserva di eccezioni prima facie manifestamente infondate; istituto, quest’ultimo, già presente nel nostro ordinamento, ma solo in ipotesi tipiche, adeguando il nostro processo di cognizione a istituti ampiamente presenti e di grossa utilità negli ordinamenti francese e tedesco;
f) per motivi di opportunità evito di parlare in maniera approfondita del giudizio di cassazione sul quale sono sin troppo spesso intervenuto (v., da ultimo, Riv. Dir. Proc., 2020, p. 1192 ss. in uno scritto dedicato a F.G. Scoca, articolo volto soprattutto a provocare un dibattito).
V. A. Poso Una domanda obbligata a un Professore universitario. Quali sono le criticità e i problemi irrisolti dell’università italiana, con rifermento alla formazione e al sistema della ricerca, ma anche alla selezione del personale docente?
A. Proto Pisani Sulla crisi dell’università mi limito a una battuta rapidissima. Nel sistema attuale, oltre a un calo pauroso della qualità degli studi anche monografici (non giustificabile solo col passaggio da una università di elite ad una università di massa), la selezione avviene tramite blande valutazioni insite nella introduzione di giudizi (apparentemente) di sola abilitazione, giudizi normalmente sempre preceduti dalla selezione di “ricercatori” pressoché sempre sotto il controllo di gruppi di potere interni ai Dipartimenti. Una volta entrati nel sistema, la progressione in carriera diviene pressoché automatica (anche per motivi economici di bilancio delle singole università) attraverso concorsi locali fittizi (gestiti dai Dipartimenti di appartenenza di chi vi era entrato come ricercatore). Soppressione completa, infine, dei trasferimenti con le inevitabili gravi conseguenze sul piano culturale.
Vorrei ricordare, infine, una vicenda raccontatami da Andrioli. Negli anni trenta del secolo scorso, Antonio Segni fece vincere il concorso di professore ordinario di procedura civile a Sergio Costa. Ebbene Chiovenda criticò severamente l’operato di Segni, non tanto per il favore fatto al suo conterraneo, quanto perché – disse ad Andrioli – il danno derivava dal fatto che in tal modo Sergio Costa (a suo avviso studioso mediocre) avrebbe potuto divenire, in futuro, a sua volta commissario di concorso, così che la sua nomina a professore ordinario avrebbe agito da moltiplicatore a danno della serietà della ricerca universitaria.
V. A. Poso La grave crisi emergenziale ha imposto regole eccezionali che sono state criticate da molti, anche sotto il profilo costituzionale. Qual è la Sua opinione in proposito?
A. Proto Pisani Il rinnovo dei poteri straordinari al Presidente del Consiglio dei Ministri occasionati dall’epidemia, purtroppo di nuovo in atto del Covid-19, mi induce a richiamare l’intervento che io e Natale Giallongo avemmo a svolgere e pubblicare nell’aprile 2020 (Brevi note su Costituzione e provvedimenti conseguenti alla epidemia da coronavirus, in Judicium, 22 aprile 2020). È anche un modo per ricordare un carissimo amico scomparso il 3 ottobre 2020 a termine di una gravissima malattia affrontata con serenità esemplare, e che mi ha arricchito molto.
Cerco di sintetizzare il nostro pensiero.
La epidemia in atto ha turbato e continua a turbare anche molti operatori giuridici.
Innanzi tutto i provvedimenti governativi (e talvolta di alcuni Presidenti di Regione) di prevenzione e di contrasto dell’epidemia, nonostante il preavviso dato dalla gravità dell’esperienza cinese, e la dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale emanata il 31 gennaio di quest’anno, risalgono solo al 20 febbraio (decreto legge n. 6), senza che nel periodo intermedio risulti effettuata alcuna attività di predisposizione di attrezzature (semplici, ma indispensabili quali le mascherine, i tamponi, ecc. che solo negli ultimi giorni di aprile sono stati acquisiti).
Non risulta inoltre che nel mese di febbraio politici o operatori giuridici abbiano aperto dibattiti sulla delicatezza costituzionale dei provvedimenti che inevitabilmente si sarebbero dovuti emanare per contrastare la diffusione della sempre più vicina epidemia preannunciata dalla dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale.
V.A. Poso Cosa avrebbe dovuto fare, allora, in concreto il Governo?
A. Proto Pisani Emanata la dichiarazione di emergenza sanitaria nazionale, ci si aspettava che il Governo, consapevole per un verso dell’assetto costituzionale dei rapporti tra esecutivo e parlamento previsto nella seconda parte della Costituzione e per altro verso della delicatezza dei diritti e delle libertà fondamentali previsti dalla prima parte della Costituzione, diritti e libertà su cui necessariamente incidesse con provvedimenti (urgenti) volti a fronteggiare le conseguenze della epidemia già preannunciata.
Se avesse avuto la duplice consapevolezza delle questioni ora ricordate, un Governo che voglia pomposamente etichettarsi come democratico, ad avviso di chi scrive avrebbe dovuto:
a) convocare urgentemente Camera dei Deputati e Senato (se possibile in seduta congiunta) e informare come la gravità della situazione (anche sulla base delle esperienze straniere di Cina, Corea del Sud ed Iran) fosse tale da dovere intervenire tramite provvedimenti su interessi gravissimi, su vere e proprie libertà e diritti fondamentali delle persone di rilievo costituzionale, provvedimenti necessariamente urgenti;
b) informare il Parlamento nel suo complesso di maggioranza e minoranza, e solo dopo questa informazione il più possibile specifica, e il dibattito successivo, assumersi la responsabilità di emanare i provvedimenti necessari, provvedimenti sul cui contenuto aveva preventivamente informato il Parlamento.
Non è possibile col senno di poi dire quali sarebbero state le conseguenze di questa convocazione ed audizione.
Una cosa è però sicura: un simile comportamento avrebbe eliminato la possibilità di esautoramento del Parlamento, e ciò proprio nel momento in cui il Governo avrebbe avuto la necessità di emanare provvedimenti a tutela del bene salute (sopravvivenza) dei cittadini; provvedimenti che allo stesso tempo avrebbero quantomeno compresso libertà, diritti fondamentali dei cittadini, diritti gelosamente garantiti dalla prima parte della Costituzione del 1948.
Direi che mai dal 1948 ad oggi si sia verificata una situazione di tale gravità e la conseguente indispensabilità – proprio perché il Governo avrebbe dovuto emanare provvedimenti urgenti (nella forma corretta: cioè il decreto-legge immediatamente efficace, ma soggetto a conversione in legge da parte del Parlamento) limitativi del godimento pieno di diritti fondamentali dei cittadini – di rispettare la centralità del Parlamento prevista dalla seconda parte della Costituzione.
Per fare ciò si sarebbe dovuta conoscere bene la Costituzione e i suoi valori e le loro interconnessioni, conoscenza che, invece, le forze politiche di cui il Governo è espressione, ed i singoli componenti del Governo, hanno mostrato di non possedere o di non volere utilizzare.
V. A. Poso Alcuni studiosi e operatori giuridici, anche di elevata esperienza, hanno denunciato, sotto diversi profili, la dubbia costituzionalità dei provvedimenti governativi adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Qual è la Sua opinione in proposito?
A. Proto Pisani è fuori di dubbio che i provvedimenti urgenti governativi hanno inciso oltre che sulla libertà personale (art. 13), sulla libertà di circolazione (art. 16), sulla libertà di riunione (art. 17), anche sul diritto di agire in giudizio a difesa dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24), sul diritto a professare la propria religione anche negli edifici di culto (art. 19), sul diritto del condannato a non subire trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27), sul diritto dei genitori di avere rapporti significativi con i propri figli (art. 30), sul diritto all’istruzione (art. 33), sul diritto di impresa (art. 41), ed ancora sul diritto di essere soggetti alle leggi formate secondo le disposizioni previste dalla Costituzione e non con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, udito il Ministro della Sanità e gli altri Ministri competenti, come invece previsto dal decreto - legge (!) 23 febbraio 2020 n. 6 convertito in L. 5 marzo 2020, n. 13, entrambi in palese violazione della seconda parte della Costituzione
Orbene, a mio avviso, la violazione più grave della Costituzione si è avuta – come già detto – nell’esautoramento del Parlamento anche nel procedimento di formazione di provvedimenti governativi che incidono su diritti fondamentali previsti dalla Costituzione. Quanto invece alle ipotesi sopra ricordate siamo in presenza di una “compressione” per motivi sanitari non sempre specificamente previsti dalle suindicate disposizioni costituzionali, ma mai di una loro violazione in senso stretto.
V. A. Poso Qualcuno, addirittura, ha parlato di violazione della libertà personale.
A. Proto Pisani Parlare di detenzione domiciliare riguardo all’art. 13 Cost. è solo una boutade, non un ragionamento giuridico, non fosse altro perché io stesso ho avuto ogni giorno possibilità di allontanarmi dalla mia abitazione, al pari di chi esce quotidianamente per acquistare i giornali, per sgranchire le gambe facendo il giro dell’isolato o accompagnare fuori il cane, per recarsi in banca, anche andare ad acquistare le sigarette (su cui solo fumatori pentiti possono dissentire e nulla ha a che vedere, come si accennerà tra poco, col diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi); più seriamente per avvocati e magistrati di recarsi ai propri studi professionali e uffici giudiziari per studiare e trattare le controversie “urgenti”.
Quanto poi alla violazione degli altri diritti o libertà fondamentali, di cui agli artt. 16, 17, 19, 33, 41 Cost., si tratta di diritti comprimibili già ai sensi delle disposizioni costituzionali, anche se non sempre specificamente per motivi di sanità.
V. A. Poso Sul piano della giustizia, in particolare quella civile?
A. Proto Pisani A mio avviso il diritto di agire e difendersi in giudizio non è stato mai offeso, sia in civile sia in penale, stante la salvezza sempre prevista della possibilità di agire in via cautelare o contro provvedimenti cautelari (senza che sia necessario fare ricorso ad ardite analogie con la vendita di tabacchi). Relativamente alla tutela familiare e dei rapporti con i figli, vi è sempre la possibilità di ricorrere al Tribunale dei Minorenni ove ne ricorrano gli estremi al procedimento previsto dall’art. 336 c.c. e al giudice ordinario ai sensi dell’art. 700 (se del caso in via alternativa o cumulativa all’anticipazione dell’udienza ex art. 708, 709 e 709 ter c.p.c.); non senza dimenticare che l’art. 700 è norma generale di chiusura per la tutela di diritti a contenuto e/o funzione non patrimoniale e il compito che questa norma tutt’oggi assolve nell’assicurare la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali delle persone, ove non ricorrano procedimenti sommari tipici.
V. A. Poso Passiamo ad altro. Alcuni scritti, risalenti anche agli anni ‘60 (raccolti in due volumetti pubblicati da Edizioni Accademiche Italiane nel 2017, Alla ricerca di un senso, e, nel 2019, Ancora alla ricerca di un senso), ci restituiscono un giurista autentico caratterizzato da profondi sentimenti religiosi, di fede cristiana, che si interroga sulla giustizia secondo Dio (alla luce dei Vangeli) e sulla giustizia secondo gli uomini (alla luce della Costituzione). Come è riuscito a coniugare la fede e il mistero che ad essa è sotteso con la giustizia umana, nel contesto delle gravi contraddizioni, disuguaglianze e violenze che da sempre hanno caratterizzato la società?
A. Proto Pisani Devo premettere che per motivi ideologici (alla cui stregua a mio avviso lo Stato deve essere la casa comune di tutti, di tutte le persone, se si vuole, di buona volontà che abbiano assorbito i valori espressi dagli artt. 2 e 3 della Costituzione), io ripeto spesso che la scuola, come anche l’università debbono, dovrebbero, essere gratuite e pubbliche per tutti (senza stare a dilettarsi sulle parole «senza oneri per lo Stato»).
Partendo da questo presupposto io (come ho avviato le mie figlie alla istruzione pubblica) non ho fatto mai riferimento nei miei corsi universitari al fenomeno religioso, né indicato in modo alcuno le mie preferenze su tale piano: e ciò per un rispetto di un principio di laicità (desumibile anche dagli artt. 2 e 3 Cost.) in cui fortemente credo. Ed altrettanto spero di aver fatto nei miei scritti giuridici.
Ciò premesso, io personalmente non sono affatto chiuso al fenomeno religioso: ma di esso ho trattato solo nell’ambito di riviste della c.d. sinistra cristiana (che brutta espressione!) come Il Tetto, rivista napoletana cui ho collaborato sin dal suo primo numero del 1964; così come, specie dopo la conclusione del mio insegnamento universitario, mi sono più volte soffermato anche per iscritto su temi quali la fede, l’etica, la giustizia secondo Dio (alla luce dei vangeli) e secondo gli uomini(alla luce della Costituzione), come evocato nella domanda che mi è stata rivolta.
Mi piace, pertanto, concludere questa intervista parlando di questi temi come li vedo oggi.
Fondamentale al riguardo è stata la rilettura, dopo quasi settanta anni, del libro di José María Díez–Alegría. Come ho accennato nella presentazione della raccolta di alcuni passi del suo volume Io credo nella speranza del 1972, il mio incontro col gesuita spagnolo avvenne a seguito dell’indicazione di un altro gesuita, Paolo Tufari, grande amico di tutti i redattori dei primi anni della rivista, al quale si deve il suggerimento del nome Il Tetto. Su tale base ho richiamato l’attenzione sul radicale distacco dal messaggio etico – profetico risalente all’Antico Testamento e, in particolare, sul richiamo dei profeti al valore della giustizia verso i deboli, alla predilezione dei soggetti deboli della storia e quanto meno alla pericolosità insita (come tentazione diabolica perenne) in ogni specie di potere: distacco che trova le sue origini nella progressiva alleanza della Chiesa cattolica, a partire da Costantino e Teodosio, col potere politico volto a privilegiare, nel succedersi dei secoli (almeno fino ai primi del novecento), gli interessi dei “ricchi” e non dei deboli dei vari periodi storici.
Un messaggio – quello dei vangeli e dei profeti – in contraddizione con la struttura gerarchica di potere della Chiesa cattolica, soprattutto (ma non solo) del suo vertice romano, e il suo stesso diventare un vero e proprio potere politico.
Ciò avrebbe continuato ad apparire evidente ad alcuni gruppi isolati di cristiani, che però sarebbero stati contrastati con energia (e spesso con violenza) soprattutto dai vertici della Chiesa, divenuta essa stessa “struttura di potere” dimentica della propria origine.
