ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Qualificazione del rapporto di lavoro e tutele dei magistrati onorari alla luce della sentenza della Corte di Giustizia (seconda sezione), 16 luglio 2020, C-658/18, UX
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Edoardo Ales, Umberto Gargiulo, Marco Macchia e Carla Musella
1. Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il magistrato onorario italiano rientra nella nozione eurounitaria di giudice, come ha riconosciuto la recente sentenza della Corte di Giustizia (seconda sezione), 16 luglio 2020, C-658/18, UX, della quale parleremo diffusamente più avanti. Qual è la vostra opinione in proposito?
Edoardo Ales
La risposta alla domanda potrebbe essere estremamente sintetica: la qualificazione dell’organismo di rinvio come “giurisdizione”, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, costituisce applicazione del Diritto dell’Unione Europea e, quindi, nel momento in cui la Corte di Giustizia UE la afferma, come nel caso del giudice di pace italiano, il discorso è chiuso. Ciò non toglie, tuttavia, che si possa, almeno sul piano della riflessione scientifica, sindacare la valutazione della Corte e i suoi presupposti, non prima, però, di aver ricordato gli elementi che la Corte stessa tiene in considerazione per giungere ad una simile conclusione: l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, lo svolgimento in contraddittorio dei procedimenti dinanzi ad esso, l’applicazione, da parte dell’organo medesimo, di norme giuridiche, nonché e soprattutto la sua indipendenza. Degli elementi enunciati, nel caso del giudice di pace remittente, quello problematico è, a mio avviso, l’ultimo: non nel senso della autonomia di giudizio, ampiamente garantita dal sistema giudiziario nazionale, checché ne dica il remittente stesso; quanto, per usare le parole della Corte, nella prospettiva dell’imparzialità, da intendersi come “equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima. Questo aspetto impone il rispetto dell’obiettività e l’assenza di qualsivoglia interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica”. La Corte, nel propendere per l’imparzialità del giudice di pace rispetto alla controversia in oggetto, non si esprime direttamente, ma rinvia a suoi precedenti, insistendo, come d’altronde proposto dall’Avvocato Generale, sull’esistenza di una competenza in materia da parte del remittente, la quale, automaticamente, pare di capire, escluderebbe il conflitto di interessi. Conflitto che, invece, a mio avviso risulta evidente. Non tanto per l’ipotesi, pur avanzata dal Governo italiano, di una ‘pastetta’ tra giudici di pace (il remittente e la parte del giudizio), alla quale mi piace non credere, quanto piuttosto per l’almeno teorica comunanza di interessi a veder riconosciuta la natura di lavoratore ai sensi del Diritto dell’Unione, comunanza che esclude, appunto, “l’equidistanza rispetto alle parti della controversia ed ai loro rispettivi interessi in rapporto all’oggetto di quest’ultima”.
Umberto Gargiulo
Come già è stato segnalato, il riconoscimento operato dalla Corte di Giustizia della qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE è funzionale alla verifica della sussistenza delle caratteristiche che abilitano la promozione dell’istanza di rinvio pregiudiziale e dunque non può essere caricato di significati ulteriori ed esteso oltre l’ambito del Diritto dell’Unione.
Nello specifico, la Corte, confermando la propria giurisprudenza precedente, ha accertato il ricorrere dei caratteri della giurisdizione nel diritto europeo, al fine, è bene ripeterlo, di accertare la ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale e quindi che il rinvio fosse stato azionato da un soggetto legittimato. La Corte, pertanto, controlla che l’organo abbia origine legale, carattere permanente, che la sua giurisdizione sia obbligatoria, che vi sia il rispetto del contradditorio nel procedimento, che l’organo applichi norme giuridiche e, non ultimo, la sua indipendenza.
È scontato rilevare che, avendo la Corte già deciso per la ricevibilità del rinvio, la discussione assuma un valore “teorico”. Non si può non segnalare come, dei diversi profili sui quali si erano appuntate le eccezioni del Governo italiano – cioè le caratteristiche del procedimento nel quale si era prodotta l’esigenza di accertamento pregiudiziale (un procedimento monitorio, a contraddittorio, in quella fase, meramente eventuale e dunque non integro), ma soprattutto le valutazioni sull’indipendenza dell’organo remittente – sollevino non poche perplessità, particolarmente quanto alla terzietà dell’organo in questione rispetto alla decisione oggetto del ricorso: aspetto quest’ultimo, che attiene, invero, non tanto all’indipendenza in senso lato, quanto all’interesse rispetto alla questione oggetto di rinvio; profilo che conferma, però, come il controllo operato dalla Corte sia intrinsecamente funzionale unicamente alla verifica della legittimazione alla promozione dell’istanza di pronuncia pregiudiziale.
Non appare tuttavia opportuno indugiare più di tanto su un argomento ormai chiuso. Per converso, è utile ribadire che il riconoscimento della giurisdizione nazionale in capo al giudice di pace che aveva azionato il rinvio vada letto per ciò che è, dunque nell’ambito della verifica di legittimazione poc’anzi descritta. Sarebbe infatti improprio ricavarne ricadute sul diritto nazionale, al fine di trarne indicazioni per la qualificazione di un soggetto come “giudice” sul piano dell’ordinamento interno.
Marco Macchia
Il riconoscimento della qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE – abilitata come tale a promuovere istanza di rinvio pregiudiziale nel diritto dell’Unione europea – è un concetto che non deve essere confuso con quella di “giudice” in base al diritto nazionale. Essi integrano due nozioni diverse, innanzitutto rilevante una nell’ordinamento sovranazionale e l’altra nel sistema domestico. La nozione di giurisdizione delineata a livello europeo è in altre parole autonoma rispetto agli ordinamenti nazionali. Per costante giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, come è stato già ricordato, affinché un organo possa ricadere nella definizione di “giurisdizione” ai sensi dell’art. 267 TFUE, occorre tenere conto di un insieme di elementi, quali il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente. È altresì necessario che l’organo in questione si trovi in posizione di terzietà rispetto all’autorità che ha adottato la decisione che costituisce oggetto del ricorso.
Se si tiene a mente tale premessa, non è inusuale che un organo pubblico, il quale non rappresenti un giudice a livello nazionale, sia qualificato “giurisdizione” ai meri fini della domanda di pronuncia pregiudiziale. Basti pensare al caso del Consiglio nazionale forense italiano, che non è giudice, ma è “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267 e, pertanto, la Corte di giustizia è competente a rispondere alle questioni sottoposte da tale organo. Lo stesso vale per il Tribunal Económico-Administrativo Central in Spagna, competente a conoscere in prima e ultima istanza dei reclami proposti avverso decisioni adottate da alcune autorità tributarie centrali. Molto si è discusso anche per attribuire la medesima qualifica altresì alle autorità nazionali di concorrenza, sebbene la tendenza europea sia di dichiarare irricevibile la domanda di rinvio pregiudiziale sollevata da queste ultime per assenza dei necessari presupposti soggettivi.
Per tornare ai giudici onorari italiani, sulla scorta dei requisiti sopra indicati appare ragionevole che gli stessi siano indicati come “giurisdizione” secondo l’art. 267, avendo una base legale, un carattere permanente, operando secondo diritto, in modo indipendente e nel rispetto del contraddittorio, nonché in posizione di terzietà rispetto agli organi che hanno svolto l’attività istruttoria, nel caso di specie gli uffici del Ministero della Giustizia le cui determinazioni sono qui impugnate. Nondimeno, non deve essere eccessivamente valorizzata la natura europea di “giurisdizione” – dato che nella prospettiva sovranazionale è interesse comune ampliare il novero dei soggetti abilitati ad attivare il giudizio pregiudiziale – bensì deve essere preservata l’autonomia nazionale di definire le condizioni alla ricorrenza delle quali un organo può essere definito “giudice”.
Carla Musella
Le argomentazioni della Corte di Lussemburgo in base alle quali il giudice di pace è stato ritenuto rientrante nella nozione eurounitaria di giudice ai sensi dell’art. 267 del Trattato non sono tutte condivisibili, per quel che rileva su questo punto. La Corte ha, invero, superato tutte le obiezioni poste nel procedimento relativamente alla sua ricevibilità sicché, come già osservato da chi mi ha preceduto, sotto tale profilo non resta che prenderne atto.
Occorre, tuttavia, rammentare che la Corte di giustizia detiene una parte essenziale del potere legislativo nell’ambito dell’Unione Europea e le sue decisioni contengono disposizioni generali di diritto eurounitario caratterizzate dall’astrattezza e dalla generalità come la legge.
Ne consegue la rilevanza e l’interesse del procedimento di formazione di tali disposizioni generali contenute nelle sentenze della Corte, se non altro perché si tratta dei confini del potere legislativo nell’ambito dell’Unione Europea; confini e potere che dipendono anche dall’ampiezza del concetto di “giurisdizione nazionale” ritenuto idoneo dalla Corte a consentire la sua decisione nel merito.
La Corte, a mio avviso, non ha risposto adeguatamente alle obiezioni del Governo italiano e della Commissione europea esposte nella sentenza UX ai punti 36, 37 e 38 e proprio alla stregua della nozione di giurisdizione elaborata dalla stessa Corte di giustizia vi era quantomeno più di un dubbio sulla possibilità di definire il giudice di pace di Bologna che ha sollevato la questione pregiudiziale come “giurisdizione” ai sensi dell’art. 267 TFUE.
Il concetto di giurisdizione ai fini dell’art. 267 TFUE va desunto unicamente dal Diritto dell’Unione, afferma la Corte di Giustizia. Ciò implica la indifferenza del Diritto dell’Unione alle eventuali definizioni nazionali in quanto la Corte compie la sua valutazione unicamente sul Diritto dell’Unione e tiene conto di un insieme di elementi rilevanti a tal fine.
La Corte per valutare se l’organo del rinvio possegga le caratteristiche di una giurisdizione ai sensi dell'articolo 267 TFUE, tiene conto degli elementi già più volte menzionati in precedenza e sottolineati dalla stessa Corte al punto 42 della motivazione della sentenza UX.
Iniziando dall’ultimo elemento - indipendenza del magistrato - nella sentenza UX si fa ampio riferimento sia alla sua componente esterna, vale a dire all’indipendenza da ogni altro potere, che a quella interna, cioè tale da porre il giudice in una condizione di imparzialità e terzietà rispetto alla vicenda concreta sottoposta al suo esame. Quest’ultimo elemento non può che fare riferimento al caso concreto e non certo alle caratteristiche astratte dell’organo che effettua il rinvio pregiudiziale, vale a dire che la terzietà si misura sul caso concreto.
Il giudice di pace di Bologna nell’ordinanza 6 ottobre 2018 non è affatto terzo, trattandosi di questione relativa (anche) al proprio rapporto di lavoro, con concreto interesse alla questione pregiudiziale proposta che ovviamente vale per tutti i giudici di pace e quindi anche per quello che ha emesso l’ordinanza.
Come già osservato da Edoardo Ales, il giudice di pace che ha sollevato la questione non poteva definirsi “terzo” ed imparziale rispetto alla questione esaminata riguardante proprio il rapporto di lavoro dei giudici di pace e quindi anche il proprio rapporto di lavoro. Ma la Corte ha risposto alla questione richiamando propri precedenti in cui non era stato ritenuto ostativo il coinvolgimento del magistrato nella questione dallo stesso sollevata (punto 56 della sentenza UX e pronunce ivi richiamate).
Tuttavia, nel caso in esame, a mio avviso, vi erano ulteriori elementi concreti da valutare che rafforzavano la mancanza di terzietà nella vicenda.
1.1. Vuole spiegarci meglio questi elementi con specifico riferimento al caso concreto del giudice di pace rimettente?
Carla Musella
Come osservato dal Governo italiano (punto 37 della sentenza), il giudice di pace che ha sollevato la questione non aveva neppure la “competenza” a decidere della questione sollevata, riguardante, in ipotesi, la condanna al pagamento della retribuzione per le ferie previo riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato. La domanda di ingiunzione di pagamento proposta dal giudice di pace UX al giudice di pace di Bologna presuppone, dunque, un accertamento della esistenza di un rapporto di lavoro subordinato rientrante nella competenza del giudice del lavoro. Questo aspetto riguarda l’obbligatorietà della giurisdizione.
La lettura della ordinanza del giudice di pace di Bologna evidenzia che la domanda risarcitoria proposta da UX è strettamente collegata all’accertamento della illegittimità della condizione di precario del giudice di pace istante, secondo la disciplina giuridica applicata al rapporto da parte dello stato italiano, e dunque all’accertamento del diritto irrinunciabile alle ferie. Non è, pertanto, condivisibile la sentenza della Corte di giustizia laddove afferma che la competenza del giudice di pace non era esclusa per le cause di risarcimento danni (punto 59 della sentenza). Il titolo risarcitorio per l’inadempimento dello Stato italiano alle direttive comunitarie appare, nell’ordinanza che solleva la pregiudiziale, strettamente collegato con l’accertamento pregiudiziale di un rapporto di lavoro subordinato assimilabile a quello del magistrato togato e del diritto alla retribuzione spettante per il periodo di ferie quantificata sulla base di quella percepita dal giudice togato. La lettura delle argomentazioni compiute nell’ordinanza di rinvio, che contiene ampi riferimenti alla quantità di lavoro svolto dal giudice di pace UX e al comportamento dello Stato italiano nei confronti del c.d. precariato pubblico incluso quello scolastico, evidenzia la materia del contendere del procedimento monitorio diretta anche all’accertamento pregiudiziale della esistenza di un rapporto di lavoro rientrante non certo nella competenza del giudice di pace.
Ma se su questo singolo aspetto potrebbe obiettarsi ancora che la causa risarcitoria per inadempimento dello stato italiano alle direttive comunitarie non è collegata necessariamente al rapporto di lavoro e può anche essere una causa civile ordinaria (si veda in tal senso Cass. 23 marzo 2012, n. 4712), tuttavia in questo caso vi era comunque un rapporto di lavoro da accertare, tant’è che nel ricorso per decreto ingiuntivo UX rivendica l’esistenza di tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato, chiedendo l’equiparazione al magistrato ordinario di terza valutazione di professionalità.
La questione di competenza andava valutata, inoltre, a mio avviso, sia in relazione alla dedotta mancanza di terzietà e sia pure valutando l’aspetto ulteriore della mancanza di contraddittorio nel procedimento monitorio. Sotto tale profilo condivido il punto di vista del Governo italiano (richiamato nel punto 38 sentenza UX). Ritengo, pertanto, che gli elementi carenti sopra menzionati (carenza di terzietà e di obbligatorietà della giurisdizione) siano notevolmente rafforzati dalla carenza di contraddittorio nel procedimento principale.
Il procedimento principale – procedimento monitorio - è un procedimento inaudita altera parte a contraddittorio eventuale, come è stato precisato in precedenza, sicché mancava anche il requisito del contraddittorio che, proprio secondo la Corte di giustizia, è uno dei requisiti essenziali per verificare l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 267 TFUE.
