ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione di Umberto Apice a "ALLA FINE, BALORDI". Gli uomini non illustri di Massimo Ferro.
Perché Massimo Ferro, magistrato notissimo in ambito forense e negli ambienti della dottrina giuridica, non è anche un autore celebre?
Questo suo ultimo libro (Alla fine, Balordi può essere definito un romanzo, anche se tecnicamente è una raccolta di racconti, che sono però accomunati da un’identica atmosfera ) è il suo terzo di narrativa: il primo fu Misericordiae ( 8.38 ), Novecento editore, 2013, vincitore della VII edizione del Premio letterario RIPDICO - Scrittori della Giustizia; il secondo fu Non avrai le mie parole, Novecento editore, 2014. E con esso Ferro si conferma uno scrittore vero, di quelli che nascono scrittori. Da che cosa si capisce? Basta leggere una pagina a caso ( una qualsiasi: è sicuro che presenterà le sue perle e nello stesso tempo il suo elevato tasso di complessità ). Da quella pagina balzerà fuori la caratteristica fondamentale della sua scrittura e del suo mondo morale: Ferro è tormentato prima di tutto dalla voglia di scoprire qualcosa di più sulla vita e sugli uomini, su noi stessi, lui compreso; e poi dalla voglia di implicare il lettore, di scuoterlo, di farlo partecipare e soffrire. E’ chiaro che quando un libro si presenta con queste credenziali al lettore capiterà di spazientirsi, ma non può piantarla lì ( almeno, se è un lettore serio ): non mollerà, anche quando vorrebbe che un personaggio si decidesse e facesse sapere che cosa ha deciso di fare, senza tenerci ancora col fiato sospeso. Lo stesso linguaggio è spiazzante, sincopato, spesso paratattico, ma non privo di complicate ipotassi, in una tensione stilistica tra narratore e personaggio; tensione che arriva all’estremo che in ogni situazione il lettore si trova davanti l’aggettivo più insolito o addirittura l’alternanza del punto di vista ( che ora è espresso con un io e ora con la terza persona ).
E allora torniamo all’interrogativo con cui abbiamo iniziato: può essere celebre uno scrittore che, come segno particolare, presenta questo rigore morale? E in un panorama culturale nel quale i lettori premiano gli scrittori della serialità più sciatta e più sconfortante? No: la risposta, che non può essere più ovvia, va tutta ad onore di Ferro.
I dodici personaggi del libro ( dodici quante sono le località che contraddistinguono i dodici capitoli: luoghi immaginari, che vengono a costituire un faulkneriano universo disperso ) vivono o hanno vissuto esistenze prive di grandi avvenimenti o, per loro sfortuna, si sono trovati a subire una sola tragica esperienza, che è diventata l’ossessione della loro vita. Non possono mai illudersi di aver trovato una piattaforma dove regna la tranquillità. No. Tutti sono condannati a portarsi appresso i loro demoni, le loro nevrosi, grandi o piccole. In qualche modo sono i parenti stretti di quegli “ uomini non illustri ” resi immortali dalla narrativa di Giuseppe Pontiggia: anche loro attanagliati da una trama segreta, personale o familiare, di ricordi ed angosce.
Qualche esempio sarà più illuminante di tante parole.
Oreste Bertani. Un professore sulla soglia del pensionamento e in ansia per l’attesa di un responso di biopsia ritorna in un ristorante dove era stato in gioventù e rievoca come si fece adescare da una sguattera del locale. Una ragazzina. Una vergogna che gli ha lasciato il segno.
Gemma Albinati. Un amore tra i banchi di scuola. Amore incompiuto fino a cinquant’anni dopo, quando i due ragazzi di allora si incontrano e subentra l’angoscia di svelarsi l’una all’altro: “ Ci stavamo immaginando, i capelli già bianchi e radi di lui, le pelli intrise di vita e stagioni entrambi, anch’io segnata attorno agli occhi. E più giù. Quei teli puliti e messi a festa servirono a nasconderci, impedendo alla vista di sapere chi fossimo.”
Silvia Perletti, una dirigente di azienda con trentadue anni e sei mesi di anzianità. La sua pena segreta è il ricordo di un figlio vissuto soltanto trentotto ore e otto minuti, così che lei in giro diceva “ di essere stata almeno per un po’ madre ”. Il suicidio arriverà - naturale e inaspettato, secondo la formula di Henry James - al termine di un meeting di lavoro e con un salto nel vuoto dalla stanza di albergo all’estero: “ Qui ho finito. E anche il settimo piano, da quassù, sarà abbastanza alto. [...] Indosso, ora porto le mutande arrivate in regalo da mia sorella. Appena messe. Così almeno, quando mi ritroveranno laggiù, si consoleranno per i miei pensieri alla famiglia.”
Amedeo Saviotti. Un ragazzo che dal paese di nascita si trasferisce in città per studiare e diventare ingegnere. Ci ritorna per i funerali di un compagno di scuola, che era stato manesco e intrattabile. Commentano i vecchi compagni: “ Se n’è andato così, perdendo le forze come un serbatoio vuoto. Non riusciva a spingere nemmeno la leva del trattore. Né a salirvi.” Mentre l’ingegnere, vedendo le mani giunte del morto, e il rosario arrotolato alle dita grosse, se ne sta distante, “ almeno un passo, come a temere che se si alza m’arriva una manata in faccia ”.
Agostina Montero. Storia di un padre - padrone e di violenze in famiglia rievocate dalla figlia il giorno in cui l’aguzzino muore e quando la vittima già da molti anni è lontana dal suo giogo. Fermo e deciso il suo rifiuto di ritornare al paese per partecipare ai funerali. Realismo e oggettività agghiaccianti, pur nel distacco e nell’assenza di giudizio. “ Restai coricata, chiudendo gli occhi mentre le mani, le mie, cooperavano a togliere i vestiti. Riposti sotto la schiena. “ Così non ti salgono le formiche ” mi fu bisbigliato insieme a un bacio che mi portò via ogni secchezza dalla bocca. Annuii all’ordine condiviso.” L’iniziazione all’oscena consuetudine non poteva essere espressa con maggiore laconicità: alla pari, quasi, con la manzoniana risposta della “ sventurata ”.
Dodici microromanzi. Viene da dire che il mondo di questi uomini e di queste donne è un mondo mediocre, sgualcito ( rubando la definizione a Geno Pampaloni che l’applicò ai “ non illustri ” di Pontiggia ): manie, desideri innaturali, adulteri, matrimoni sbagliati, ambizioni male apposte. E spesso questi personaggi hanno una vita parallela, sotterranea, fatta di sentimenti, ricordi e desideri, che sono segreti, e perciò si tratta di una vita clandestina. Il narratore - sembra che dica Ferro - deve preoccuparsi di una sola cosa: andare alla ricerca di quel pathos, di quel sordido, di quella violenza, che si trovano nella vita clandestina. E non importa se in questa ricerca gli capiterà di entrare in un tunnel di ambiguità. La vera letteratura si manifesta soprattutto nell’ambiguità: perlomeno, la letteratura che non vuole essere solo testimonianza (che sarebbe un ruolo riduttivo), ma ambisce a un ruolo preminente sul terreno cognitivo.
“Il diritto alla speranza davanti alle Corti” di Dolcini, Fiorentin, Galliani, Magi e Pugiotto, una lettura in attesa della Corte Costituzionale su ergastolo ostativo e liberazione condizionale.
Recensione di Fabio Gianfilippi
La speranza è costruzione. Building bridges, l’installazione monumentale di Lorenzo Quinn per la Biennale Venezia del 2019, campeggia sulla copertina di Il diritto della speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, volume con una prefazione del prof. Francesco Palazzo e gli interventi di cinque giuristi da tempo impegnati, da punti di vista diversi (docenti universitari, giudici di legittimità e di merito), nella riflessione critica sullo spazio dell’ergastolo nel nostro sistema costituzionale e convenzionale, in particolare nella sua forma c.d. ostativa, prevista per i condannati in relazione ai delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit.
Sei paia di braccia si intrecciano, enormi, a lanciare ponti impercorribili sulle acque dell’Arsenale. Ognuna simboleggia un sentimento universale che, appunto, costruisce. Tra questi, ovviamente, la speranza. E’ un tempo, il nostro, in cui le mani non possono stringersi, a causa del virus. Un tempo in cui si fa fatica persino a concepire il venirsi incontro. Costruire ponti tra persone, idee e punti di vista diversi richiede allora il genio dell’artista e un sovrappiù di lungimiranza.
L’immagine scelta, che non è qui mero orpello, ci conduce alla lettura di un testo che, séguito degli studi già pubblicati nell’anno 2019 da Dolcini, Fassone, Galliani, Pinto de Albuquerque e Pugiotto, con il titolo Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, continua ad approfondire lo stato dell’arte in materia di ergastolo ostativo, estendendo la sua indagine al regime differenziato in peius di cui all’art. 41- bis ord. penit., per più ragioni strettamente connessi. Non tanto, e non solo, perché gli ergastolani ostativi siano sottoposti a quel regime, poiché anzi ve ne sono non pochi che, anche da molto tempo, non sono più considerati, o non lo sono mai stati, portatori di una pericolosità sociale tanto qualificata da richiedere l’imposizione di quel regime eccezionale di sospensione di molte regole trattamentali. Piuttosto perché una pena perpetua non aperta, in difetto di collaborazione con la giustizia, ai permessi premio o alla liberazione condizionale e un regime differenziato in cui si prevedano limitazioni meramente afflittive e non funzionali agli scopi del 41-bis, pongono interrogativi urgenti in materia di diritti fondamentali, che hanno già condotto a pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte Costituzionale che si sono rapidamente succedute negli ultimi anni. Un materiale che si è già rivelato fertile di conseguenze in sede giurisprudenziale, di merito e legittimità, con il quale è dunque essenziale confrontarsi.
Le riflessioni sullo stato dell’arte. Il testo che si commenta è dunque, attraverso i diversi contributi che lo compongono, innanzitutto livre de chevet sul senso costituzionale delle pene, anche come antidoto a vecchie tentazioni carcerocentriche e al sempre nuovo populismo penale, incapace di leggere nell’individualizzazione del trattamento e nella discrezionalità rimessa alla magistratura di sorveglianza la formula in grado di inverare l’art. 27 della Costituzione e di garantire perciò anche la sicurezza della collettività (vd. la riflessione di Dolcini, Pena e Costituzione).
E si fa poi vero e proprio bedeker indispensabile per leggere criticamente le pronunce più recenti ed incisive sul tema emesse innanzitutto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Si affronta dunque la sentenza Provenzano c. Italia che, se ribadisce ancora una volta la compatibilità del regime del 41-bis con i principi fondamentali della Convenzione, richiede allo Stato una immancabile valutazione specifica ed attualizzata della necessità dell’imposizione del regime anche nei confronti di un soggetto gravemente malato, la cui capacità di mettersi in relazione con i sodali all’esterno, e dunque la sua pericolosità concreta, deve essere puntualmente vagliata, e non può essere oggetto di proroghe automatiche (vd. i contributi di Magi, L’incidenza delle condizioni di salute ai fini della ingiustiza del trattamento carcerario differenziato e Galliani, Una sentenza scontata. Il caso Provenzano e l’individualizzazione del regime detentivo differenziato). E si approfondisce la sentenza Viola n. 2 c. Italia, che affronta, come noto, il tema della non compatibilità con i principi convenzionali, ed in particolare con l’art. 3 CEDU, dell’ergastolo ostativo, in quanto costituente una pena che, poggiando sulla presunzione di pericolosità sociale costituita dall’assenza di collaborazione con la giustizia, sottrae al condannato un riesame nel merito del proprio percorso di ravvedimento, con ciò confliggendo con la tutela della dignità umana (vd. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana; Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena; Galliani e Pugiotto, L’ergastolo ostativo non supera l’esame a Strasburgo (a proposito della sentenza Viola c. Italia n. 2).