Direi che l’evoluzione, il cambiare pelle della Chiesa, con l’abbandono della centralità della predilezione dei deboli, abbia determinato da parte di molti (sia pure da diverse sponde) lo spostamento della riflessione religiosa prevalentemente (anche se mai del tutto) sul terreno sociale e dei relativi scontri più che sulla riflessione sulle caratteristiche di amore e di persona del Dio cristiano (e ebraico prima). Ciò ha comportato il rischio – a me sembra – gravissimo di accentuare il carattere etico rispetto a quello profetico – escatologico specifico del cristianesimo. Spostamento che ha fatto perdere la specificità del Dio cristiano (di parlare equivocamente di fine della religione e/o di morte di Dio) nonché – in una sorta di eterogenesi dei fini – una, quanto meno, riduzione di attenzione alla centralità della predilezione per i deboli e del significato anche sociale del Dio persona.
V. A. Poso Interessante questa prospettazione del «Dio persona». Vuole specificare meglio questo concetto?
A. Proto Pisani Ho piena consapevolezza di non possedere gli strumenti culturali che sarebbero necessari per approfondire il discorso appena accennato.
Mi sembra, però, che ci si possa limitare alle seguenti schematiche osservazioni.
Il Dio (ebraico e poi) cristiano (a differenza del dio astratto dei filosofi) è un Dio persona che si rivolge alle persone.
Ancora, ove si prescinda da alcune componenti mitiche dell’antico testamento, è un Dio che parla con le persone a iniziare da Abramo; e un Dio liberatore dalla schiavitù dell’Egitto.
Attraverso i profeti si ha l’apparizione di un Dio misericordioso che aborre i sacrifici e, si direbbe oggi, gli aspetti “cultuali” come contropartita, da parte degli uomini, della sua misericordia, del suo amore (infinito) verso gli uomini.
Utilizzando (in modo pressoché integrale, senza nessuna mia aggiunta) alcune pagine (lette circa quaranta anni fa) di un teologo tedesco, Hans Küng, noto anche per la sua chiarezza, mi sembra da dire: il Dio che Gesù ha annunciato, non è, come si è spesso inculcato ai bambini, un Dio capriccioso e maschilista, un Dio della legge, un Dio sorvegliante, un Dio senza tratti materni; non è un Dio a immagine dei re, dei tiranni e dei dittatori. Egli è piuttosto il buon Dio, che mi è anche madre: il Dio dell’amore dunque che in tutta la sua giustizia si apre incondizionatamente agli uomini, alle loro pene e alle loro speranze. Un Dio che non avanza sempre soltanto delle pretese, ma dona; che non opprime l’uomo, ma lo rinfranca; lo risana. Un Dio che ha cura di quelli che cadono (e chi non cade?). Un Dio che invece di condannare, perdona, invece di punire, libera, invece che fare giustizia, usa clemenza; che si rallegra della conversione di un’unica persona non giusta che di novantanove giusti. Un Dio che, pertanto, ama di più il figlio perduto che quello rimasto a casa, il gabelliere più che il fariseo, gli eretici samaritani più che gli ortodossi, le prostitute e le adultere più che i loro giudici troppo presuntuosi.
Come si vede, una predicazione, quella di Gesù, scandalosa e provocante, non solo per quei tempi, ma anche per la nostra epoca, tanto più che essa era accompagnata da una prassi parimenti provocante e scandalosa: nessuna scomunica, bensì comunicazione, anzi, comunione! Egli si univa, anzi, si sedeva a tavola con i disprezzati e i falliti, con i peccatori di ogni sorta. Un Dio che si pone al di là della spietata giustizia della legge, fatta di formalismo e casistica, e che fa proclamare una giustizia migliore; un Dio che, anzi, giustifica i trasgressori della legge. Un Dio, per cui i comandamenti esistono per l’uomo e non l’uomo per i comandamenti. Un Dio, che non vuole certo eliminare in questo mondo il vigente ordinamento giuridico e quindi l’intero sistema sociale, come nemmeno il tempio e le funzioni religiose, ma li vuole relativizzare per amore dell’uomo.
E che quindi vuole che si superino i confini naturali tra compagni e non – compagni, tra lontani e vicini, tra amici e nemici, tra buoni e cattivi. In che modo? Con la modestia, la discrezione, l’amore nel senso del discorso della montagna: un perdono senza fine, un servizio senza gerarchie, una rinuncia senza contropartita. Dio si pone in questo modo dalla parte degli svantaggiati, dei sottoprivilegiati, degli oppressi, dei deboli, dei poveri e dei malati; di più: rispetto a chi si presume giusto, egli si pone dalla parte dei non – devoti, degli immorali, dei senza – Dio. Vediamo dunque: un Dio amico dell’uomo, un Dio sorprendentemente amico dell’uomo.
Gesù ha preso le parti di questo Dio e della sua sorprendente amicizia verso gli uomini. Egli ha parlato, lottato, sofferto per lui, per lui è stato mandato a morte.
Certo Gesù – cioè colui che si era proclamato figlio di Dio padre – muore crocifisso.
Ma è un dato di fatto che con la sua morte non è tutto finito, ma che solo allora qualcosa è incominciato; è un dato di fatto che la sua prima comunità abbia, in modo addirittura temerario, proclamato lui – il profeta menzognero, il sobillatore del popolo, il bestemmiatore di Dio, il falso maestro apparentemente condannato da Dio – come Messia di Dio, come Cristo, come Signore, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio. Perché lo ha fatto? Perché, come mostrano le fonti neotestamentarie, essa era convinta – e solo questa fede spiega in assoluto la nascita del cristianesimo – che Gesù non fosse morto nel nulla, ma in Dio. Ciò significa: Gesù vive – e cioè vive in virtù di Dio, con Dio e in Dio. Per chi o per che cosa? Per noi, come speranza e come impegno, per noi, come orientamento!
V. A. Poso Il teologo tedesco, su questa base, reputa di potere ritenere che esista una vita dopo la morte anche per l’uomo. È così anche per Lei?
A. Proto Pisani Io non mi sento, almeno non ora, qui, di potere condividere la “sicurezza” di una vita personale ultraterrena dell’uomo dopo la morte! Per dirla col poeta, con la morte si entra in un territorio da cui non vi è viaggiatore che torni.
Mi sento invece con sicurezza – o in questo credo consista la mia fede – di ritenere che a mio avviso il messaggio dei profeti dell’Antico Testamento e soprattutto quello proprio di tutta la vita di Gesù (e, aggiungerei, l’esperienza della Chiesa primitiva anteriore a quelle sovrapposizioni tra chiesa e potere politico avvenute da Costantino e Teodosio in poi) siano più che sufficienti per giustificare, da parte mia, il dirmi cristiano e accettare come vincolanti (indipendentemente dagli esiti concreti) il messaggio evangelico di misericordia e predilezione dei deboli (e aggiungerei degli oppressi), senza che ciò significhi la riduzione della fede cristiana ad una mera etica.
Prima di concludere questa intervista, onestà intellettuale mi impone di aggiungere che in questa convinzione di fede è oggi determinante la ripresa (dopo l’operato che resta fondamentale di Papa Giovanni il quale fra l’altro convocò il Concilio anche per distaccare la Chiesa dalla struttura di potere della curia romana) da parte di Papa Francesco del tentativo di soppressione delle strutture di potere della curia romana; la volontà di trasformare il papato da potere assoluto nella mera primazia della figura del Vescovo di Roma, con la conseguente riunificazione della Chiesa cristiana nel rispetto del c.d. principio della “unità nella diversità”; la messa in atto di una “politica” contraria a qualsiasi pronuncia c.d. ex cathedra e il ricorso sempre più alla collegialità, soprattutto attraverso la moltiplicazione dei sinodi, tramite i quali aprire la riflessione su temi quali il matrimonio religioso dei divorziati, la facoltatività del celibato dei sacerdoti, l’apertura del diaconato e poi del sacerdozio alle donne, l’unione (anche religiosa) delle coppie omosessuali; e innanzi tutto fin da oggi il recupero pieno della predilezione dei deboli e degli oppressi (come dimostrano i luoghi scelti come meta dei suoi viaggi iniziati con quello a Lampedusa) e, ovviamente della ecologia e della pace. Di questi giorni è poi l’enciclica Fratelli tutti la cui lettura (specie degli evangelici capitoli secondo e terzo) mi ha profondamente commosso.
Può questa fede coincidere, almeno in parte con i principi desumibili da una certa lettura della Costituzione?
Probabilmente sì, ma non è questo il compito di un professore universitario, nel preparare le lezioni di diritto processuale civile, che non voglia travalicare la laicità del suo insegnamento.
V. A. Poso In una bellissima intervista di Roberto Conti pubblicata in Giustizia Insieme il 2 ottobre 2020, Il mestiere del Giudice e la religione, Gabriella Luccioli delinea i limiti della fede religiosa del magistrato nella decisione dei casi nei quali l’etica è fondamentale ( su questo tema, sempre in Giustizia Insieme, 24 ottobre 2020, è intervenuto anche Vincenzo Vitale, A proposito di giudici, di coscienza e di fede). Secondo Lei può un giudice di profonda fede religiosa assolvere laicamente al suo compito nel rispetto del pluralismo religioso e del multiculturalismo?
A. Proto Pisani Purtroppo non ho avuto ancora l’occasione di leggere gli interventi, certo interessantissimi, cui Lei fa riferimento. Se vuole, dopo averli letti potremmo dedicare a questo tema una intervista a più voci.
Ora mi limito a una osservazione forse banale.
La mia esperienza di studioso di diritto positivo e, a un tempo, di uomo di fede mi induce a dubitare della possibilità di giudicare un comportamento solo sulla base di una legge generale e astratta, sia essa una legge dello Stato o di carattere religioso; ciò perché la mia doppia esperienza, cui accennavo, mi induce a prendere atto della importanza, spesso o sempre determinante, della particolarità del singolo caso concreto e ad un tempo della evoluzione della c.d. realtà sociale o della coscienza religiosa di fede. Con la conseguenza di non potersi affidare spesso alla «certezza» dei testi di leggi statali o religiosi, ma di dovere pressoché sempre confrontarsi con la coscienza di interprete o di credente.
Il discorso, ovviamente, potrebbe continuare a lungo e confrontarsi con la giurisprudenza o singole decisioni religiose; il tutto, però, tenendo conto da un lato l’avvertimento di Gesù che il sabato, la legge del sabato, è fatta per l’uomo, e non viceversa; dall’altro lato la lezione sull’interpretazione di Tullio Ascarelli e di tanti altri giuristi.
V.A. Poso È un tema, questo, che merita sicuramente un approfondimento. Forse è giunto il momento di stabilire un decalogo delle regole etiche, deontologiche e giuridiche da osservare nell’esercizio della giurisdizione.
A. Proto Pisani Giunto al termine di questa intervista desidero ringraziare – oltre che la mia collaboratrice di sempre Vincenza Giannetto – Vincenzo Antonio Poso per avermi stimolato a rispondere in un contesto non frammentato alle domande che lui mi ha intelligentemente posto.
V. A. Poso Grazie a Lei, Professore, per aver condiviso con i lettori di Giustizia Insieme i ricordi e le riflessioni dei quali ci ha fatto dono.
La polisemia della “zona agricola” (nota a Consiglio di Stato, sez. II, 6 ottobre 2020, n. 5917)
di Marco Brocca
Sommario: 1. Il caso. 2. La posizione del Consiglio di Stato. 3. L’identità della zona agricola: limiti e potenzialità. 3.1. La lettura della giurisprudenza. 3.2. La risposta del legislatore.
1. Il caso
Il comune di San Gennaro Vesuviano adotta una variante al P.R.G. che prevede, tra l’altro, la classificazione di alcuni terreni di proprietà dei ricorrenti/appellanti come zona D (“attività produttive”) e zona G (“commerciale-terziaria” e “turistico-recettiva”).
L’amministrazione provinciale, ente preposto secondo la legge urbanistica regionale alla verifica di compatibilità con gli strumenti di pianificazione territoriale sovraordinati e di conformità con la normativa statale e regionale di riferimento, approva la variante stralciando le suddette zone, perché ritenute sovradimensionate e incompatibili con le attività consentite nell’area secondo il regime urbanistico generale oltrechè rispetto agli obiettivi della stessa variante, e le riclassifica secondo la qualificazione originaria, ossia come zona E (zona agricola). Il comune, esaurito il contraddittorio con l’amministrazione provinciale nel quale aveva formulato le proprie controdeduzioni, si uniforma agli indirizzi provinciali e approva la variante con la classificazione delle aree in questione come “agricole”.
Diverse sono le censure mosse dai proprietari delle aree interessate, imperniate essenzialmente su due profili: 1) il ruolo esorbitante dell’amministrazione provinciale, per aver impresso all’area una destinazione diversa rispetto a quella prevista dalla variante adottata; in particolare, si sostiene che l’amministrazione provinciale avrebbe sovrapposto e sostituito le proprie valutazioni a quelle del comune, al quale invece deve intendersi riservata ogni decisione relativa alla pianificazione di livello locale, mentre all’ente sovraordinato spetterebbe un controllo di compatibilità/conformità, da cui esulano valutazioni di merito; 2) la destinazione agricola assegnata alle aree avrebbe un’accezione e una funzione di conservazione del territorio estranee al significato della categoria urbanistica della “zona E” e sarebbe contraria agli indirizzi di pianificazione dell’area e alla strategia di sviluppo del distretto industriale in cui i terreni rientrano, dettata anche dal piano territoriale di coordinamento provinciale.
