GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Ripensando  ad A. Nappi “Quattro anni a palazzo dei marescialli” di Giovanni Tamburino

    Ripensando ad A. Nappi, “Quattro anni a palazzo dei marescialli” 

    di Giovanni Tamburino

    Sommario: 1. La democrazia e il CSM - 2. Il vincolo di mandato - 3. Politica dell’istituzione versus condominio sindacale - 4. Deformazione funzionale - 5. False eccezioni vera incoerenza - 6. Chi è il candidato-traditore - 7. Riforme. Debolezza dei rimedi elettorali - 8. Presidenti inascoltati - 9. Dalla crisi al rimedio.

    1. La democrazia e il CSM

    Il CSM è un’istituzione democratica. Lo è sotto tre profili: è collocato dalla Costituzione nell’architettura democratica della Repubblica; è quasi per intero eletto dal grande popolo sovrano intermediato dal Parlamento e dal piccolo popolo magistratuale; decide con voto all’esito di pubblica discussione assembleare. Una famosa frase attribuita a Winston Churchill avverte che “la democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre inventate dagli uomini”. Lo humor britannico aiuta a comprendere due verità in apparente contraddizione. Spiega perché il CSM ci viene invidiato da magistrature meno indipendenti e dalle persone che pagano le conseguenze di tale minore indipendenza e spiega, in secondo luogo, perché il CSM non può essere immune da difetti.

    Rispetto a questi ultimi le reazioni possibili sono varie. Si può minimizzarli e coprirli, si può descriverli con l’indifferenza dell’entomologo, ci si può adattare sfruttandoli a proprio vantaggio, si può gridare la propria indignazione e qui fermarsi. Abbiamo esempi, anche recenti, di tali reazioni.

    Aniello Nappi nel libro “Quattro anni a palazzo dei marescialli” (Aracne editore, 2014, prefazione di Luciano Violante) segue una strada diversa. Il libro è anzitutto la raccolta di decisioni rivelatrici di alcuni dei maggiori difetti del CSM. La raccolta è dura, documentata e precisa. Non vi è nessuna sottovalutazione della gravità dei problemi. Ma caso dopo caso, riga dopo riga, la raccolta è accompagnata dall’indicazione di ciò che si sarebbe dovuto e potuto fare. Non vi è nessun fatalismo nell’analisi di Nappi, men che meno scandalismo. Ogni frase è attraversata dalla preoccupazione per una istituzione che si vuol difendere perché se ne comprende il valore essenziale, non per la sola magistratura.

    Le istituzioni democratiche vivono dell’apertura alla critica. Muoiono dei silenzi conniventi o rassegnati” - scrive Nappi. La sua ricostruzione è quella di chi vuole che l’istituzione viva, consapevole della necessità di arrestarne lo slittamento verso il basso, il distacco dei magistrati che lavorano negli uffici e una caduta d’immagine che rischia l’irrecuperabilità.

    2. Il vincolo di mandato

    Il libro affronta alcuni nodi che spiegano i difetti del CSM. Uno di questi è il problema della fedeltà correntizia che, secondo una certa tesi, imporrebbe al consigliere eletto un obbligo di mandato. Nappi lo contesta e ricorda di averne fatto una pietra di inciampo al punto di giungere all’espulsione dal gruppo consiliare per non aver voluto acconsentire alla disciplina di voto.

    Mi sembra evidente che le correnti non sono taxi sui quali salire e scendere a piacere. Tuttavia, ogni associato dev’essere consapevole del significato strumentale della corrente rispetto a obiettivi. I valori stanno negli obiettivi, non negli strumenti. Nel caso del CSM il valore è la tutela della correttezza della giurisdizione. Questa è la funzione del CSM, funzione che non è nemmeno essa finale, essendo a sua volta finalizzata alla giustizia della società. Nessun obbligo di mandato può frapporsi al rispetto di questa gerarchia di valori. Sono perciò convinto che il tema posto nel libro sia reale e che la risposta data da Nappi nel corso della sua consiliatura non abbia rappresentato una manifestazione di soggettivismo bensì la difesa di un principio.