Le riflessioni si volgono poi verso la sentenza Corte Cost. 23 ottobre 2019 n. 253, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio, anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti (vd. i contributi di Galliani e Magi, Regime ostativo e permesso premio. La Consulta decide, ora tocca ai giudici e Pugiotto, La sent. 253/2019 della Corte Costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria) cui si aggiunge il significativo approfondimento anche sulla sentenza Corte Cost. 5 novembre 2019 n. 263, che interviene con un “secondo colpo di piccone” sul regime delle ostatività, considerandolo, almeno per il settore minorile, incompatibile del tutto, e non soltanto come presunzione assoluta invece che relativa, con la funzione costituzionale assegnata in quel contesto alla pena (vd. Pugiotto, Due decisioni radicali della Corte Costituzionale in tema di ostatività penitenziaria: le sent. nn. 253 e 263 del 2019).
La documentazione. La seconda parte del testo contiene una importante selezione di decisioni della Corte Costituzionale intervenute a rimuovere singole limitazioni, ritenute non funzionali agli scopi del 41-bis, che vi erano state introdotte, nel testo del co. 2-quater, con la l. 94/2009. Le formule utilizzate dalla Consulta, richiamando propri precedenti, sono eloquenti: “anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”.
Sono inoltre offerti ai lettori la Relazione della Commissione parlamentare antimafia sul 4-bis alla luce della sent. Corte Cost. 253/2019, che contiene anche proposte di riforma del testo (non esenti da critiche, almeno nella misura in cui non tengono in adeguato conto il riparto naturale di competenza nella materia di sorveglianza, e la sua ratio di prossimità alla persona condannata, per consentire al giudice di conoscerne approfonditamente il percorso trattamentale), nonché di ulteriori recenti contributi della giurisprudenza di legittimità e di merito sui regimi ostativi.
Una posizione centrale è di fatto attribuita all’ordinanza della Corte di cassazione 3 giugno 2020 n. 18518 con la quale la S.C. ha proposto questione di legittimità costituzionale degli art. 4-bis e 2 dl 152/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
La pronuncia della Corte Costituzionale è attesa per il prossimo 24 marzo e gli Autori pubblicano in questo contesto, dopo le ampie riflessioni contenute nella prima parte del testo sulla sent. 253/2019, di cui la questione pendente è considerata un seguito naturale, anche i cinque Amici Curiae che, significativamente, Antigone, Macrocrimes, Nessuno tocchi Caino, L’Altro Diritto e il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, hanno voluto presentare alla Consulta in quel procedimento.
In un certo senso tutto il percorso di approfondimento critico, che costituisce lo speciale valore dell’opera in commento, conduce verso questo ulteriore significativo passaggio di un cammino che, mediante successive approssimazioni, evoca la speranza del superamento dell’ergastolo ostativo e se ne fa portatrice, pur nella consapevolezza dei rischi involutivi del sistema, non taciuti nella sua Prefazione da Francesco Palazzo.
Leggendo l’ordinanza di rimessione. La lettura dell’ordinanza di rimessione della S.C. n. 18518 restituisce d’altra parte il senso di una naturale evoluzione delle argomentazioni utilizzate dalla Corte nella sent. 253/2019. Si nutre dei riferimenti leggibili nella giurisprudenza costituzionale circa la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio, in quell’occasione liberato dalla preclusione assoluta connessa alla mancanza di collaborazione con la giustizia, e restituito alla prudente ed informata discrezionalità del magistrato di sorveglianza, e di fatto chiede che quell’esperimento non resti un esercizio vano di libertà temporanea, ma costituisca il mattone utile a rendere percorribile una strada di ben più ampia prospettiva, che conduca appunto alla trasformazione della pena perpetua in una misura come la liberazione condizionale, che riconduce il condannato pienamente nella società. Una strada, sia pure difficile e tutta in salita, che non somigli a certe ciclabili nelle nostre città che, per l’errore del pianificatore, finiscono contro un muro.
Il permesso premio, con gli occhi di un magistrato di sorveglianza, ha in effetti una evidente funzione di stimolo all'approfondimento dei risultati raggiunti ed apre naturalmente alla possibilità che il fruirne nel tempo e con regolarità, in assenza di eventuali involuzioni comportamentali, faccia emergere un sempre più convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato e produca uno sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati, influenzi condotte di aperta dissociazione o persino condotte collaborative. Perché ciò possa effettivamente avvenire, però, deve essere preservata una prospettiva al fondo della strada, rappresentata dalla speranza di accedere ad una misura alternativa, come nel caso di specie la liberazione condizionale. Ciò consente di riempire di nuova efficacia i benefici premiali concessi e di un senso più profondo l’esercizio di responsabilità che è richiesto a chi ne beneficia nel far rientro regolarmente in carcere e nel rispetto pieno delle prescrizioni.
Se il percorso è aperto a questa conclusione si evita che il condannato si adagi nel trascorrere degli anni in una istituzionalizzazione inerte e si stimolano gli operatori penitenziari, affinché investano pienamente tempo e risorse sulla osservazione scientifica della personalità anche del condannato alla pena dell’ergastolo, non svuotando il senso del tempo trascorso in detenzione, che indefettibilmente deve tendere alla rieducazione (e nel caso sottoposto alla Corte Cost. si parla di una pena perpetua iniziata circa venti anni fa).
L’ordinanza della cassazione appare in tal senso anche in sintonia con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, maturato a partire dal caso Vinter e a. c. Regno Unito, secondo la quale sussiste l'obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena dell'ergastolo possa contare su un riesame certo della perpetuità della sua pena, conoscendone dall'inizio dell'espiazione tempi e presupposti, e che sia prevista dunque una periodica verifica dei progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento, al fine di valutare la permanenza dei motivi che ne giustifichino il mantenimento in detenzione, e dettagliato, rispetto ad una posizione in tutto speculare a quella oggi rimessa al vaglio della Consulta, nella sentenza Viola n. 2 c. Italia.
Quest’ultima pronuncia, così approfondita nelle già citate riflessioni della prima parte del Diritto alla speranza davanti alle Corti, è d’altra parte a sua volta particolarmente informata alla nostra giurisprudenza costituzionale, in un virtuoso mescolarsi di temi concordanti, e mostra la peculiare attenzione dei giudici di Strasburgo alla drammaticità del fenomeno mafioso nel nostro paese, a differenza di quanto superficialmente affermato a caldo, dopo la notizia della sentenza. Ed è proprio riguardo alla mafia che la Corte Edu afferma che: “la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti”. (par. 130).
Il condannato all’ergastolo ostativo, nelle parole della Corte Edu, finisce invece per trovarvisi, poiché è posto “nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo di ordine penologico che giustifichi il suo mantenimento in detenzione (…), mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna (…) la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena.”(cfr. par. 128 e 129).
La questione torna dunque oggi ad interpellare il giudice delle leggi, chiedendogli di proseguire nell’intrapreso percorso di relativizzazione delle preclusioni contenute nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., soltanto in questo modo coerenti al disegno costituzionale per il quale la funzione di risocializzazione della pena non può mai essere pretermessa, neppure a fronte del più terribile dei reati, con una conseguente piena restituzione alla magistratura di sorveglianza del compito di valutazione nel merito delle posizioni dei condannati che le sono affidati.
Nel caso della liberazione condizionale, oggi in questione, ciò significherebbe consentirle di esaminare l’eventuale sussistenza del ravvedimento richiesto dalla norma, e declinato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso ben colto dalla CEDU, mediante la ricerca nel condannato di “comportamenti oggettivi dai quali desumere la netta scelta di revisione critica operata rispetto al proprio passato, che parta dal riconoscimento degli errori commessi e aderisca a nuovi modelli di vita socialmente accettati” (cfr. cass. 45042/2014) o ancora “comportamenti positivi dai cui poter desumere l'abbandono delle scelte criminali, e tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato.” (cass. n. 486/2015 e 11331/2019). Senza dubbio molto più della buona condotta richiesta per l’ottenimento di un permesso premio, ma insieme anche altro rispetto alla collaborazione con la giustizia (diversa quest’ultima anche concettualmente, per come comprensibile dalla disciplina speciale di concessione dei benefici nei confronti dei collaboratori di giustizia, che richiede il ravvedimento come requisito ulteriore: cfr. cass. 19854/2020).
Si tratterebbe di proseguire in un percorso, si diceva, che è certamente informato e nutrito dalle decisioni della CEDU, ma che affonda le sue radici nella consolidata giurisprudenza costituzionale, che ci restituisce una lettura dell’esecuzione penale come un tempo destinato inevitabilmente ad accogliere i cambiamenti, positivi e negativi, della persona, che deve essere in grado di conoscere dal momento in cui commette il reato (cfr.sent. Corte Cost. 32/2020) quando e come potrà vedersi rivalutato ed apprezzato per ciò che, dopo il reato, anche il più terribile (cfr. sent. Corte Cost. 149/2018) è oggi. Al fondo di una pena che porti pure il nome dell’ergastolo, dovrebbe dunque sempre residuare l’alternativa tra la perpetuità, che inevitabilmente attenderebbe chi non volesse mettere seriamente in discussione il proprio stile di vita e pensiero antisociale, e la speranza di poter incontrare un giorno pienamente la società.
E’ ancora una volta la sentenza Viola a ricordarci come, in assenza di un momento di rivalutazione come quello che nel nostro ordinamento sarebbe offerto dalla liberazione condizionale, appaiano insufficienti allo scopo gli strumenti della grazia presidenziale, per altro mai comminata ad un condannato alla pena dell’ergastolo “ostativo”, ed anche il rimedio della sospensione della pena per motivi di salute, che risponde a finalità umanitarie e che comunque è sempre sottoposto a una rivalutazione in tempi brevi e, a seguito del recente dl 28/2020 convertito in l. 70/2020, all’immediato ripristino della carcerazione, ove si riscontri un qualche miglioramento delle condizioni che lo hanno determinato.
L’intervento della Corte potrebbe dunque restituire compiutamente le disposizioni normative contenute nell’art. 4-bis ord. penit. ad una funzione di stimolo al discernimento del giudice e di necessario approfondimento istruttorio sotto il profilo della pericolosità sociale attuale dell’interessato, come originariamente nel 1991. Non più uno stigma indelebile, salvo che con la gomma abrasiva della collaborazione con la giustizia, ma un meccanismo, per quanto presidiato da regole probatorie che gli Autori del libro non mancano di sottoporre a critica, per come elaborate dalla stessa Corte Costituzionale con la sent. 253/2019, e verosimilmente da riproporsi qui, che consenta al giudice di interrogarsi sulle molteplici, e spesso drammatiche, ragioni per le quali la collaborazione non sia apparsa all’interessato una soluzione praticabile (posto comunque che neque captivus tenetur alios detegere, verrebbe da dire con la Consulta), e non lo privi della speranza, senza la quale la pena perde l’abbrivo che è indispensabile perché si possa intraprendere un credibile percorso di responsabilizzazione.