2. La posizione del Consiglio di Stato
La pronuncia del Consiglio di Stato appare di interesse non solo per le motivazioni della decisione (di rigetto dell’appello), ma soprattutto per il percorso argomentativo seguito, che muove da un significativo excursus degli orientamenti giurisprudenziali in materia, così sintetizzabili:
- le scelte urbanistiche, comprese quelle riguardanti la classificazione dei suoli, sono riservate all’amministrazione e costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, arbitrarietà o irragionevolezza manifeste;
- la destinazione urbanistica impressa a una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano, che risultano nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori; pertanto, l’onere motivazionale degli strumenti di piano risulta attenuato, risolvendosi nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica e nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso;
-l’onere motivazionale si riespande in presenza di situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti, rispetto ad esempio ad una specifica destinazione del suolo; queste situazioni sono ravvisabili nell’esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione. In assenza di queste ipotesi, non è configurabile un’aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria non peggiorativa di quella pregressa, ma solo un’aspettativa generica, analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri alla destinazione più proficua dell’immobile, posizione che è recessiva rispetto alle scelte urbanistiche dell’amministrazione;
- non sussiste una posizione di legittimo e qualificato affidamento nel caso di una previsione, favorevole all’interessato, presente nella delibera di adozione dello strumento urbanistico (piano o sua variante), poi disattesa dalla delibera di approvazione, perché la determinazione relativa all’adozione costituisce soltanto una fase iniziale ed endoprocedimentale del procedimento, suscettibile di condurre alla definitiva formazione della disciplina urbanistica, in presenza della conclusiva approvazione ad opera della competente autorità;
- in materia urbanistica, peraltro, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto l’amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale;
-nel procedimento di formazione dell’atto complesso-piano o variante, l’ente di secondo livello può, ove non ritenga di approvare o rigettare in toto lo strumento urbanistico adottato, approvare con stralcio ovvero apportare delle modifiche d’ufficio. Si tratta di operazioni ammesse a condizione che l’intervento modificativo non sia di entità tale da alterare l’impostazione di fondo dello strumento urbanistico e si ritiene che la modifica della destinazione d’uso originariamente prevista non significhi di per sé alterazione dell’impostazione generale del piano. Peraltro, si tratta di soluzioni strutturalmente diverse, perché lo stralcio consiste in un’approvazione parziale del piano che lascia integro ed impregiudicato il potere del comune di riproporre una nuova disciplina urbanistica diretta a completare la pianificazione relativamente alle aree oggetto di stralcio, mentre la modifica d’ufficio comporta una sovrapposizione definitiva della volontà dell’ente di secondo livello a quella del comune, il quale vede estinto il proprio potere pianificatorio;
- in sede di pianificazione urbanistica possono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale, in ragione della primarietà e trasversalità degli interessi di cui all’art. 9 Cost.;
- la suddetta esigenza può tradursi, nel contesto della pianificazione urbanistica, nell’opzione del divieto di edificabilità e nel connesso obiettivo di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi e questa opzione non può escludersi a priori in relazione ad aree ampiamente urbanizzate, che invero si prestano a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale;
- nell’ambito dello strumentario urbanistico la finalità ambientale può essere perseguita attraverso la tecnica della zonizzazione e, in particolare, mediante la categoria della “zona agricola”, “potendo questa essere volta a sottrarre parti del territorio comunale a nuove edificazioni, ovvero a garantire ai cittadini l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando loro quella quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione urbana”.
In applicazione di questi principi il Consiglio di Stato conclude nel senso di respingere l’appello e confermare la legittimità degli atti impugnati, in quanto l’ente provinciale si è limitato a stralciare le aree interessate, utilizzando dunque uno strumento intrinsecamente inidoneo a comprimere le prerogative comunali; inoltre, la declassificazione delle aree come zone agricole non altera l’impostazione della variante, bensì è coerente con i sottesi obiettivi (tra i quali, è previsto quello di “promuovere l’uso razionale e lo sviluppo ordinato del territorio mediante il minimo consumo delle risorse territoriali e paesistico-ambientali disponibili”), oltrechè con il significato della zona urbanistica E, ormai consolidato in giurisprudenza, di “garantire la preservazione dei valori ambientali e preservare un necessario equilibrio nel rapporto tra aree edificate e spazi liberi”.
3. L’identità della zona agricola: limiti e potenzialità
La disciplina delle zone agricole ha conosciuto un’evoluzione del tutto peculiare, progredita secondo diverse linee direttrici che lasciano trasparire un’incertezza concettuale, genetica e mai risolta, del suo oggetto. Un’incertezza di fondo che si è tradotta in notevoli difficoltà applicative dell’istituto, ma anche nell’emersione di accezioni adoperate dalle amministrazioni locali per fronteggiare nuove problematiche legate all’assetto del territorio.
La questione delle aree agricole, affrontata dal punto di vista del diritto urbanistico, risale alla seconda metà del secolo scorso. Se la legge urbanistica fondamentale del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150) trascurava questo ambito, protesa soprattutto a definire un apparato organico di regole costruttive per i centri abitati, sarà la cd. legge-ponte (legge 6 agosto 1967, n. 765) a considerare le aree agricole su un duplice piano: subordinandole all’obbligo di licenza edilizia per le trasformazioni edilizie (art. 10), obbligo prima confinato alla parte urbanizzata del territorio comunale, e qualificandole secondo la tecnica della zonizzazione (art. 17). Da quest’ultima prospettiva rileva infatti la tipizzazione, tra le zone territoriali omogenee, di quella agricola (zona E): questa formalizzazione riflette certamente l’importanza che il settore agricolo rivestiva in quell’epoca nel sistema economico nazionale, ma denota anche il tentativo di rivitalizzare il comparto in un momento di forte industrializzazione e terziarizzazione del Paese. D’altra parte, restava ancora aperta la questione dell’attuazione del disegno costituzionale in tema di tutela della proprietà agricola e di razionale sfruttamento del suolo (art. 44 Cost.), su cui il diritto urbanistico avrebbe potuto fornire un utile contributo. In realtà, la disciplina urbanistica delle aree agricole apprestata dalla legge n. 765/1967 lascia in penombra la questione costituzionale[1], perché è impostata secondo la classica configurazione che vede nell’urbanistica la regolazione delle trasformazioni, anzitutto edilizie, del territorio, con l’effetto che l’agricoltura rileva per le sue implicazioni sul piano dell’edificabilità più che come attività economica in sé da assecondare o valorizzare. È questo il difetto genetico che connota la categoria della zona agricola: il suo nomen evoca indubbiamente il favor verso l’attività agricola, ma il regime connesso è incentrato sull’opzione dell’inedificabilità – o limitatissima edificabilità – del territorio; in altre parole, prevale il significato “negativo” della zona agricola, nel senso della non edificabilità del territorio, piuttosto che l’accezione “positiva” di effettivo svolgimento dell’attività agricola[2].
Questa lettura era considerata coerente con l’impostazione della legge-ponte che aveva sostanzialmente confermato la natura edilizia del piano regolatore comunale[3], definendo le altre zone urbanistiche essenzialmente secondo il parametro costruttivo (centro storico, completamento e espansione edilizia, zona industriale, ecc.).
La dottrina ha acutamente osservato che grazie alla legge-ponte l’interesse di natura agricola entra nel novero degli interessi da ponderare nel procedimento di pianificazione, alla stregua di un “interesse pubblico differenziato”[4] in quanto tale rilevante e condizionante per la disciplina urbanistica e, tuttavia, nell’accezione stretta di promozione delle attività agricole finisce per porsi come interesse “debole”[5], destinato a una tutela indiretta, condizionata primariamente dalle prospettive edificatorie dell’area interessata o da esigenze contingenti.
L’idea che finisce per prevalere è che, tra le diverse destinazioni urbanistiche tipizzate, quella agricola si presta al meglio per imporre limitazioni all’edificabilità, garantendo, per questa via, un ragionevole equilibrio tra aree edificate e aree libere. Marginale – ed eventuale – resta l’obiettivo di riconoscere e valorizzare la vocazione agricola dei luoghi attraverso la perimetrazione di apposite parti del territorio comunale da destinare, appunto, alle pratiche agricole, obiettivo, peraltro, ulteriormente sacrificato dalla mancata o tardiva approvazione del piano regolatore dalla gran parte dei comuni che per lungo tempo hanno preferito ad esso lo strumento più snello del programma di fabbricazione, il quale si riferisce soltanto alla parte urbanizzata del territorio comunale e, al più, alla sua espansione edilizia[6].
Il nucleo concettuale per cui la vocazione della zona agricola è di sottrarre il suolo a nuove edificazioni ne condizionerà irrevocabilmente l’applicazione e la sua “elasticità” porterà a ulteriori sviluppi. In particolare, l’accezione della zona agricola come “area-limite” all’espansione edilizia si perfezionerà – e si dilaterà – in termini di “area di risulta”[7], opzione che, a sua volta, si declinerà in (almeno) due significati: quello per cui si tratta di area da preservare provvisoriamente nella prospettiva di una futura utilizzabilità in chiave residenziale o industriale[8] ovvero quello per cui l’area è direttamente utilizzabile per interventi che non possono essere convenientemente localizzati in altre zone[9].
Più recentemente si è affermato un ulteriore significato della zona agricola, quello di area servente all’esigenza di preservare i valori naturalistici del territorio. L’accezione muove anch’essa dalla riconosciuta vocazione della zona agricola all’inedificabilità del territorio e fa leva sull’idea che mantenere inedificate certe aree impedisce il consumo del suolo e, simmetricamente, offre alla collettività condizioni di vivibilità e fruibilità delle risorse ambientali. In altre parole, la destinazione agricola di un territorio, implicandone la sua inedificabilità, vale per contenere l’espansione urbana e, per questa via, funge da presidio di tutela del territorio nella sua valenza ambientale.
3.1 La lettura della giurisprudenza
Le diverse linee applicative della categoria urbanistica della zona agricola sono state sottoposte all’attenzione della giurisprudenza, che, sia pure con posizioni non sempre univoche, le ha sostanzialmente avallate.
La giurisprudenza muove dalla consapevolezza della connotazione in senso urbanistico della zona agricola impressa dalla legge-ponte e da questa premessa ricava importanti corollari: anzitutto, che la destinazione agricola assegnata a una determinata area non è ricognitiva di un’utilizzazione o anche solo di una vocazione a fini agricoli dell’area stessa né si risolve, di per sé, in un vincolo all’esercizio dell’attività agricola; quindi, che lo scopo primario della destinazione agricola è di garantire un ragionevole equilibrio tra aree edificate e aree libere, con l’effetto che essa non è a prioriostativa di qualsivoglia intervento urbanisticamente rilevante.
Seguendo questa impostazione la giurisprudenza maggioritaria adopera un metodo di verifica della concreta compatibilità del progetto rispetto alle caratteristiche dell’area di localizzazione e, più in generale, dell’assetto del territorio: all’esito di questa operazione sono stati ritenuti compatibili con la destinazione a zona agricola progetti di opere quali impianti idroelettrici[10] o di derivazione di acque pubbliche[11], canili[12], attività di cava[13], depositi di esplosivi[14] o di fuochi di artificio[15], discariche[16] o altri impianti di trattamento di rifiuti[17], impianti di produzione di energie rinnovabili[18].
Da altra angolatura, la giurisprudenza ha riconosciuto nella “funzione decongestionante o di contenimento dell’espansione edilizia” propria della zona agricola l’ “interesse alla tutela dei valori naturalistici e paesaggistici del territorio”[19]. Per questo ha ammesso la destinazione agricola di suoli quando essa è dichiaratamente funzionale a garantire “una naturale cintura di respiro ambientale”[20] ovvero “un polmone dell’insediamento urbano”[21] o “corridoi verdi”[22] tra aree ampiamente urbanizzate ovvero aree di “compensazione”[23] o “ripristino”[24] ambientale e ha ammesso la qualificazione come zona E di terreni non aventi propriamente attitudine all’utilizzazione agricola, come sono quelli di alta montagna ovvero quelli boscati[25].
Peraltro, questione preliminare parimenti risolta dalla giurisprudenza è quella dell’utilizzabilità dello strumentario urbanistico per finalità ambientali: lo sviamento di potere, lamentato di frequente dalle parti ricorrenti, è escluso dai giudici i quali, per ammettere la strumentalità del diritto urbanistico alla cura dell’interesse ambientale, richiamano l’art. 9 Cost., dimostrando consapevolezza della portata della disposizione costituzionale, sia nella parte strutturale (per il riferimento alla Repubblica e non allo Stato) sia in quella funzionale (per il riferimento al paesaggio, che evoca anche i beni ambientali).
Per questa via, è confermato il carattere “flessibile” della categoria urbanistica della zona agricola, la sua adattabilità a multiformi esigenze, compresa quella, più recente, di tutela dell’ambiente.
Una reviviscenza dell’accezione in senso propriamente agricolo della zona E si ritrova in quella giurisprudenza che, pur ribadendone il carattere residuale, riconosce la legittimità della scelta dell’amministrazione di prescrivere in via esclusiva l’utilizzo produttivo di tipo agricolo dell’area[26] ovvero di enunciare espressamente la tipologia delle ulteriori attività, rispetto a quelle strettamente agricole, che possono insediarsi nelle aree così classificate[27], opzioni che si giustificano in virtù dell’ampiezza della discrezionalità che connota il potere pianificatorio. Il carattere ostativo della zonizzazione agricola è legittimato anche in base ad argomentazioni che si fondano sulla natura dell’area, precisamente quando si tratta di un’area agricola di “particolare pregio”, connotazione che deriva per qualificazione giuridica (secondo la disciplina dello strumento urbanistico, comunale o sovracomunale, o direttamente ex lege) ovvero fattuale, come nel caso di aree che hanno una conformazione risultante dall’uso agricolo consolidato da tempo remoto o a seguito di peculiari interventi, come opere di bonifica[28].
Come si vede, la giurisprudenza dà la rappresentazione della multidimensionalità (e ambivalenza) della zona agricola: muovendo dall’impostazione di tipo urbanistico della normativa di riferimento, l’area agricola vale come “area libera”, che si declina nell’accezione di “area di risulta” e in quella, più recente e prevalente, di “area di interesse ambientale”; la connotazione in senso propriamente agricolo ha valenza residuale, che peraltro si riespande quando vi è un’esplicita ed esclusiva determinazione in questo senso da parte strumento urbanistico ovvero deriva dalle peculiari caratteristiche dell’area, formalizzate per qualificazione giuridica ovvero consolidate de facto.
3.2 La risposta del legislatore
La legge-ponte ha avuto il merito di sollevare la questione delle aree agricole e l’esperienza mostra che, emarginata l’impostazione della massimizzazione dell’interesse agricolo, alla connotazione iniziale della zona agricola come area di risulta si è progressivamente affiancata – fino a prevalere – l’accezione di area a valenza conservativa e contenitiva dell’espansione edilizia. Questo orientamento di impronta giurisprudenziale trova riscontro soprattutto nella legislazione regionale, in particolare nelle leggi di ultima generazione sul governo del territorio, che si sono fatte carico di affrontare il tema dei rapporti tra urbanistica e agricoltura, a fronte, come si vedrà, di una persistente anomia a livello statale.
Questa attenzione si traduce in diverse soluzioni. Anzitutto, è recuperato e valorizzato il collegamento del territorio con gli usi prettamente agricoli e questa relazione è proiettata negli obiettivi e contenuti degli strumenti di pianificazione urbanistico-territoriale: così, ad esempio, la l.r. Lombardia (11 marzo 2005, n. 12, “Legge per il governo del territorio”) include tra gli obiettivi della pianificazione comunale «elevati livelli di tutela e valorizzazione delle aree agricole» (art. 7), affermazione da cui discende una rigorosa disciplina delle attività consentite nelle aree agricole. Nelle aree destinate all’agricoltura sono ammesse esclusivamente le opere funzionali alla conduzione del fondo, ivi comprese quelle a finalità residenziale, in ogni caso sono esclusivamente realizzabili dall’imprenditore agricolo (art. 59). Gli interventi edificatori relativi alla realizzazione di nuovi fabbricati sono condizionati alla dimostrazione dell’impossibilità che le medesime esigenze abitative possano essere soddisfatte attraverso interventi sul patrimonio edilizio esistente (art. 59) e, dal punto di visto edilizio, necessitano del permesso di costruire, che comporta un vincolo di mantenimento della destinazione dell’immobile al servizio dell’attività agricola (art. 60).