    Se è consentito un richiamo “storico”, ricordo che nella consiliatura 1981/1985, essendo Vladimiro Zagrebelsky, Raffaele Bertone e io stesso spesso in dissenso rispetto alle posizioni della maggioranza del gruppo di UniCost di cui facevamo parte, rivendicammo la possibilità del voto dissenziente. Anche dalla battaglia su tale principio trasse origine la consapevolezza che portò, via via, un paio d’anni dopo, alla scissione da UniCost e alla nascita del “Movimento per la Giustizia”, dapprima unito a “Proposta 88”, poi confluito in “Area”. Non sarebbe stata possibile quella novità se ci si fosse sottomessi all’idea del “vincolo di mandato”, giustamente contestata da Nappi.  

    3. Politica dell’istituzione versus condominio sindacale

    Un secondo nodo che il libro affronta attiene alla “politicità” del CSM. Contrariamente a una tesi diffusa, Nappi identifica nella caduta della “politicità” la prima causa della crisi del CSM. Mi sembra che occorra fare chiarezza sul significato del termine. Le scelte relative alla politica della giustizia non sono appannaggio dei magistrati, ma dei rappresentati del popolo. È evidente, peraltro, che l’attuazione della politica della giustizia passa dai magistrati. Ora, se la garanzia dell’indipendenza dei magistrati comporta che ogni provvedimento che li riguarda sia riservato al CSM, quest’ultimo diventa corresponsabile dell’attuazione della politica della giustizia. Questo compito possiede indiscutibilmente una dimensione politica. Se ad esempio il CSM ammettesse che un magistrato può essere trasferito a domanda ogni tre mesi o che il 50% dei magistrati può essere messo fuori ruolo o che un magistrato lavativo può far “carriera” allo stesso modo del magistrato laborioso, il CSM avrebbe il potere di affossare di fatto qualunque politica diretta al funzionamento della giustizia. Sotto questo profilo il CSM è un organo il cui modo di operare ha conseguenze sull’andamento della giustizia. Sarebbe un esercizio sofistico non definire “politiche” tali conseguenze, se è vero che l’andamento della giustizia in qualunque Paese è uno degli elementi fondamentali del suo assetto politico. In conclusione, coloro che entrano nel CSM devono avere la consapevolezza che nel ruolo di gestione/amministrazione dei singoli magistrati e nei provvedimenti paranormativi hanno un compito di rilievo politico: il rilievo politico che possiede in uno Stato il funzionamento concreto della sua giustizia.

    La debolezza o meglio quella che Nappi chiama “crisi di rappresentanza politica dei gruppi consiliari” si riflette in un declino dell’organo, soltanto in parte supplito, nella consiliatura 2010/2014, da un Comitato di presidenza “forte” anche grazie alla presenza di un primo presidente dotato della autorevolezza e dell’equilibrio di Ernesto Lupo. Ma l’incapacità di iniziativa “politica”, nel senso sopra chiarito, dei gruppi consiliari non può trovare rimedio nello spirito di iniziativa di un Comitato di presidenza e nemmeno nelle risorse della componente laica che, quand’anche di buon livello – e il libro alle pagine 150-153 si spiega perché ciò è oggettivamente non facile -, è minoritaria.

    4. Deformazione funzionale

    All’incapacità di comprendere il ruolo politico e dotarlo di contenuti programmatici, si lega nell’ambito dei difetti del CSM un terzo nodo identificato da Nappi in una deformazione funzionale. Si tratta della deformazione per cui la tutela dell’indipendenza dell’istituzione-Magistratura viene confusa con la difesa parasindacale degli interessi corporativi e/o del singolo magistrato. Tale deformazione funzionale emerge nelle delibere che il testo riporta taluna delle quale è difficile rileggere, pur a distanza di tempo, senza un forte imbarazzo.

    Si tratta quasi sempre di decisioni lassiste o “buoniste”, in cui una parte dei consiglieri, purtroppo spesso la maggioranza dei togati, ha piegato le regole a vantaggio di questo o quel magistrato beneficiandolo o “miracolandolo” in un modo o nell’altro. Soluzioni talora scandalosamente corrive, riportate nel libro di Nappi, fanno trasparire nei consiglieri che le hanno sostenute o la ricerca di consenso o rapporti di gratitudine o il condizionamento correntizio: in ogni caso, anche a “pensar bene”, è evidente l’incoscienza del proprio ruolo e delle impegnative esigenze che esso comporta.