Le mani che si incrociano sulle acque della laguna veneta aprono alla lettura di un testo che è tutto percorso dal filo rosso di questa speranza, il cui diritto è evocato in modo esplicito nella stessa ordinanza n. 18518 di rimessione alla Corte Costituzionale. Braccia e mani che richiamano un fare e un costruire, un dinamismo che deve essere il proprium della pena, che si dipana nel tempo e cui, nell’orizzonte costituzionale e convenzionale, non può bastare inibire ed incapacitare, essendo chiamata a tentare (e verrebbe da dire incessantemente) di rifondare e, a un certo punto, svolto il suo compito, a lasciare il passo ad un rientro proficuo della persona nella società.
Ratificato il Protocollo n. 15 ...aspettando il Prot. 16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
di Marina Castellaneta*
Sommario: 1.Premesse. 2. 2.Le modifiche introdotte dal Protocollo n. 15: il principio di sussidiarietà e la dottrina del margine di apprezzamento. 3. Le novità sulle condizioni di ricevibilità e sul deferimento alla Grande Camera. 4. L’eliminazione del “diritto di veto” nei casi di deferimento alla Grande Camera. 5. Le novità nella scelta dei giudici della Corte 6. Osservazioni conclusive.
1.Premesse.
Alla fine la ragionevolezza ha avuto la meglio e, seppure con ritardo rispetto a tutti gli altri Stati parti alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’Italia ha adottato la legge di ratifica, contenente anche l’ordine di esecuzione, al Protocollo n. 15 del 24 giugno 2013 recante emendamento alla Convenzione[1]. Il 10 febbraio 2021 è stata pubblicata, infatti, la legge n. 11 del 15 gennaio 2021 (in Gazzetta Ufficiale n. 34 del 10 febbraio) ed è stato rimosso l’ultimo ostacolo all’entrata in vigore del Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Italia è arrivata ultima (una scelta politica, inerzia?) e, quindi, ha bloccato per diversi anni l’applicazione del Protocollo poiché, in base all’articolo 7 che contiene la clausola si omnes, era necessaria la ratifica di tutti gli Stati contraenti della Convenzione[2]. Con l’ultima ratifica, quindi, il Protocollo n. 15 può entrare in vigore - come previsto dall’articolo 7 - il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui tutte le Parti hanno espresso il proprio consenso ad essere vincolate dal Protocollo salvo, come vedremo, per l’articolo 4 (relativo alla riduzione dei termini per presentare ricorso alla Corte) che entrerà in vigore dopo un periodo di sei mesi, sempre a partire dalla data di entrata in vigore del Protocollo.
La scelta di separare i destini del Protocollo n. 15 dal n. 16[3] ha permesso di arrivare a questo risultato, abbandonando alla sua sorte, almeno per il momento, la ratifica del n. 16 adottato il 2 ottobre 2013[4]. Il Protocollo, come è noto, è entrato in vigore per 10 Stati dal 1° agosto 2018 (oggi sono 15) e, in sostanza, introduce nel sistema Strasburgo un meccanismo analogo al rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, prevedendo che le corti supreme di uno Stato parte alla Convenzione europea possano sospendere il procedimento interno e chiedere alla Grande Camera un parere sull’interpretazione o sull’applicazione di una norma convenzionale e sui protocolli addizionali.
2.Le modifiche introdotte dal Protocollo n. 15: il principio di sussidiarietà e la dottrina del margine di apprezzamento
Il cammino verso l’adozione del Protocollo n. 15 è stato dettato dal costante incremento del carico di lavoro della Corte che, anno dopo anno, si è vista arrivare ricorsi individuali anche su questioni via via meno rilevanti sotto il profilo della tutela dei diritti umani. Per arginare, quindi, lo snaturamento della funzione della Corte e consentire ai giudici internazionali di arrivare a una diminuzione del carico di lavoro, nell’interesse del buon funzionamento del sistema e della garanzia di una tutela effettiva dei diritti, dal 2010, nei vertici di Interlaken, Smirne, Brighton, con le dichiarazioni adottate in occasione delle Conferenze di alto livello sul futuro della Corte, è stata tracciata la linea da seguire, con alcuni indirizzi confluiti, almeno in parte, nel Protocollo n. 15.
Tra le novità, l’inserimento esplicito del principio di sussidiarità che era già implicitamente incluso nella Convenzione europea attraverso l’affermazione del principio del previo esaurimento dei ricorsi interni[5]. Con il Protocollo n. 15 (articolo 1) è stato aggiunto un considerando al Preambolo nel quale si afferma che “spetta in primo luogo alle Alte parti contraenti, conformemente al principio di sussidiarietà, garantire il rispetto dei diritti e della libertà definiti” nella Convenzione e nei suoi Protocolli. Inoltre, il considerando in esame, codifica la dottrina del margine di apprezzamento concesso agli Stati “sotto il controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo”, che ha variato l’ampiezza della discrezionalità concessa agli Stati (da ampio a ristretto) tenendo conto delle materie in cui essa viene esercitata e del consenso degli altri Stati in relazione a una determinata questione giuridica[6].
3. Le novità sulle condizioni di ricevibilità e sul deferimento alla Grande Camera - Il Protocollo, inoltre, introduce due modifiche all’articolo 35 della Convenzione europea, dedicato alle condizioni di ricevibilità. In particolare, sempre nel rispetto del previo esaurimento delle vie di ricorso interne, da valutare tenendo conto dei principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti, il limite temporale di presentazione del ricorso passa da sei mesi, a partire dalla data della decisione interna definitiva, a quattro mesi (articolo 4 del Protocollo). Una scelta che ha suscitato perplessità ma che, come chiarito nel rapporto del relatore Christopher Chope della Commissione sugli affari giuridici e i diritti umani dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa[7], era necessaria tenendo conto dell’utilizzo su larga scala delle nuove tecnologie che consentono un taglio dei tempi di comunicazione e di trasmissione dei documenti. Per assicurare la certezza del diritto, in ogni caso, il nuovo termine sarà applicabile, come previsto dall’articolo 8, par. 3, alla scadenza di un periodo di sei mesi dall’entrata in vigore del Protocollo e, inoltre, non si applica ai ricorsi “in merito ai quali la decisione definitiva ai sensi dell’articolo 35, paragrafo 1 della Convenzione sia stata presa prima della data di entrata in vigore dell’articolo 4 del presente Protocollo”. È stata così esclusa ogni possibile interpretazione di applicazione retroattiva, che avrebbe incisivo negativamente sulle potenziali vittime di violazioni dei diritti convenzionali e sul diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. Questa modifica, a nostro avviso, dovrebbe anche spingere verso una maggiore conoscenza del sistema di funzionamento della Corte europea e della Convenzione, perché il taglio dei tempi di ricorso impone assenza di improvvisazione nella presentazione delle istanze alla Corte. Pertanto, nelle università, nei percorsi formativi degli avvocati e, in generale tra gli operatori del diritto, dovrebbe essere rafforzato l’approfondito studio del sistema di garanzia, a vantaggio del piano interno e internazionale.
Tra le altre novità, in un’ottica di riduzione del carico di lavoro della Corte, è soppressa la previsione introdotta con il Protocollo n. 14 in base alla quale la Corte non può rifiutare l’esame di un ricorso se, malgrado il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio importante, il caso non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno (articolo 35, par. 3, lett. b). Di conseguenza, a seguito dell’eliminazione della lettera b (articolo 5 del Protocollo), la Corte sarà tenuta a verificare unicamente la condizione del pregiudizio importante e, quindi, anche se la causa non sia stata esaminata da un tribunale nazionale, in assenza di un pregiudizio importante, già definito in diverso occasioni dalla Corte europea, i giudici internazionali dovranno dichiarare il ricorso irricevibile e questo anche con riguardo ai ricorsi pendenti al momento dell’entrata in vigore del Protocollo n. 15 (articolo 8, par. 4). Questa modifica potrebbe incidere in termini positivi anche sul carico di lavoro di Strasburgo: dalla relazione annuale presentata il 26 gennaio 2021 dal Presidente della Corte Robert Spano, con riferimento all’attività 2020, risulta che l’arretrato arriva a 61.500 casi pendenti (+ 4% rispetto al 2019), dei quali il 75% è causato da Russia, Turchia, Ucraina, Romania e Italia.
L’indicata modifica potrebbe essere utile in questa direzione anche perché codifica il principio de minimis non curat praetor affermato nella decisione del 25 ottobre 2005, O’Halloran e Francis contro Regno Unito (ricorsi n. 15809/02 e n. 25624/02) e nella sentenza della Grande Camera nel caso Micallef contro Malta del 15 ottobre 2009 (n. 17056/06). In questo modo, la Corte, anche in ragione del crescente numero di ricorsi, spesso futili e che non raggiungono una soglia minima di gravità, può evitare un intasamento del lavoro dell’organo giurisdizionale, fermo restando l’obbligo per gli Stati parti di garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti dell’uomo ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione. In questa direzione, va ricordato che l’indicata clausola riguarda unicamente i ricorsi a Strasburgo e va letta congiuntamente al principio di sussidiarietà in base al quale la tutela dei diritti convenzionali va assicurata dai giudici nazionali e, solo in mancanza, dalla Corte europea. Pertanto, la suddetta modifica certo non può essere letta nel senso di non offrire una tutela interna in virtù del principio de minimis o di arrivare a un’applicazione estensiva delle condizioni di ricevibilità di cui all’articolo 35, rischio che, come sottolineato in dottrina[8], ha già trovato, però, in passato, una conferma in alcune sentenze interne. Ed invero, va chiarito che il principio de minimis non curat praetor è applicabile solo nei ricorsi alla Corte europea e impone la massima tutela interna dei diritti perché, in caso contrario, sarebbe in contrasto con il principio di sussidiarietà codificato proprio nel Protocollo n. 15. Una lettura diversa risulta contraria alla Convenzione europea.
4. L’eliminazione del “diritto di veto” nei casi di deferimento alla Grande Camera In base all’attribuzione di competenze alla Grande Camera, quest’ultima può essere chiamata a pronunciarsi dalla Camera, qualora una sezione ritenga che si sia in presenza di una questione grave relativa all’interpretazione della Convenzione o dei suoi Protocolli o che la soluzione della questione potrebbe portare a una contraddizione con una precedente sentenza della Corte. In queste ipotesi, la precedente regola prevedeva che la Camera avesse questo potere di declinare la propria competenza in favore della Grande Camera, salvo che una delle parti non si opponesse (articolo 30). Il Protocollo n. 15 ha portato all’eliminazione di questa sorta di diritto di veto esercitato dalle parti, con la conseguenza che uno Stato o la vittima, non possono più bloccare il deferimento dell’affare alla Grande Camera (articolo 3). La rimozione di questa possibilità di obiezione, che costituiva un limite al deferimento alla Grande Camera, è considerata, stando al rapporto esplicativo, come un mezzo per migliorare e accelerare il funzionamento della Corte proprio nei casi che pongono questioni più complesse o che possono portare a un cambiamento della prassi seguita fino a quel momento. Anche qui è stata prevista una condizione temporale di operatività, perché l’articolo 8, par. 2 dispone che l’indicato emendamento “non si applica alle cause pendenti in cui una delle parti si sia opposta, prima dell’entrata in vigore del presente Protocollo, alla proposta di una camera della Corte di dichiararsi incompetente a favore della Grande Camera”.