La mancanza di terzietà appare, dunque, confermata, oggettivamente, dalla dubbia competenza e dall’assenza di contraddittorio. Sul punto va osservato che nel caso di specie, la incompatibilità tra il procedimento monitorio e la pregiudiziale comunitaria deriva proprio dal carattere eccezionale del procedimento monitorio che richiede per l’ emissione della ingiunzione di pagamento la certezza, liquidità ed esigibilità del credito e che ha proprio la funzione di garantire al creditore la possibilità di conseguire, il più rapidamente possibile, il titolo esecutivo; funzione che viene meno nel momento in cui il procedimento viene sospeso per l’invio della pregiudiziale comunitaria.
In assenza dei presupposti legittimanti, la domanda proposta con il ricorso monitorio va respinta, proprio per l’eccezionalità della carenza di contraddittorio. La carenza di contraddittorio era quindi una leva importante e concreta per ravvisare, nel contesto di una probabile incompetenza del giudice di pace nel procedimento principale, la mancanza di terzietà del giudice di pace atteso che il principio del contraddittorio ha una valenza internazionale come caratteristica costante del procedimento civile in tutte le costituzioni e nei sistemi legislativi di tutto il mondo e non solo quindi nell’art. 111 della nostra Costituzione [ v. sul punto A. Do Passo Cabral, Il principio del contraddittorio come diritto di influenza e dovere di dibattito, in Riv. dir. proc., 2005, pp 449 ss.].
La risposta della Corte con il riferimento ai propri precedenti (punto 64 della sentenza UX) in cui ha ritenuto ricevibile la pregiudiziale avanzata in un procedimento di ingiunzione è molto formale e non tiene conto del caso di specie dove, diversamente dagli altri due casi citati, erano claudicanti anche la terzietà del giudice e la obbligatorietà della sua giurisdizione.
In definitiva una valutazione complessiva degli elementi che la stessa Corte indica come richiesti dall’art. 267 TFUE avrebbe potuto dar luogo ad una pronuncia diversa.
2. Quello dei magistrati onorari è un rapporto di servizio o un rapporto di lavoro, nei termini tradizionali ai quali siamo abituati a considerarli? Cosa significa “onorario” nell’esercizio delle funzioni pubbliche?
Edoardo Ales
La risposta alla domanda, estremamente complessa, si può dare, a mio avviso su due piani diversi.
Sul piano teorico, rispetto al quale mi pare evidente che l’onorarietà dell’ufficio (Amt, per usare l’espressione tedesca) possa configurare esclusivamente un rapporto di servizio (Dienst), la cui ‘causa’ sta proprio nell’onore (Ehre) di concorrere con la propria professionalità (Kompetenz) all’esercizio di una funzione di pubblica utilità tra le più alte, quale quella giurisdizionale. Si tratta, quindi, di un’attività prestata ehrenamtlich (a titolo onorifico) per lo svolgimento della quale l’incaricato non deve percepire alcun compenso, traendo la propria soddisfazione dall’onore derivante dallo svolgimento della funzione. In questa prospettiva, l’accesso alla funzione stessa non dovrebbe richiedere alcuna formazione contenutistica specifica, consistendo l’attività da prestare nella messa a disposizione di una professionalità (Kompetenz) già in possesso di colui che volontariamente si offre. Una breve ‘infarinatura’ rispetto agli elementi procedurali dovrebbe bastare. Questa visione dell’onorarietà dell’ufficio si avvicina molto alla condizione del volontario, al quale, in base alla legislazione vigente, non è dovuta alcuna retribuzione o indennità, ma il solo rimborso delle spese eventualmente sostenute.
Sul piano pratico, mi pare che il discorso sia molto diverso. La legislazione vigente, non diversamente da quella precedente, riconosce una vera e propria remunerazione (di questo avviso anche la Corte di giustizia), a cottimo o sotto forma di indennità onnicomprensiva, che esclude dalla ‘causa’ del rapporto l’elemento onorifico prima richiamato, rendendo l’attività un vero e proprio lavoro, in quanto tale, protetto dalla Repubblica in tutte le sue forme ed espressioni (art. 35, Cost.). Ciò comporta una contraddizione in termini: il giudice o il procuratore onorario tali non possono essere in quanto, al di là dell’elemento soggettivo che li muove (il sentirsi onorati), ottengono dal loro impegno una remunerazione. A meno che non vi rinuncino (ma ciò oltre che improbabile sembrerebbe essere anche ‘impossibile’, alla luce dell’impianto legislativo), il compenso che derivano dall’attività svolta ne esclude il carattere onorario, riportandola, come detto, nell’alveo del lavoro, costituendo, così un rapporto di lavoro che sostituisce quello di servizio. Non certamente perché lo priva della qualità professionale, quanto, piuttosto, perché lo connota in termini sinallagmatici di do ut des concreto e non solo ideale (il prestigio che deriva dall’esercitare gratuitamente una certa funzione di rilevanza collettiva).
Questa riflessione vale a prescindere dalla consistenza numerica, pur impressionante, della magistratura onoraria rispetto a quella professionale. Infatti, in altri ordinamenti, i giudici cosiddetti laici che affiancano la magistratura professionale non sono da meno quanto a numero. Essi, tuttavia, svolgono la loro funzione o in quanto portatori di interessi specifici, come nel caso delle controversie di lavoro, essendo indicati dalla parte sindacale e datoriale, o in quanto esperti della materia, nelle corti di legittimità, livello al quale contribuiscono ad elaborare il principio di diritto. Nell’un caso e nell’altro, la funzione giurisdizionale è esercitata dal magistrato professionale, la cui posizione, di norma, consente di risolvere l’empasse creato dal ‘pareggio’ delle opinioni contrastanti o di dare forma di sentenza al principio di diritto proposto dal giudice laico (spesso professore universitario). Si tratta, quindi, di un ruolo, per quanto importante, pur sempre di affiancamento che richiede anche un inserimento organizzativo meno impegnativo nel sistema giudiziario di quanto non pretenda, invece, la posizione monocratica del giudice onorario italiano.
La mia conclusione, quindi, è che non si tratti di un giudice onorario nel senso teorico sopra esposto.
Umberto Gargiulo
La risposta a questa domanda impone, a mio avviso, tre piani di riflessione.
Innanzitutto, occorre partire dal disegno del Costituente. Nella prospettiva dell’art. 106, Cost. il ricorso alla magistratura onoraria era destinato a un impiego “straordinario” e limitato, sicché, in coerenza con altre funzioni attribuite a titolo onorario, anche per la magistratura onoraria le caratteristiche distintive avrebbero dovuto essere la gratuità (non necessariamente in conflitto con qualche forma di compenso a carattere indennitario), la temporaneità, l’impiego a tempo parziale, il carattere non professionale e non continuativo dell’attività prestata.
Come pure è stato rilevato, quindi, l’ambito elettivo della magistratura onoraria era, tradizionalmente, quello della giustizia c.d. minore; inoltre non poteva essere “indiscriminato”, perché il limite di utilizzo dei magistrati onorari si arrestava in primo grado dinanzi alla competenza del tribunale, giudice collegiale all’epoca dell’entrata in vigore della Carta costituzionale, che infatti vieta l’assegnazione al magistrato onorario delle «funzioni attribuite a giudici singoli».
Fa eccezione, ma ne è chiara la ratio, la previsione (il 3° comma dell’art. 106, Cost.) che consente ai professori ordinari di materie giuridiche e agli avvocati con quindici anni d’esercizio, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, di essere designati dal CSM, per meriti insigni, ad integrare le Sezioni della Corte di Cassazione.
Vi è stata, poi, com’è noto, un’evoluzione nel ricorso alla magistratura onoraria, puntualmente ricostruita, da ultimo, dalla Consulta nella sentenza n. 41 del 2021. E veniamo così alla seconda prospettiva di osservazione, che considera, appunto, l’utilizzo “massivo” dei giudici onorari per sopperire alle croniche carenze della giustizia, i cui dati di contenzioso non hanno pari, quanto meno a livello europeo, così che l’allargamento del novero dei soggetti chiamati a esercitare la funzione giurisdizionale è servita ad evitare la paralisi del sistema, soprattutto nel settore civile, ma è stata possibile grazie a un impiego tutt’altro che parziale, temporaneo e, dunque, straordinario di queste figure.
Come sta dimostrando plasticamente il contenzioso sviluppatosi proprio a ridosso della decisione della Corte di giustizia, si è avuto per decenni un inserimento sovente, continuativo, sul piano della quantità, e significativo, sul versante della qualità delle funzioni, nell’organizzazione del settore giustizia, con l’esercizio di attività non solo, e non sempre, di c.d. giustizia minore, e con compensi, connessi alla quantità dell’attività prestata, che hanno superato la caratteristica dell’indennità, per assumere connotazioni e continuità di vero e proprio corrispettivo. In questo senso, riprendendo i concetti riportati nella domanda, non credo si possa escludere, aprioristicamente e, forse, pregiudizialmente, che l’attività svolta abbia di fatto assunto i tratti di «un rapporto di lavoro, nei termini tradizionali». Ne discende che, con riferimento a queste situazioni, che sono al contempo “patologiche” – se riferite a un funzionamento ordinario dell’attività giurisdizionale – ma strutturali, se si guarda alla durata e alla consistenza che ha avuto negli anni, la verifica della possibilità di riconoscere diritti che presuppongano la qualificazione di lavoratore subordinato non può essere, ripeto, esclusa in linea di principio e va invece, come ricordano proprio i giudici di Lussemburgo, verificata dal giudice nazionale, caso per caso.
Altro e differente discorso è poi quello della possibilità di rendere stabile questo inserimento nell’organizzazione, che tocca un aspetto ancora diverso, che si affronterà più avanti.
C’è però il terzo profilo di osservazione, che prende le mosse dall’ultimo, in ordine di tempo, assetto normativo della magistratura onoraria: il legislatore del 2017, sebbene attraverso disposizioni non sempre ineccepibili e forse migliorabili, riconduce queste figure a una dimensione più aderente alla ratio istitutiva della magistratura c.d. laica, più coerente con il dettato costituzionale e, probabilmente, meno foriera di abusi.
Marco Macchia
Confesso sin d’ora che ho qualche difficoltà rispetto ai termini e ai concetti impiegati nella domanda. Nella prospettiva pubblicistica chi presta la propria attività al servizio di pubbliche amministrazioni vanta un duplice rapporto: di servizio, che sta ad indicare la prestazione lavorativa offerta in cambio di una retribuzione, e d’ufficio, in quanto titolare di una componente dell’organizzazione amministrativa e di una sfera di funzioni pubbliche. Seguendo questa prospettiva, il personale onorario potrebbe essere definito come quello “non professionale”, nel senso che vanta un rapporto di ufficio mentre il rapporto di servizio è secondario, quasi inesistente. L’esempio dell’assessore è emblematico: il ruolo è conferito secondo un criterio di rappresentanza politica, è a termine, il compenso non è un corrispettivo del servizio prestato ma un’indennità, e lo scambio tra lavoro e retribuzione (l’aspetto professionale) è ridotto: per fare un esempio, l’assessore non è tenuto al rispetto di un preciso orario di lavoro. In altre parole, è titolare di un ufficio pur non vantando un rapporto di servizio.
Visto in questi termini, per rispondere all’interrogativo, l’“onorarietà” nell’esercizio delle funzioni pubbliche è la titolarità di un ufficio secondo un criterio di rappresentanza politica o di rappresentanza di interessi in cui l’obbligo di prestare il proprio servizio a favore dell’amministrazione sorge in corrispondenza del rapporto di ufficio e si estingue con quest’ultimo. Essa risponde al principio democratico, e non a quello meritocratico tipico del personale professionale.
Se ciò è vero, il magistrato onorario dovrebbe vantare unicamente un rapporto d’ufficio, mentre il rapporto di servizio dovrebbe essere assolutamente recessivo, dato il diverso inquadramento della magistratura onoraria rispetto a quella “di professione”. Ne sono una dimostrazione la nomina per chiamata, la temporaneità, il regime indennitario. Qui però emerge un punto di crisi rilevante, nel senso che il funzionario onorario dovrebbe essere impiegato a tempo parziale, mentre sempre più spesso l’esercizio delle funzioni del giudice onorario assorbe l’intera capacità lavorativa del titolare dell’ufficio. Questa situazione di fatto deforma la costruzione teorica sopra narrata, con l’effetto che il rapporto di servizio cacciato dalla “porta”, rientra dalla “finestra”. Per tale via il rapporto di servizio onorario del giudice assomiglia sempre più ad un rapporto di lavoro, addirittura subordinato, a cui la Corte di giustizia tende di conseguenza a riconoscere le misure minime di tutela proprie dell’ordinamento europeo. Non vi è dubbio che l’urgenza della “natura delle cose”, dimostrata dal carico di lavoro della giustizia onoraria, venga a snaturare e a confondere l’originaria onorarietà del titolare dell’ufficio.
Carla Musella
La forzatura relativa alla ricevibilità della pregiudiziale che ho evidenziato nella precedente risposta nasce peraltro da lontano ed è il punto di arrivo di una vicenda che parte, volendo concentraci sugli ultimi anni, dalla richiesta della Commissione europea del 16 ottobre 2015 in cui venne contestato formalmente all’Italia il trattamento giuridico dei giudici onorari proprio sotto il profilo dell’assenza di un periodo di ferie retribuito, di una disciplina dell’orario di lavoro e della mancanza di un trattamento previdenziale ed assistenziale. Il Governo italiano ha risposto il 30 novembre 2015 negando l’esistenza di un rapporto di lavoro per l’assenza di direttive, definendo appunto i magistrati come funzionari onorari che svolgono mansioni semplici rispetto a quelle dei magistrati professionali e che esercitano spontaneamente le funzioni per dovere civico [sul punto si veda A. Proto Pisani, La magistratura onoraria tra Commissione europea e (tentata) furbizia italiana, in Foro it., 2018, V, 42 ss].
È evidente che la situazione attuale di fatto della magistratura onoraria non corrisponde alla figura del funzionario onorario. Basta leggere i dati contenuti nelle relazioni dei Presidenti di Corte d’appello che inaugurano l’anno giudiziario per verificare la mole di contenzioso civile definito dai giudici di pace e dai giudici onorari in generale e la conferma di tale “deviazione” viene indirettamente dalla sentenza n. 41/2021 della Corte costituzionale ove si afferma la contrarietà alla Costituzione delle norme che hanno previsto la istituzione dei giudici aggregati di Corte d’appello, inseriti nei collegi, laddove l’art. 106, Cost. contempla solo lo svolgimento delle funzioni monocratiche per i giudici onorari [per una lettura critica della vacatio stabilita da questa sentenza, in una analisi di insieme del ruolo di “decisore politico” che talvolta assume il giudice costituzionale, si veda l’articolo di A. Ruggeri, pubblicato in questa Rivista, il 13 aprile 2021, Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021).
Il vero nodo è che la giustizia civile italiana, per i numeri elevatissimi del contenzioso, non può reggere con i soli magistrati togati e d’altro canto questa situazione, che si è accentuata negli ultimi anni, è comune ad altri paesi europei che fanno largo uso della c.d. magistratura laica, termine certamente preferibile a quello di onoraria, che peraltro è contenuto nella Costituzione italiana. Se questo era vero già nel 1991 quando è stato istituito il giudice di pace, ancor di più lo è adesso che vi è una pressione fortissima a rendere più veloce la risposta della giustizia soprattutto civile.