In altri casi la funzionalizzazione dell’attività edilizia alla conduzione agricola dei terreni è sancita in termini prevalenti e non esclusivi, nel senso che è previsto un regime diversificato a seconda della posizione dei soggetti richiedenti. È il caso della regione Toscana, la cui rinnovata legge sul governo del territorio (l.r. 10 novembre 2014, n. 65, “Norme per il governo del territorio”, come modificata dalla l.r. 20 aprile 2015, n. 49) riconosce il mantenimento dell’attività agricola come elemento della «qualità del territorio rurale» e la limitazione della «frammentazione ad opera di interventi non agricoli» vale come una delle linee direttrici per la tutela dell’ambiente e del paesaggio rurale, nonché per il contenimento del consumo di suolo (art. 68). La legge differenzia i regimi di intervento in zona agricola (art. 70 ss.) a seconda che il proponente sia un imprenditore agricolo ovvero altro soggetto, prevedendo maggiori margini di intervento nel primo caso, con l’ulteriore specificazione che alcuni interventi (quelli più pesanti, come le ristrutturazioni urbanistiche, gli ampliamenti volumetrici, le nuove edificazioni connesse alla conduzione del fondo) necessitano di un apposito programma aziendale sottoposto ad approvazione comunale; mentre, nella seconda ipotesi sono possibili soltanto trasformazioni delle aree pertinenziali degli edifici con destinazione d’uso non agricola nonché limitati interventi sui medesimi immobili ovvero la realizzazione di manufatti utili per l’attività agricola amatoriale e per il ricovero di animali domestici. È ribadita la centralità della pianificazione urbanistica comunale, alla quale è rimessa ogni valutazione sull’ammissibilità o meno di determinati interventi, come la costruzione di nuovi edifici ad uso abitativo ad opera dell’imprenditore agricolo mediante il programma aziendale ovvero gli interventi sul patrimonio edilizio esistente in assenza del programma.
Medesima opzione è seguita da altre regioni. Così la regione Veneto, la cui legge urbanistica (l.r. 23 aprile 2004, n. 11, “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”) ammette in zona agricola interventi edilizi funzionali all’attività agricola e ad opera di imprenditore agricolo (art. 44). Gli interventi possono riguardare sia scopi residenziali che agricolo-produttivi e la loro realizzabilità è subordinata all’approvazione di un apposito piano aziendale e alla conformità alle previsioni del piano urbanistico comunale relative alle aree agricole. La norma prevede, peraltro, interventi di recupero di fabbricati esistenti in zona agricola, con ammissibilità di ampliamento per finalità abitativa (comma 5), disposizione che la giurisprudenza[29] ha interpretato restrittivamente, nel senso di escludere l’edificabilità nei confronti di soggetti diversi dall’imprenditore agricolo sebbene proprietari del fondo, cui è seguita un’apposita legge regionale (legge 23 dicembre 2010, n. 30) che ha dato l’interpretazione autentica della norma, precisando che gli interventi previsti dal comma 5 sono ammissibili anche in assenza del requisito soggettivo e dell’onere del piano aziendale.
Un ampliamento a favore dei soggetti diversi dall’imprenditore agricolo, sino a equiparazione delle categorie, ha trovato il varco nell’ambito della legislazione regionale, in particolare in quella, dichiaratamente straordinaria e transitoria in realtà sempre più organica e strutturale, volta al rilancio dell’attività edilizia, sulla scia dell’iniziativa statale delle norme sul cd. piano casa (decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, conv. in legge 6 agosto 2008, n. 133). Nell’ambito di questa disciplina molte regioni hanno esteso l’applicabilità del regime di favor per gli interventi edilizi all’ambito delle zone agricole, intervenendo anche sul piano dei requisiti soggettivi. È il caso della regione Campania (l.r. 28 dicembre 2009, n. 19, “Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa”, modificata dalla l.r. 5 aprile 2016, n. 6), che prevede l’assentibilità della modifica della destinazione d’uso nonché di interventi di ampliamento o di demolizione e ricostruzione di fabbricati siti in zone agricole a prescindere dall’utilizzazione agricola del fondo, come pure dalla qualificazione soggettiva del richiedente, con l’avvertenza che per gli interventi ampliativi e ricostruttivi occorre riservare non meno del venti per cento della volumetria ad uso agricolo. Un profilo in cui si registra una differenziazione di regimi tra imprenditore agricolo e soggetti diversi riguarda la conformità dell’intervento allo strumento urbanistico comunale: si tratta di presupposto necessario e inderogabile, salva l’ipotesi riservata all’imprenditore agricolo di realizzare nuove costruzioni ad uso produttivo nella misura massima di 0,03 mc/mq di superficie aziendale in deroga al piano comunale[30].
Altra opzione riguarda la diversificazione delle aree agricole, in base alle caratteristiche pedologiche, climatiche, agronomiche, alla presenza di colture pregiate o specializzate e di infrastrutture agricole, cui corrisponde una modulazione dei regimi e, generalmente, è prevista la tipizzazione delle aree agricole “di elevato pregio” alle quali è correlato un regime di tutela rinforzata: così la l.p. Trento 4 agosto 2015, n. 15, “Legge provinciale per il governo del territorio” che enuclea dalle aree agricole quelle “di pregio”, per le quali gli interventi modificativi sono ridotti rispetto a quelli possibili nelle altre zone agricole e sono essenzialmente connessi alla produzione agricola, estrapolando, peraltro, dalle aree di pregio quelle caratterizzate dalla “presenza di singolari produzioni tipiche” o “speciale rilievo paesaggistico”, per le quali non è assolutamente ammessa la destinazione a nuovi insediamenti, mediante il meccanismo della riduzione e compensazione possibile per le altre aree agricole (art. 65). Rilevano inoltre la l.r. Umbria 21 gennaio 2015, n. 1, “Testo unico governo del territorio e materie correlate”, che evidenzia tra le aree agricole quelle di “particolare interesse agricolo”, nelle quali sono possibili solo attività agricole, zootecniche e di cava (art. 21) e la già citata legge toscana n. 65/2014, che tipizza le manifestazioni del territorio rurale (aree rurali, nuclei rurali, aree ad elevato grado di naturalità, ecc.) e ammette l’individuazione di peculiari aree, quali le “aree ad elevato valore paesaggistico” e i “paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini agricoli” (art. 64), rinviando agli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica la definizione del regime del patrimonio edilizio e delle infrastrutture esistenti, nonché delle attività e servizi presenti, compresi quelli a carattere non agricolo, in corrispondenza ai diversi obiettivi di qualità del territorio definiti dalla legge.
Generalmente, le leggi urbanistiche riconoscono nel piano comunale la “fonte” della tutela, indiretta e diretta, delle zone agricole. Non mancano ipotesi in cui questa finalità è rinviata a livelli sovraordinati di pianificazione territoriale, anzitutto il piano territoriale di coordinamento provinciale: così, ad esempio, il modello trentino, in cui il piano provinciale è preposto all’individuazione e perimetrazione delle aree agricole di pregio (l.p. Trento, n. 15/2015, art. 23, comma 2, lett. f) e quello toscano, in cui il piano provinciale deve definire il patrimonio territoriale provinciale, con particolare riferimento al territorio rurale (l.r. Toscana, n. 65/2014, art. 90, comma 5, lett. a). Similmente, il modello della regione Lombardia, che rimette al piano provinciale la definizione degli “ambiti destinati all'attività agricola di interesse strategico” e le relative norme di tutela, uso e valorizzazione (l.r. Lombardia, n. 12/2005, art. 15, comma 4).
La progressiva valorizzazione dell’interesse agricolo nel disegno urbanistico ha certamente ridimensionato la classica configurazione delle zone agricole quali aree residuali, utili per molteplici finalità e, tuttavia, questa concezione permane e riaffiora ogniqualvolta emergano peculiari e nuove esigenze localizzative.
Significativa è l’esperienza della diffusione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, fenomeno che ha conosciuto, a partire dagli anni ’90, un notevole sviluppo e che ha trovato nelle zone agricole l’ambito privilegiato di localizzazione. In assenza di un quadro normativo organico, alcune regioni si sono attivate per apprestare una prima regolamentazione. Così ha fatto, ad esempio, la regione Puglia che con legge 21 ottobre 2008, n. 31, “Norme in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili e per la riduzione di immissioni inquinanti e in materia ambientale”, ha vietato la realizzazione di impianti fotovoltaici in alcune aree, tra le quali le “zone agricole di particolare pregio”, così qualificate dagli strumenti urbanistici, dal piano paesaggistico o dalla legge per la presenza di uliveti monumentali. La norma, tuttavia, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale[31], per violazione dell’art. 117 Cost. perché si tratta di materia rientrante nella potestà legislativa concorrente e, all’epoca della legislazione regionale, mancavano le linee guida nazionali per la localizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. L’attuale normativa statale, d.m. 10 settembre 2010, n. 47987, ammette la localizzazione degli impianti nelle zone classificate come agricole dai piani urbanistici, non essendo neanche necessaria la variante dello strumento urbanistico (art. 15, comma 3), al contempo rimette alle regioni la possibilità di qualificare come siti non idonei per la realizzazione di impianti le aree agricole interessate da produzioni agricolo-alimentari di qualità e/o di particolare pregio rispetto al contesto paesaggistico-culturale (art. 17, comma 1).
Esemplare, inoltre, è il caso degli insediamenti commerciali e produttivi, che spesso trovano localizzazione in zona agricola, pur essendo ad essi dedicata altra zona urbanistica (zona D). La normativa di riferimento (d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114; d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447) appare estremamente permissiva, in quanto ammette progetti in contrasto con lo strumento urbanistico, la cui approvazione vale automaticamente come variante di esso e l’unica condizione richiesta per l’approvazione è la dimostrazione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato” (art. 5, comma 1, d.P.R. n. 447/1998)[32].
Mantenendo il punto di osservazione sulla normativa di livello statale, può riscontrarsi un rinnovato interesse al tema dell’agricoltura, che tuttavia stride rispetto alla persistente emarginazione della questione delle zone agricole in senso urbanistico.
Dal primo punto di vista, può richiamarsi il filone normativo che promuove l’affidamento dei terreni abbandonati o incolti con la previsione di un vincolo di destinazione agricola. L’idea è di coniugare finalità di cura del territorio, di recupero dell’agricoltura e di promozione di iniziative imprenditoriali, con specifica attenzione all’imprenditoria giovanile. In questo senso si pone, ad esempio, l’art. 66 legge 24 marzo 2012, n. 27, di conversione del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 “Misure urgenti in materia di concorrenza, liberalizzazioni e infrastrutture”, che sancisce la dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola di proprietà statale, con procedure di alienazione o locazione a cura dell’agenzia del demanio; la normativa prevede il diritto di prelazione ai giovani imprenditori agricoli e il divieto di mutamento di destinazione urbanistica da quella agricola per un periodo almeno ventennale[33].
Altra prospettiva di interesse è quella che profila un collegamento privilegiato tra il recupero della destinazione agricola dei suoli e l’ambiente urbano. L’idea è che le pratiche agricole, tradizionalmente confinate nella zona esterna del centro abitato, possono produrre molteplici benefici (recupero di aree dismesse e valorizzazione degli spazi pubblici, sicurezza alimentare, cittadinanza attiva, promozione di opportunità di impresa e occupazione) nell’ambito del territorio urbanizzato o nelle immediate adiacenze. È il fenomeno dell’agricoltura urbana e periurbana, di recente attenzione anche da parte del legislatore.
Sono ancora pochi i riferimenti legislativi espliciti: così, ad esempio, la legge 14 gennaio 2013, n. 10, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”, che significativamente richiama gli orti tra le soluzioni funzionali all’obiettivo della “realizzazione di aree verdi permanenti intorno alle maggiori conurbazioni” (art. 3, comma 2), nonché la legge 1 dicembre 2015, n. 194, “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare” che cita la realizzazione di orti (didattici, sociali, urbani e collettivi) tra gli obiettivi delle cd. comunità del cibo. Il fenomeno è maggiormente avvertito a livello regionale, in cui risultano approvate alcune leggi ad hoc ovvero singole disposizioni che promuovono queste iniziative[34], mentre a livello locale molte esperienze si fondano su regolamenti comunali monotematici nonché sull’applicazione di modelli di partenariato pubblico-privato, come quelli di cui agli artt. 189-190 del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016).
L’approccio di tipo urbanistico al tema delle zone agricole compare nel dibattito, scientifico prima che politico, sul consumo del suolo. La questione muove dalla maturata consapevolezza che il suolo sia una risorsa non inesauribile e non rinnovabile[35] e la sua indifferibilità è avvertita anzitutto a livello comunitario, come emerge da una pluralità di atti, sebbene tutti di soft law[36], essendo fallito il tentativo di approvazione di una specifica direttiva, a conferma della complessità della materia per la compresenza di interessi divergenti.
Questo dato è confermato anche dall’ordinamento statale, che è ancora privo di una legge organica in materia, nonostante i diversi disegni di legge, di iniziativa parlamentare e governativa, presentati nelle ultime legislature. Tra questi, quello che ha conosciuto un iter più avanzato è il ddl n. C.2039 intitolato “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” (che condensa una serie di progetti presentati sin dal 2013), approvato dalla Camera in data 12 maggio 2016. Significativa è la connessione che ispira l’intero provvedimento tra il contenimento del consumo di suolo, che è riconosciuto come “bene comune e risorsa non rinnovabile”, e la salvaguardia della destinazione agricola dei suoli, nonché la priorità del riuso del suolo già edificato e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato[37].