5. Le novità nella scelta dei giudici della Corte
Di minore rilievo i cambiamenti introdotti dal Protocollo n. 15 legati all’età dei giudici. È stabilito, infatti, che possono accedere alla funzione di giudice della Corte europea solo candidati che abbiano meno di 65 anni alla data in cui la lista di tre candidati, fornita dagli Stati, arrivi all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. In questo modo, con riguardo all’età, diventa variabile l’età anagrafica di cessazione dell’attività dei giudici e si assicura, però, che non si vada al di là dei 74 anni, in linea con i limiti di età già previsti in diversi Stati. Resta ferma la durata del mandato di 9 anni, non rinnovabile. Tale emendamento conduce a una modifica dell’articolo 21 par. 2 della Convenzione e comporta l’eliminazione dell’articolo 23, par. 2, con la rimozione del limite del compimento del settantesimo anno.
6. Osservazioni conclusive
Le novità introdotte dal Protocollo n. 15 che, a prima vista, potrebbero essere lette come la volontà di eliminare l’arretrato e limitare il carico di lavoro della Corte, sono, invece, a nostro avviso, un utile intervento per spingere gli Stati verso l’applicazione effettiva della Convenzione sul piano interno e lasciare all’organo giurisdizionale internazionale la competenza per i casi di violazione dei diritti umani più significativi. Ci sembra, in questa direzione, che l’operatività del Protocollo n. 16, seppure non per l’Italia che ha scelto per ora di non ratificare, possa essere funzionale anche a una corretta applicazione del Protocollo n. 15 con riguardo al principio di sussidiarietà e al divieto di porre veti in caso di deferimento della Camera alla Grande Camera perché, proprio grazie alla nuova e già operativa funzione consultiva, il dialogo tra Corti dovrebbe condurre a una migliore attuazione dei diritti convenzionali, come interpretati dalla Corte europea. Inoltre, in questo modo, sono anche evitate manovre dilatorie dei Governi in causa, che potrebbero avere un interesse, per evitare l’accertamento di una violazione, a prolungare la durata del procedimento – inevitabile se è previsto prima l’intervento della Camera e poi quello della Grande Camera – proprio nei casi in cui si presentino le questioni più gravi.
Per quanto riguarda il taglio sui tempi di ricorso, come detto, ci sembra un’occasione utile per favorire e rafforzare la formazione, anche degli avvocati, i quali talvolta spingono i propri clienti verso Strasburgo, utilizzando la Corte come quarto grado di giurisdizione e snaturando, così, le sue funzioni. Basti pensare al numero di ricorsi dichiarati irricevibili nel 2020, che è arrivato a 37.289.
* Professore ordinario di diritto internazionale, Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.
[1] Il testo ufficiale, con il rapporto esplicativo, è disponibile nel sito https://www.coe.int.
[2] Qui sono reperibili le audizioni in vista della ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 https://www.camera.it/leg18/1104?shadow_organo_parlamentare=2803&id_tipografico=03. Cfr. A. Cannone, Il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione dei Protocolli 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: audizioni parlamentari, in Rivista di diritto internazionale, 2020, p. 859 ss.; E. Crivelli, The Italian debate about the ratification of Protocol n. 16, in Eurojus, 2020, n. 4, p. 371 ss.; M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, in http://www.sistemapenale.it, 2019; E. Nalin, I Protocolli n. 15 e 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Studi int. eur., 2014, p. 117 ss.
[3] Si veda il disegno di legge C.1124 del 10 agosto 2018, “Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013”. Tale atto è stato affiancato dalla proposta di legge del 23 marzo 2018, C. 35 (Schullian, Gebhard e Plangger).
[4] Sulla mancata ratifica del Protocollo n. 16, cfr. B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, in questa Rivista, 2021; S. Bartole, Le opinabili paure di autorevole dottrina a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, ivi, 2020; P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo n. 16, ivi, 2020; E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n. 16, ivi, 2020; C. V. Giabardo, Il Protocollo n. 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, ivi, 2020; E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, ivi, 2020; C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, ivi, 2020; A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo, ivi, 2020.
[5] Cfr. M. I. Vila, Subsidiarity, margin of appreciation and international adjudication within a cooperative conception of human rights, in International Journal of Constitutional Law, 2017, p. 393 ss.
[6] Si veda F. Fabbrini, The Margin of Appreciation and the Principle of Subsidiarity: a Comparison, in A Future for the Margin of Appreciation?, 2015, iCourts Working Paper Series, no. 15, nel sito https://ssrn.com.
[7] Doc. n. 13154, del 28 marzo 2013, reperibile nel sito https://assembly.coe.int.
[8] Per un’approfondita analisi di alcune controverse sentenze della Cassazione, si veda R. Conti, Legge Pinto – ma non solo – Corte di Cassazione e CEDU su alcune questioni ancora controverse, in Questione giustizia, 2015, p. 1 ss., reperibile anche nel sito https://academia.edu, il quale ha sottolineato che l’operatività dei criteri di cui all’articolo 35, par. 3, estesa ai giudici nazionali risulterebbe contraria a quanto affermato dalla Corte europea (p. 15). Per l’A., infatti, “la Corte europea non sembra affatto avere affermato un principio di irrisarcibilità dei danni di lieve entità, piuttosto limitando il ricorso alla Corte di Strasburgo, per evidenti esigenze deflattive, alle ipotesi di violazioni di maggiore entità” (p. 16).
Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti*
di Antonio Scarpa
Sommario: 1. Un’immagine scolorita della Corte di Cassazione? - 2. L’entrata nel circuito del precedente - 3. La motivazione con riferimento a precedenti conformi - 4. La codificazione della nomofilachia - 5. Conclusioni.
[Sul ruolo della Corte di Cassazione v., in precedenza, su questa Rivista, F. De Stefano, Giudice e precedente. Per una nomofilachia sostenibile, 3 marzo 2021 e R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021]
]
1. Un’immagine scolorita della Corte di Cassazione?
Virgilio Andrioli (Diritto processuale civile, I, 1979), scriveva che il ruolo di custode del diritto, che l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 affida alla Corte di Cassazione, costituisce proiezione dell’art. 3 Cost., essendo l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge offesa da sentenze che impongano ai casi uguali assetti diversi. Tutte le decisioni della Corte costituirebbero documenti in cui si esprime la nomofilachia. Viceversa, le massime estratte dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo, a meno che non riproducano il principio di diritto enunciato ex art. 384 c.p.c., “non esimono coloro che ne prendono visione dall’onere di risalire alla motivazione della sentenza, dalla quale sono state estratte”: ciò perché, se l’operazione di massimazione è cosa utilissima, essa impone però di individuare la ragione giustificatrice della pronuncia e di cogliere il nesso fra caso giudicato e norme applicate, sicché “i suoi prodotti non hanno se non valore mnemonico”. Per Andrioli, in ogni metodo di giurisprudenza tendenzialmente costante si annida il forte rischio correlato all’esigenza di individuazione della eadem ratio, in difetto della quale il dictum anteriore non può considerarsi precedente di fatto, altrimenti corrompendosi l’interpretazione conforme in applicazione livellatrice, affatto confortata quest’ultima dall’art. 3 Cost. Tuttavia, la mancata identificazione del precedente, o l’inottemperanza al medesimo, non potrebbero essere motivi di annullamento della sentenza di merito, giacché il precedente di fatto non si inserisce quale diaframma fra norma di diritto applicabile e caso concreto, né tanto meno la Cassazione è tenuta a rispettare i propri precedenti, ma deve assoggettarli a riesame. Perciò, la giurisprudenza uniforme ispirata non della continua verifica della eadem ratio, ma dall’acritico ossequio al precedente di fatto, visto come ammantato da una presunzione assoluta di legittimità, sarebbe soltanto espressione della prudenza, intesa come utilizzazione della esperienza altrui. D’altro canto, la contestabilità del precedente sarebbe garantita anche dal citato art. 65, non essendo diverse, ai fini dell’esatta osservanza della legge, “le posizioni dei giudici sottordinati e della Cassazione”.
Quanto rimangono attuali queste riflessioni di Andrioli? Quanto, invece, esse ci inducono ormai soltanto a constatare che non siamo stati in questi decenni capaci di capirne gli ammonimenti tristemente presaghi?
Una manovra tattica a tenaglia, strategicamente organizzata dal legislatore e dalla giurisprudenza, sembra aver accerchiato pressoché tutti i postulati su cui fondava quella illuminata teorica circa i ruoli della nomofilachia e del precedente giurisprudenziale, attaccandoli frontalmente e sulle ali, così da precluderne ormai tutte le più virtuose direzioni operative.
2. L’entrata nel circuito del precedente
La storia del ruolo del precedente giurisprudenziale nel nostro ordinamento processuale civile ha origini antiche e sembra anche superfluo ripercorrerla oggi che pare giunta ad un epilogo ormai irretrattabile, per quanto non necessariamente felice.
Costituiva un vanto per i giudici italiani fino forse a mezzo secolo fa distinguere fra l’obbligo di decidere casi uguali in modo uguale, che discende già dal principio di eguaglianza, e l’obbligo di osservare, invece, i precedenti propri o di altre corti, stante che per l’art. 101 Cost. il giudice è soggetto soltanto alle legge. Oggi verrebbe quasi quasi da aggiungere che il giudice deve certamente altresì attuare il giusto processo ed assicurarne la ragionevole durata (art. 111 Cost.), ma pur sempre per come tali valori sono regolati alla legge, e non in base ad un’attività spirituale ricognitiva o creativa, che diviene espressione di un “diritto libero”, talvolta anche in antitesi con quanto la legislazione positiva abbia prescritto.
Se nel sistema statunitense e in quello inglese il “precedent” è, invece, “binding” è perché in essi la “case law” è fonte del diritto obbligatoria per tradizione o per legge. Questa constatazione distintiva nei decenni trascorsi rendeva orgogliosi gli studiosi e gli operatori italiani, perché, ad esempio, per i giudici inglesi la regola dello stare decisis veniva giustificata come metodo utile ad educarli alla cautela ed alla conservazione. Viceversa, negli Stati Uniti, dove è più contestata dai giudici l’adesione al sistema del precedente vincolante, è oggetto di costante critica proprio lo judicial activism, prospettato come fenomeno eversivo ed antidemocratico (Alpa).
D’altro canto, proprio nei sistemi di common law, teorizzando la distinzione tra obiter dictum e ratio decidendi, si ammoniscono i giudici a non esprimere loro opinioni e a non curarsi di decidere casi futuri, dovendo preoccuparsi di risolvere soltanto il singolo caso in esame.