Da ultimo vorrei sottolineare che questo problema è ancor più accentuato nel contesto della pandemia da COVID – SARS 2 con le difficoltà di tenere e portare a completamento il concorso per il reclutamento dei magistrati togati, a suo tempo rinviato, e per la crescita dell’arretrato dovuto alle chiusure degli uffici giudiziari e ai rinvii imposti dalla pandemia.
Quindi non si può negare che i giudici onorari svolgano un’attività di lavoro considerevole. Dalla più volte citata ordinanza di rinvio del giudice di pace di Bologna risulta che la ricorrente aveva depositato oltre 400 sentenze penali e oltre 1000 decreti di archiviazione tenendo due udienze monocratiche settimanali anche in materia di immigrazione. Parlare in questi casi di dovere civico sembra una ipocrisia giuridica.
Se dal piano del fatto e dell’innegabile esistenza di un’attività di lavoro, a volte intensa, dei giudici onorari sia di pace, che di Tribunale e aggregati di Corte d’appello, con inserimento nell’organizzazione degli uffici giudiziari, ci trasferiamo sul piano giuridico e della giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale riscontriamo una pacifica definizione del giudice onorario come funzionario onorario.
Appare opportuno richiamare una delle tante sentenze del giudice di legittimità per delineare proprio la figura del giudice di pace come funzionario onorario. Si tratta di una vicenda in cui è stato respinto un ricorso proposto avverso una sentenza che aveva negato al giudice di pace la corresponsione della indennità prevista dall’art. 11, c. 3 della legge n. 374/1991 richiesta per il periodo di non attività per la sospensione dei termini processuali.
Nella sentenza 20 settembre 2019, n. 25767 la Corte di Cassazione sui giudici di pace così motiva “pur non potendo sussistere dubbi sul fatto che la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari e che di tale categoria fanno parte sia i giudici di carriera che quelli onorari (v. gli artt. 102,104 e 105 Cost) - non è casuale la circostanza che, già prima dell'entrata in vigore della Carta Fondamentale del 1948, il RD 30 gennaio 1941 n. 12 art. 4, distinguesse “in due diversi commi le due categorie di magistrati ordinari, stabilendo nel comma 1 che l’ordine giudiziario “è costituito” dai magistrati cd. togati e nel secondo che “appartengono all’ordine giudiziario” anche gli altri magistrati cd. Onorari” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., 9 novembre 1998, n. 11272).
Da tale premessa poi la Corte ricava l’affermazione della “non omogeneità tra la figura del funzionario onorario e quella del pubblico dipendente (qual è, invece, il magistrato togato), “perché la prima si rinviene ogni qualvolta esista un rapporto di servizio con attribuzione di funzioni pubbliche, ma manchino gli elementi caratterizzanti dell’impiego pubblico, quali la scelta del dipendente di carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata mediante procedure concorsuali (che si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta politico-discrezionale); l’inserimento strutturale del dipendente nell’apparato organizzativo della P.A. (rispetto all'inserimento meramente funzionale del funzionario onorario); lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura dello stesso); la diversità concerne anche la durata, che è tendenzialmente indeterminata nel rapporto di pubblico impiego, a fronte della normale temporaneità dell’incarico onorario” (così, tra le tante, in motivazione, Cass. Sez. Lav., 5 febbraio 2001, n. 1622; per un’applicazione recente si veda anche, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 31 maggio 2017, n. 13721).
Concludendo sul punto, non vi è dubbio che la Costituzione delinei come funzionari onorari i giudici onorari e tale lettura è in un certo senso avallata dalla sentenza ultima della Corte costituzionale n. 41/2021 che traccia un excursus storico del ruolo di tali magistrati onorari ribadendo l’importanza del secondo comma dell’art. 106, Cost., con esclusione di qualsiasi lettura evolutiva della norma fondamentale, laddove affida ai giudici onorari solo le funzioni attribuite ai giudici singoli.
Tuttavia, è innegabile, a mio avviso, che il ruolo di fatto della magistratura onoraria nel nostro ordinamento renda spesso non coincidente la figura “astratta” del funzionario onorario con i giudici non togati.
3. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha escluso la possibilità di riconoscere al magistrato onorario lo status giuridico di pubblico dipendente a tempo pieno o parziale nell’ambito della magistratura. Condividete questo orientamento o lo ritenete superabile, e sulla base di quali argomenti?
Edoardo Ales
Da quanto evidenziato in precedenza mi pare ovvio derivare, sul piano teorico, che il magistrato realmente onorario non può essere classificato come pubblico dipendente al pari di un magistrato professionale. Sul piano pratico, invece, il discorso è, come detto, molto diverso e passa, inevitabilmente, come sottolineato dal Consiglio di Stato, dalla Corte di Cassazione e, in apicibus, dalla Corte Costituzionale, da una riflessione sul tema del reclutamento. Il ‘vero’ magistrato onorario si presta, non è reclutato. Il sistema in vigore prevede, invece, degli elementi di selezione non comparabili al pubblico concorso che, però, preludono all’inserimento in un ‘ruolo’ con tanto di dotazione organica che ricorda, appunto, il reclutamento, richiedendo anche l’esito positivo di un tirocinio e determinando l’assegnazione a una sede. Sta di fatto, tuttavia, che non presentando caratteri di analogia con il reclutamento dei magistrati professionali, non può dare accesso alla magistratura professionale.
Umberto Gargiulo
Il quesito qui incrocia la problematica del reclutamento e il ruolo che s’intende oggi attribuire al concorso pubblico: tematica che, ovviamente, travalica i confini di questa riflessione, ma che richiede, a mio avviso, un approccio pragmatico, quanto al tema più in generale, e per converso - non sembri una contraddizione - di estremo rigore, quanto allo specifico ambito esaminato.
Sul primo fronte è indubbio come lo strumento del concorso pubblico richieda, oggi più che mai, un serio ripensamento che accantoni qualsiasi approccio ideologico per importare un’ampia e diversificata strumentazione di verifica delle competenze: in questo senso, forse, gli strumenti selettivi impongono una revisione sostanziale, che investe tutto il comparto pubblico e la sua capacità di selezionare i soggetti più idonei a ricoprire le funzioni da assegnare.
Al contempo però, come ha ricordato la Consulta proprio con riferimento alla categoria dei giudici onorari, in sostanza il pubblico concorso qui viene in rilievo non tanto, e non solo, come strumento per la scelta dei “migliori” – e dunque in una prospettiva strumentale a garantire imparzialità e (in questo senso, soprattutto) buon andamento – ma risulta funzionale «a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza» (così Corte Cost. n. 41/2021) quale elemento fondante l’assetto ordinamentale della Repubblica.
La previsione di una selezione che – dietro la pressione dei “numeri” – volesse realizzare le predette finalità, finirebbe allora per rimettere in discussione la caratteristica stessa, onoraria, dell’attribuzione di talune funzioni giurisdizionali, radicando come strutturale una soluzione che il Costituente disegna come straordinaria, nel senso letterale del termine.
Va anche aggiunto che le ipotesi di cui si discute sono in qualche modo connesse al tentativo, sin qui fallito, di “stabilizzazione” della magistratura onoraria; un termine, quello di stabilizzazione, che sotto un’unica etichetta raccoglie forme diverse di superamento del precariato, buona parte delle quali non avallate dalla giurisprudenza costituzionale, proprio per il rischio di aggiramento del sistema del concorso pubblico, che dovrebbe essere tendenzialmente aperto, e per il coevo rischio di trattare in maniera omogenea posizioni per le quali l’inserimento nell’organizzazione ha avuto luogo con forme e modalità tra loro molto distanti.
Marco Macchia
A mio parere non è il Consiglio di Stato ad aver escluso la possibilità di riconoscere al magistrato onorario lo status giuridico di pubblico dipendente, bensì è il legislatore. Quest’ultimo ha chiaramente statuito, con l’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 116/2017, nell’esercizio della propria potestà discrezionale che l’incarico di magistrato onorario non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego. Dal che se ne deduce che l’inquadramento della magistratura onoraria è assimilabile alla magistratura professionale unicamente sotto un profilo funzionale, e non anche per lo status giuridico, in conformità alla regola derivante dai principi costituzionali per i quali l’esercizio delle funzioni giurisdizionali è svolto in via istituzionale da magistrati di professione, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario e la cui nomina avviene per concorso (art. 102, comma primo, e art. 106 comma primo, Cost.). Pertanto, lo status di magistrato deve essere tenuto distinto dall’esercizio concreto delle funzioni giudicanti, giacché il legislatore nella sua autonomia ha escluso per i magistrati onorari la costituzione in via di fatto di un rapporto di pubblico impiego. A questa scelta seguono coerentemente le altre in tema di indennità riconosciuta ai magistrati onorari, di disciplina degli oneri previdenziali (rientranti nella gestione separata), di sanzioni disciplinari e di ambito di competenza dei giudici di pace. Si ritiene che vi sia armonia tra tale decisione del legislatore e la regola costituzionale dell’art. 106 secondo cui il principio di equiparazione tra magistratura onoraria e professionale vale solo dal punto di vista funzionale (e non in termini di status), confermando che “i magistrati ordinari costituiscono l’ordine giudiziario, mentre i magistrati onorari vi appartengono”, come si ricava dall’art. 4 della legge sull’ordinamento giudiziario.
Personalmente ritengo che detta opzione legislativa sia condivisibile a patto che quest’ultima sia posta in equilibrio con alcune tutele lavoristiche da riconoscere al giudice onorario, preso atto del ruolo essenziale da questo svolto per il buon funzionamento del sistema giustizia. Come d’altronde riconosciuto nella comunicazione della Commissione Europea nel caso EU Pilot 7779/15/EMPL in cui era preannunciata l’apertura di una procedura di infrazione a danno dell’Italia per contrasto con la disciplina eurounitaria della disciplina nazionale sul servizio prestato dai magistrati onorari, ovvero nella comunicazione della Presidente della Commissione in risposta alle petizioni del Parlamento europeo in cui si invitava l’Italia a trovare un equo compromesso sulla “situazione lavorativa” dei giudici di pace, ovvero ancora nella Raccomandazione CM/Rec (2010)12 del Comitato europeo per i diritti sociali in punto di remunerazione dei giudici onorari in caso di malattia, maternità o paternità e a seguito del pensionamento.
Addivenire per scorciatoie ad una parità di trattamento in ragione della (presunta) parità di funzioni – concetto quest’ultimo non condivisibile, come sta a dimostrare la pronuncia della Corte costituzionale sull’impossibilità di assegnare i magistrati onorari a un collegio di appello – sarebbe inammissibile e contrario alla certezza del diritto. Ragionare, invece, su un differente assetto della giustizia onoraria da parte del legislatore (magari anche superando il concetto stesso di onorarietà e temporaneità, pure per non sprecare le competenze già acquisite), all’interno di una riforma complessiva del processo in un’ottica di snellimento e forte riduzione dei tempi, appare fortemente auspicabile.
Carla Musella
Fin quando nel nostro ordinamento rimarrà la regola del pubblico concorso per l’accesso alla magistratura professionale, ai giudici onorari non può essere riconosciuto lo status giuridico di pubblico dipendente a tempo pieno o parziale nell’ambito della magistratura.
Il Consiglio di Stato differenzia la magistratura, rispetto al pubblico impiego, con argomentazioni condivisibili laddove (sentenza 9 dicembre 2020 n. 7772) afferma che quella del magistrato professionale è una carriera speciale di diritto pubblico (art. 3 d.lgs. n.165/2001) in quanto sottende un rapporto di servizio inerente ad una funzione espressiva di sovranità. Funzione espressiva di sovranità: è su questo elemento della inerenza della magistratura professionale ad una funzione espressiva di sovranità che occorre soffermarsi per comprendere la particolare delicatezza della funzione giurisdizionale espressione di un potere autonomo e indipendente dagli altri poteri. Questo orientamento del giudice amministrativo non credo sia superabile proprio perché attiene ai fondamenti dello stato democratico. Non vi è solo la regola del pubblico concorso, così come in tutto il settore pubblico, ma la necessità che la funzione giurisdizionale sia, in linea di massima svolta da magistrati professionali. In proposito vorrei richiamare proprio la sentenza della Corte costituzionale n. 41/2021 laddove afferma: “Tale assetto, che deriva dall’art. 106, primo e terzo comma, Cost., costituisce, come si evince anche dai lavori preparatori, il punto di arrivo di un complesso dibattito, in sede di lavori dell’Assemblea Costituente, riguardo alle modalità più idonee di assunzione dei magistrati in coerenza con le scelte fondamentali in ordine all’autonomia e all’indipendenza dell’ordine giudiziario da ogni altro potere (art. 104, primo comma, Cost.) e alla soggezione del giudice solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), nonché al divieto di istituzione di giudici straordinari o giudici speciali (art. 102, secondo comma, Cost.). La regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, a presidio dell’ordinamento giurisdizionale, posto dalla Costituzione, nel Titolo IV della sua Parte II, quale elemento fondante dell’ordinamento della Repubblica.”.
In altri termini il pubblico concorso non è solo la modalità con cui si realizza la scelta dei migliori, con un percorso comune a quanto previsto per le assunzioni nella pubblica amministrazione (art. 97), ma è anche strettamente funzionale ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri.
4. Ritenete possibile, in una prospettazione alternativa e subordinata, il riconoscimento del rapporto di impiego pubblico nell’ambito del personale amministrativo del Ministero della Giustizia?
Edoardo Ales
Al di là della più volte evidenziata contraddizione sul piano teorico, sul piano pratico la soluzione del riconoscimento di un rapporto (contrattualizzato) analogo a quello del personale amministrativo del Ministero della Giustizia non mi pare percorribile per l’evidente incommensurabilità delle prestazioni svolte dai due gruppi professionali. In particolare, non mi sembra assimilabile l’amministrazione della giustizia con l’esercizio della funzione giurisdizionale. In più, una simile soluzione proporrebbe un notevole problema legato alla natura subordinata del rapporto di lavoro, tipica del personale contrattualizzato, che risulta del tutto incompatibile con il requisito dell’indipendenza inteso nel senso di autonomia decisionale del giudice.
Umberto Gargiulo
Tenderei ad escludere questa possibilità perché si tratta di una soluzione che forse riuscirebbe ad aggirare parte degli ostacoli esaminati in precedenza, ma provocando due diverse incoerenze di sistema: per un verso determinerebbe l’assimilazione, sul piano della regolazione, del rapporto di lavoro di soggetti cui sono assegnati compiti assai differenti e, soprattutto, riconducibili a due diversi ambiti d’intervento dello Stato, con una sovrapposizione tutt’altro che positiva in un contesto, quello della separazione dei poteri, la cui centralità è stata ribadita di recente dal Giudice delle leggi (Corte Cost. n. 41/2021); per altro verso rischierebbe di incidere proprio sul profilo dell’indipendenza, centrale nella vicenda esaminata, che costituisce un requisito fondamentale (anche) dell’attività giurisdizionale rimessa ai giudici onorari e ne risulterebbe potenzialmente compromesso.