Come detto, il percorso di riforma non si è tuttavia concluso nella precedente legislatura e il testo è stato riproposto nella legislatura attuale. Il ritardo del Parlamento ha portato diverse regioni a farsi carico della questione. Sono state approvate leggi ad hoc[38] o disposizioni integrative delle leggi urbanistiche[39], tutte connotate dallo stretto connubio tra valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo. Le opzioni scelte dalle regioni spaziano dall’ammissibilità di espansione delle aree edificabili in zone agricola subordinata alla verifica dell’assenza di soluzioni alternative, come il ricorso ad altre zone urbanistiche ovvero il riuso del patrimonio esistente (Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Toscana, Trento e Bolzano) ovvero alla dimostrazione del completamento, per una quota significativa, delle previsioni urbanistiche di tipo edificatorio (Friuli-Venezia Giulia), alla predeterminazione delle quote di suolo consumabile (Umbria, Lombardia, Emilia-Romagna), all’aumento considerevole del contributo di costruzione (Abruzzo), alla rinuncia volontaria dei diritti edificatori (Veneto). Generalmente sono previste misure incentivanti, come la priorità nella concessione di finanziamenti, semplificazioni procedimentali, agevolazioni fiscali, riduzione del contributo di costruzione per gli interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana.
Quella delle zone agricole resta una questione insoluta. La flessibilità concettuale può essere utile per assecondare nuove esigenze ed istanze del territorio e l’esperienza dimostra l’attivismo degli enti locali che se ne fanno interpreti attraverso il potere di pianificazione urbanistica e rispetto a queste esperienze la giurisprudenza mostra attenzione e sensibilità. Le applicazioni non sono peraltro sempre coerenti, per questo appare indifferibile una presa di posizione del legislatore. Un legislatore che, tuttavia, resta inerte a livello statale e ondivago[40] a livello regionale, diviso tra finalità di recupero dell’economia agricola e obiettivi di tutela dell’ambiente, ma anche indulgente verso la natura residuale e la vocazione all’edificabilità dell’area agricola, sganciata dai soggetti e dagli usi propriamente agricoli.
[1] G. Morbidelli, La legislazione urbanistica regionale per le zone agricole, in Riv. dir. agr., 1981, p. 55.
[2] F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2017, p. 86.
[3] P. Urbani, Le aree agricole tra disciplina urbanistica e regolamentazione dell’attività economica, in Riv. giur. edil., 2010, p. 30.
[4] P. Urbani, Governo del territorio e agricoltura. I rapporti, in Riv. giur. edil., 2006, p. 120.
[5] Ivi, p. 122.
[6] P. Urbani, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in L. Costato – A. Germanò – E. Rook Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario, II, Torino, 2011, p. 599.
[7] Ivi, p. 600.
[8] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, p. 67.
[9] P. Urbani, La disciplina urbanistica delle aree agricole, cit., p. 601.
[10] Cons. Stato, sez. V, 16 ottobre 1989, n. 642, in Foro amm., 1989, p. 2710.
[11] Trib. sup. acque pubbl.,18 febbraio 1991, n. 7, in Cons. St., 1991, p. 420.
[12] Tar Puglia, Lecce, sez. III, 14 novembre 2012, n. 1881, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cons Stato, sez. VI, 19 febbraio 1993 n. 180, in Foro amm., 1993, p. 482.
[14] Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 1993 n. 968, in Foro amm., 1993, p. 1846.
[15] Tar Lombardia, Brescia, sez. II, 13 maggio 2014, n. 494, in Riv. giur. edil., 2014, p. 831.
[16] Cons. Stato, sez. V, 1 ottobre 2010, n. 7243, in Riv. giur. amb., 2011, p. 289; Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009, n. 3853, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1496; Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 1996 n. 85, in Foro it., 1996, p. 440; Tar Liguria, Genova, sez. I, 14 dicembre 2016, n. 1237, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2020, n. 3202, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 3 dicembre 2018, n. 2711, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli sez. VIII, 9 aprile 2018, n. 2279, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4755, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7144, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 12 dicembre 2016, n. 5195, inwww.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 30 dicembre 2008, n. 6600, in Foro amm. CdS, 2008, p. 3354; Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008, n. 5478, in Riv. giur. edil., 2009, p. 162; Cons. Stato, sez. IV, 25 luglio 2007, n. 4149, in Riv. giur. edil., 2008, p. 360; Cons. Stato, sez. IV, 20 settembre 2005, n. 4828, in Riv. giur. amb., 2005, p. 95; Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2005, n. 259, in Foro amm. CdS, 2005, p. 106; Cons. giust. reg. Sicilia, 6 aprile 2018, n. 210, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, sez. II, 13 maggio 2019, n. 1065, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1090, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 aprile 2015, n. 903 in. www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 23 ottobre 2014, n. 5466, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Valle d’Aosta, sez. I, 2 novembre 2011, n. 73, in Foro amm., 2011, p. 3395; Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 6 aprile 2011, n. 105, in Foro amm. Tar, 2011, p. 1186; Tar Veneto, Venezia, sez. I, 31 marzo 2010, n. 1118, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 3 novembre 2009, n. 6825, in Foro amm. Tar, 2009, p. 3239; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 24 giugno 2009, n. 1318, in Riv. giur. edil., 2010, p. 253. In questo senso, anche la giurisprudenza penale: ad esempio, Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2009, n. 39078, in Dir. giur. agr., 2010, 65. Sulle ragioni teoriche a supporto della prassi amministrativa di tutela ‘urbanistica’ dell’ambiente e dell’avallo giurisprudenziale si rinvia a di P.L. Portaluri, L’ambiente e i piani urbanistici, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2015, pp. 247 ss.
[20] Cons. Stato, sez. II, 31 agosto 2020, n. 5313, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 16 dicembre 2009, n. 2595.
[21] Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2019, n. 7144, cit.; Cons. giust. reg. Sicilia, 6 aprile 2018, n. 210, cit.; Tar Lombardia, sez. II, 13 maggio 2019, n. 1065, cit.; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1090, cit.
[22] Cons. Stato, sez. II, 31 ottobre 2019, n. 7459, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 24 aprile 2018, n. 2459, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, 7 maggio 2020, n. 751, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 9 aprile 2015, n. 898, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cons. Stato, sez. II, 6 ottobre 2020, n. 5917, cit.
[24] Cons. Stato, sez. II, 31 agosto 2020, n. 5313, cit.; Cons. Stato, sez. IV, 6 luglio 2009, n. 4308, in Foro amm. CdS, 2009, p. 1683.
[25] Sottolineano il punto F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, cit., p. 86; in giurisprudenza, ad esempio, Tar Lombardia, Milano, sez. II, 13 maggio 2019, n.1065, in Riv. giur. edil., 2019, p. 1093.
[26] Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2020, n. 43, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 14 novembre 2012, n. 1881, cit.; Tar Trentino-Alto Adige, Trento, 19 giugno 2008, n. 152, in www.giustizia-amministrativa.it.
[27] Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2012, n. 3570, in Riv. giur. edil., 2012, p. 955.
[28] Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2020, n. 3202, cit.; Cons. Stato, sez. II, 1 aprile 2014, n. 1065, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 19 giugno 2012, n. 3570, cit.; Cons. di Stato, sez. V, 18 settembre 2007, n. 4861, in Foro amm. CdS, 2007, p. 2487; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 9 aprile 2018, n. 2279, cit.
[29] Tar Veneto, Venezia, sez. II, 10 settembre 2007, n. 2988, in Foro amm. Tar, 2007, p. 2739.
[30] È evidente il favor per l’imprenditore agricolo, come peraltro è esplicitato nella finalità enunciata di «adeguare, incentivare e valorizzare l’attività delle aziende agricole» (art. 6-bis, comma 5).
[31] Corte cost., 22 marzo 2010, n. 119, in Giur. cost., 2010, 1324, e 11 giugno 2014, n. 166, in Riv. giur. edil., 2014, p. 927.
[32] Evidenzia che la norma è indice del «carattere intrinsecamente debole del potere urbanistico – specie quando viene in rapporto con interessi forti (quali appunto quelli legati alle grandi reti commerciali) –», F. Salvia, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2012, p. 82.
[33] Per una prima applicazione v. il d.m. 20 maggio 2014 (cd. decreto Terrevive). Il sostegno all’imprenditoria giovanile nel settore agricolo è perseguito dal legislatore statale con un’altra opzione, quella di favorire forme di affiancamento nell’attività di impresa agricola dei giovani agricoltori a quelli anziani, allo scopo del graduale passaggio della gestione d’impresa ai giovani: in questo senso il legislatore ha conferito delega al Governo per l’adozione di un apposito decreto legislativo con l’art. 6 d.lgs. 154/2016, delega che non è stata attuata, ma il contenuto dispositivo è stato ripreso dalla legge di bilancio 2018 con la disciplina del cd. contratto di affiancamento (legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, commi 119-120). Il tema è ripreso a livello regionale, in cui rileva anche quel filone normativo istitutivo delle cd. banche della terra, che implicano un censimento dei beni agricoli (terreni abbandonati, incolti o silenti e fabbricati dismessi), di proprietà pubblica e privata dichiarati disponibili per operazioni di locazione o di concessione: l.r. Toscana, 27 dicembre 2012, n. 80; l.r. Sicilia, 28 gennaio 2014, n. 5; l.r. Liguria 11 marzo 2014, n. 4; l.r. Veneto 8 agosto 2014, n. 26; l.r. Molise, 5 novembre 2014, n. 16; l.r. Lombardia, 26 novembre 2014, n. 30; l.p. Trento, 4 agosto 2015, n. 15; l.r. Abruzzo, 8 ottobre 2015, n. 26; l.r. Campania, 13 giugno 2016, n. 21; l.r. Lazio, 10 agosto 2016, n. 12; l.r. Friuli-Venezia Giulia, 29 dicembre 2016, n. 25; l.r. Puglia, 29 maggio 2017, n. 15; l.r. Basilicata, 14 dicembre 2017, n. 36. In dottrina v., specialmente, G. Strambi, La questione delle terre incolte e abbandonate e le leggi sulle “banche della terra”, in Riv. dir. agr., 2017, pp. 599 ss.
[34] L.p. Trento 26 gennaio 2018, n. 2, “Istituzione, promozione e finanziamento degli orti didattici in Trentino”; l.r. Liguria, 29 novembre 2018, n. 23, “Disposizioni per la rigenerazione urbana e il recupero del territorio agricolo”, art. 3, comma 1, n. 8; l.r. Veneto, 6 giugno 2017, n. 14, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2014, n. 11 “Nome per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, art. 8, comma 2; l.r. Lombardia, 3 luglio 2015, n. 27, “Gli orti di Lombardia. Disposizioni in materia di orti didattici, urbani e collettivi”; l.r. Toscana, 28 dicembre 2015, n. 82, legge finanziaria per il 2016, art. 1 «Centomila orti in Toscana». Sul fenomeno degli orti urbani, v., specialmente, M. Gola, Pianificazione urbanistica e attività economiche. Cibo e spazio urbano: urbanistica e mercati agroalimentari, in Rivista giuridica dell’edilizia, 2016, pp. 210 ss.
[35] In dottrina si veda, soprattutto, G.F. Cartei – De Lucia (a cura di), Contenere il consumo del suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Napoli, 2014; E. Boscolo, Il suolo quale matrice ambientale e bene comune: il diritto di fronte alla diversificazione della funzione pianificatoria, in Scritti in onore di Paolo Stella Richter, II, Napoli, 2013, pp. 1101 ss.; Id., Beni comuni e consumo di suolo. Alla ricerca di una disciplina legislativa, in www.pausania.it, 2014; P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in www.astrid-online.it/rassegna, 2016; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2020, pp. 421 ss.
[36] Si vedano, ad esempio, Comunicazione della Commissione del 22 settembre 2006, Strategia tematica per la protezione del suolo, COM(2006) 231 def.; Comunicazione della Commissione del 20 settembre 2011, Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, COM(2011) 571 def.; Documento di lavoro dei servizi della Commissione del 15 maggio 2012, Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, SWD(2012) 101 final/2.
[37] La vocazione agricola dei suoli costituisce interesse primario e diretto del disegno di legge e la sua tutela assume una triplice valenza: il mantenimento della superficie agricola garantisce la produzione agricola utile per soddisfare il fabbisogno alimentare nazionale, nonché la preservazione delle connotazioni paesaggistiche e ambientali del territorio e un freno ai processi di consumo del suolo. Peraltro, è data una nozione ampia di “terreno agricolo”, in quanto sono considerati tali non solo quelli così qualificati dagli strumenti urbanistici, ma anche le aree di fatto utilizzate a scopo agricolo, indipendentemente dalla loro destinazione urbanistica, nonché le aree comunque libere da edificazioni e infrastrutture. È previsto il coordinamento delle misure previste per il contenimento del consumo di suolo con le politiche e gli strumenti di pianificazione paesaggistica e urbanistico-territoriale. Questi ultimi devono recepire i limiti quantitativi, fissati a livello statale, di consumo di suolo ammissibile, limiti che, a loro volta, devono essere conformi alle previsioni dei piani paesaggistici. La determinazione dei limiti quantitativi per la progressiva riduzione del consumo di suolo deve tendere, peraltro, al graduale azzeramento del consumo in coerenza con quanto stabilito dalla Commissione europea circa il traguardo da raggiungere (consumo zero) entro il 2050. Inoltre, spetta agli strumenti pianificatori l’individuazione delle aree già interessate da processi di edificazione, ma inutilizzate o suscettibili di recupero, quale presupposto per le iniziative di rigenerazione urbana. Ulteriori misure sono il divieto di mutamento, per un periodo non inferiore a cinque anni, della destinazione d’uso agricolo delle aree che hanno usufruito di aiuti di Stato o finanziamenti europei e il connesso divieto di interventi di trasformazione urbanistica o edilizia non funzionali all’attività agricola, ad eccezione della realizzazione di opere pubbliche, nonché le misure di natura premiale (priorità nella concessione di finanziamenti, misure di semplificazione, incentivi fiscali, ecc.) a favore dei comuni virtuosi – nonché dei soggetti privati –, particolarmente orientati verso la rigenerazione urbana e il contenimento del consumo del suolo.
[38] L.r. Puglia, 30 aprile 2019, n. 18, “Norme in materia di perequazione, compensazione urbanistica e contributo straordinario per la riduzione del consumo di suolo e disposizioni diverse”; l.r. Abruzzo, 1 agosto 2017, n. 40, “Disposizioni per il recupero del patrimonio edilizio esistente. Destinazioni d’uso e contenimento dell’uso del suolo, modifiche alla l.r. 96/2000 ed ulteriori disposizioni”; l.r. Veneto, 6 giugno 2017, n. 14, “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo e modifiche della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”; l.r. Friuli-Venezia Giulia, 25 settembre 2015, n. 21, “Disposizioni in materia di varianti urbanistiche di livello comunale e contenimento del consumo di suolo”; l.r. Lombardia, 28 novembre 2014, n. 31, “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”; l.r. Puglia 20 maggio 2014, n. 26, “Disposizioni per favorire l’accesso dei giovani all’agricoltura e contrastare l’abbandono e il consumo dei suoli agricoli”; l.r. Abruzzo, 28 aprile 2014, n. 62, “Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo” (sebbene dichiarata incostituzionale da Corte cost., 10 marzo 2015, n. 55, in Giur. cost., 2015, 486).