E’ però anche vero che il giudice inglese del “caso seguente” possiede nel proprio armamentario strumenti che gli consentono di smentire l’efficacia persuasiva del precedente, anche «verticale», adoperando il distinguishing o l’overruling. Identiche vie di fuga ha il giudice americano, del quale si sostiene che, in pratica, egli “segue il precedente solo quando non ritiene opportuno discostarsene” (Taruffo).
I giudici italiani sono così entrati nel circuito del “precedente” un pò da sprovveduti. Siamo stati anche attratti dalla rosea prospettiva di rendere “giuridicamente calcolabili” le nostre decisioni, confidando nel miraggio della diminuzione del carico del contenzioso negli uffici giudiziari: un sogno utopistico, a guardare ancora oggi il dato dei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di cassazione.
Non siamo ancora tutti d’accordo, del resto, su cosa costituisce un “precedente” nel nostro sistema. Anche una sentenza di merito o soltanto le decisioni della Cassazione? E poi, tutte le decisioni della Cassazione, anche quelle in cui è stato accolto o rigettato un ricorso manifestamente fondato o infondato, rese a norma degli artt. 375, comma 1, n. 5, e 380-bis c.p.c.? O quelle rese comunque con ordinanza perché non è stata ravvisata alcuna particolare rilevanza della questione di diritto su cui pronunciare, ai sensi dell’art. 375, comma 2, e 380-bis.1, c.p.c.? O soltanto quelle in cui sia enunciato il principio di diritto a norma dell’art. 384 c.p.c., o addirittura solo quelle delle sezioni unite che abbiano enunciato il principio di diritto componendo un contrasto o risolvendo una questione di particolare importanza, che sono poi insormontabili dalla sezione semplice in base all’art. 374, comma 3, c.p.c.?
L’idea diffusa nella pratica giudiziaria è che la Corte di cassazione sia, nel nostro sistema processuale, essa stessa consapevole produttrice e abituale fruitrice dei precedenti giurisprudenziali. Solo che non sta alla Corte di cassazione stabilire ex ante se la pronuncia che si appresta a rendere è, o meno, destinata a precostituire un precedente per le generazioni future, come invece suppone semplicisticamente la logica aziendalistica sottesa alla riforma introdotta con il d.l. n. 168 del 2016, convertito in l. n. 197/2016. E’ il giudice del caso seguente che decide se sussiste tra questo ed il caso pregresso quella identità di ratio che impone, o per lo meno consiglia, di fare buon uso del precedente.
Tale identità di ratio tra i due casi, che giustifica l’applicazione del precedente secondo la valutazione discrezionale affidata al giudice del caso successivo, comunque non è, né può mai essere, pure identità dei fatti, perché se due vicende sono davvero indiscernibili, esse sono allora nient’altro che la stessa vicenda: eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate (Taruffo, ma prima ancora Leibniz). In tale prospettiva, non avrebbe nemmeno senso parlare di un “precedente di legittimità”, visto che la forza del precedente si radica unicamente sulla materially identical facts.
D’altro canto, se i giuristi di common law ricavano la norma dal raffronto tra il caso in esame e le soluzioni date in passato a casi simili, sicché sono proprio le sentenze che creano il diritto, nel nostro ordinamento i giuristi traggono la norma in via di deduzione da regole scritte generali contenute nelle leggi, e perciò i precedenti giudiziari non potrebbero vincolare, ma solo persuadere in ragione dell’autorità da cui provengono.
Nel nostro sistema, il precedente giudiziale assume le sembianze di un modello ibrido interspecifico: dalla fattispecie astratta della legge di diritto positivo il giudice trae la regola che decide sulla fattispecie concreta e ad un tempo arricchisce di contenuti quella fattispecie astratta per le future applicazioni di essa ad altre singole fattispecie concrete.
L’astratta enunciazione o interpretazione di una regola di diritto contenuta in una pronuncia della Corte di cassazione non può, quindi, precostituire un precedente in senso proprio, questo essendo, piuttosto, l’applicazione data alla legge in relazione al fatto concreto oggetto di lite.
Tanto meno rappresenta un precedente la massima che sia estratta da una sentenza della Cassazione, allorché non vi sia attenzione al fatto deciso (il che nella massima, secondo le tecniche redazionali in uso al Massimario, non si fa, tranne che, ma con la sintesi di un paio di righi, allorché si adottino i modelli stilistici della “massima di specie” o della “massima con fattispecie”). L’ordinamento brasiliano, che, ad esempio, attribuisce efficacia erga omnes alla súmula vinculante formulata dal Supremo Tribunal Federal, radica tale potere su un espresso riconoscimento costituzionale.
Le maglie ristrette del sindacato di legittimità sul fatto, soprattutto a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ha poi reso più frequente l’invocazione da parte dei ricorrenti del vizio di cui al numero 3 dell’art. 360 c.p.c., il che però implica anche la necessità per la Corte di enunciare il principio di diritto ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p.c., che sarà anche più probabilmente massimato, col rischio di generalizzare la singola soluzione quale prototipo decisorio valido per i casi futuri, seppur adottata senza prestare alcuna attenzione al fatto ed alla motivazione della sentenza di merito. Il caso concreto appare, così, mera occasione per la creazione del principio di diritto, il quale si erge al di sopra dei fatti.
Un’altra complicazione sta nella distinzione che abitualmente si fa fra ratio decidendi, ovvero il nucleo della pronuncia che applica la norma ai fatti del caso concreto, cui soltanto sarebbero riferibili gli effetti del precedente, ed obiter dictum, che è invece ogni altra enunciazione o argomentazione che il giudice abbia espresso in sentenza trascendendo dal caso deciso. Gli obiter non dovrebbero mai costituire un precedente per le decisioni successive, né essere censiti in massime mentitorie. Tale distinzione è tuttavia assai complessa nella pratica, né vale ad escludere del tutto l’efficacia persuasiva che pure un obiter dictum possa rivelare per il giudice chiamato a decidere il caso successivo: si transita così, vien detto, in un sistema di stare consultis, neppure più di stare decisis (Sassani).
Ove si ravvisi il vincolo, o quanto meno l’efficacia persuasiva, del precedente di Cassazione consistente soltanto nella astratta elaborazione di una regola di diritto formulata in termini generali, la sentenza della Corte sovraordinata è intesa, in realtà, come norma universale suscettibile di applicazione deduttiva: possiamo averne vantaggi in termini di calcoli matematici, ma dobbiamo ammettere gli svantaggi che sono inevitabilmente correlati ad ogni deriva autoritaria e burocratica nell’esercizio della giurisdizione, il tutto, direi, senza incidere nemmeno in maniera positiva sull’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale.
3. La motivazione con riferimento a precedenti conformi
L’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, dispone che “la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Quest’articolo, che dalla periferia del codice si è spostato al centro del sistema (Irti), eleva il riferimento ai precedenti conformi a criterio di legalità e logicità della sentenza. Ci aveva già provato l’art. 16, comma 5, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, sui procedimenti in materia societaria, a prevedere una motivazione della sentenza in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi. Si tratta di un percorso legislativo che Cass. sez. un. 16 gennaio 2015, n. 642, ha ritenuto “ormai reso inevitabile anche dalla necessità di dare concreta attuazione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo” (e qui taluno obietta: ragionevole durata, «que de crimes on commet en ton nom!»).
Ora, la nozione di «precedente conforme» non sottende né la vis imperativa del giudicato né l’«autorità» della sentenza invocata in un diverso processo, di cui discorre l’art. 337, comma 2, c.p.c.: essa viene adottata dal legislatore “in funzione di una progressiva semplificazione dell’attività motivazionale del giudice decidente”, il quale è autorizzato a fare uso di «schemi decisionali» tratti da precedenti pronunzie dotate di «un’efficacia persuasiva» (Comoglio).
Dunque, con l’art. 118 disp. att. c.p.c. il “riferimento a precedenti conformi” diviene una agevole scorciatoia nell’adempimento dell’obbligo di motivazione. In combinato con la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il rinvio a precedenti potrebbe bastare a passare indenni il sindacato sul “minimo costituzionale” esigibile di motivazione.
Ma è sufficiente davvero, per motivare abbastanza, affermare in sentenza: “l’ha detto lui” (o, semmai, “Lui”, se l’autore del precedente merita la maiuscola reverenziale)?
E poi, per motivare “in riferimento a precedenti conformi”, basta all’estensore indicare gli estremi delle pronunce richiamate per rendere apparentemente “giusta”, o razionalmente giustificata, la propria sentenza? O gli occorre comunque anche esporre i motivi per i quali abbia condiviso le ragioni sostenute nei precedenti menzionati?
E se si tratta di questione di diritto già decisa in modo difforme, la motivazione può riferirsi ai soli precedenti che siano conformi alla decisione che il giudice vuol rendere o questi deve prendere posizione anche sui precedenti in senso contrario?
La giurisprudenza prova a dare risposta a questi interrogativi: la motivazione per relationem ex art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., può fondarsi su precedenti non solo di legittimità, ma anche di merito, del medesimo o di altro ufficio, «ricercandosi palesemente per tale via il beneficio della utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già compiuti per casi identici o caratterizzati dalla risoluzione di identiche questioni» (Cass. 6 settembre 2016, n. 17640); è ben possibile anche il rinvio ad un precedente del medesimo ufficio, sempre che si dia conto dell’identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso dal precedente e quello oggetto di decisione (Cass. 22 maggio 2012, n. 8053; si veda però anche Cass. Sez. Un. 16 gennaio 2015, n. 642); può andar bene pure così: il giudice dell’impugnazione, dopo aver ricordato un precedente del proprio ufficio reso su una questione analoga ed aver esaminato le singole censure, conclude nel senso che le argomentazioni della sentenza richiamata “rispondono a tutti i motivi d’impugnazione” (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3367).
Occorre altresì procedere in modo disincantato ad una consapevole analisi costi/benefici: se posso succintamente motivare uniformandomi ai precedenti che seguo, quanto mi tocca scrivere, invece, se da essi volessi discostarmi?
Ancora di recente, come in un passato ormai remoto, la Corte di Cassazione ha sostenuto che, una volta che abbia esposto i motivi della sua decisione, il giudice non deve dimostrare esplicitamente l’infondatezza o la non pertinenza dei precedenti giurisprudenziali eventualmente difformi, poiché la motivazione in tanto può essere viziata in quanto sia di per sé erronea, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, non già in quanto eventualmente in contrasto con le ragioni addotte in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (Cass. 26 giugno 2017, n. 15846; Cass. 23 giugno 2008, n. 17026; Cass. 17 marzo 1980 n. 1772).
Si è peraltro affermato dalla medesima Corte che, a fronte di fattispecie del tutto simili, l’uniformazione delle motivazioni delle sentenze rese da giudici diversi in udienze pure diverse è cosa “del tutto comprensibile, se non addirittura opportuna” (Cass. 12 maggio 2020, n. 8782).
Nei repertori impolverati può trovarsi anche qualche monito più esplicito: nell’esercizio del suo potere-dovere d’interpretazione della norma applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, il giudice è libero di non adeguarsi all’opinione espressa da altri giudici e può anche non seguire l’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione, così come può dissentire dalle motivazioni delle pronunzie di rigetto della Corte costituzionale, ma tale libertà non esclude l’obbligo di addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e far venir meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato (Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248).