Marco Macchia
Non mi sembra ci sia spazio alcuno per riconoscere ai magistrati onorari un rapporto di impiego pubblico nell’ambito del personale amministrativo del Ministero della Giustizia. In primo luogo, detto personale ministeriale vanta un rapporto di lavoro privato con l’amministrazione, ossia nel rispetto dei contratti collettivi, e non di impiego pubblico. In secondo luogo, le funzioni svolte sono diverse: il magistrato onorario ha competenze tecnico-giuridiche per redigere la sentenza, istituisce interamente il processo e decide la causa, mentre non ha competenze amministrative. In terzo luogo, essa costituirebbe una sorta di stabilizzazione automatica in assenza del requisito concorsuale (sebbene sia noto che anche i magistrati onorari instaurano il loro rapporto con l’amministrazione in seguito al superamento di un concorso per titoli, in passato previsto dagli artt. 4 e 4-bis l. n. 374 del 1991) contraria alla regola meritocratica dell’art. 97, Cost. In quarto luogo, tale riconoscimento rappresenterebbe una palese violazione dell’obbligo costituzionale di indipendenza dell’ordine giudiziario, a cui i magistrati onorari “appartengono” come sopra precisato.
Carla Musella
Riterrei di no perché questo non corrisponde alla funzione giurisdizionale svolta dai giudici onorari. Sarebbe un ennesimo pasticcio all’italiana perché il giudice onorario svolge funzioni giurisdizionali e non amministrative. Occorre riportare tuttavia, e questo è un nodo fondamentale, la magistratura onoraria nell’alveo delle regole costituzionali, anche se questo è l’aspetto più problematico e difficile che richiede uno sforzo di riforma dell’intera giustizia civile.
5. La Corte di Cassazione, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, ha costantemente affermato che il servizio onorario non è equiparabile al rapporto di impiego pubblico, pena l’alterazione della configurazione tipica della struttura dell’ordinamento giudiziario italiano che si fonda sui due pilastri della magistratura togata, di tipo professionale, e della magistratura onoraria. I magistrati onorari, quindi, sono giudici “semiprofessionali” che restano fuori dal perimetro del rapporto di pubblico impiego e della subordinazione?
Edoardo Ales
Fermo restando quanto detto sul piano teorico, dal punto di vista pratico, il problema di fondo è costituito non tanto dalla astratta qualificazione del rapporto, ma dalla modalità concreta di inserimento della prestazione offerta dal magistrato onorario all’interno dell’ordinamento giudiziario. In particolare, una volta esclusa la subordinazione derivante dal contratto di lavoro o l’inserimento organico frutto di un atto amministrativo, l’unica soluzione che rimane è quella del coordinamento di una prestazione autonoma consistente, in concreto, nell’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale. D’altro canto, questa sembrerebbe anche essere la soluzione adottata dal legislatore, almeno sul versante previdenziale, laddove prevede l’iscrizione del giudice onorario alla Gestione Separata dell’INPS in assenza di obblighi assicurativi derivanti dall’iscrizione ad albi professionali. Questa soluzione, tuttavia, si scontra con il divieto, per me inspiegabile, di ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative da parte delle Pubbliche Amministrazioni, sostituite dalle collaborazioni autonome. Queste ultime, tuttavia, escludono qualsiasi forma di coordinamento negoziato tra le parti del rapporto, contrariamente a quanto previsto, ora in forma esplicita, dall’art. 409 c.p.c., e possono essere utilizzate esclusivamente per attività di studio o di consulenza. De iure condendo, la soluzione mi parrebbe essere quella della reintroduzione, anche soltanto per i giudici e procuratori ‘onorari’, della possibilità di ricorrere alle collaborazioni coordinate e continuative, predisponendo un modello di accordo di coordinamento che salvaguardi le esigenze dell’amministrazione e dia concreta attuazione ai limiti legali già imposti rispetto allo svolgimento della prestazione nell’ottica di consentire la pluricommittenza in favore del giudice.
Umberto Gargiulo
Credo vadano tenuti ben distinti i due profili interessati dalla domanda. Un aspetto è la possibilità di qualificare il magistrato onorario quale dipendente pubblico, altro e ben distinto aspetto è se la prestazione resa, quanto al profilo oggettivo – più che la figura che pone in essere l’attività sul piano soggettivo – resti fuori dal perimetro della subordinazione.
Se, per tutte le ragioni dette, che richiamano una giurisprudenza assolutamente granitica, coerente con la ratio istitutiva della magistratura onoraria, va escluso un riconoscimento “di fatto” di un rapporto di lavoro pubblico, in assenza di procedura concorsuale di accesso all’impiego e alla luce delle caratteristiche fisiologiche di qualsiasi servizio onorario, che è privo dei connotati di continuità, esclusività, stabilità, discorso più articolato riguarda il tema della subordinazione.
In realtà, i tratti caratterizzanti la magistratura onoraria, come delineati dal legislatore del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116 sembrano in grado di assicurare un’adeguata coerenza tra l’impegno richiesto (settimanalmente e complessivamente, stanti i limiti massimi di utilizzo), le incompatibilità imposte e l’impiego per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali minori.
Altro discorso riguarda il concreto utilizzo che si ha o, forse meglio, si è avuto negli anni, di talune figure di magistrati onorari (si pensi ai giudici di pace, ma non solo). Su questo versante, seppure vada negata la conversione del rapporto a termine, non può escludersi che vi sia stato un ricorso alla magistratura onoraria in certo qual modo “distorto” – proprio quanto ai profili della continuità d’impegno richiesto, della frequenza di esso, che veniva semmai ad assumere caratteri tali da impedire (ancora una volta “di fatto”) lo svolgimento di altra attività lavorativa, congiunti al grado di relazione con l’ufficio di riferimento – che porti a rinvenire, nel singolo caso, una continuità d’inserimento nell’organizzazione idonea a costituire la premessa del riconoscimento di un vincolo di subordinazione: una qualificazione che, non a caso, ci ricorda la stessa Corte di giustizia, «spetta, in ultima analisi, al giudice nazionale».
Sul versante interno, del diritto nazionale, escludere aprioristicamente la qualificazione sarebbe impossibile, stante il vincolo d’indisponibilità del tipo; quanto alla disciplina eurounitaria ancor meno può escludersi, come meglio si vedrà, l’applicazione di singole discipline che presuppongono criteri tutt’altro che stringenti, in presenza di «prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie e per le quali percepisca indennità aventi carattere remunerativo» per usare le parole della Corte di giustizia.
È però evidente che situazioni siffatte, non prive di connotati patologici, riguardino soprattutto il passato e non a caso hanno investito i tribunali in seguito all’accantonamento del tentativo di stabilizzazione di tali figure.
Marco Macchia
Come sopra precisato, l’appartenenza “meramente funzionale” della magistratura onoraria all’ordine giudiziario non implica in alcun modo la costituzione di un rapporto di impiego pubblico. La legge lo vieta espressamente, perciò i giudici onorari restano per forza fuori da questo perimetro.
Discorso più complesso, invece, è se tali giudici “semiprofessionali” restino fuori anche dalla subordinazione. Teoricamente, il rapporto di servizio onorario esula dalla nozione giuridica di rapporto di lavoro, sia subordinato che autonomo (Cass., Sez. Un., n. 5431/2008). In concreto, però, i magistrati onorari, al pari dei magistrati ordinari, esercitano la giurisdizione in materia civile e penale alle medesime condizioni (in quanto tenuti rispetto delle tabelle indicanti la composizione dell’ufficio e degli ordini di servizio del capo dell’ufficio e dei provvedimenti organizzativi del C.S.M., giudicati sulla base dei medesimi criteri di valutazione di professionalità, tenuti alla costante reperibilità, soggetti, sotto il profilo disciplinare ad obblighi analoghi a quelli dei magistrati professionali). Orbene, proprio questo profilo è stato valorizzato dalla Corte di giustizia, la quale afferma che «i giudici di pace svolgono le loro funzioni nell’ambito di un rapporto giuridico di subordinazione sul piano amministrativo, che non incide sulla loro indipendenza nella funzione giudicante, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»; difatti, un giudice di pace, nell’ambito delle sue funzioni, «effettua prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo», per cui «può rientrare nella nozione di “lavoratore”». (punti 112 e 113).
In questi termini, emerge una evidente contraddizione tra il concetto nazionale di “onorarietà” e la lettura sostanzialistica offerta dalla Corte di giustizia. Secondo quest’ultima, a prescindere dalla qualificazione giuridica data dall’ordinamento statale, i giudici onorari sono soggetti a precise condizioni di lavoro, sono sottoposti a potere disciplinare, devono rispettare le tabelle che indicano la composizione dell’ufficio di appartenenza, le quali disciplinano nel dettaglio e in modo vincolante l’organizzazione del lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza. Per queste ragioni vanno considerati “lavoratori” ai sensi della direttiva dell’Unione. Nondimeno, ciò non pregiudica la facoltà degli Stati di prevedere l’esistenza di uno statuto particolare che disciplini l’ordine della magistratura, a patto che si rispettino le tutele minime del lavoro.
Carla Musella
Da quanto esposto al punto precedente non vedo come si possa superare questo assetto costituzionale. Al tempo stesso su un piano più strettamente giuslavoristico vorrei sottolineare come proprio la nozione di lavoratore eurounitario comporta il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali ai magistrati onorari e, al tempo stesso, la possibilità di risarcire il danno in caso di abuso del lavoro a tempo determinato.
Mi sembra condivisibile la strada indicata da Edoardo Ales di una configurazione de iure condendo per alcune figure di magistrati onorari della collaborazione coordinata e continuativa, tenendo conto anche dell’evoluzione del diritto del lavoro, alimentata dal diritto eurounitario, del progressivo avvicinamento delle tutele tra i diversi tipi di lavoro attraverso l’estensione di diritti fondamentali, un tempo applicabili solo al lavoro subordinato, a vari tipi di attività lavorativa.
6. La Corte costituzionale, con la sentenza 18 novembre 2020, n. 267, ha dichiarato illegittimo l’art. 18, c.1, d. l. 25 marzo 1997, n. 67, conv. in l. 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui non prevede che il Ministero della Giustizia rimborsi al giudice di pace le spese di difesa sostenute nei giudizi di responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi per fatti di servizio e definiti con provvedimento di esclusione della responsabilità, considerando del tutto irragionevole l’esclusione dei magistrati onorari dalla tutela accordata solo ai magistrati togati, in considerazione dell’identità della funzione del giudicare e della sua primaria importanza costituzionale, nonché della necessità di garantire un’attività serena e imparziale, non condizionata dai rischi economici conseguenti ad azioni di responsabilità infondate.
Ritenete che questa pronuncia possa aprire le porte a nuove questioni di legittimità costituzionale o che l’iniziativa spetti ora al Parlamento?
Edoardo Ales
Alla luce di quanto risposto in precedenza, mi pare di poter ritenere assolutamente condivisibili le conclusioni alle quali è giunta la Corte costituzionale, attenendo la garanzia in questione all’esercizio della funzione giurisdizionale, del quale non vi è possibilità di dubitare. Questo principio vale per tutte le disposizioni che attengono detto esercizio e, dunque, dovrebbe essere affermato o eventualmente opportunamente circoscritto sulla base di considerazioni oggettive, dal legislatore, onde evitare il susseguirsi di questioni di costituzionalità.
Umberto Gargiulo
La decisione della Corte costituzionale è pienamente condivisibile, in quanto inerente all’esercizio della funzione giurisdizionale e dunque alla necessità di tutelare la “serenità” di chiunque la eserciti, anche quale elemento di garanzia indiretta della terzietà e della stessa indipendenza. In questo senso la decisione della Consulta, centrata sulla ratio dell’istituto esaminato, prescinde dalla qualificazione giuridica delle posizioni del giudice professionale e del giudice onorario, collegandosi piuttosto alla funzione esercitata, che viene ad essere tutelata. Da questo punto di vista la previsione normativa, all’esito dell’intervento della Corte, non è dissimile da quanto accade anche in altri contesti pubblici, ove è previsto il rimborso delle spese di patrocinio ai dipendenti dell’amministrazione, al ricorrere di talune condizioni.
Per questo motivo, la vicenda non appare destinata a generare ulteriori connessioni con i profili più generali della questione inerente alla qualificazione della figura dei giudici onorari.
L’intervento del Parlamento non appare, a rigore, necessario per l’operatività della norma, che è destinataria di una pronuncia d’illegittimità parziale; altro discorso è se, nell’esercizio della discrezionalità propria del legislatore, si dovesse provvedere a una diversa delimitazione dei requisiti di accesso a quanto previsto dalla disposizione.
Marco Macchia
L’estensione dell’obbligo legale di rimborso al giudice onorario delle spese di difesa sostenute nei giudizi di responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi per fatti di servizio e conclusisi con provvedimento di esclusione della responsabilità, è coerente con la regola della parità di funzioni rispetto ai magistrati ordinari. Svolgendo i giudici onorari la “funzione magistratuale” in concreto, a prescindere dall’appartenenza ad una precisa categoria, emergono nei fatti finalità di difesa che sono identicamente avvertite dai magistrati onorari e da quelli ordinari.
Corre, però, l’obbligo di precisare che tale diritto al rimborso delle spese è figlio appunto dell’equiparazione funzionale – cioè lo svolgimento dell’ “attività giurisdizionale” nel suo complesso – che nulla a che vedere con lo status ovvero con il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato. In questa logica, la sentenza del giudice delle leggi si inserisce in un solco già tracciato e non mi sembra apra le porte a nuove questioni di legittimità costituzionale. Appare, invece, sotto tale profilo molto più dirompente l’arresto della Corte di giustizia che riconosce ai fini europei la natura di lavoro subordinato dell’incarico di magistrato onorario.
Resta comunque il fatto che un’iniziativa legislativa al riguardo è altamente auspicabile, data l’evidente complessità allo stato attuale della disciplina giuridica della giustizia onoraria.
Carla Musella
La soluzione adottata dalla Corte costituzionale è ineccepibile ed è fondata proprio sulla funzione di giudicare che è identica per il giudice ordinario e per il giudice di pace. Ed è lo svolgimento della funzione giurisdizionale che comporta il riconoscimento di alcune regole e benefici anche ai giudici onorari, come quella del rimborso delle spese di patrocinio che è prevista per tutti i dipendenti dell’amministrazione statale. La Corte costituzionale ha emesso una sentenza di parziale incostituzionalità, sicché non credo sia indispensabile l’intervento del legislatore perché già sulla base della sentenza e qualora ricorrano i presupposti dell’art. 18, c.1, d. l. n. 97/1997, i giudici di pace possono ottenere il rimborso delle spese legali sopportate. Il giudice delle leggi ha tenuto conto della sentenza UX e quella di una estensione di volta in volta di alcune prerogative ai giudici onorari può essere una soluzione pragmatica al problema molto intricato di dare un assetto uniforme generale ed astratto alla magistratura onoraria che oltre tutto conosce diverse situazioni di fatto e diversa intensità di lavoro.
7. Tornando alla “sistemazione” della magistratura onoraria nell’ambito dell’ordinamento italiano, quali sono le direttive comunitarie applicabili in base alla nozione di lavoratore eurounitario, a prescindere dalla qualificazione del rapporto in termini di impiego?