[39] L.r. Emilia-Romagna, 21 dicembre 2017, n. 24; l.p. Trento, n. 15/2015; l.r. Sardegna, 23 aprile 2015, n. 8; l.r. Marche, 13 aprile 2015, n. 16; l.r. Liguria, 2 aprile 2015, n. 11; l.r. Veneto, 16 marzo 2015, n. 4; l.r. Piemonte, 11 marzo 2015, n. 3; l.r. Umbria, n. 1/2015; l.r. Toscana, n. 65/2014; l.p. Bolzano, 19 luglio 2013, n. 10; l.r. Calabria, 10 agosto 2012, n. 35.
[40] Sottolineano il carattere oscillante e incoerente della legislazione regionale F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, cit., p. 87.
La violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione nei bandi di gara pubblica
di Antonio Barone e Mauro Di Pace
Il principio di tassatività delle cause di esclusione nei bandi di gara pubblica trova la sua ratio nell’obiettivo del contrasto alle inutili tendenze formalistiche talora caratterizzanti l’attività delle stazioni appaltanti, in linea con l’orientamento giurisprudenziale prevalente volto a non avallare l’aggravio delle procedure di gara con inutili (in quanto non corrispondenti a reali interessi dell’Amministrazione procedente) oneri formali a carico degli operatori economici [1]. A presidio di questo principio, l’art. 83, comma 8, del Codice Appalti prevede la drastica limitazione del potere di esclusione dalla gara da parte delle stazioni appaltanti, che viene ricondotto a due gruppi di ipotesi chiaramente definiti. Al di fuori di tali ipotesi espressamente previste dal codice, l’art. 83, comma 8, del Codice Appalti, impone il divieto di previsione di cause esclusione, che viene rafforzato con l’espressa previsione della nullità di siffatte clausole.
La decisione della Plenaria in commento concerne proprio il corretto inquadramento giuridico della nullità delle clausole di esclusione contra legem. In particolare, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza del 16.10.2020 n. 22, dichiara nulla la clausola del bando di gara che, richiedendo a pena di esclusione all’impresa ausiliata il possesso della medesima SOA oggetto del contratto di avvalimento con l’impresa ausiliaria, impedisce il ricorso all’avvalimento per la SOA.
La decisione interviene su un giudizio di impugnazione di un provvedimento di esclusione di un’impresa concorrente da una gara di lavori di importo superiore ad € 150.000,00. Il bando di gara da un lato consentiva ai partecipanti di soddisfare i requisiti economico finanziari e tecnico professionali avvalendosi della SOA di un altro soggetto; dall’altro, però, disponeva che il possesso della SOA era richiesto a pena di esclusione anche in capo all’impresa ausiliata. Ne derivavano una serie di questioni controverse, tra le quali, anzitutto, la questione della necessaria o meno impugnazione tempestiva del disciplinare di gara, con ogni conseguenza sulla tardività del ricorso contro l’esclusione dalla gara [2].
Le incertezze giurisprudenziali
Con l’ordinanza cautelare 14.6.2019 n. 2993 (Pres. Caringella, est. Barreca), la V sezione del Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar Toscana, 13.3.2019, n. 356, rinviando alla motivazione espressa nell’ordinanza 25.1.2019 n. 344 (est. Giovagnoli), di sospensione cautelare della sentenza del Tar Napoli, 19.11.2018, n. 6691.
La motivazione dell’ordinanza cautelare, per quanto sintetica, si basava, ribaltandone le conclusioni, sulla ricostruzione teorica operata dal giudice amministrativo di primo grado relativamente alla nullità come espressione di un potere carente, e non solo mal esercitato, argomentando così: “La contestata clausola del bando che limita l’avvalimento non appare affetta da nullità, in quanto, da un lato, è espressione di un potere amministrativo in astratto esistente (quello di disciplinare le modalità dell’avvalimento in corso di gara) e, dall’altro, non può essere qualificata come causa di esclusione “atipica””.
Tali conclusioni, tuttavia, sono state smentite in sede di decisione di merito con la sentenza del Consiglio di Stato, V sezione, 23.8.2019 n. 5834 (est. Perotti). In questa pronuncia il giudice amministrativo ha ritenuto la clausola non già escludente (da impugnare negli ordinari termini di legge, secondo l’insegnamento di A.P. n. 1/2003), bensì nulla, evidenziando altresì che la nullità avrebbe dovuto essere censurata nel più ampio termine di decadenza di 180 giorni previsto dall’art. 31, comma 4, c.p.a., rispettato nel caso di specie.
Con la sentenza non definitiva 17.3.2020, n. 1920 (Est. Barreca), di rimessione alla Plenaria, la stessa V sezione del Consiglio di Stato ha dato atto del contrasto di orientamenti in atto: da un lato, le ordinanze sospensive nn. 244 e 2993 del 2019, che propendono per il carattere escludente delle clausole, per la loro annullabilità e per il conseguente onere di immediata impugnazione delle stesse; dall’altro le sentenze di primo grado e la sentenza del Consiglio di Stato n. 5834/2019, che invece descrivono la vicenda come nullità, soggetta all’azione di accertamento ex art. 31 comma 4 c.p.a. e al relativo termine di decadenza di 180 giorni.
Secondo la V sezione, in particolare, non sarebbe decisivo l’argomento fondato sul dato testuale dell’art. 89 d.lgs. 50/2016, che stabilisce la nullità delle clausole difformi, perché lo stesso articolo 89 da un lato regola l’avvalimento, dall’altro lo limita ovvero lo vieta nei casi non consentiti: sicché tutti i casi di difformità della clausola dalla previsione normativa andrebbero in effetti ricondotti al paradigma dell’esercizio del potere in violazione di legge, che è un vizio tipico di annullabilità (capo 7.1).
D’altronde, secondo il giudice rimettente, la previsione della nullità testuale delle clausole escludenti atipiche, di cui all’art. 83 comma 8 del d.lgs. n. 50/2016, va coordinata, da un lato, col disposto dell’art. 120, comma 5, c.p.a., che impone l’impugnazione immediata delle clausole della lex specialis “immediatamente lesive”; e dall’altro col già citato art 31, comma 4, c.p.a., che assoggetta l’azione di accertamento della nullità al termine di decadenza di 180 giorni. Inoltre, sempre secondo il giudice rimettente, è proprio il codice dei contratti, all’art. 83, che fonda il potere della stazione appaltante di indicare le condizioni di partecipazione richieste, esprimendole eventualmente come livelli minimi di capacità, fra questi ultimi rientrando certamente il possesso della SOA.
La decisione dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza plenaria affronta la questione da una prospettiva parzialmente diversa dalle decisioni che si sono fin qui menzionate, e si pone l’ambizioso obiettivo di sciogliere il nodo delle basi teoriche della nullità provvedimentale, al fine di individuarne l’ambito applicativo generale.
La questione da affrontare “riveste carattere generale, in quanto si tratta di stabilire gli esatti termini del funzionamento dell’istituto della nullità nei rapporti amministrativi” (capo 10).
La plenaria procede ad un’analisi storica e sistematica dell’istituto della nullità nel diritto amministrativo, ricordando che, secondo l’impostazione tradizionale, lo stato naturale dell’atto amministrativo invalido è l’annullabilità, non trovando spazio nel sistema di diritto amministrativo la figura della nullità elaborata dalla disciplina civilistica: nel diritto civile, la nullità è infatti una patologia genetica dell’atto, processualmente rilevabile d’ufficio senza limiti di prescrizione, censurabile da chiunque ne abbia interesse, improduttiva di effetti.
D’altronde, la stessa nullità civilistica ha conosciuto un’evoluzione che ne ha sfumato i confini rispetto al vizio di annullabilità, che trova il suo esempio più lampante nelle cosiddette nullità di protezione, azionabili da una e non da entrambe le parti, rivolte alla tutela di una posizione intrinsecamente debole.
Il vizio di nullità è stato introdotto nel sistema del diritto amministrativo dalla l. n. 15/2005, di riforma della l. n. 241/1990, che vi ha inserito il capo IVbis e, in quest’ambito, l’art. 21septies sopra richiamato.
Successivamente, il codice del processo amministrativo ha disciplinato l’azione di accertamento della nullità dell’atto amministrativo all’art. 31.
La nullità amministrativa differisce da quella civilistica per il breve termine di decadenza previsto per la proponibilità della relativa azione, che trova la sua ratio nelle ragioni di certezza dei rapporti giuridici amministrativi; per la mancanza di una norma, omologa all’art. 1325 c.c., che definisca gli elementi essenziali del provvedimento, la cui mancanza determina, appunto, la nullità; per le figure, tipicamente amministrativistiche, della nullità per difetto assoluto di attribuzione e per violazione o elusione del giudicato.
La nullità amministrativa, a ulteriore differenza di quella civilistica, vive della medesima peculiarità comune alla figura dell’annullabilità: essa rileva in sede processuale. Infatti, la decadenza dal diritto di azione, determinando il consolidamento dell’atto invalido, elimina il vizio. Le conseguenze di questo corollario sono particolarmente evidenti nei procedimenti complessi, secondo il paradigma dell’illegittimità viziante, laddove il consolidamento del provvedimento viziato a monte determina l’impossibilità di farne valere i vizi in via derivata con l’impugnazione del provvedimento a valle.
Ciò vale a maggior ragione nelle procedure di gara.
Infatti, come si è detto, la portata immediatamente lesiva della lex specialis, sancendone il carattere provvedimentale (secondo l’insegnamento di AP 1/2003, oggi normativamente recepito all’art. 120, comma 5, c.p.a.), ne impone la tempestiva impugnazione. È il caso tipico delle clausole c.d. escludenti, cioè delle clausole che dispongono condizioni soggettive di partecipazione.
Ma se la clausola è nulla, e non annullabile, qual è il termine di decadenza per la sua impugnazione?
È qui che l’Adunanza plenaria, sposando la tesi della nullità della clausola, prende tuttavia una posizione eccentrica rispetto alla soluzione individuata dall’orientamento espresso dai TAR e dalla sentenza CdS n. 5834/19.
In primo luogo, rifiuta di ridurre la categoria della nullità amministrativa alla figura generale della carenza di potere in concreto. Quest’ultima, infatti, è solo una delle quattro categorie di nullità previste dalla disciplina generale dell’art. 21-septies della l. n. 241/1990, oltre alla carenza degli elementi essenziali del provvedimento, violazione o elusione del giudicato e alla nullità testuale [3].
In secondo luogo, ritiene inapplicabili sia l’art. 21-septies della l. n. 241/1990, sia l’art. 31 c.p.a.: entrambe le norme “si riferiscono ai casi in cui un provvedimento sia nullo ed ‘integralmente’ improduttivo di effetti: la clausola escludente affetta da nullità, in base al principio vitiatur sed non vitiat già affermato dalla sentenza di questa Adunanza n. 9 del 2014, non incide sulla natura autoritativa del bando di gara, quanto alle sue ulteriori determinazioni”.
La nullità testuale, di cui all’art. 83 del codice dei contratti, esorbitando dall’ambito applicativo della nullità provvedimentale, non soggiace quindi al termine di decadenza previsto per l’azione di accertamento della nullità.
Ne deriva che non c’è alcun onere di impugnare la clausola nulla né nei 30 giorni (di cui all’art. 120, comma 5 c.p.a.) né nei 180 (di cui all’art. 31, comma 4, c.p.a.).
L’inidoneità della clausola di produrre i suoi effetti, peraltro, non impedisce che si consolidino, invece, gli effetti dell’atto a valle, che va invece impugnato tempestivamente: “Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente”.
La decisione della Plenaria offre numerosi spunti di riflessione. Nell’economia delle presenti brevi note, si ritiene di poterne evidenziare almeno tre.
Sul piano teorico, la sentenza in commento costituisce l’ennesima conferma della “vocazione” del nostro tempo per la giurisdizione, in linea peraltro con la tradizione del Consiglio di Stato nell’utilizzo (fin dall’epoca liberale) di “metodi giurisprudenziali” accanto a quelli “giurisdizionali” [4]. Non v’è dubbio, infatti, che l’individuazione di una categoria di nullità amministrativa autonoma rispetto alle previsioni dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, è frutto di una costruzione esclusivamente giurisprudenziale. Questa nullità “giurisprudenziale” è caratterizzata dalla sua efficacia “parziale” (nel senso che essa è destinata a travolgere una parte del provvedimento, e non tutto) e dalla sua sottrazione alla disciplina della decadenza, nel senso che essa può farsi valere in giudizio anche oltre i 180 giorni, purché entro il termine di impugnazione del successivo provvedimento consequenziale (tipicamente, nei 30 giorni dalla notifica del provvedimento di esclusione adottato in attuazione di una clausola nulla, anche se pubblicata più di 180 giorni prima).
Sul piano applicativo, la soluzione adottata dalla Plenaria può essere salutata con favore nella misura in cui, coerentemente col principio della massima partecipazione, consente una più effettiva giustiziabilità del divieto di introduzione di clausole escludenti contra legem.
Sempre sul piano applicativo, infine, non può sottacersi la difficoltà di tracciare con chiarezza il solco tra le ipotesi annullabilità e quelle di nullità “in senso tecnico” delle clausole escludenti. Infatti, al di fuori del caso di scuola affrontato dalla Plenaria, la linea di confine fra le clausole che limitano, regolandolo, il ricorso all’avvalimento (annullabili) e quelle che invece lo vietano in assoluto (nulle) potrebbe risultare, nell’esperienza applicativa, labile e sfumato. Ciò potrebbe comportare talune incertezze applicative nell’interpretazione volta per volta della portata delle clausole sull’avvalimento, con la conseguente esigenza di individuare con certezza il reale perimetro di operatività della nuova categoria giurisprudenziale della nullità amministrativa “in senso tecnico”.
***
[1] Sul principio di tassatività delle cause di esclusione nei bandi di gara pubblica, senza pretesa di esaustività, v. M. Monteduro, Art. 46. Le novità introdotte dal D.L. 13 maggio 2011, n. 70c.d. decreto sviluppo in tema di tassatività delle clausole di esclusione, in F. Caringella, M. Protto (a cura di), Codice dei contratti pubblici, Roma, Dike, 2012, p. 373 ss.; R. Giani, Le cause di esclusione dalle gare tra tipizzazione legislativa, bandi standard e de quotazione del ruolo della singola stazione appaltante, in Urb. App., 2012, n. 1, p. 96 ss.; R. De Nictolis, Le novità del D.L. 70/2011, in Urb. App., 2011, n. 9, p. 1012 ss.