In pratica, la condizione del giudice di merito rispetto al precedente di legittimità non è poi assai dissimile da quella in cui si trova il giudice di rinvio a seguito di cassazione della sentenza: questi deve “uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte” (art. 384, comma 2, c.p.c.) in forza dell’efficacia positiva della sentenza di cassazione, rimanendogli altresì preclusa dall’efficacia negativa della stessa la possibilità di rimettere in discussione pure i fatti che costituiscano il presupposto della pronuncia di annullamento; ogni altro giudice rimane libero nel ricostruire la fattispecie concreta sottoposta al suo esame e nell’individuare la norma ad essa applicabile, ma, se voglia dissentire dall’indirizzo interpretativo seguito dalla Suprema Corte riguardo a tale norma, dovrà addurre ragioni congrue e convincenti per minare l’orientamento giurisprudenziale ripudiato.
Vennero però anche Cass. 28 luglio 1997, n. 7050 e poi Cass. 19 dicembre 2001 n. 16007, a chiarire che non è viziata per violazione di legge la sentenza in cui il giudice di merito non spiega perché non abbia seguito i precedenti giurisprudenziali di legittimità.
Nei primi anni del terzo millennio, tuttavia, l’ostentazione dell’idea del giudice che sia libero nello svincolarsi dai precedenti iniziò ad essere reputata quasi uno sprezzante rifiuto del valore dello stare decisis come forte riduttore di litigiosità. Il valore del precedente starebbe proprio in ciò: “esso dispensa il giudice che vi si adegui dall’obbligo di motivare; impone al giudice che voglia discostarsene l’obbligo di motivare convincentemente il rifiuto”. E’ la giustizia che “piuttosto che ridurre la litigiosità, opera per incrementarla. Si dedica, per così dire, all’autoproduzione di litigiosità (…). Da noi, la volubilità della giurisprudenza agisce come incentivo alla temerarietà” (Galgano). Si torna indietro fino a Muratori e Verri per arrivare alle ansie dei moderni economisti circa il funzionamento dei mercati, criticando l’incertezza cagionata dall’imprevedibilità delle sentenze e l’anelito dei giudici ad interpretare la legge nel modo migliore possibile, anche a costo di contraddire le altrui e le proprie precedenti interpretazioni. Superata l’era della legislatio ed entrati nell’era della iurisdictio, all’alba del nuovo millennio pareva imporsi come adeguata una sola soluzione: codificare la nomofilachia.
D’altro canto, per Cass. sez. un. 3 maggio 2019, n. 11747, integra violazione di legge rilevante ai fini della responsabilità civile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie la decisione del giudice che, senza motivare, rende una decisione difforme dai precedenti giurisprudenziali, atteso che “la superabilità del precedente non può prescindere dall’obbligo di conoscerne l’esistenza”.
A coloro che parlano di dottrina delle corti e di un diritto vivente giurisprudenziale, mutevole sotto le spinte delle cultura, dell’economia e della politica, rimane a contrapporsi soltanto chi in ciò intravede il rischio di una ibridazione tra formanti, che lascerebbe addirittura trasparire una misurata, quanto consapevole, arroganza (Gazzoni).
4. La codificazione della nomofilachia
Il legislatore italiano degli ultimi quindici anni sembra aver recepito la propaganda ideologica secondo cui l’unico rimedio idoneo a disinnescare la litigiosità ed a ripristinare la calcolabilità economica delle sentenze sarebbe stato quello di codificare la nomofilachia. I risultati di questa scelta si sono, tuttavia, rivelati affatto confortanti, anzi; i procedimenti civili iscritti e quelli definiti ogni anno in Corte di Cassazione superano ormai stabilmente la soglia dei trentamila, come la pendenza complessiva supera i centomila. Un dio che è fallito, verrebbe da dire.
Con il d.lgs. n. 40 del 2006 si introdusse il terzo comma dell’art. 374 c.p.c., il quale onera la sezione semplice della Corte di Cassazione di rimettere alle sezioni unite la decisione di un ricorso ove ritenga di non condividere un principio di diritto da queste affermato. Le sezioni semplici vengono cosi private della opzione per l’overruling ed il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite rimane per le prime immutabile come l’orbita dei pianeti. Lo scopo della conclamata «supremazia nomofilattica» delle sezioni unite è evidente: ridurre i contrasti di pronunce fra sezioni semplici e lasciare alle sezioni unite la sperimentazione dimostrativa che un’idea vada cambiata. Si può obiettare che così, se i giudici sono costituzionalmente soggetti soltanto alla legge, le sezioni semplici sono soggette altresì, e più di ogni altro giudice, al principio di diritto delle sezioni unite, ma tant’è.
Peraltro, neppure finisce qui. Preservata alle sole sezioni unite la forza del mutevole divenire, per due concorrenti fattori il precedente espresso dal primate nomofilattico può addirittura acquisire l’immutabilità del Logos.
Si è affermato che, a fronte di un ancora recente intervento delle sezioni unite volto a dipanare un contrasto di orientamenti, pur quando meditati rilievi suggeriscano l’opportunità di ripensare la questione, le sezioni unite, ove nuovamente investite, devono avvertire l’esigenza di assicurare un sufficiente grado di stabilità all’indirizzo interpretativo già indicato. Lo stare decisis, pur non essendo legge nel nostro ordinamento, è un “valore”, o, quanto meno, “una direttiva di tendenza”, “in base alla quale non ci si può discostare da una interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza delle forti ed apprezzabili ragioni giustificative. Insomma, se la lettera della legge consente due diverse interpretazioni, è da preferire sempre quella “sulla cui base si è formata una certa stabilità di applicazione”, soprattutto in tema di interpretazione di norme processuali, “non potendo l’utente del servizio giustizia essere esposto al rischio di frequenti modifiche degli indirizzi giurisprudenziali” (Cass. sez. un. 31 luglio 2012, n. 13620).
Detto ancor più esplicitamente: perché si possa invocare un mutamento della giurisprudenza delle sezioni unite, soprattutto, in materia processuale, non basta contestare la plausibilità dell’interpretazione già fornita dal precedente, ma occorre che la stessa risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa, o che comunque dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti” (Cass. sez. un. 6 novembre 2014, n. 23675).
In certo senso, se le sezioni semplici soffrono, in virtù del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., la «supremazia nomofilattica» delle sezioni unite, le sezioni unite, una volta che si siano pronunciate su un dilemma interpretativo, restano, almeno per qualche anno, schiave di se stesse in nome della stabilità e della certezza.
La salvaguardia della stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle sezioni unite della Corte di Cassazione appare un valore fondante: essa potrebbe garantire più certezza della stessa norma giuridica positiva, la quale di per sé è variabile, giacché esposta alla contingenza della volontà di sistema. Anzi, la fedeltà assoluta dei giudici ai propri precedenti sembra in grado di sconfessare pure lo scettiscismo di matrice kelseniana sul «mito» della certezza del diritto, rendendo unica, e perciò finalmente prevedibile, la decisione esatta.
Il mutamento di indirizzo giurisprudenziale ha conosciuto, poi, nell’ultimo decennio, un altro limite, stavolta sotto il profilo effettuale.
Una vita fa leggevamo che, poiché “la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa”, “discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata” (Cass. sez. un. 4 novembre n. 2004, n. 21095). Questo valeva a dire che al mutamento di indirizzo giurisprudenziale rispetto ai precedenti sarebbe inevitabilmente seguito il venir meno retroattivo di ogni efficacia vincolante, anche con riguardo ai rapporti instaurati prima del rèvirement.
A far tempo da Cass. sez. un. 11 luglio 2011, n. 15144, sono cambiate molte cose. Quando la Corte intende procedere ad un mutamento di un proprio consolidato orientamento su di una regola del processo, e tale mutamento sia connotato, oltre che dalla imprevedibilità, dall’idoneità a provocare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, quest’ultima, avendo fatto ragionevole affidamento sulla stabilità del precedente, non deve risentire delle conseguenze dell’overruling. La forza dei precedenti qui è tale da finire per trasformare la funzione stessa della sentenza innovativa: essa, da semplice strumento dichiarativo di ricerca della norma preesistente da applicare al caso concreto in esame, si evolve, piuttosto, in annuncio solenne di giurisprudenza futura. La Cassazione si avvede che la regola processuale finora dettata era sbagliata, ma stabilisce di continuare ad utilizzarla per tutti i rapporti in corso al fine di non sancire preclusioni o decadenze in danno della parte che di quella regola si era fidata.
Il problema della protezione del legittimo affidamento è, come sappiamo, tipico dei sistemi in cui vige il principio dello stare decisis, lì dove, cioè, i precedenti giudiziari sono concepiti come diritto. In particolare, oltre l’affidamento della generalità dei consociati, viene in speciale rilievo l’affidamento della parte cha abbia pianificato la sua strategia difensiva dinanzi a quel giudice. E’, inoltre, problema correlato alle esigenze di certezza avvertite in quegli ordinamenti che non hanno leggi scritte e perciò auspicano la stabilità e l’uniformità della law in action.
Acquisita la consapevolezza della concreta “dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza”, la medesima giurisprudenza avverte il timore “di divenire (e di essere avvertita dai cittadini come) un fattore d’irrazionalità e di disordine nel tessuto sociale”. Se, perciò, il precedente giurisprudenziale non costituisce tuttora una vera e propria regula iuris, che si impone con forza di legge in un successivo giudizio vertente su questioni analoghe, “specialmente per il giudice di legittimità, l’esigenza di tener conto dei propri stessi precedenti si radica nella sua istituzionale funzione e nella conseguente necessità di garantire (almeno tendenzialmente) i valori di coerenza ed uguaglianza dell’ordinamento” (Rordorf).
Beninteso: la tutela da prospective overruling, vien detto, sarebbe problema che si pone soltanto per l’affidamento qualificato ingenerato da un costante indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, e non invece se formatosi nella giurisprudenza di merito (Cass. sez. 12 febbraio 2019, n. 4135). Inoltre, deve pur sempre trattarsi di mutamenti della giurisprudenza su una regola del processo, e non riguardanti norme di carattere sostanziale (Cass. 10 maggio 2018, n. 11300; Cass. 3 settembre 2013, 20172), come se la scelta repentina di una contrapposta interpretazione in tema, ad esempio, di validità di un contratto o di prescrizione di un diritto non possa a sua volta provocare l’operatività di preclusioni o decadenze e frustrare affidamenti incolpevoli.
Non so se queste risposte siano verità forti o unicamente verità utili. L’esigenza di tutela dell’affidamento creato dai consolidati precedenti giurisprudenziali si pone identicamente, se non in maggior misura, in materia sostanziale. Non distolgono da questa constatazione l’argomento secondo cui per la salvaguardia sull’affidamento in materia sostanziale non si presterebbe utilmente lo strumento della rimessione in termini, né la spiegazione che ricomprende tra i “costi di transizione” la vanificazione dell’aspettativa dei consociati circa la stabilità di una determinata interpretazione giurisprudenziale.