Edoardo Ales
Ritengo che, a seguito della sentenza UX, le Corti italiane, laddove adìte dai giudici onorari, dovrebbero procedere, ove possibile, a adottare un’interpretazione conforme della normativa nazionale, attuativa del Diritto dell’Unione, della quale si richieda l’applicazione. Mi pare, infatti, che, una volta verificato, da parte del giudice nazionale che un giudice di pace, nell’ambito delle sue funzioni, effettui prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, questi possa rientrare nella nozione eurounitaria di “lavoratore”, anche al di là dell’ambito di applicazione delle direttive in materia di orario di lavoro e di contratto a termine. Ciò che mi sentirei di escludere, invece, è l’applicazione del principio di parità di trattamento retributivo con i magistrati professionali, proprio in considerazione delle ragioni oggettive relative alle “diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui detti magistrati [onorari] devono assumere la responsabilità”. Ciò non vuol dire affermare la condizione di lavoratore subordinato, non essendoci coincidenza con la nozione eurounitaria di lavoratore. Infatti, come efficacemente dimostrato in dottrina (M. Menegatti, The Evolving Concept of “worker” in EU Law, in ILLeJ, 2019, 71), detta nozione si concentra sulla messa a disposizione per una certa durata delle prestazioni piuttosto che sul vincolo di sottoposizione gerarchico-tecnica del lavoratore.
Umberto Gargiulo
Ritengo che, proprio alla luce della decisione della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, il giudice nazionale non possa prescindere dalle indicazioni fornite dalla stessa Corte in merito all’applicazione della normativa interna che sia attuativa del Diritto dell’Unione. In questo senso condivido l’opinione che non preclude l’applicazione ai giudici onorari delle direttive che presuppongano la nozione eurounitaria di lavoratore elaborata dalla giurisprudenza europea (in materia di libera circolazione), cioè di soggetto (a quei fini) che eroga «prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie e per le quali percepisca indennità aventi carattere remunerativo» e che «fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra [persona] e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in cambio delle quali percepisca una retribuzione»; direttive in relazione alle quali la Corte di Lussemburgo ha segnalato, ancora una volta, la necessità di un’applicazione uniforme sul territorio dell’Unione.
La stessa Corte, tuttavia, nel ripetere che spetta al giudice nazionale la qualificazione, ribadisce che «quest’ultimo deve fondarsi su criteri obiettivi e valutare nel loro complesso tutte le circostanze […] riguardanti la natura sia delle attività interessate sia del rapporto tra le parti in causa». In questo senso, con riguardo al tema della parità di trattamento e di quella retributiva in particolare, occorre domandarsi se vi siano quelle «ragioni oggettive»: ragioni che giustificano la differenza di trattamento tra magistrati togati e magistrati onorari che, se non possono consistere nella mera temporaneità del rapporto dei secondi, potrebbero rinvenirsi, a tacer d’altro, nelle modalità di accesso alla magistratura di carriera rispetto a quella onoraria e all’assenza del vincolo di esclusività per quest’ultima (seppure nell’ambito di un regime d’incompatibilità particolarmente stringente), che osterebbero a una comparazione piena tra le due posizioni.
Discorso più delicato, che pure in tal caso non può essere trattato per schemi generali o sulla base di petizioni di principio e che in questa sede non può essere compiutamente affrontato per ragioni di spazio, è quello della comparabilità dei compiti. Accertato che la magistratura onoraria non si occupi affatto soltanto di controversie c.d. bagatellari, va rilevato come i limiti di competenza e gli snellimenti procedurali che accompagnano l’attività giurisdizionale di talune figure di giudici, sono assenti in relazione ad altre figure di magistrati onorari, che si trovano a sostituire, in tutto e per tutto, il corrispondente “togato”.
È evidente, poi, che il dibattito, allo stato, risulti influenzato da quanto sin qui accaduto. Occorre, invece, a mio avviso, distinguere le due situazioni: un discorso è valutare la comparabilità della figura del magistrato onorario prevista attualmente dalla legge, altro è verificare se l’utilizzo prolungato, praticamente continuativo, dei magistrati onorari nel recente passato – un utilizzo che per quantità e qualità d’impegno ha finito per coincidere, in molti casi, con un’attività esclusiva e, di fatto, stabilmente inserita nell’organizzazione considerata – svilisca significativamente le «ragioni oggettive» di differenziazione economica tra le due categorie. Ma qui siamo nuovamente sul piano di una verifica in concreto dalla quale non pare opportuno ricavare un’estensione “regolativa” di carattere generale.
Marco Macchia
Prima di rispondere alla domanda, mi sembra utile soffermarmi su un aspetto.
L’art. 2 della direttiva 89/391/CEE, relativa alle misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, nel definire i settori oggetto di interesse precisa che la direttiva «concerne tutti i settori d’attività privati o pubblici», però «non è applicabile quando particolarità inerenti ad alcune attività specifiche nel pubblico impiego, per esempio nelle forze armate o nella polizia, o ad alcune attività specifiche nei servizi di protezione civile vi si oppongono in modo imperativo». In questo caso «si deve vigilare affinché la sicurezza e la salute dei lavoratori siano, per quanto possibile, assicurate, tenendo conto degli obiettivi della presente direttiva». La direttiva 2003/88, sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro (incluse le ferie annuali), contiene il medesimo campo di applicazione. La direttiva 1999/70 si applica ai lavoratori a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione e prevenendo gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato.
Il punto critico, a parere di chi scrive, riguarda proprio tale regime di eccezione, ossia quelle attività specifiche del pubblico impiego che sono escluse dall’ambito di applicazione delle direttive. Per la Corte di giustizia conta la «natura specifica» dei compiti particolari svolti dai lavoratori dei settori considerati, natura che teoricamente potrebbe giustificare una deroga alle norme in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori per un’efficace tutela della collettività. Da qui conclude che «nulla giustifica l’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 2, primo comma, della direttiva 89/391 nei confronti dei giudici di pace e la loro esclusione generalizzata dall’ambito di applicazione di tali due direttive».
Francamente tale affermazione non convince da un punto di vista giuridico. È noto, infatti, che il principio di libera circolazione dei lavoratori (art. 45 TFUE) prevede un’eccezione per gli accessi agli impieghi nella pubblica amministrazione. Per evitare situazioni di disparità nello spazio europeo, la Corte di giustizia ha dato una propria interpretazione della nozione di pubblica amministrazione contenuta nell’art. 45. Solo ove vi sia esercizio di poteri pubblici, non si applica il principio di libera circolazione. Nel concreto ciò avviene nelle funzioni tipiche dello Stato, come la difesa, la giustizia, la sicurezza e gli affari esteri.
La mia impressione è che, quando la direttiva menziona le “attività specifiche nel pubblico impiego” (come fa nella direttiva 89/391), citando a mero titolo di esempio le forze armate o di polizia, faccia in verità riferimento a tutti quegli impieghi che implicano lo svolgimento di attività specifiche dei poteri pubblici, ossia funzioni tipiche dello Stato, sottratte al principio di libera circolazione, tra cui proprio il servizio giustizia e quello dei magistrati onorari.
Se questa è la mia impressione, è chiaro però che l’orientamento della Corte di giustizia è differente, giacché riconosce ai giudici onorari la qualifica autonoma di “lavoratore” propria del Diritto dell’Unione, sulla scorta dell’assunto che la natura giuridica sui generis di un rapporto di lavoro riguardo al diritto nazionale non può avere alcuna conseguenza sulla qualità di lavoratore ai sensi del Diritto dell’Unione. Secondo questo orientamento, sono certamente applicabili le direttive sulle condizioni di lavoro, sul diritto alla sicurezza sociale e sui contratti a termine. Con riguardo poi alla direttiva 1999/70, occorre precisare che essa mira a prevenire gli abusi legati alla successione di plurimi contratti a termine; mentre la durata delle funzioni dei giudici di pace è soggetta per legge ad un mandato di quattro anni, rinnovabile alla scadenza per la medesima durata.
Carla Musella
In realtà ritengo che la nozione di lavoratore eurounitario prescinda dal concetto di pubblico impiego e quindi potenzialmente tutte le direttive in materia di lavoro sono applicabili al giudice onorario che svolga un’attività di lavoro continuativa. In particolare, sono applicabili le direttive sulle condizioni di lavoro e orario, diritto alla sicurezza sociale. Non credo siano applicabili le norme a tutela del recesso ingiustificato che presuppongono un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ribadisco che la via giudiziale, sulla scorta della sentenza UX, può essere risolutiva almeno dei casi di magistrati onorari che lavorano con grande intensità e può rispondere meglio di una difficile soluzione legislativa unitaria.
8. Sul piano del trattamento economico, tenuto conto anche del contenuto dell’attività giurisdizionale svolta dai magistrati onorari, ritenete possibile, e in quali limiti, un adeguamento? Alcuni giudici di merito, pur in assenza del riconoscimento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (a tempo pieno o parziale e indeterminato), talvolta facendo leva sull’art. 36 Cost. e sull’art. 2126 cod. civ., hanno riconosciuto il diritto alla retribuzione spettante al magistrato di prima nomina, non essendo previste valutazioni di professionalità come per i magistrati togati. Ritenete giusto e coerente questo criterio di determinazione o avete una proposta alternativa da formulare?
Edoardo Ales
Alla luce di quanto detto e della possibilità (anzi della quasi certezza da parte del legislatore) dello svolgimento di altre attività da parte del giudice onorario, anche sul piano pratico ritengo le indennità attualmente previste adeguate a remunerare la prestazione così come limitata nel tempo da parte del legislatore. Dette indennità potrebbero fungere da riferimento per la risoluzione di controversie economiche relative al pregresso.
Umberto Gargiulo
Va ricordato come il d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, all’art. 1 preveda che l’attività dei giudici onorari si realizzi «in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali» e l’impegno complessivamente richiesto è limitato sul piano temporale proprio per assicurare questo scopo. Sicché, fino a “prova del contrario”, si deve presupporre l’adeguatezza del criterio di determinazione dei compensi adottato dal legislatore.
Qualora vi fossero esigenze diverse di determinazione del compenso, connesse a particolari ed effettive situazioni di esercizio della funzione, pertanto, si potrebbero utilizzare parametri differenti di quantificazione del corrispettivo; da questo punto di vista non appare condivisibile l’importazione tout court del “tabellare retributivo” del magistrato di prima nomina, stante l’esclusività che caratterizza l’attività del giudice togato, che si contrappone proprio al tendenziale svolgimento di altra attività, presupposto invece dal legislatore quale condizione “ordinaria” del giudice onorario, seppure nell’ambito dei vincoli d’incompatibilità, tutt’altro che ridotti, previsti dalla legge (all’art. 5). A ragionare diversamente, si potrebbe pervenire, invero, a un evidente paradosso: che il magistrato ordinario che assuma le funzioni al termine del tirocinio, vincolato all’esclusività, verrebbe ad essere retribuito in maniera identica al magistrato onorario, chiamato a un impegno che, anche per effetto del limite settimanale previsto per legge, potrebbe utilmente integrare i propri guadagni svolgendo altra attività.
Quanto ai parametri normativi utilizzati a giustificazione di tale estensione (l’art. 36 Cost. e l’art. 2126 cod. civ.) essi presuppongono la risoluzione della questione, di fondo, circa la natura del rapporto, laddove così si finisce per invertire il piano logico e giuridico di qualificazione della fattispecie.
Ciò non vuole dire che non vi siano situazioni nelle quali le caratteristiche “anomale” di utilizzo del giudice onorario non giustifichino il ricorso a differenziali “retributivi”, ma essi vanno utilizzati pur sempre, a mio avviso, come parametri di determinazione del compenso, qualora si ritenga – in una sorta di prospettiva risarcitoria – che la prestazione onoraria resa non presenti alcun elemento di differenziazione da quella propria della magistratura togata. Non vale, invece, la proposizione inversa: le caratteristiche strutturali distintive delle due figure di magistrato, così come ribadite anche di recente dalla giurisprudenza costituzionale, non possono determinare l’equiparazione “automatica” della remunerazione delle funzioni.
Marco Macchia
Non ritengo giuridicamente corretto riconoscere ai giudici onorari il diritto alla retribuzione del magistrato di prima nomina. La richiesta della parità di trattamento retributivo con il magistrato togato si scontra con il fatto che un magistrato professionale non sembra propriamente integrare – nel rispetto delle nozioni della direttiva – quel “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” perché addetto ad un’occupazione identica o simile tenuto conto delle qualifiche. Ciò in quanto,a mio parere, se è vero che entrambi esercitano la funzione giurisdizionale, la qualifica non appare la medesima, adempiendo il magistrato professionale alla risoluzione di controversie di valore più elevato e quello onorario alla “giustizia minore”. In altre parole, seppure siano impegnati teoricamente nella medesima occupazione, la difficoltà delle questioni da risolvere e il valore della controversia si riflettono in condizioni di lavoro che permangono divergenti, il che non può che rilevare sotto il profilo retributivo.
Al contempo, è evidente che la retribuzione del giudice onorario deve essere proporzionata alle prestazioni effettuate. Essi beneficiano di indennità a carattere remunerativo per le pronunce, per ciascuna udienza civile o penale, per l’attività di apposizione dei sigilli, nonché per ogni altro processo assegnato e comunque definito o cancellato dal ruolo. Inoltre, essi percepiscono indennità per ciascun mese di effettivo servizio a titolo di spese per l’attività di formazione, aggiornamento e per l’espletamento dei servizi generali di istituto. In questo quadro, spetta ai giudici nazionali valutare se gli importi percepiti in concreto presentino un carattere remunerativo idoneo a procurare al giudice onorario un beneficio materiale e garantiscano il suo sostentamento.
Carla Musella
Condivido quanto affermato da alcune sentenze di merito (ad es. quella del Tribunale Napoli 11 gennaio 2021, n. 6015/2020), ma ritengo che il giudice onorario debba provare anche la esclusività di fatto del lavoro svolto. Nella realtà penso che alcuni giudici di pace e giudici onorari di tribunale svolgano di fatto esclusivamente questa attività, ma ovviamente ci sono anche situazioni diverse.
Sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto in base all’art. 36, Cost mi sembra condivisibile, dunque, la soluzione adottata da alcune sentenze di merito, ma sono situazioni da verificare caso per caso perché è vero che l’esclusività dell’attività non è un elemento costante nel rapporto dei magistrati onorari che sono spesso avvocati, iscritti alla Cassa Previdenza Forense. In tali casi potrebbe essere sufficiente la indennità prevista dalla legge. Il punto è di provare la quantità del lavoro svolto; prova, del resto, abbastanza facile perché si dimostra con le sentenze scritte, le udienze tenute, i documenti organizzativi dirigenziali degli uffici giudiziari.
9. Riconosciuta illegittima la reiterazione degli incarichi a termine per i magistrati onorari, in ragione delle numerose proroghe disposte prima della riforma del 2017, alcuni giudici del lavoro hanno riconosciuto il risarcimento dei danni in misura variabile di alcune mensilità, determinate sulla base degli stessi parametri della maggiore retribuzione riconosciuta, applicando la disposizione di cui all’art. 32, c. 5 e ss., l. 4 novembre 2010, n. 183, poi trasfusa nel vigente art. 28, c. 2, d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, quale sanzione economica dissuasiva per l’illegittima reiterazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato di tipo privato o pubblico privatizzato, nell’impossibilità della loro conversione in rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
Ritenete giuridicamente corretta questa impostazione?