[2] Il Tar della Toscana, con sentenza 13.3.2019, n. 356, aveva accolto il ricorso in primo grado, per mezzo del quale la concorrente aveva impugnato la sua esclusione, scontrandosi con l’eccezione di irricevibilità del ricorso per non aver impugnato tempestivamente il disciplinare.
Il TAR aveva accolto la tesi della ricorrente, secondo la quale la clausola controversa, nell’imporre il possesso della SOA in capo alla mandataria, poneva non già un limite relativo al ricorso all’avvalimento, quanto piuttosto un sostanziale divieto. La nullità della clausola ne imponeva, secondo il TAR, la disapplicazione, rendendo tempestivo il ricorso proposto contro l’esclusione, a prescindere dalla mancata impugnazione della lex specialis nei 30 giorni dalla pubblicazione.
Questione analoga, su un bando di gara adottato sul medesimo schema e contenente la medesima clausola, veniva affrontata dal Tar Napoli, con la sentenza 19.11.2018, n. 6691, che giungeva alle medesime conclusioni, pur senza menzionare la disapplicazione della clausola nulla, ma accertandone incidentalmente la nullità: con la conseguenza, anche in questo caso, del rigetto dell’eccezione di irricevibilità del ricorso per tardiva impugnazione del disciplinare.
Il tribunale campano si sofferma sulla questione della nullità provvedimentale, illustrandone le fondamenta teoriche sulla base della dialettica tra clausola escludente, da impugnare entro i 30 giorni dalla pubblicazione del bando; e clausola nulla, da impugnare entro 180 giorni dalla pubblicazione.
[3] Sulla nullità del provvedimento amministrativo, anche in questo caso senza pretesa di esaustività, cfr. N. Paolantonio, voce Nullità dell'atto amministrativo, in Enc.dir., Annali, l, Milano, 2008, p. 855 ss.; P. Lazzara, Nullità, Dir. Amm., in Diritto on line, Treccani.it, 2013; R. Chieppa, Art. 21 septies. La nullità del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, p. 115-1147.
[4] Su questi aspetti cfr. N. Picardi, La vocazione del nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 2004, p. 41-72; M. Nigro, Il Consiglio di Stato giudice e amministratore (aspetti di effettività dell'organo),ora in Id., Scritti giuridici, II, Milano 1996, p. 1051-1094. Più di recente, v. A. Barone, La vocazione unitaria delle giurisdizioni, in A. Barone, E. Follieri (a cura di), I principi vincolanti dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sul Codice del Processo Amministrativo (2010-2015), Padova, CEDAM, 2015, p. 1-24.
Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia*
di Tommaso Greco
Sommario: 1. Il diritto tra arte e tecnologia - 2. Il diritto non “serve” - 3. Il diritto come tecnica - 4. La formazione del giurista e la tentazione dell’algoritmo.
1. Il diritto tra arte e tecnologia
Ho trovato stimolante e opportuno l’invito rivolto da Michela Passalacqua al Maestro Michelangelo Pistoletto per l’inaugurazione del corso di laurea, da lei presieduto, in “Diritto dell’innovazione per l’impresa e le istituzioni”. La presenza di un Maestro che ha saputo innovare i sentieri dell’arte aiuta infatti a mettere in chiaro da subito che un corso di laurea come quello che stiamo inaugurando non ha nulla di scontato, ma anzi ha bisogno più di altri di quella immaginazione che alla vita individuale e collettiva può venire solo dall’arte.
Non è quindi azzardato il prendere spunto dall’arte per ragionare sul ruolo del diritto nella società tecnologica. Essa produce effetti straordinari sull’animo umano e quindi anche sulla sensibilità giuridica che anima e motiva le nostre riflessioni, le nostre categorie, i nostri concetti. Spesso è proprio l’arte a farci capire meglio quale sia il nostro compito e a indicarci in maniera più chiara la direzione che dobbiamo prendere.
Il discorso potrebbe farsi lungo e quindi è bene interromperlo immediatamente; non prima però di aver citato almeno una prova di quanto ho appena affermato, muovendomi sul terreno proprio della presentazione di oggi, che è quello del rapporto tra diritto e innovazione (prevalentemente tecnologica, ma non solo). Sarebbe lo stesso il nostro atteggiamento nei confronti della tecnologia applicata all’umano senza quella straordinaria opera letteraria che è il Frankenstein di Mary Shelley, che ha dato la stura a mille riflessioni di carattere etico e filosofico, orientando i nostri sentimenti e quindi i nostri giudizi?
Forse dovremmo discutere più di quanto non facciamo di questo tema: di quanto l’arte serva al diritto anche in tempi nuovi e complessi, come il nostro. E il discorso si farebbe sommamente interessante. Perché non c’è solo il Law and Literature che ormai, e finalmente, sta ottenendo un ampio riconoscimento anche presso i giuristi ‘pratici’. C’è un più ampio Law and Humanities che fa tesoro dello sguardo proveniente da tutte le Arti[1], a cominciare da quella, più di altre tecnologicamente condizionata, che è il cinema (e mi pare giusto ricordare che Cinema e diritto si intitola un intervento pubblicato qualche anno fa da un illustre civilista pisano, Umberto Breccia, presentato ad apertura di un nostro ciclo di incontri[2]).
2. Il diritto non “serve”
Devo però affrettarmi a dire qualcosa sul rapporto tra diritto e innovazione, e più specificamente del rapporto tra diritto e tecnologia. Non c’è bisogno di dire che il tema è sterminato e che lo si potrebbe affrontare da diversi punti di vista. È chiaro che noi siamo qui perché ci poniamo tutti i problemi che lo sviluppo (tecnologico, ma non solo) pone al diritto e alla scienza giuridica: ce li poniamo, al punto da aver sentito il bisogno prima di creare un centro di ricerca su Diritto e Nuove Tecnologie, e poi di creare questo corso di laurea. Proprio per questo non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiarire che quel «diritto per l’impresa e le istituzioni» non può significare che siamo qui a insegnare un diritto ‘servile’ rispetto ai bisogni delle imprese e delle istituzioni. Se non altro perché sia le imprese sia le istituzioni non sono entità naturali rispetto alle quali il diritto può semplicemente mettersi al servizio; ma sono esse stesse frutto e prodotto del diritto. Senza il diritto, senza le sue regole, senza le sue architetture non sarebbe possibile né l’impresa né una qualsiasi forma di istituzione (tornerò su questo tema tra poco). Se sul piano delle istituzioni un’affermazione come questa appare evidente, essa va confermata soprattutto con riguardo all’impresa: un soggetto che vediamo spesso come una sorta di hobbesiano individuo naturale, slegato da qualsiasi relazione e soprattutto sottratto a qualsiasi legge che non sia quella della pura sopravvivenza a danno di tutto e di tutti. Come ha ben spiegato più volte Natalino Irti, senza struttura giuridica non c’è possibilità che si sviluppino le condizioni per lo sviluppo né del mercato né dei suoi protagonisti[3].
3. Il diritto come tecnica
Occorre essere coscienti che il diritto non è solo un sapere che, tra le altre cose, si occupa del mercato o della tecnologia facendone oggetto di regolazione. È esso stesso una tecnica: certo, non solo una tecnica (come forse voleva il più grande giurista del XX secolo, Hans Kelsen), ma anche una tecnica. Una tecnica che non solo permette di fare cose ben precise, ma che a volte si spinge fino a rendere possibili ‘realtà’ che non esisterebbero senza di essa. Non mi addentro nella complicata questione delle norme costitutive, e meno che mai nella affascinante riflessione di John Searle sull’ontologia sociale e sui cosiddetti “fatti istituzionali”[4], ma è abbastanza comprensibile anche ai profani che alcune delle ‘cose’ che nominiamo o facciamo, esistono solo perché è il diritto ad averle rese possibili: si pensi al matrimonio, ad esempio, o all’adozione, o al concetto di proprietà. Oppure si pensi a tutto ciò che ha a che fare con le istituzioni di ogni livello: qui niente esiste prima del diritto e senza il diritto. Ogni istituto e ogni istituzione ha una storia che non ci sarebbe mai stata senza l’immaginazione che sapienti giuristi seppero mettere in campo al momento opportuno. Da questo punto di vista, il diritto è certamente «arte fra altre arti». Come ha scritto Francesco Galgano, infatti, è arte «anche l’inventare figure giuridiche nuove, atte a innovare le forme della convivenza umana»[5].
Il diritto quindi come tecnica preziosa, ma anche, lo sappiamo bene, potenzialmente pericolosa: perché sono sempre le sue regole a rendere possibili o a legittimare cose che non necessariamente corrispondono al nostro senso della giustizia. Come deve comportarsi il diritto rispetto a ciò che la tecnica rende possibile con i suoi potenti mezzi? Deve limitarsi a fare da “regolatore del traffico”, oppure deve spingersi più in là, magari ponendo anche qualche divieto di accesso e di transito? Se uso la parola ‘traffico’ è proprio per evocare l’idea di individui che si muovono, ciascuno alla ricerca del proprio interesse, e che si trovano a incrociare il proprio cammino con quello di altri. Vogliamo che le traiettorie di questi cammini siano lasciati ad una più o meno spontanea ricerca di un “ordine”, o più probabilmente “disordine”, oppure vogliamo che essi siano, se non indirizzati verso uno scopo (lungi da noi ogni ipotesi paternalisticamente orientata) quanto meno impossibilitati a prendere alcune direzioni che riteniamo pericolose? A saperla interrogare, la storia — non solo quella con la S maiuscola, ma anche la storia della tecnologia — ci insegna che la libertà non è mai il semplice frutto dell’assenza di regole; anzi ci dice che là dove non si disponga di regole, si ha solo il dominio del più forte sul più debole[6]. La libertà non nasce né cresce in assenza di leggi, ma è il risultato di leggi giuste che la definiscono e la stabiliscono, garantendola per tutti.
Ci troviamo dunque, ancora una volta, davanti al dilemma che accompagna il diritto fin dalle sue origini. Oggi, come ieri e come sempre, infatti, esso deve — cioè: i suoi cultori devono — scegliere se stare dalla parte di chi domina, ed essere quindi strumento del forte che domina sul debole, oppure se approntare quelle soluzioni che stabiliscono una libertà comune entro la quale anche i deboli possano essere garantiti e non asserviti. Solo un diritto che “non serve”, ma che afferma la sua funzione critica nei confronti dei grandi poteri, può fare in modo che nel mondo non ci siano “servi” ma “liberi”. Il compito più proprio del diritto, quello che non lo riduce a puro strumento, è sempre quello di riconoscere, definire e limitare ogni nuovo potere che emerga dalla dinamica economica e sociale.
4. La formazione del giurista e la tentazione dell’algoritmo
Tutto ciò ci porta a ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, che il lavoro del giurista va sempre al di là di un compito meramente tecnico. È sempre bene ricordare che non c’è lavoro tecnico su questi temi: perché quando io mi metto al lavoro da “tecnico” su questioni generate dal progresso tecnologico, e che quasi sempre sono estremamente delicate sul piano etico (si pensi, per fare un solo esempio, alla maternità surrogata) col solo fatto di applicarmici e qualunque sia la mia idea su quel tema, sto mettendo in campo ben più che un sapere “tecnico”. Anzi, più penso di agire da tecnico, più legittimo la pratica di cui mi sto occupando.
Ecco perché bisogna avere piena contezza del compito che ci spetta e che ci aspetta: quello di formare un giurista creativo e costruttivo[7], perfettamente consapevole del suo ruolo, che non è quello di andare ad avvitare i bulloni che la tecnica, l’economia, le istituzioni ci mettono davanti. Il nostro compito è di formare un giurista critico, cosciente del ruolo che andrà a svolgere nella società del futuro, e dunque capace di esercitare pienamente e attivamente la funzione che gli compete e che la società stessa si aspetta che svolga.
Questo è tanto più vero in una realtà che assume connotati nuovissimi rispetto a quella precedente, e nella quale il diritto si trasforma profondamente proprio grazie alla tecnologia. Posso limitarmi, su questo argomento, a poco più di una battuta. Oggi si apre uno scenario nuovo nel quale il diritto è affascinato dall’algoritmo, e non per una fascinazione estrinseca o estemporanea, ma perché l’algoritmo sussurra al nostro orecchio che esso può risolvere il problema atavico del diritto stesso: quello dell’incertezza e dell’inefficacia. Un diritto che si applichi automaticamente, sulla base di uno schema binario come quello digitale, è il sogno nascosto di ogni utopia (o distopia) centrata sull’ordine giuridico. Non sto evocando lo ‘spettro’ più o meno futuristico del giudice telematico[8], sto parlando di cose che abbiamo sotto gli occhi e che fanno già ampiamente parte della nostra vita quotidiana. La telecamera posta a guardia di un varco ztl è incomparabilmente più efficace di un’intera truppa di vigili urbani. Ma se è chiaro cosa si guadagna, siamo altrettanto consapevoli di cosa si perde procedendo alla digitalizzazione del diritto? Possiamo ridurre tutte le questioni sociali che devono essere giuridicamente regolate allo schema “si/no”, “dentro/fuori”? Quanta capacità di giudizio e di discernimento — e quindi: quanta saggezza giuridica — perdiamo procedendo su questa strada?
C’è comunque un fatto di cui dobbiamo fare tesoro: sebbene non sappiamo fino a che punto il diritto possa automatizzare il suo funzionamento, sappiamo però che anche il diritto più meccanico non può fare a meno dell’uomo chiamato a dare le ‘istruzioni’ che gli servono per far funzionare i suoi meccanismi: di nuovo, cioè, a fissare limiti e a porre condizioni.
Occorre quindi avere molta immaginazione, di qui in avanti, per rendere possibili cose che oggi pensiamo impossibili e soprattutto per evitare che il diritto sia sopraffatto e travolto dalla forza dei nuovi poteri. Ma per farlo, bisogna studiare e prepararsi adeguatamente. Non è possibile rinnovare un paesaggio senza prima conoscerlo profondamente e senza avere piena consapevolezza del contributo che possiamo ricevere da quelle realtà che solo apparentemente sono estranee a quel paesaggio. Il diritto che deve confrontarsi con un mondo ipertecnologico ha bisogno di imparare anche dall’arte e dalla letteratura, così come ha bisogno di conoscere la tecnica che vuole regolare e, ovviamente, di padroneggiare la tradizione giuridica che gli fornisce gli strumenti essenziali per farlo. Se è vero, come ha detto il Maestro Pistoletto in una sua intervista, che «le cose rimangono impossibili finché non vengono pensate», occorre ribadire che il pensiero, anche quello più innovativo, non nasce dal nulla ma cresce in una tradizione che è capace di coltivarlo nella maniera migliore, e cioè con la maggiore apertura possibile anche a ciò che gli è (apparentemente) estraneo.