    Altre volte la stessa incoscienza e le stesse esigenze di accaparrare o non perdere consenso si sono ripercosse su delibere di carattere generale. Con conseguenze talora anche peggiori.

    Si è fatto dire alla legge ciò che non dice e alla logica il contrario di ciò che la logica impone. Si è arrivati ad affermare, ad esempio, che il procuratore nazionale antimafia deve bensì esercitare poteri di coordinamento sulle procure distrettuali, ma non può pretendere di conoscere gli atti necessari a realizzare tale doveroso coordinamento, salvo poi, come Nappi ricorda con amara ironia, deliberare, su proposta di un laico di Centrodestra e di un togato di UniCost, una “giornata della memoria” per la vittime della mafia. Iniziativa invero più facile dell’assunzione di una chiara posizione istituzionale che avrebbe potuto scontentare qualcuno degli appartenenti alla corporazione (la ricostruzione della vicenda alle pp. 108-112). Per fare un altro esempio, in tema di “carichi esigibili” la maggioranza togata ha formulato una delibera cosiffatta da suggerire paradossalmente ai magistrati la cui produzione superi la media di contenere i loro “eccessi” di laboriosità.

    5. False eccezioni vera incoerenza

    Come viene surrogata l’assenza di capacità progettuale relativa alla politica della giustizia? Con altri difetti, come l’incoerenza delle delibere soggette a oscillazioni che aprono la via ai ricorsi, o come l’uso di deroghe giustificato da motivazioni attinenti al servizio che non riescono a nascondere la realtà della relazione clientelare. La silloge lascia pochi margini di interpretazione quanto all’impiego “amicale” o “familistico” del potere derogatorio che taluni componenti del CSM si attribuiscono, spesso con l’aggravante del do ut des.

    Penso che un’istituzione credibile debba poter assumere decisioni oltre e contro le regole nei casi eccezionali in cui la necessità lo esige. Si pensi, per un esempio di tragica attualità, alla vicenda covid. Vi sono eventi in cui la salus Reipublicae non può non essere la suprema lex che sarebbe ridicolo sottomettere al rispetto formale di una qualche circolare. Né si può immaginare che sia dato sempre il tempo di riscrivere le regole prima di assumere talune decisioni urgenti e tanto meno ci si può illudere che le regole siano in grado di tutto prevedere. Il problema attiene alla correttezza dell’esercizio del potere di eccezione. Non lo è l’eccezione frequente e priva di proporzionata ragione né l’eccezione pretestuosa che maschera il favoritismo.

    6. Chi è il candidato-traditore

    Il libro di Nappi fa la scelta di non riportare mai i nomi dei magistrati coinvolti nelle delibere segnate dal favoritismo o dal lassismo corporativo. Mi sono chiesto la ragione di tale scelta e mi sono risposto che è dovuta non solo al rispetto delle persone coinvolte, ma anche alla volontà di far comprendere che è il problema nella sua oggettività ciò che interessa, non il fatto che sia implicato di volta in volta Tizio o Caio.

    Nappi fa la scelta opposta quanto ai nomi dei consiglieri, togati e laici, autori delle decisioni. Qui non ci sono sconti per nessuno e, oltre ai nomi, il testo ricorda anche i gruppi di provenienza o di appartenenza, compreso quello di “Area” all’interno del quale Nappi fu eletto e iniziò l’avventura consiliare. Mi sembra chiara la ragione di questo diverso trattamento. Tornando alla frase di Churchill, il fatto che la democrazia sia “il peggiore sistema politico eccezion fatta per tutti gli altri”, non implica che i rappresentanti del difettoso demos debbano sentirsi rasserenati dall’essere altrettanto carichi di difetti dei loro rappresentati. Essi hanno scelto, con volontà battagliera, di diventare i rappresentanti della democrazia proponendosi come “candidati” (ovvero limpidi, immuni, trasparenti, puliti), giurando su programmi, impegnando il proprio onore nella difesa di valori, garantendo la propria coerenza. Per essi vale, dunque, una ben diversa condizione. Possiamo dire che essi hanno volontariamente abbracciato l’impegno di trasformare – nei limiti delle loro forze, delle condizioni storiche e dei tempi del mandato - il peggior sistema del mondo nel migliore sistema possibile. Rispetto a questo impegno la loro responsabilità è diversa da quella dei rappresentati. Suggerisco la lettura del libro di Nappi come valido sussidio per non dimenticarlo.