La cortina dei precedenti di legittimità, con la legge n. 69 del 2009, è poi divenuta strumento per il filtro di ammissibilità dei ricorsi per cassazione. In forza dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., il ricorso (o un suo singolo motivo) è inammissibile quando il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto «in modo conforme alla giurisprudenza della Corte» e l’esame delle censure non offre elementi di tale qualità da minare l’interpretazione consolidatasi ed indurre il collegio a ripensare il proprio orientamento, per mutarlo o anche soltanto per confermarlo. Si tratta di una inammissibilità del ricorso per ragioni di merito, in rapporto alla quale si eleva a parametro la conformità della sentenza impugnata rispetto alla giurisprudenza consolidata in base a valutazione da operarsi comunque al momento della decisione della Corte di Cassazione, pure quando l’orientamento sia mutato a seguito della proposizione dell’impugnazione (Cass. sez. un. 21 marzo 2017, n. 7155). Del resto, al centro del sistema posto dall’art. 360- bis, n. 1, c.p.c. non è tanto un requisito genetico di contenuto dell’impugnazione, quanto la supposta superfluità di chiamare la Corte a riesaminare una quaestio iuris che essa ha ormai risolto (essendo altrimenti da dichiarare inammissibile il ricorso che perorasse immotivatamente il mutamento di giurisprudenza poi medio tempore avversatosi, ed al contrario da dichiarare ammissibile il ricorso conforme all’orientamento affermato all’epoca della sua notificazione, ma difforme dalla nuova interpretazione).
L’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. lascia però irrisolti interrogativi non meno gravi, né nuovi, per quanto già detto nelle pagine precedenti. Quante sentenze ci vogliono per fare la «giurisprudenza della Corte»? Un precedente fa «giurisprudenza» ? (si, risponde, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366, “quand’anche unico e perfino remoto, ma univoco e chiaro”).
E’ come quel che avviene nel sofisma del sorite, scriveva Taruffo: quanti granelli ci vogliono per fare un mucchio di sabbia, ovvero, quale granello, singolarmente aggiunto, fa divenire mucchio ciò che prima tale non era? La relatività del parametro della «giurisprudenza della Corte», invece individuato dall’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. come misura di tutte le cose, è evidentemente acuita dalla difficoltà di ricercare nei precedenti un valore assoluto ed oggettivo all’interno di un sistema che lascia alla Corte Suprema la produzione di oltre trentamila decisioni all’anno.
Una identica immagine della Cassazione, vista come “macchina banale”, emerge dal secondo comma dell’art. 375 c.p.c. inserito dal d.l. n. 168 del 2016, convertito in l. n. 197 del 2016, in base al quale la Corte, a sezione semplice (ma, nella pratica seguita, anche a sezioni unite) pronuncia in camera di consiglio, senza l’intervento del pubblico ministero delle parti (art. 380-bis.1, c.p.c.), in ogni caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa “opportuna” dalla particolare rilevanza della questione di diritto da risolvere (oppure quando, omisso medio, la sesta sezione, in esito alla camera di consiglio, abbia ritenuto che il ricorso non sia né inammissibile, né manifestamente fondato o infondato). E’ una distinzione di riti che postula una capacità vaticinale del presidente di sezione all’atto della fissazione dell’udienza o dell’adunanza (o del collegio, ove se ne ammetta la facoltà di repêchage in analogia all’art. 380-bis, comma 3, c.p.c.: ad esempio, Cass. sez. un. 5 giugno 2018, n. 14437), supponendo che sia prevedibile ex ante l’idoneità a “fare precedente” di una pronuncia da rendere, ma negli effetti pratici riducendo la funzione nomofilattica, che è garanzia di legalità, al riscontro empirico dell’uniformità della giurisprudenza, sicché l’una non (più) occorre quando, in qualsiasi modo ed a qualsiasi prezzo, si sia comunque conseguita l’altra.
La vulgata vuole che la Suprema Corte possa agevolmente discernere tra esercizio dello jus constitutionis e dello jus litigatoris, riservando al primo lo scenario della pubblica udienza ed al secondo i toni ben più dimessi della trattazione in camera di consiglio: eppure siffatta distinzione sui predicamenti dell’essere tra jus constitutionis e jus litigatoris non significa certo che quando la Corte adempie al primo non risolve comunque una lite tra le parti, né che quando provvede al secondo possa disinteressarsi della propria funzione nomofilattica.
Da ultimo, non può trascurarsi l’influenza che un’interpretazione stabilizzata e consolidata fornita dal giudice della nomofilachia spiega altresì sul sindacato di costituzionalità delle leggi, atteso che, in presenza di un “diritto vivente” di matrice giurisprudenziale, com’è noto, la Corte costituzionale si reputa priva della possibilità di proporre differenti soluzioni interpretative (Corte cost., sentenze n. 208 del 2014; n. 338 del 2011; n. 299 del 2005; n. 266 del 2006), dovendo piuttosto stabilire se lo stesso sia o meno conforme ai principi costituzionali. La norma sarà dunque illegittima “così come interpretata dalla Cassazione”. Per converso, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice che non voglia discostarsi da esso, prescegliendo una diversa esegesi del dato normativo per adeguarne il significato a precetti costituzionali, ha la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (Corte cost., sentenze n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017, n. 200 del 2016 e n. 11 del 2015).
5. Conclusioni
E’ difficile trarre una conclusione di sintesi dalle pagine precedenti circa il ruolo attuale della nomofilachia e l’efficacia del precedente. Della prima è emersa l’idea che essa sia erogata da un dispositivo ad intermittenza, che la Corte di Cassazione dovrebbe interrompere e ripristinare a seconda dei casi da giudicare e delle questioni da risolvere. La forza del precedente sembrerebbe poi giustificata da esigenze preminenti anche rispetto a quella della astratta legalità della decisione, quali la stabilità e la certezza degli orientamenti giurisprudenziali, la calcolabilità degli esiti del processo e la ragionevole durata dello stesso.
Com’è noto, nel 67 a.C., su iniziativa del tribuno della plebe Gaio Publio Cornelio, fu approvato un plebiscitum – la lex Cornelia -, con il quale venne disposto “ut praetores ex suis edictis perpetuis ius dicerent”, intendendosi obbligare i pretori ad attenersi, nell’esercizio della iurisdictio, all’editto pubblicato all’inizio del loro anno di funzioni. Lo storico Asconio spiegò che si cercava così di redarguire i pretori, i quali, soprattutto negli ultimi tempi della Repubblica, “varie ius dicere assueverant”. La Legge Cornelia mirava, dunque, a conferire la veste di edictum perpetuum all’editto proposto da ciascun pretore all’assunzione della carica, negando ai magistrati la possibilità di intervenire su materie della loro giurisdizione in forma di edicitum repentinum. Si voleva che l’attività edittale non dovesse più conformarsi ai mutevoli orientamenti del singolo pretore, e in tal modo ripristinare la stabilità degli editti, non potendocisi più rimettere alla sola fides del magistrato.
Kruger, in Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, 1888, raccontò, comunque, che la Legge Cornelia non venne mai effettivamente applicata.
* L’articolo rielabora il testo di una relazione svolta all’incontro di studi su “Il giudizio civile di cassazione e la necessità di conciliare quantità e qualità”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura nei giorni 11 e 12 febbraio 2021.
Interdittiva antimafia e controllo giudiziario (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 11 gennaio 2021, n. 319)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa- 2. Sul rapporto tra interdittiva e controllo giudiziario- 3. Considerazioni conclusive
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La natura composita, e per certi versi ambigua, delle informative antimafia impone una costante attenzione della dottrina e della giurisprudenza, in quanto ogni intervento in materia, aggiunge una tessera al complesso mosaico che compone l’interdittiva medesima [1].
Da ultimo la pronuncia del Consiglio di Stato n. 319 del 2021, che qui si annota, chiarisce un particolare aspetto del procedimento prefettizio levigando questioni fondamentali alla determinazione dei confini e dei limiti del provvedimento interdittivo [2].
I Giudici di Palazzo Spada hanno reso la sentenza in oggetto, sulla riforma della pronuncia del Tar Campania che aveva rigettato tre distinti ricorsi e i relativi motivi aggiunti, proposti contro le informative prefettizie relative alla sussistenza delle “situazioni di cui all'art. 84, comma 4 e all'art. 91, comma 6 del D.Lgs. 6/9/2011 n° 159 e s.m.i.”, nonché contro i provvedimenti che, di conseguenza, hanno determinato la revoca o la risoluzione dei rapporti negoziali a valle [3].
Anche in appello, avverso la suddetta pronuncia, venivano proposti tre distinti ricorsi dalle società destinatarie dei provvedimenti prefettizi. Con ordinanze collegiali i giudizi venivano sospesi fino al decorso del termine di efficacia del controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011 disposto dall’ autorità giudiziaria competente [4].
Le società appellanti, all’esito del periodo di controllo giudiziario e dunque a seguito della cessazione della causa di sospensione, depositavano: istanze di fissazione di udienza, i provvedimenti con cui venivano successivamente iscritte nella c.d. white list, la sentenza di assoluzione del socio del 23 marzo 2020 ed i provvedimenti conclusivi della procedura di controllo giudiziario.
Preliminarmente i ricorsi in appello venivano riuniti, in quanto relativi alla medesima sentenza e poiché connessi, in quanto le tre società appellanti sono società di progetto per la realizzazione di specifiche opere che venivano attinte da informativa antimafia, a seguito dell’adozione di analogo provvedimento nei confronti della predetta s.p.a.
Le società appellanti sono tre società di progetto partecipate dalla “società madre” che, fino all’11 gennaio 2018, avevano come amministratore unico il socio che deteneva il 30% della capogruppo. Con i ricorsi di primo grado venivano dedotti sia motivi inerenti l’illegittimità, a monte dell’interdittiva adottata, sia con motivi autonomi, a loro volta concernenti l’alterità soggettiva di ciascuna società rispetto alla “società madre” e la pretesa autonomia oggettiva di ciascuna società di progetto.
Con la censura comune che qui più interessa, le appellanti contestano la sentenza gravata in relazione alla valutazione dell’automatica refluenza, sulle rispettive realtà aziendali, del pericolo di infiltrazione desunto dal collegamento societario con la società madre, sostenendo che la Prefettura di Caserta avrebbe dovuto dimostrare, mediante elementi concreti e non mere supposizioni, la perdurante influenza dell’ex amministratore sulle politiche ovvero sulle sorti delle aziende, e quindi la fittizietà ovvero il mero fine elusivo del suo allontanamento dall’azienda.
Invero, le ragioni delle appellanti (per cui in seguito all’arresto del socio non vi sarebbe stato alcun pericolo di infiltrazione mafiosa in ragione dell’abbandono da parte del predetto delle cariche sociali) non possono essere accolte per la rilevanza dei rapporti intrattenuti con lo stesso. È peraltro evidente che il detto arresto, e la sua sostituzione nelle cariche sociali, non ha operato una censura sul piano personale e familiare fra l’ex amministratore e le strutture aziendali interessate, ma risulta anzi una sorta di continuità che non legittima l’affermazione di una reale separazione delle fasi gestionali.