* Intervento alla cerimonia di inaugurazione del corso di laurea in Diritto dell’innovazione per l’impresa e le istituzioni, Palazzo della Sapienza, Pisa, 27 ottobre 2020.
[1] Ottima l’introduzione di P. Heritier, Humanities. Umanesimo e svolta affettiva, in A. Andronico, T. Greco, F. Macioce (a cura di), Dimensioni del diritto, Giappichelli, Torino 2019, pp. 441-468.
[2] U. Breccia, Cinema e diritto, in «ISLL. Italian Society for Law and Literature», 2/2010. Si veda però il recentissimo volume a cura di O. Roselli, Cinema e diritto. La comprensione della dimensione giuridica attraverso la cinematografia, Giappichelli, Torino 2020.
[3] N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Roma-Bari 1998.
[4] Il testo da cui muovere per avvicinarsi a questa riflessione, fondamentale anche e soprattutto per i giuristi, è J. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006.
[5] F. Galgano, Il diritto e le altre arti. Una sfida alla divisione tra le culture, Editrice Compositori, Bologna 2009, p. 11-12.
[6] Idea tipica, questa, della tradizione repubblicana, sulla quale si veda l’ottima introduzione di M. Viroli, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999.
[7] Non posso che rimandare a un lavoro che andrebbe letto e meditato da quanti sono impegnati nella formazione giuridica: G. Pascuzzi, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna 2018.
[8] In una letteratura che sta diventando sempre più ampia mi limito a segnalare: A. Garapon-J.Lassègue Justice digitale. Révolution graphique et rupture anthropologique, Puf, Paris 2018; C.V. Giabardo, Il Giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare), in «Giustizia Insieme», 9 luglio 2020 (www.giustiziainsieme.it).
Emergenza sanitaria e organizzazione degli uffici. Il ruolo dell’autogoverno
di Chiara Gallo
Mentre nel paese la situazione emergenziale legata alla pandemia assume dimensioni che destano sempre maggiore preoccupazione, agli occhi del legislatore il mondo giudiziario sembra essere un’isola felice dove è magicamente cessato ogni pericolo di contagio.
La lettura delle norme del 137\2020 (c.d. Decreto Ristori) in materia di giustizia rende evidente come l’assetto organizzativo emergenziale previsto soprattutto nel settore penale, sia inadeguato allo scopo per cui le norme sono state adottate, ovvero il contenimento del pericolo di contagi.
E non è un caso che la maggiore inadeguatezza riguardi le previsioni relative all’attività giudicante penale, settore al quale nessuno degli ispiratori della modifica normativa appartiene, che proseguirà senza alcun tipo di sospensione e quasi tutta in presenza, senza nessun intervento organizzativo di logistica o dotazione di mezzi che possa incidere sul flusso di presenze o quantomeno renderlo maggiormente controllabile.
Soprattutto con il nuovo decreto appare definitivamente archiviata l’esperienza che ha costituito una novità assoluta nel panorama legislativo, conseguente alla scelta di affidare ai dirigenti degli uffici giudiziari la modulazione del flusso degli affari sulla base delle esigenze connesse alla situazione emergenziale, collegando tali scelte organizzative all’operatività di norme processuali come quelle sulla decorrenza dei termini di prescrizione e decadenza nei procedimenti civili e sui termini di prescrizione e di durata delle misure cautelari nel settore penale.
L’art. 83 comma VI del DL 18 del 17.3.2020 aveva previsto, per la c.d. fase 2, ossia quella successiva al periodo di sospensione ex lege di attività di udienza e termini processuali, un ruolo attivo dei dirigenti nel contrasto all’emergenza epidemiologica, ponendoli al centro dell’interlocuzione tra le autorità regionali locali e l’avvocatura e attribuendo loro il potere-dovere di adottare le misure organizzative necessarie a tal fine, “anche relative alla trattazione degli affari giudiziari” .
E tra le misure specificamente elencate nel comma 7 dell’art. 83, vi erano l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, la previsione del processo da remoto o cartolare delle udienze civili, la previsione di rinvio delle udienze dopo il 30.7.2020.
In materia penale il successivo comma 9 dell’art. 83 prevedeva che il corso della prescrizione, i termini di fase delle misure cautelari e il termine previsto per la decisione del Tribunale del Riesame rimanessero sospesi per il periodo in cui il procedimento veniva rinviato ai sensi della lettera g) del comma 7, ossia sulla base delle previsioni adottate dai dirigenti degli uffici.
Tale opzione legislativa era stata fortemente criticata, soprattutto dall’avvocatura, per il potere attribuito ai dirigenti di incidere negativamente sui diritti degli imputati, prolungando i termini di prescrizione dei reati e soprattutto quelli di durata delle misure cautelari, in assenza di criteri di legge per l’adozione dei provvedimenti di rinvio diversi dalle eccezioni indicate nel comma 3.
Ma al netto delle criticità sopra evidenziate tale scelta normativa ha, in concreto, inaugurato un percorso virtuoso attraverso il quale si sono ampliati gli spazi di intervento del circuito dell’autogoverno nell’organizzazione degli uffici, in un’ottica di gestione partecipata, finalizzata al raggiungimento di obiettivi di efficienza e qualità.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera del 26.3.2020, è tempestivamente intervenuto in via preventiva, attraverso linee guida destinate a rendere il più possibile omogenea l’organizzazione dell’attività giudiziaria demandata ai dirigenti dalla legislazione emergenziale, fornendo indicazioni assai dettagliate in merito alle modalità di svolgimento delle attività nei diversi settori e predisponendo anche format di protocolli per la trattazione delle udienze da remoto o cartolare, contenenti previsioni il più possibile rispettose del principio del contraddittorio e del diritto di difesa.
Le delibera su tali linee guida ha anche consentito, per la fase emergenziale, un utilizzo più flessibile degli strumenti atti a supplire alle assenze di magistrati e alle carenze di organico negli uffici, prevedendo la possibilità di ricorrere, con decreto immediatamente esecutivo del Presidente della Corte d’Appello o del Procuratore Generale, all’assegnazione di magistrati distrettuali e alle tabelle infradistrettuali, in deroga alle previsioni della circolare 108 del 2018, per la trattazione dei procedimenti indifferibili non gestibili tramite le assegnazioni interne.
Sebbene la delibera del CSM richiedesse la trasmissione alla Settima Commissione dei soli provvedimenti di carattere generale assunti ai sensi dell’art. 83, comma 7 lettere d) del D.L. 18/2020 (ovvero le linee guida vincolanti per la trattazione delle udienze) nonché di quelli di rinvio delle udienze - oltre che naturalmente delle variazioni tabellari temporanee limitate al periodo di emergenza ed i provvedimenti di applicazione, di supplenza e coassegnazione infradistrettuali - di fatto è accaduto che tutti i provvedimenti adottati dai dirigenti degli uffici, sia quelli strettamente tabellari, sia quelli di carattere logistico ed organizzativo degli uffici, intesi nella loro materialità, sono stati inseriti nel percorso di controllo dell’autogoverno e sono passati al vaglio dei Consigli Giudiziari e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Con ciò consentendo una ampia raccolta di dati ed informazioni, utile ad avere una visione completa dei singoli uffici giudiziari e del loro funzionamento ed effettuare una verifica delle diverse criticità.
Un ruolo attivo in questo percorso è stato svolto dai Consigli Giudiziari che, operando in composizione allargata ratione materiae e, dunque, in un confronto diretto con l’avvocatura locale hanno, in prima battuta, esaminato i provvedimenti adottati dai dirigenti dei diversi uffici dello stesso distretto, confrontandoli tra loro e potendo verificare le singole criticità o le difformità tra le diverse scelte non giustificate da differenti situazioni degli uffici.
E proprio in sede di autogoverno locale è stata delineata la possibilità di svolgere, nel periodo emergenziale, una funzione ricognitiva delle scelte organizzative, non limitata ai soli provvedimenti di natura tabellare, e riconducibile al potere di vigilanza sugli uffici attribuito ai Consigli Giudiziari dall’art. 15, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 25/2006 e richiamato dai regolamenti interni di tali organi.
In questa direzione si è mosso il Consiglio Giudiziario di Genova che, con delibera del 28.7.2020, ha formulato un quesito al CSM con cui chiedeva se rientrasse nelle funzioni proprie dell’organo locale effettuare una ricognizione delle scelte organizzative compiute dai dirigenti del distretto, durante la fase emergenziale, sia con riferimento ai provvedimenti incidenti sulla organizzazione delle udienze sia con riferimento a quelli relativi alla gestione delle aule, al fine di esaminarli e individuare eventuali criticità. E ciò sulla base del presupposto che tali provvedimenti, pur non avendo natura strettamente tabellare in quanto di competenza esclusiva del dirigente quale datore di lavoro, rientrano tra quelli che, a norma dell’art. 44 della circolare sulle tabelle (oggi art. 46) devono essere trasmessi al Consiglio Giudiziario.
Nella risposta al quesito il CSM ha fornito importanti chiarimenti sulla portata dei compiti di vigilanza attribuiti ai Consigli Giudiziari che sembrano preludere ad una nuova visione dell’attività di vigilanza. E’ stato ribadito, secondo quanto affermato nella risoluzione del primo luglio 2010 sul ruolo di vigilanza degli uffici svolto dai Consiglio Giudiziari, che l’attività di vigilanza è ritenuta funzionale “anche alla diffusione di buone prassi ed alla verifica periodica dell’andamento degli uffici giudiziari, in una prospettiva che non è più soltanto di mero controllo ma è, soprattutto, di promozione di modelli organizzativi efficienti “ e che “ai Consigli giudiziari spetta, oltre che la verifica in ordine ad eventuali disfunzioni verificatesi nei singoli uffici, anche l’attivazione di meccanismi idonei a prevenire situazioni di disservizio”.
Il CSM ha osservato che nella stessa risoluzione del 2010 si erano indicati, come possibile oggetto dell’attività di vigilanza, “sia la individuazione e la verifica di disfunzioni connesse all’attuazione del progetto e delle previsioni tabellari” sia la ricognizione “di segnalazioni relative a disfunzioni organizzative o dei servizi amministrativi”.
Sulla base di tali principi l’attività ricognitiva delineata nel quesito del Consiglio Giudiziario di Genova, è stata ritenuta attinente alla verifica dell’andamento degli uffici giudiziari, e rientrante nei compiti dell’organo locale con il limite, insito nell’art. 15 del DL.vo 25\2006, di non poter trasmodare in un controllo diretto sull’operato svolto dai singoli dirigenti degli uffici.
Il percorso così delineato partito dalla scelta del legislatore di coinvolgere i dirigenti degli uffici nella gestione dell’emergenza sanitaria ha, dunque, consentito di riprendere, anche attraverso casi ed esperienze concrete, una riflessione sulla gestione partecipata dell’attività degli uffici che, soprattutto in momenti di criticità, si rivela l’unica modalità per perseguire obiettivi strettamente connessi tra loro: quello di offrire un servizio di qualità, nel rispetto delle norme a tutela dei diritti, anche in una situazione di riduzione quantitativa del flusso degli affari e di difficoltà logistiche e quello di assicurare condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro a tutela degli stessi lavoratori e dell’utenza anche in un’ottica di salvaguardia del benessere psicofisico dei magistrati.
Le nuove diposizioni hanno, forse troppo ingenerosamente, interrotto questo percorso escludendo la magistratura dalle scelte organizzative nella rinnovata fase emergenziale.
Infatti gli artt. 23 e 24 del DL 137\2020, che ricalcano il contenuto di una proposta a doppia firma dell’organo rappresentativo delle Camere Penali e di un gruppo di Procuratori della Repubblica e che non prevedono alcuna ipotesi di sospensione dell’attività giudiziaria, pongono, soprattutto nel settore penale, limitazioni al “processo telematico” di tale portata da rendere tale modalità del tutto residuale e inidonea a ridurre l’afflusso di persone negli uffici giudiziari.
La tecnica legislativa prescelta è stata quella di formulare, al comma 5 dell’art. 23 una regola generale sull’utilizzo del processo da remoto per la trattazione delle udienze penali, disciplinandone minuziosamente le modalità esecutive, cui seguono una serie di eccezioni che di fatto svuotano la portata applicativa della regola. Sono, infatti, escluse dalle modalità da remoto le tipologie di udienze che costituiscono il fulcro dell’attività penale e che portano maggior afflusso di persone nei Tribunali, ossia le udienze nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti e le udienze in cui si procede alla discussione sia in fase dibattimentale sia in fase di giudizio abbreviato. L’esclusione si estende anche alle udienze preliminari e più in generale a quelle dibattimentali, salvo il consenso delle parti. Non fanno eccezione neppure le udienze con un numero di imputati tale da non rendere possibile il rispetto del distanziamento nelle aule.
L’attuale normativa lascia, dunque, uno spazio ristrettissimo per il processo da remoto nel settore penale limitandolo ad udienze (come quelle a seguito di opposizione all’archiviazione o di incidente di esecuzione) che, stante il numero e la tipologia, non pongono particolari problemi di afflusso di persone negli uffici giudiziari. A ciò si deve aggiungere che, in assenza di qualsivoglia indicazione sulle modalità di acquisizione del consenso sarà sostanzialmente impossibile, soprattutto per i processi già fissati, utilizzare il processo da remoto per le udienze preliminari o le udienze dibattimentali diverse da quelle istruttoria e di discussione.
Nessuno spazio è poi lasciato a forme di trattazione cartolare delle udienze nel settore penale, come invece era avvenuto nella vigenza della precedente normativa attraverso l’adozione di protocolli tra dirigenti degli uffici e rappresentanti dell’avvocatura per alcune tipologie di udienze camerali.
L’assenza di qualsivoglia spazio decisionale lasciato alla magistratura nell’organizzazione dell’attività giudiziaria nella fase attuale e la rinuncia al contributo, che solo chi lavora sul campo è in grado di apportare, soprattutto nella valutazione delle ricadute concrete di scelte normative così decisive per il prossimo futuro, appare una scelta poco comprensibile e distonica rispetto all’impostazione iniziale, che aveva visto innescarsi una positiva attivazione di tutte le forze in campo verso soluzioni razionali e condivise.
Ma questo non significa che l’esperienza vissuta non possa costituire la base per un rinnovato impegno, finalizzato, anche nell’auspicato ritorno a condizioni di normalità, a ricercare strumenti concreti per la realizzazione di benessere organizzativo coniugato ad un servizio di qualità che solo una forte partecipazione di tutti alle scelte organizzative può garantire.
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