    7. Riforme. Debolezza dei rimedi elettorali

    Quattro anni a palazzo dei marescialli” è animato, direi in ogni riga, dal “voler bene” all’istituzione, posto che “voler bene” significa “volere il bene”. Nel capitolo finale la preoccupazione dell’Autore si traduce in un complesso di ipotesi riformatrici destinate a contrastare quel declino del CSM che le pagine precedenti hanno mostrato nella sua pesante gravità.

    Nappi ci dice che esistono rimedi anche con interventi tutto sommato semplici. Per richiamare taluna delle proposte, si pensi al superamento della lottizzazione dei componenti dell’ufficio studi e della segreteria del CSM, all’abbandono del sistema delle nomine dei direttivi “a pacchetto” e alle limitazioni di una discrezionalità che apre le porte all’arbitrio o ancora al contenimento degli incarichi extragiudiziari, alla semplificazione della selva selvaggia della normazione secondaria (“labirinto di un medievaleggiante sistema normativo”), a una Sezione disciplinare maggiormente distaccata dal CSM per accrescere la credibilità della giustizia amministrata nei confronti dei magistrati. Inserisco qui una considerazione personale: se è vero che il sorteggio è inidoneo ad assicurare una selezione fondata sulla rappresentatività e sulla competenza, esso va apprezzato quando il valore prevalente da tutelare è l’imparzialità. Perché non utilizzarlo allora, al fine di ridurre possibili condizionamenti correntizi e contrastare l’aspetto di giustizia “domestica”, nella selezione dei componenti della Sezione disciplinare (che potrebbe contemplare anche un parziale rinnovo nel quadriennio) tra gli eletti del CSM? Mi sembra che ciò non richiederebbe nessuna riforma costituzionale.

    Il testo rifiuta la taumaturgica fiducia nel sorteggio come risposta al prepotere correntizio. L’ANM e i gruppi organizzati da un lato hanno una funzione, storica e non esaurita, nella riflessione collettiva dei magistrati, dall’altro sono insopprimibile espressione delle aggregazioni sociali. Si tratta di affrontare nella concretezza le degenerazioni incidendo sui meccanismi che consentono l’invasività del sindacalismo correntizio sulla logica istituzionale. Certamente anche una riforma elettorale è utile – si trova qui l’idea di un sistema a doppio turno con obbligo di un ampio numero di candidature – ma è noto che l’ingegneria dei sistemi elettorali per quanto sofisticata può essere aggirata, come è avvenuto quando la legge elettorale adottata all’insegna dell’anticorrentismo ha comportato il massimo rafforzamento elettorale delle correnti.

    8. Presidenti inascoltati

    Il testo segnala le occasioni in cui il presidente Napolitano ha inviato messaggi al CSM non sempre recepiti come sarebbe stato opportuno e documenta che troppo spesso tale insufficiente sensibilità è stata ascrivibile ai togati. La crisi del CSM e di riflesso della magistratura esplosa nel 2019 rinvia a tale insufficienza di sensibilità e alla conservazione di atteggiamenti di miope difesa corporativa, di tutela parasindacale e favoritismo. Senza quegli atteggiamenti, diffusi nella componente togata, quale sarebbe stato il “potere” di un capo-corrente e quale audience avrebbero trovato in Consiglio le esigenze di acquisizione-mantenimento-gestione del “consenso” che non lui soltanto impersonava?