Edoardo Ales
L’applicazione, in via analogica, dell’art. 32 mi pare assolutamente condivisibile, in quanto esito ultimo di una riflessione pluriennale frutto di un fitto dialogo tra giudici nazionali e Corte di giustizia. Proprio il giudizio di adeguatezza formulato, a più riprese, da quest’ultima porta a sconsigliare l’avventurarsi in diverse determinazioni, le quali, a loro volta, richiederebbero il vaglio positivo della Corte. D’altro canto, al di là della qualificazione del rapporto di lavoro, la presenza della Pubblica Amministrazione, quale parte, giustifica ampiamente il ricorso all’analogia e, dunque, all’utilizzo dell’art. 32, nell’applicazione operata dalla Corte di Cassazione.
Umberto Gargiulo
Il ricorso al criterio di determinazione del risarcimento contenuto nell’art. 32, l. 183/2010 (oggi nell’art. 28, d.lgs. 81/2015) è sicuramente una soluzione dotata di una propria razionalità. Si tratta di un meccanismo che assume ormai una sorta di valenza generale, nella duplice funzione di dissuasione rispetto all’abuso nell’utilizzo dei contratti a tempo determinato e di risarcimento del danno, per la quantificazione del quale si può tener conto di quanto applicabile in «un ambito normativo omogeneo, sistematicamente coerente e strettamente contiguo» (Cass., Sez. Un., n. 5072/2016), seguendo dunque il percorso, ormai sufficientemente assestato, della giurisprudenza nazionale, in dialogo con quella della Corte di Giustizia.
Un diverso approccio, pur astrattamente corretto, proprio alla luce della giurisprudenza della Corte UE in tema di abuso del contratto a termine da parte delle pubbliche amministrazioni, presupporrebbe peraltro anch’esso il raggiungimento di un condiviso approdo quanto al dirimente profilo della qualificazione.
Marco Macchia
L’applicazione dell’art. 32 della l. n. 183 del 2010 (ora art. 28, d.lgs. n. 81/2015) consente una tutela per equivalente causata dalla mancata stabilizzazione del rapporto di lavoro, riconoscendo ai precari una misura equiparabile a quella riconosciuta a lavoratori che si trovano in situazioni analoghe nel settore privato. Del resto, è certamente ammissibile il riconoscimento del risarcimento dei danni nell’impossibilità della conversione del rapporto di lavoro in tempo indeterminato, da parte delle pubbliche amministrazioni. Come è noto, la direttiva 1999/70 sul lavoro a tempo determinato non sancisce l’obbligo assoluto di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato illegittimi. Anzi agli Stati è consentito, nella loro discrezionalità, individuare altre soluzioni, nel rispetto dei limiti dell’effettività, della proporzionalità e dell’idoneità delle sanzioni predisposte per prevenire gli abusi nel ricorso ai contratti a termine.
Non potendo operare il meccanismo della stabilizzazione del contratto, pertanto, data la natura pubblica del datore di lavoro, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, come statuisce l’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Non solo. Stando a quanto riconosciuto dalla Corte di giustizia (ord. 12 dicembre 2013, C-50/13, Papalia), non è compatibile con il diritto dell’Unione europea la normativa nazionale che, nell’ipotesi di utilizzo abusivo da parte di un datore di lavoro pubblico di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto per il lavoratore interessato di ottenere il risarcimento del danno ove il rimedio risarcitorio, a causa degli oneri probatori gravanti sul lavoratore, si presenti tale da rendere per quest’ultimo “praticamente impossibile o eccessivamente difficile” ottenere il risarcimento del danno medesimo. Perciò il lavoratore può limitarsi a fornire elementi di fatto idonei a fondare, in modo preciso e concordante, la presunzione dell’esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, mentre spetta all’amministrazione l’onere di provare l’insussistenza dell’abuso.
Di conseguenza, il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di “disposizioni imperative” deve essere interpretato nel senso che la nozione di danno applicabile deve essere quella di “danno comunitario”. La tutela risarcitoria riconosciuta al lavoratore in luogo della conversione del contratto presenta tratti di specialità rispetto all’ordinaria disciplina civilistica, nel senso che non può ricadere sul lavoratore l’onere di provare la perdita di opportunità di lavoro e quella del conseguente lucro cessante. In altre parole, il risarcimento si configura come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, in conformità con i canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte delle amministrazioni di contratti a termine.
Carla Musella
L’applicazione della sanzione dissuasiva per l’utilizzazione abusiva del contratto a tempo determinato è una modalità ormai costante nella giurisprudenza nell’ambito del lavoro pubblico. Del resto, questo è il vero nodo della questione: l’abuso della figura del rapporto a tempo determinato da parte delle pubbliche amministrazioni, allargate anche al Ministero della Giustizia, che dà luogo al fenomeno del precariato. Sotto questo profilo vorrei segnalare la irrilevanza per il diritto comunitario e per la nozione eurounitaria di lavoratore della differenza pubblico/ privato e finanche della funzione sovrana connessa all’esercizio delle funzioni giurisdizionale. E’ questa la principale caratteristica della nozione eurounitaria e la sua potenzialità assimilatrice tra i vari paesi membri, proprio perché la sovranità statale è un concetto interno da cui discende appunto la differenza tra magistrati togati e magistrati onorari prevista dall’art. 106, Cost. e ribadita con enfasi dall’ultima sentenza della Corte Costituzionale.
Tuttavia, quando dal piano interno ci spostiamo su quello eurounitario si recupera il valore giuslavoristico dell’attività lavorativa svolta di fatto e la irrilevanza, sotto tale profilo, delle differenze tra lavoro pubblico e lavoro privato più volte ribadita in relazione all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
10. Sul piano squisitamente processuale mi sembra rilevante il problema della giurisdizione. Se non c’è domanda di costituzione del rapporto di impiego di diritto pubblico è pacifica quella ordinaria come stabilito dalle prime sentenze di merito?
Edoardo Ales
In assenza di una chiara presa di posizione del legislatore e della giurisprudenza di legittimità sulla natura giuridica del rapporto di lavoro del giudice di pace, la questione mi pare destinata a provocare non pochi problemi. Perdurando l’incertezza, una strategia processuale utilitaristica sarà quella di incardinare procedimenti presso il giudice amministrativo e quello ordinario, al fine di verificarne l’atteggiamento. Non sarebbe la prima volta, infatti, e mi pare che ciò si stia verificando anche in questa circostanza, che entrambi affermino la propria giurisdizione, giungendo a conclusioni potremmo dire fisiologicamente opposte, la coesistenza delle quali, tuttavia, evidenzierebbe lo stato patologico del sistema. Ovviamente, a mio avviso, alla luce di quanto sora evidenziato la giurisdizione dovrebbe essere quella del giudice ordinario (secondo il rito del lavoro) ex art. 409, n. 3 c.p.c.
Umberto Gargiulo
Non mi pare ci siano strade diverse. Qualora nel petitum vi fosse la richiesta di costituire un rapporto d’impiego di diritto pubblico, sarebbe necessario rivolgersi al giudice amministrativo: si tratta però di una strada, quella dell’assimilazione alla magistratura togata, che mi pare tuttora priva di via d’uscita, chiusa da una giurisprudenza assolutamente granitica del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione.
Per converso, se il giudice onorario percorre la strada del riconoscimento di singoli diritti alla luce di previsioni delle direttive di volta in volta invocate – siano esse relative alle ferie, piuttosto che all’abuso del contratto a tempo determinato – giocoforza dovrà rivolgersi al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro. Questo è del resto lo spazio aperto proprio dalla decisione della Corte di giustizia del 16 luglio 2020, sebbene in quel caso il ricorso alla Corte sia passato, discutibilmente, attraverso un rinvio da parte del giudice di pace.
Marco Macchia
La giurisdizione sulle controversie relative ai funzionari onorari non segue la materia (come accade invece nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le categorie non privatizzate del pubblico impiego), ma è ripartita sulla base della situazione giuridica soggettiva lesa. Le richieste dei giudici onorari nel caso di specie attengono al rapporto di servizio che gli stessi ritengono leso, ove essi vantino un diritto soggettivo a ricevere un maggior compenso in ragione dell’attività svolta o il diritto alle ferie oppure ancora il riconoscimento di una prestazione sociale. Perciò, nel caso di specie, dato che la situazione soggettiva vantata è di diritto soggettivo, mi sembra che vada affermata chiaramente la giurisdizione del giudice ordinario.
Carla Musella
Ritengo non fisiologico l’andamento, ormai molto diffuso da qualche anno, di adire contemporaneamente il giudice amministrativo e quello ordinario con petitum e causa petendi differenziati in relazione ad una medesima controversia, perché questo crea una lievitazione abnorme dei processi e nuoce alla ragionevole durata di essi.
Alla luce della sentenza UX e della pronuncia n. 41/2021 della Corte Costituzionale, riterrei una battaglia persa quella diretta ad ottenere per i giudici di pace e gli altri giudici onorari il riconoscimento del rapporto di pubblico impiego e la stabilizzazione per via giudiziaria con piena assimilazione tra magistrato togato e magistrato onorario. È ovvio che se la domanda viene prospettata come riconoscimento di un rapporto di pubblico impiego assimilabile a quello del magistrato togato, si radichi la giurisdizione amministrativa seguendo la tesi del petitum sostanziale. Tuttavia, questa possibilità dovrebbe essere ormai superata proprio sulla base di una granitica giurisprudenza di legittimità e del Consiglio di Stato. La stessa Corte di giustizia nella sentenza UX non afferma la assimilazione e rimette al giudice nazionale la valutazione delle differenze.
La giurisdizione ordinaria nel nostro sistema costituzionale è quella che prevale in base all’art. 102, Cost. Una volta ottenuta l’affermazione in sede eurounitaria dell’applicabilità delle direttive che riguardano il lavoro tout court nell’ambito di un rapporto di lavoro ascrivibile proprio all’art. 409, n. 3, c.p.c., non si vede perché non dovrebbe essere il giudice ordinario, giudice del lavoro, ad avere giurisdizione sulla domanda del giudice onorario. Ed infatti vorrei ribadire che, a mio avviso, la domanda di risarcimento dei danni proposta da UX per il mancato pagamento delle ferie era domanda rientrante nella competenza del giudice del lavoro e non del giudice di pace.
11. Ritenuta la giurisdizione ordinaria, la competenza è attribuita al giudice del lavoro ai sensi di quanto disposto dall’art. 409, n. 3, c.p.c., come avete risposto. Ma questa impostazione non potrebbe contraddire l’impostazione generale, sottesa alla sentenza della Corte di Giustizia del 16 luglio 2020 UX, secondo la quale i magistrati onorari sono equiparati, quanto a funzioni esercitate, se non proprio a statuto giuridico e normativo, ai magistrati togati?
Edoardo Ales
Non direi. L’equiparazione mi pare funzionale piuttosto che strutturale, rimanendo ciascuno Stato membro libero di organizzare il proprio sistema giudiziario. La preoccupazione, condivisibile, della Corte di giustizia è quella di evitare che la qualificazione giuridica del rapporto determini l’esclusione di alcuni soggetti, che pure svolgono un’attività continuativa all’interno di un’organizzazione altrui mediante una remunerazione, dall’ambito di applicazione delle direttive in materia di protezione sociale dei lavoratori. Direi, anzi, che la competenza del giudice del lavoro risponde pienamente, se vogliamo più di quella del giudice amministrativo, all’esigenza evidenziata dalla Corte.
Umberto Gargiulo
Non rinvengo una contraddizione, perché in effetti la Corte di Giustizia non effettua una completa equiparazione della magistratura onoraria a quella togata, bensì rileva, nell’applicare una specifica direttiva, l’esistenza di una discriminazione non altrimenti giustificata rispetto a lavoratori che svolgono un lavoro «identico o simile», tant’è che la medesima Corte si esprime in termini di comparabilità: valutazione quest’ultima rimessa al giudice nazionale con margini talora più stringenti, talaltra piuttosto ampi, come testimoniato proprio dalla decisione dalla quale prende avvio la nostra riflessione.
Da questo punto di vista, la giurisdizione ordinaria appare rispondere pienamente alle esigenze di tutela che, a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto, rimessa al giudice nazionale, vengono riconosciute dalla Corte. Del resto, anche il contenzioso che si è sviluppato negli ultimi mesi sembra svolgersi lungo questa linea, muovendo quasi sempre da un’istanza risarcitoria conseguente al mancato rispetto delle previsioni, con riferimento alle quali si può registrare la disparità ingiustificata tra i due gruppi di lavoratori.
Marco Macchia
Siamo proprio sicuri che per il giudice sovranazionale i magistrati onorari siano equiparati, quanto a statuto giuridico e normativo, ai magistrati togati? Vediamo meglio la sentenza, passo per passo, per non cadere nella trappola diventando “più realisti del re”. Secondo la Corte di giustizia il giudice onorario rientra nella nozione eurounitaria di lavoratore e il fatto che, ai sensi del diritto nazionale, l’attività professionale sia qualificata come “onoraria” non ha rilevanza per l’applicazione a quest’ultimo dell’accordo quadro europeo, del quale devono beneficiare tutti i giudici non professionali che effettuino prestazioni reali ed effettive, che non siano né puramente marginali né accessorie, e che comportino indennità a titolo di corrispettivo, a tutela del principio di parità di trattamento.
Detto ciò, il principio di non discriminazione impone appunto di non privare i lavoratori a termine dei diritti riconosciuti a quelli a tempo indeterminato, purché le situazioni siano comparabili altrimenti situazioni diverse meritano di essere trattate in maniera difforme. Il test di comparabilità deve essere svolto dal giudice nazionale, la Corte di giustizia si limita a mettere a disposizione degli elementi di cui tener conto.
A favore della comparabilità, riscontriamo che i giudici onorari svolgono un’attività giurisdizionale «equivalente a quella di un magistrato ordinario, con le medesime responsabilità sul piano amministrativo, disciplinare e fiscale, continuativamente inserito nell’organico degli uffici giudiziari » (sentenza UX). In più, «al pari di un magistrato ordinario, il giudice di pace è, in primo luogo, un giudice che appartiene all’ordine giudiziario italiano e che esercita la giurisdizione in materia civile e penale, nonché una funzione conciliativa in materia civile. In secondo luogo, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, della legge n. 374/1991, il giudice di pace è tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari. In terzo luogo, il giudice di pace, al pari di un magistrato ordinario, è tenuto a rispettare tabelle indicanti la composizione dell’ufficio di appartenenza, le quali disciplinano dettagliatamente ed in modo vincolante l’organizzazione del suo lavoro, compresi l’assegnazione dei fascicoli, le date e gli orari di udienza. In quarto luogo, sia il magistrato ordinario che il giudice di pace sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del Capo dell’Ufficio, nonché i provvedimenti organizzativi speciali e generali del CSM. In quinto luogo, il giudice di pace è tenuto, al pari di un magistrato ordinario, ad essere costantemente reperibile. In sesto luogo, in caso di inosservanza dei suoi doveri deontologici e d’ufficio, il giudice di pace è sottoposto, al pari di un magistrato ordinario, al potere disciplinare del CSM. In settimo luogo, il giudice di pace è sottoposto agli stessi rigorosi criteri applicabili per le valutazioni di professionalità del magistrato ordinario. In ottavo luogo, al giudice di pace vengono applicate le stesse norme in materia di responsabilità civile ed erariale previste dalla legge per il magistrato ordinario» (sentenza UX).