Nondimeno appare dirimente l’infondatezza della censura in esame, sul piano dei rapporti e dei collegamenti fra la capogruppo da un lato e le odierne appellanti dall’altro. L’alterità soggettiva, da queste affermata, è in realtà solo formale, perché nel caso delle società di progetto la connessione è molto più intensa, dal momento che la società viene costituita per il singolo affare quale mero strumento operativo della dante causa, totalmente dipendente al singolo affare della società “madre”.
Ragion per cui è necessario sottolineare che la società di progetto è subentrata automaticamente nel rapporto già facente capo all’aggiudicataria, sostituendola in tutti i rapporti con l’amministrazione utilizzatrice. Dunque il soggetto giuridico, pur se formalmente distinto, è sostanzialmente il medesimo ovvero il reale centro di imputazione degli interessi afferenti la vicenda negoziale.
In conclusione, le tre società appellanti hanno prodotto in giudizio i provvedimenti conclusivi del controllo giudiziario, nei quali viene accertata l’inesistenza, a quella data, di un rischio infiltrativo attuale. È chiaro però che dagli elementi rilevati in tale sede non è possibile inferire un giudizio prognostico diverso da quello contenuto nei provvedimenti interdittivi impugnati.
Del resto, posto che dal provvedimento favorevole, emanato all’esito del periodo di controllo giudiziario, che afferma l’inesistenza, a quella data, di elementi che possano far desumere l’esistenza di un rischio infiltrativo attuale, non può desumersi l’illegittimità dell’informativa antimafia resa in precedenza, il Consiglio di Stato riunendo i ricorsi li rigetta.
2. Sul rapporto tra interdittiva e controllo giudiziario
Come chiarito dal Collegio, dedurre dai provvedimenti favorevoli dell’autorità giudiziaria, emanati alla conclusione del periodo di controllo ex art. 34-bis, l’illegittimità dell’informativa resa in precedenza comporterebbe una violazione del perimetro normativo di riferimento [5].
La valutazione del giudice della prevenzione penale circa l’assenza di elementi che possano rilevare un contatto attuale dell’impresa a condizionamenti illeciti attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione fondata sul principio del “più probabile che non” [6] su cui trova fondamento il provvedimento prefettizio.
Orbene sindacare la legittimità dell’interdittiva sulla base delle risultanze del successivo controllo giudiziario, finalizzato proprio ad un’amministrazione dell’impresa immune da probabili infiltrazioni criminali, appare scelta assai viziata e priva di una logica giuridica. In primo luogo gli elementi fattuali considerati nelle due diverse sedi sono differenti o comunque postposti; in secondo luogo è diversa la prospettiva d’indagine, id est l’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata [7].
Il giudice della prevenzione penale nella sua valutazione, infatti, si riferisce ad un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva e dunque relativo a vicende sopravvenute rispetto alla determinazione prefettizia. Ed è la medesima ragione per cui non rilevano, in senso opposto, i provvedimenti prefettizi con cui è stata disposta l’iscrizione delle società appellanti nella white list [8].
Difatti il Collegio nel caso de quo è lapidario nel sostenere che se il giudice penale, in sede di cognizione piena, non ha ritenuto gli elementi di prova raccolti “elementi certi” per affermare la responsabilità a titolo di contiguità compiacente rilevante in termini di concorso esterno[9], ciò non comporta sic et simpliciter la conseguente non rilevanza dell’attività ai fini del provvedimento prefettizio che si fonda non su una piena dimostrazione bensì sul più ampio principio del “più probabile che non” che risulta nel caso de quo pienamente soddisfatto dato il complesso quadro indiziario[10].
Dunque, se la valutazione del Tribunale della prevenzione non vincola il giudice amministrativo chiamato a valutare la legittimità dell'informazione prefettizia, in egual modo la pronuncia di quest'ultimo non vincola il giudice penale che è chiamato a vagliare la natura occasionale ovvero stabile del pericolo di condizionamento, come stabilito dall'art. 34 bis comma 1, del d.lgs 159/2011, senza poter tuttavia mettere in discussione i presupposti del provvedimento interdittivo [11].
Dunque, il rapporto di reciproca autonomia tra gli ambiti di valutazione del Tribunale della prevenzione e del giudice amministrativo dovrebbe indurre a ritenere che il primo possa ammettere la misura del controllo giudiziario richiesto dall'impresa interessata in tutti i casi in cui gli elementi vagliati raggiungano la predetta occasionalità nonché ove si attestino ad un livello inferiore rispetto al valore-soglia. Per tale ragione al Tribunale della prevenzione è preclusa, invece, la facoltà di estendere il proprio ambito valutativo alla delibazione degli stessi presupposti per l'adozione del provvedimento prefettizio che è invece riservata al Giudice Amministrativo [12].
3. Considerazioni conclusive
Risulta allora evidente, a chiusa delle considerazioni sin qui svolte, come la valutazione del giudice della prevenzione penale circa l’assenza di elementi che lascino supporre una disponibilità attuale dell’impresa a condizionamenti illeciti[13] attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione[14], la quale costituisce, invero, il presupposto del provvedimento prefettizio, atto che vede la sua genesi in un momento diacronicamente e cronologicamente ad esso successivo[15].
Per cui la pretesa di operare un sindacato di legittimità del provvedimento, alla luce delle risultanze del successivo controllo giudiziario[16], il cui fine ultimo e precipuo risulta essere un’amministrazione dell’impresa immune da eventuali infiltrazioni criminali, appare intervento viziato dalla molteplicità ed eterogeneità degli elementi fattuali, intrinseci ed estrinseci, che vengono in considerazione nelle due diverse sedi [17]. Ciò è avvalorato avendo ancor più riguardo alla prospettiva d’indagine, nonché all’individuazione dei parametri di accertamento e di valutazione dei legami con la criminalità organizzata [18].
Orbene, emerge come la valutazione finale del giudice della prevenzione penale si riferisca alla funzione tipica di tale istituto [19]: un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva, avente riguardo alle sopravvenienze rispetto a tale provvedimento, per cui l’illegittimità non può certamente trovare in esso il suo fondamento [20].
***
[1] si rinvia a M. Mazzamuto, Il salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, Sistema penale, fascicolo III, 2020
[2] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020
[3] G. AMARELLI, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia “generica” ex art. 84, co. 2., lett. d) ed e), d.lgs. n. 159/2011? in Riv. trim. penale contemp., 2017
[4] si rinvia a M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittive antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giurisprudenza Italiana, 2019
[5] S. MAZZARESE, A. AIELLO., Le misure di prevenzione antimafia. Interdisciplinarità e questioni di diritto penale, civile e amministrativo, Giuffrè Editore, Milano, 2010
[6] F. FRACCHIA - M. OCCHIENA, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico”, il diritto dell’economia, si ritiene che in tale ipotesi la “giurisprudenza dovrebbe incaricarsi di verificare dall’interno e compiutamente la coerenza delle inferenze seguite dall’Amministrazione dell’Interno (…)”. Cons. Giust. amm. reg. sic., 31 dicembre 2019, n. 1104: “la regola causale del più probabile che non integra un criterio di giudizio di tipo empirico-induttivo, che ben può essere integrato da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso) e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia da qualsiasi logica penalistica (...)”; Cons. St., Sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483; Id., 28 giugno 2017, n. 3171, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[7] M. Speciale, Interdittive antimafia tra vecchi confini e nuovi scenari, in giustizia-amministrativa, 2020
[8] P.M. Zerman, Lotta alle infiltrazioni nelle imprese, vanno valutati fatti concreti, in ilSole24 ore, 25 settembre 2019
[9] “Per espressa previsione normativa, il controllo giudiziario ex art. 34 bis d.lg. n. 159/2011 non costituisce un superamento dell'interdittiva ma « sospende », per la durata dello stesso, gli effetti dell'interdittiva senza eliminarli; non riabilita l'impresa ma, al contrario, presuppone la sussistenza e la permanenza del provvedimento interdittivo. Il controllo giudiziario è infatti strumento di autodepurazione dalle infiltrazioni criminali che consente all'impresa ammessa di continuare ad operare nei rapporti con la pubblica amministrazione. L'esigenza sottesa alla continuità aziendale, tuttavia, deve essere conciliata con l'interesse alla realizzazione dell'opera di pubblica rilevanza. Ciò impone, pertanto, la necessità di operare un giusto contemperamento degli interessi coinvolti. Necessità che è tanto più forte ed immanente in una fattispecie, come quella in esame, in cui la procedura di gara — al momento in cui è stata prima presentata e poi accolta l'istanza per la nomina di un amministratore giudiziario — si è già conclusa con l'individuazione definitiva del nuovo aggiudicatario. In tale situazione, non vi è spazio per ipotizzare che gli effetti della sospensione di cui all'articolo 34 bis, comma 7, del d.lg. n. 159/2011, debbano (o possano) retroagire fino a travolgere gli atti legittimamente adottati dall'amministrazione quale automatica e doverosa conseguenza dell'informativa interdittiva intervenuta a carico dell'originaria aggiudicataria. Un simile effetto, oltre a non risultare coerente con la ratio del nuovo istituto, risulta altresì in contrasto con lo stesso tenore letterale dalla norma che individua un limite temporale (compreso tra uno e tre anni) di durata e collega alla misura la mera sospensione degli effetti dell'interdittiva”. T.A.R. Reggio Calabria, (Calabria) sez. I, del 30 ottobre 2018, n.643
[10] Cfr. Corte costituzionale sentenza n. 57 del 2020
[11] Si consenta il rinvio a R. Rolli M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), in questa rivista, 2020
[12] Cfr. T.A.R. Napoli, (Campania) sez. I, del 29 aprile 2020, n.1589
[13] Si consenta il rinvio a R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e questioni di legittimità costituzionale (nota a ord.za TAR - Reggio Calabria, 11 dicembre 2020, n. 732), in questa rivista, 2021
[14] “Ai fini dell'interdittiva antimafia, il giudizio relativo alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione in una società non può essere modificato dal decreto di ammissione alla misura del controllo giudiziario, previsto dall'art. 34 -bis del D.Lgs. 159/2011; il controllo giudiziario che permette la prosecuzione dell'attività imprenditoriale non ha, infatti, effetti retroattivi, né costituisce un superamento dell'interdittiva, bensì ne rappresenta una conferma della sussistenza, in quanto viene adottato un regime in cui l'iniziativa imprenditoriale può essere ripresa per ragioni di libertà di iniziativa e di garanzia dei posti di lavoro, ma in un regime limitativo di assoggettamento a un controllo straordinario giudiziario”. T.A.R. Napoli, (Campania) sez. I, del 2 novembre 2018, n.6423
[15] v. M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, Giurisprudenza italiana, 2018
[16] “Il giudizio amministrativo che abbia ad oggetto un'interdittiva antimafia e il procedimento penale finalizzato all'ottenimento dell'applicazione del controllo giudiziario, anche se legati da un rapporto di collegamento funzionale, si pongono su piani non coincidenti i quali comportano un sindacato di tipo differente”. T.A.R. Palermo, (Sicilia) sez. I, del 21 settembre 2020, n.1874
[17] v. M. Mazzamuto, L’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita’ organizzata, Diritto penale contemporaneo, 2015
[18] M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giurisprudenza italiana, 2020
[19] F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm, 6, 2018
[20] C. Filicetti, Self cleaning e interdittiva antimafia (nota a Cons. St., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 3945)
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