    Il successore di Napolitano, l’attuale presidente Mattarella, affrontando tale crisi ha pronunciato parole gravi: “Tutta l’attività del Consiglio, ogni sua decisione sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza” (si legga l’intervento completo nella fonte aperta www.csm.it sotto la voce news 21 giugno 2019). Quando la suprema magistratura, che per la sua funzione di garante la Costituzione pone al vertice anche dell’organo di governo della magistratura, è costretta a guardare “con qualche pregiudiziale diffidenza” le decisioni adottate dall’istituzione che presiede e quando tale preoccupazione fa seguito alle analoghe preoccupazioni di suoi precessori, appare giustificato il timore che l’assetto costituzionale del 1948 abbia riposto eccessiva fiducia nella capacità dei magistrati di governarsi.

    Le proposte che troviamo nel capitolo terzo del libro sono tali da attenuare le distorsioni e i condizionamenti che una malintesa appartenenza correntizia fa ricadere sulla rappresentanza istituzionale. L’Autore si rende conto, peraltro, che ciò non basta a risanare un sistema “il cui disfacimento rischia di travolgere non solo [talune] eleganze da ballo sul Titanic, ma anche alcune garanzie istituzionali faticosamente conquistate quando la magistratura esprimeva una capacità progettuale” (p. 160). Occorre ben più di alcune riforme se il costume diffuso nella magistratura finirà per conformarsi a quell’etica pubblica della quale Nappi vede il profondo scadimento (p. 167).

    Perché, alla fine, se è vero che le responsabilità del rappresentante sono ben maggiori di quelle del rappresentato, è altrettanto vero che dietro ogni favoritismo, ogni lassismo, ogni clientelismo sta (almeno) un magistrato che preme e si preoccupa meno del rispetto della regole che del proprio interesse. Siamo così ricondotti a considerare la parte comune e corale di una pur differenziata responsabilità. Il libro di Nappi come abbiamo visto nomina soltanto i rappresentati del popolo magistratuale, ma fa ben intravvedere dietro di loro i cento magistrati diversamente responsabili - ma non irresponsabili.

    9. Dalla crisi al rimedio

    Al termine della lettura di “Quattro anni al palazzo dei marescialli” mi sono chiesto se la situazione sia oggi peggiore di quella che vissi nel Consiglio del 1981. La risposta a questa domanda non può essere data con un no o un sì. Sotto un certo profilo la vicenda Palamara con quanto ne emerge alle spalle in termini di costume diffuso fa pensare a un peggioramento.

    In realtà, il Consiglio del 1981 vide per almeno un paio d’anni il trionfo della famigerata “regola del 17” che comportava la nomina agli incarichi direttivi – allora più drammatica di oggi perché teoricamente “a vita” – grazie alla convergenza sistematica dei togati di due correnti con i laici “governativi”. Insieme facevano appunto 17 voti, che, nel CSM allora di 33 componenti, erano stabile maggioranza. Né quello era l’unico difetto del Consiglio, pur se lo si ricorda più facilmente di altri.

    Ma vi è anche un altro motivo che mi porta a ritenere che non si possa dire soltanto che le cose sono peggiorate. Ed è la reazione che vi è stata ad opera del Capo dello Stato, dell’ANM e dello stesso Consiglio. Una reazione non ancora sufficiente, ma certamente non simbolica. Faccio molta fatica a credere che la risposta sarebbe stata così netta nel tempo in cui le due correnti maggioritarie in magistratura facevano il bello e il brutto. Dobbiamo vedere che una trasformazione vi è stata. L’ingresso nell’Associazione del Movimento per la Giustizia-Proposta 88 e poi di Area non hanno certamente appagato tutte le attese né realizzato tutte le speranze, ma hanno portato una novità che si è riflessa sull’associazionismo e ha raggiunto il CSM. Non vederlo sarebbe sbagliato.

    Altrettanto sbagliato sarebbe considerare “Quattro anni a palazzo dei marescialli” un elenco di malefatte da cui nulla e nessuno si salva. Al contrario di alcuni scandalistici pamphlet messi ora in circolazione, il libro di Aniello Nappi ci dice che la democrazia è quel sistema pieno di difetti in grado più di ogni altro di correggerli. Purché li si descriva con precisione, si distinguano le situazioni, si contestino con forza gli errori e si partecipi alla mai conclusa lotta per rimuoverli.

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