A sfavore della comparabilità, resta il fatto che «le controversie riservate alla magistratura onoraria, e in particolare ai giudici di pace, non hanno gli aspetti di complessità che caratterizzano le controversie devolute ai magistrati ordinari. I giudici di pace tratterebbero principalmente cause di minore importanza, mentre i magistrati ordinari che svolgono la loro attività in organi giurisdizionali di grado superiore tratterebbero cause di maggiore importanza e complessità. Inoltre, ai sensi dell’articolo 106, secondo comma, della Costituzione italiana, i giudici di pace possono svolgere soltanto le funzioni attribuite a giudici singoli e non possono quindi far parte di organi collegiali» (sentenza UX).
Sulla base di un quadro così puntuale resta tuttavia l’interrogativo di fondo. Il magistrato onorario è comparabile ad un magistrato ordinario (che ha superato la terza valutazione di idoneità professionale e maturato un’anzianità di servizio di almeno quattordici anni)? E in caso positivo, ci sono ragioni oggettive, sulla base di elementi concreti e di una reale necessità, che giustifichino la differenza di trattamento? La Corte di giustizia non risponde a queste domande, perché non le compete dal momento che il suo compito è l’interpretazione del Diritto dell’Unione. Il Governo italiano afferma che la differenza di trattamento si giustifica con l’assenza del concorso per gli onorari e le differenti condizioni di accesso. Al riguardo i giudici europei si limitano a notare che gli Stati hanno autonomia nello stabilire le condizioni di accesso alla magistratura e che «talune disparità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato assunti al termine di un concorso e lavoratori a tempo determinato assunti all’esito di una procedura diversa da quella prevista per i lavoratori a tempo indeterminato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità» (sentenza UX), purché non sia meramente motivato con la durata determinata del rapporto di lavoro. Anzi, le «differenze e, segnatamente, la particolare importanza attribuita dall’ordinamento giuridico nazionale e, più specificamente, dall’articolo 106, paragrafo 1, della Costituzione italiana, ai concorsi appositamente concepiti per l’assunzione dei magistrati ordinari, sembrano indicare una particolare natura delle mansioni di cui questi ultimi devono assumere la responsabilità e un diverso livello delle qualifiche richieste ai fini dell’assolvimento di tali mansioni» (sentenza UX).
Insomma, in conclusione, le differenze sembrano essere giustificate da ragioni oggettive e l’equiparazione non può certamente essere automatica.
Carla Musella
La risposta negativa al quesito sulla esistenza di una contraddizione deriva dal fatto che, a mio avviso non può parlarsi di equiparazione tra magistrati ordinari e magistrati onorari neppure nella sentenza UX, la quale valuta l’attività di lavoro sulla base del Diritto dell’Unione.
Infatti, permane, secondo la legge italiana, la impossibilità di configurare un rapporto di impiego pubblico in mancanza di identiche modalità concorsuali di reclutamento e tenuto conto proprio della differenza che l’art. 106 della Costituzione fa tra magistrati togati e magistrati onorari, ribadita anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 41/2021, con riferimento ad argomenti che attengono alla separazione dei poteri disegnata nella Carta costituzionale, come più volete detto.
Del resto, qualunque idea si voglia avere sulla magistratura onoraria è evidente che l’equiparazione non può essere identificazione, se non altro tenuto conto dei limiti che la giurisdizione esercitata dai giudici onorari incontra, limiti ribaditi dal giudice delle leggi nella sentenza n. 41/2021.
La sentenza della Corte di giustizia non equipara inoltre lo statuto giuridico e normativo dei magistrati onorari ai magistrati ordinari. Piuttosto valorizza il contenuto lavorativo del servizio reso nell’ambito dell’amministrazione della giustizia ai fini della fruizione delle ferie e dell’applicazione del principio di non discriminazione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.
La competenza del giudice del lavoro, una volta esclusa la giurisdizione del giudice amministrativo mi sembra correttamente radicata sull’art. 409, n. 3, c.p.c.
La non punibilità delle vittime di tratta di esseri umani: la prima pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla posizione giudiziaria della vittima ai sensi dell’art.4 CEDU
di Marta Durante
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 16 febbraio 2021, si pronuncia per la prima volta sul rapporto tra gli obblighi positivi gravanti sugli Stati Parte in adempimento dei divieti di schiavitù, servitù e lavoro forzato di cui all’art.4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il principio di non punibilità delle vittime di tratta, in casi avvenuti nel 2009 in Regno Unito ove due minori, vittime di tratta di esseri umani, erano stati condannati per reati che erano stati costretti a commettere in forza della loro condizione di sfruttamento.
Inserendosi nel solco di quella giurisprudenza convenzionale sempre più attenta ad accordare massima tutela alle vittime di tratta, la sentenza costituisce uno storico passo avanti verso l’inquadramento della posizione, anche giudiziaria, della vittima.
Sommario: 1. I fatti del giudizio. 2. La sentenza della Corte EDU: a) il quadro normativo di riferimento. 2.1. (segue): l’ammissibilità ratione personae e ratione materiae. 2.2 (segue): gli obblighi positivi scaturenti dall’art.4 CEDU. 3. Il cuore della decisione della Corte EDU. 4. Il principio di non punibilità nel novero delle misure operative a protezione delle vittime di tratta: tra coerente conseguenza e innovazione. 5. Le circumstances del principio di non punibilità ed il loro possibile impatto sulle politiche migratorie. 6. Brevi cenni sulle sfide sollevate dal principio di non punibilità. 7. Conclusioni
1. I fatti del giudizio
Con la sentenza del 16 febbraio 2021 (ric. n. 77587/12 e n.74603/12), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in seguito Corte EDU), in accoglimento dei ricorsi depositati da due cittadini vietnamiti, V.C.L. e A.N. (rispettivamente il primo ed il secondo ricorrente), ha riconosciuto la violazione degli artt.4 e 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (da ora in poi anche la Convenzione o CEDU) da parte del Regno Unito per non avere adottato adeguate misure operative in favore dei due ricorrenti, ed in particolare, per averli sottoposti a processo penale e successivamente condannati, ancorché fossero stati riconosciuti dalle Autorità Competenti quali vittime di tratta.
Nella vicenda che ha originato la decisione, V.C.L. e A.N. erano giunti clandestinamente dal Vietnam al Regno Unito nel 2009, rispettivamente all’età di 15 e 17 anni. Lo stesso anno, venivano sottoposti entrambi a procedimento penale per il reato di produzione di droga in quanto, nel corso di due raid antidroga, la polizia britannica li aveva scoperti a lavorare come giardinieri presso piantagioni di cannabis. Una volta accertata la minore età dei ricorrenti, venivano instaurati i procedimenti penali e gli avvocati di V.C.L. e A.N. riferivano loro che sostenere lo stato di coercizione non sarebbe stata una linea difensiva proficua. Ciò in quanto gli uffici della Procura, nonostante l’accertamento della minore età e la revisione dei casi, non erano intenzionati a recedere dalla decisione di portare avanti i procedimenti.
Nelle more del procedimento di primo grado, l’Autorità Competente si pronunciava autonomamente sui fatti che avevano coinvolto V.C.L. identificandolo come vittima di tratta ai sensi dell’art.3 del Protocollo di Palermo e dell’art.4 della Convenzione di Varsavia. Tuttavia, questa conclusione non era stata condivisa né dalla Procura della Corona né dalla Corte inglese che avevano invece ritenuto prevalente l’interesse pubblico la prosecuzione del procedimento.
Sicché, dopo essersi dichiarati entrambi colpevoli dietro consiglio delle proprie difese, V.C.L. e A.N. venivano condannati in primo grado, rispettivamente, alla pena di 20 mesi e di 18 mesi di reclusione.
Solo dopo la condanna in primo grado, A.N. veniva identificato come vittima di tratta e ciò grazie all’intervento del nuovo avvocato che aveva riferito il caso all’Autorità Competente.
Conclusi i procedimenti di primo grado, i ricorrenti venivano ammessi ad impugnare le sentenze di condanna davanti la Corte d’Appello inglese, ancorché fossero già spirati i termini: si trattava infatti dei primi casi, dopo l’entrata in vigore della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005, in cui venivano in rilievo azioni vertenti sulla tratta di esseri umani ai fini di sfruttamento lavorativo. Tuttavia, la Corte d’Appello respingeva i motivi di impugnazione, che vertevano sull’applicabilità nei casi di specie del principio di non punibilità delle vittime di tratta. Il giudice di secondo grado si limitava a richiamare le decisione assunte dalla Procura e negava ogni automatismo tra la qualifica di vittima di tratta di esseri umani e la non punibilità penale[1].
Si rilevavano parimenti infruttiferi i tentativi di adire la Corte Suprema, così come il secondo appello presentato da V.C.L., nel 2016.
Una volta esperite tutte le vie di ricorso interne V.C.L. e A.N. hanno adito la Corte EDU lamentando il mancato adempimento da parte del Regno Unito degli obblighi di protezione in favore delle vittime di tratta derivanti dall’art.4 della Convenzione e dai divieti ivi previsti[2]. In particolare, le autorità giudiziarie, alla luce delle circostanze fattuali in cui avevano avuto luogo gli arresti ed una volta accertata la minore età dei ricorrenti, avrebbero dovuto riconoscere loro la qualità di vittime di tratta ed applicare conseguentemente il principio di non punibilità delle vittime di tratta di cui all’art.26[3] della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani firmata a Varsavia nel 2005 (cd. Convenzione di Varsavia). Tali mancanze avevano impedito a V.C.L. e A.N. di accedere agli strumenti di recupero a cui le vittime di tratta hanno diritto in quanto scaturenti dai divieti di schiavitù, servitù e lavoro forzato di cui all’art.4 CEDU e dagli obblighi di tutela e protezione sanciti dalle norme internazionali in materia di tratta. I ricorrenti, ritenevano infine che la mancata adozione di misure operative per garantire loro protezione avevano inficiato, ai sensi del’art.6, par. 1 della Convenzione, anche l’equità dei processi a cui gli stessi erano stati sottoposti.
2. La sentenza della Corte EDU: a) Il quadro normativo di riferimento
La Corte EDU, prima di passare all’esame dei motivi di inammissibilità dei ricorsi, ha dedicato una parte consistente della motivazione all’individuazione del quadro normativo di riferimento all’interno del quale sussumere i casi dei ricorrenti. Partendo dalla normativa interna, sono state richiamate quelle pronunce giurisprudenziali che avevano implementato la non-punishment provision, di cui all’art.26 della Convenzione di Varsavia, tramite tre strumenti: l’applicazione della causa di giustificazione dello stato di coercizione e di necessità (cd. duress circumstances); la predisposizione di reports[4] da parte delle forze dell’ordine e di guide interne al Crown Prosecution Service ove venivano individuate le circostanze in presenza delle quali l’imputazione penale di vittime di tratta – effettive o potenziali – poteva risultare inopportuna e non corrispondente all’interesse pubblico necessario per l’avvio dell’azione penale; ed infine, il potere del giudice penale di sospendere il processo, ove il pubblico ministero non avesse correttamente adempiuto ai propri doveri di valutazione (abuse of process) di cui alle guide interne sopra richiamate.
Inoltre, viene dato atto che l’ordinamento britannico, già dall’1 aprile 2009 aveva implementato un Meccanismo Nazionale di Referral[5] al fine di procedere, tramite le Autorità competenti all’uopo istituite, ad una pronta identificazione delle vittime di tratta e fornire loro adeguato supporto.
Passando all’esame delle fonti internazionali rilevanti, la Corte EDU ha ricordato l’art.3 del Protocollo di Palermo[6] - ratificato dal Regno Unito nel 2006 – che fornisce la definizione internazionalmente accettata di tratta individuandone, tre elementi costitutivi, ossia l’azione (reclutamento, trasporto, trasferimento, ospitare o accogliere persone), i mezzi (l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione ecc.) ed il fine (lo sfruttamento della vittima); salvo poi specificare, che ove un minore di diciotto anni sia fatto oggetto di sfruttamento, si configurerà in ogni caso il reato di tratta pur non sussistendo l’uso di mezzi di coercizione.
Vengono successivamente richiamate, la definizione di lavoro forzato fornita dall’art.2 della Convenzione dell’OIL sul lavoro forzato e obbligatorio, la non-punishment provision prevista dall’art.4 del Protocollo del 2014, gli indicatori di lavoro forzato[7] elaborati dall’Organizzazione medesima ed i programmes of actions, di cui all’art.6 della Convenzione del 1999 dell’OIL sulle forme peggiori di lavoro minorile.
La Corte EDU si è infine dedicata alla Convezione di Varsavia ed alla Direttiva 2011/36[8] dell’Unione Europea. Si tratta di fonti internazionali che hanno predisposto degli standard minimi di tutela di cui la vittima di tratta deve essere destinataria. Vengono richiamati, in particolare, gli artt.10 e 35 della Convenzione di Varsavia, nei quali si fa esplicito riferimento alla necessità che gli Stati si aprano a strumenti di effettiva cooperazione con le organizzazioni non governative ed adoperino personale qualificato che proceda, inter alia, ad una pronta identificazione della vittima di tratta. In tale quadro, vengono infine ricordati il già citato art.26 della Convenzione di Varsavia e l’art.8[9] della Direttiva 2011/36. Entrambe le norme da ultimo citate sollecitano gli Stati firmatari e gli Stati Membri ad accordare alle autorità giudiziarie la possibilità di non procedere penalmente nei confronti delle vittime di tratta per i reati che le stesse sono state costrette a commettere quale conseguenza diretta della situazione di sfruttamento in cui versano.
2.1. (Segue): b) l’ammissibilità ratione personae e ratione materiae dei ricorsi
I ricorsi sottoposti al vaglio della Corte EDU hanno richiesto il preliminare accertamento della sussistenza delle condizioni di ammissibilità, ed in particolare la verifica della sussistenza dello status di “vittima” di cui all’art.34 della Convenzione[10] e della competenza ratione materiae.
Per quanto concerne il primo motivo di inammissibilità, la Corte EDU ha riconosciuto ai ricorrenti la qualità di vittime di tratta, potenziali prima ed effettive poi, e quindi l’ammissibilità dei ricorsi ratione personae. La Corte EDU ha fatto leva, in primo luogo, sull’esistenza di reports interni[11] che avevano individuato la coltivazione di cannabis quale attività spesso svolta da minori di origine vietnamita vittime di tratta. In secondo luogo, ha messo in evidenza le conclusioni a cui erano giunte le Autorità Competenti, le quali - nonostante la fermezza delle decisioni della Procura, nel caso del primo ricorrente, e la condanna penale medio tempore intervenuta nel caso del secondo ricorrente - non avevano mai negato a V.C.L. e A.N. la qualifica di effettive vittime di tratta.
Per quanto riguarda il secondo requisito di ammissibilità dei ricorsi, la Corte EDU ha richiamato i propri precedenti giurisprudenziali[12] che avevano delineato i rapporti intercorrenti tra le fonti internazionali in materia di tratta di esseri umani e l’art.4 della Convenzione[13]. In proposito, la Corte EDU ha dato per assodato che l’art.4 della Convenzione - ancorché non ne faccia menzione - ricomprende il divieto di tratta di esseri umani e che possono pertanto sorgere violazioni dell’art.4 CEDU, nel contesto della tratta, solo ove siano presenti tutti gli elementi costitutivi di tale fenomeno criminoso come individuati dal Protocollo di Palermo e dalla Convenzione di Varsavia[14]. Pertanto, l’art.4 CEDU, nel contesto della tratta, non può essere interpretato isolatamente, con la conseguenza che la Corte EDU è competente a procedere ad una lettura sistematica del citato art. 4 in combinato disposto con le altre norme internazionali pertinenti, tra cui rientrano la Convenzione di Varsavia, gli obblighi di protezione della vittima ivi previsti e come interpretati dal GRETA, ossia dall’organo istituito al fine di dare loro applicazione[15].
2.2.(Segue): c) Gli obblighi positivi scaturenti dall’art.4 della Convenzione EDU
Una volta liberato il campo di indagine dalle questioni di inammissibilità dei ricorsi, la Corte EDU ha ribadito la sua dottrina sugli obblighi positivi, secondo cui non è sufficiente che gli Stati si astengano dal violare i diritti convenzionalmente garantiti, ma devono anche adottare misure positive a tale riguardo[16]. Vengono così individuati gli obblighi sostanziali e procedurali posti a carico degli Stati Parte della Convenzione, specificando che gli obblighi scaturenti dall’art.4 CEDU, fermo restando il limite della proporzionalità, devono seguire una triplice direzione: vietare e punire penalmente la tratta ed i suoi responsabili; adottare, in determinate circostanze, misure operative per proteggere le vittime, effettive o potenziali; ed infine indagare su fatti di potenziale tratta di persone.
3. Il cuore della decisione della Corte EDU
Così inquadrato il campo di indagine, la Corte EDU ha iniziato la sua prima considerazione sul principio di non punibilità delle vittime di tratta per i reati che sono state costrette a commettere inquadrandolo nell’ambito del secondo gruppo di obblighi che possono, in certe circostanze, scaturire dall’art.4 della Convenzione. Alla luce del tenore letterale delle disposizioni internazionali che la prevedono e delle circostanze che devono sussistere affinché sorga l’obbligo di attivare misure operative, la Corte EDU ha escluso che la non-punishment provision faccia sorgere un obbligo generale e assoluto di non perseguire le vittime di tratta.
Alla luce di ciò, la Corte EDU ha ridimensionato le questioni che le erano state sottoposte, precisando che nel caso di specie non si trattava di valutare, sic et simpliciter, la mancata adozione da parte del Regno Unito di un sistema di non punibilità rivolto alle vittime di tratta ex art.26 della Convenzione di Varsavia, ma piuttosto di stabilire se le circostanze del caso avevano fatto sorgere doveri operativi di protezione in favore dei ricorrenti, e se quindi la loro mancata attivazione avesse dato luogo ad una violazione dell’art.4 CEDU.
La risposta positiva all’interrogativo offerta dalla Corte EDU si fonda, in primo luogo, sul test che la sua giurisprudenza ha formulato[17] per individuare il momento a partire dal quale sorge l’obbligo di adottare misure operative. A riguardo, deve farsi riferimento al momento in cui le autorità dello Stato avrebbero dovuto avere conoscenza di circostanze che fanno sorgere un sospetto credibile che la persona identificata è stata o potrebbe essere vittima del reato di tratta così come definito dall’art.3 del Protocollo di Palermo e dall’art.4 della Convenzione di Varsavia (par.152). La necessità di anticipare il sorgere del dovere di intervento in favore della vittima - effettiva o potenziale –si spiega, secondo la Corte EDU, in ragione delle esigenze di protezione e prevenzione che emergono a chiare lettere dalla Convenzione di Varsavia e dalla Direttiva 2011/36 e da cui deriva che gli Stati sono chiamati a proteggere le vittime di tale fenomeno criminoso da ulteriori danni, inserendola in un percorso di recupero sociale, fisico e psicologico.
Nell’applicare tali principi ai fatti che hanno visto coinvolti V.C.L. e A.N., la Corte EDU ha affermato che vi erano chiari indizi sulla qualità dei ricorrenti come vittime di tratta. Già all’epoca degli arresti, i reports interni avevano identificato i giovani vietnamiti come gruppo a rischio tratta, spesso impiegato nelle piantagioni di cannabis. Inoltre, dalla minore età dei ricorrenti doveva dedursi il loro status di vulnerabilità. Se quindi nel caso di V.C.L., le autorità avrebbero dovuto capire fin dall’inizio che si trattava di una vittima di tratta (par.118 e 163)[18]; nel caso di A.N., ancorché questi avesse dichiarato di essere nato nel 1972, tali sospetti dovevano sorgere al più tardi nel momento in cui (solo 9 giorni dopo il suo arresto) ne era stata accertata la minore età. Ancora, per la Corte EDU non sono passate inosservate le dichiarazioni di A.N. il quale aveva precisato che la piantagione era sorvegliata all’esterno, di non essere pagato per il lavoro che svolgeva e di avere ricevuto minacce di morte quando aveva manifestato l’intenzione di smettere di lavorare. Si trattava quindi di elementi a chiara dimostrazione dell’esistenza della sopraffazione e del controllo continuativo della persona esercitato uti dominus che caratterizza l’elemento oggettivo del reato di tratta.
Accertato che era sorto l’obbligo di adottare misure operative da parte del Regno Unito, la Corte EDU ha analizzato le circostanze in presenza delle quali potrebbe non prodursi una violazione delle libertà dell’art.4 CEDU. Viene in proposito chiarito che l’adempimento del dovere di intervento implica l’immediato deferimento della persona individuata alle autorità istituite nell'ambito del Meccanismo Nazionale di Referral, sì che il soggetto possa essere valutato da persone qualificate e formate a tal fine. Pertanto, qualsiasi decisione sull'opportunità o meno di avviare il procedimento penale a carico della vittima deve essere assunta solo dopo che tale valutazione viene completata. Inoltre, la Corte EDU ha chiarito che ove sia ritenuto prevalente l'interesse pubblico all'instaurazione dell'azione penale, una simile decisione deve fornire argomentazioni coerenti con le definizioni di tratta di cui al Protocollo di Palermo e alla Convenzione di Varsavia.
Alla luce di ciò, la Corte EDU è stata molto critica nei confronti del Crown Prosecution Service per avere mancato di coordinarsi con le Autorità Competenti e con il Meccanismo Nazionale di Referral e per aver fornito giustificazioni periferiche che non andavano al cuore dell'assenza degli elementi costituenti la tratta. Una tale mancanza è apparsa ancor più ingiustificabile in considerazione dell’età dei ricorrenti da cui avrebbe dovuto conseguire l’applicazione della presunzione dell’esistenza dell’uso dei mezzi di coercizione e dello stato di vulnerabilità, secondo quanto previsto dalla normativa internazionale in materia. La Corte EDU infine non ha mancato di censurare aspramente l'operato delle Corti inglesi per non avere tenuto fede ai precedenti giurisprudenziali sull’applicazione dell’istituto dell’abuse of process alle vittime di tratta e per essersi, invece, limitate a fornire una motivazione ri-propositiva delle già insufficienti ragioni offerte dal Crown Prosecution Service.
In sintesi, la tardività dell’intervento identificativo delle Autorità Competenti imputabile alla Procura ed alle forze dell’ordine e l’assenza di un’esaustiva motivazione da parte delle autorità giudicanti hanno costituito una violazione dell’obbligo di proteggere le vittime di tratta che nel caso di specie ha inficiato l’instaurazione dei procedimenti penali e l’adozione delle sentenze di condanna a carico dei ricorrenti. In presenza di tali circostanze, è stato chiaro alla Corte EDU che la sottoposizione a processo di soggetti identificati come vittime di tratta, si pone in contrasto con l’obbligo di adottare misure operative per proteggere tali soggetti sì da garantire il raggiungimento di quell’obiettivo di recupero sociale, fisico e psicologico, che si pone alla base delle libertà tutelate dall’art.4 CEDU.
Riconosciuta la violazione dell’art.4 della Convenzione, la Corte EDU è passata ad analizzare le denunciate violazioni dell’art.6 par.1 della Convenzione. Anche in questo caso, la Corte ha accolto le istanze dei ricorrenti, concludendo nel senso che l’equità dei procedimenti penali era stata pregiudicata dall’assenza di consapevolezza dei fatti sottostanti alle ammissioni di colpevolezza [19] e dalle carenti motivazioni fornite dalla Procura e dalle Corti per proseguire i procedimenti penali.
Conclusivamente, alla luce delle accertate violazioni della Convenzione, la Corte EDU ha riconosciuto ai ricorrenti il diritto al risarcimento dei danni pari a 25.000 euro ciascuno.
4. Il principio di non punibilità nel novero delle misure operative a protezione delle vittime di tratta: tra coerente conseguenza e innovazione
La Corte EDU nel ricondurre il principio di non punibilità nel novero delle misure operative che gli Stati Parte, in determinate circostanze, sono chiamati ad adottare in adempimento degli obblighi scaturenti dall’art.4 della Convenzione, giunge ad una conclusione che si pone in linea di continuità con quel “cambio di passo”[20] che, dagli inizi del secondo decennio del ventunesimo secolo, ha reso la giurisprudenza convenzionale in materia di tratta di persone una guida per gli Stati Parte verso un ampio inquadramento della tratta; un fenomeno criminale che viene delineato tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del caso, e che richiede l’intervento non solo delle norme penali, ma dell’intero ordinamento
Già a partire dallo storico caso Rantsev c. Russia e Cipro [21], la Corte EDU - dopo avere affermato che la tratta di persone quale forma moderna di schiavitù rientra indubbiamente nel campo di applicazione dei divieti dell'art. 4 della Convenzione– aveva sottolineato la necessità che gli Stati Parte adottassero, nell’ambito della misure operative di lotta alla tratta, un “comprehensive approach” funzionale a tutelare i diritti fondamentali delle vittime di tale fenomeno criminoso. Applicando la nota dottrina del vacuum (isolamento)[22], la Corte EDU richiamava il Protocollo di Palermo e la Convenzione di Varsavia quali fonti da cui trarre la definizione del reato di tratta[23] e da cui dedurre la necessità di un approccio non limitato all’adozione di misure di repressione penale, ma anche finalizzate a proteggere le vittime. Era chiaro pertanto, fin da allora, che l’obbligo di criminalizzare e perseguire la tratta fosse solo uno dei vari impegni assunti dagli Stati Parte nel contrasto a tale fenomeno criminoso e che la portata degli obblighi positivi derivanti dai divieti sanciti dall’art. 4 della Convenzione doveva essere considerata in tale più ampio contesto.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte EDU concludeva pertanto nel senso che lo stato russo e quello cipriota avevano violato l’at.4 della CEDU per non avere condotto indagini appropriate sulla morte di una ragazza russa, vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale ed e per non essersi muniti di sistemi idonei a punire tali reati e a proteggerne le vittime.
Successivamente a tale pronuncia, gli interventi della Corte EDU sul tema della tratta - sollecitati anche del disastroso espandersi del fenomeno[24] - sono andati sempre più spingendosi verso una interpretazione estensiva della definizione di tratta e, conseguentemente, degli standard di tutela spettanti alla vittima a garanzia delle libertà tutelate dall’art.4 CEDU. In tale contesto, si inserisce il caso S.M. c. Croazia[25] ove la Grande Camera della Corte EDU, oltre ad ampliare ulteriormente l’ambito applicativo dell’art.4 CEDU includendovi il divieto di cd. tratta interna, delinea - sempre in un’ottica di favor victimae - il ruolo dell’abuso di vulnerabilità nell’ambito degli elementi costitutivi del reato di tratta. Nel caso di specie, la Corte EDU ha riscontrato la violazione dell’art.4 da parte della Croazia per non avere adottato misure operative a protezione della ricorrente la quale era stata sfruttata sessualmente da un ex poliziotto croato e aveva visto mandare assolto il suo sfruttatore in quanto le sue dichiarazioni erano state considerate inattendibili, pur non essendo state svolte ulteriori indagini a suffragio dei denunciati fatti di sfruttamento. Viene precisato che l’abuso dello stato di vulnerabilità della vittima costituisce un indizio - ancorché spesso poco tangibile - della presenza dell’elemento strumentale della tratta e dell’esecuzione di un’attività di lavoro forzato, e ciò anche quando la vittima si sia offerta volontariamente, quantomeno in un primo momento, per lo svolgimento del lavoro. Sicché la scarsa attendibilità delle dichiarazioni della vittima non potrà giustificare il mancato compimento di indagini approfondite su sospettabili fatti di tratta o la mancata adozione di misure protettive in favore della sua vittima.
Infine, anche nel recentissimo caso Affaire A.I. c. Italia[26] la Corte EDU è tornata ad affrontare il tema della vulnerabilità della vittima di tratta in una vicenda concernente la perdita della potestà genitoriale da parte della ricorrente. Nel caso di specie, la maggiore protezione che la vittima necessita in ragione dello stato di vulnerabilità in cui versa è un elemento che, agli occhi della Corte EDU, ha reso inaccettabile l’avere impedito alla ricorrente di intrattenere rapporti con i propri figli i quali erano stati nel frattempo dati in adozione.
Orbene, appare evidente che la prospettiva vittimologicamente orientata[27] che emerge dall’analisi della giurisprudenza in materia di tratta è la stessa che si pone alla base della decisione del 16 febbraio 2021. Coerentemente con un approccio integrato alla tratta, la non-punishmenti provision viene incorporata nell’art.4 CEDU quale ulteriore standard convenzionale di tutela dei diritti della vittima, il primo afferente la sua posizione giudiziaria. In un contesto in cui le cause di giustificazione - come le duress circumstances britanniche o lo stato di necessità dell’ordinamento italiano[28] - sono insufficienti per tutelare tempestivamente la vittima di sfruttamento ai fini di “criminalità forzata”[29], si avverte la necessità di rafforzare l’emersione internazionale del principio di non punibilità. Gli obiettivi di protezione verrebbero infatti frustrati dalla sottoposizione a processo della vittima a cui verrebbe inibito l’accesso agli strumenti di assistenza, favorendone anzi il (re)inserimento entro episodi di sfruttamento.
5. Le circumstances del principio di non punibilità ed il loro possibile impatto sulle politiche migratorie
Quanto detto tuttavia non vuole dedurre dalle parole della Corte EDU affermazioni generalizzabili in merito all’applicabilità tout court del principio di non punibilità delle vittime di tratta. Per quanto la non punishment provision sia entrata, come sopra esposto, nel novero delle misure operative da adottare a tutela della vittima di tratta, è altrettanto vero che tale incorporazione è tutto fuorché assoluta. Ciò è testimoniato non solo dalla formulazione letterale delle norme internazionali che ad essa fanno riferimento, ma anche dalla circostanza che la Corte EDU si è molto concentrata sulle “certain circumstances” in presenza delle quali la mancata applicazione del principio di non punibilità potrebbe non entrare in contrasto con libertà tutelate dall’art.4 CEDU. In proposito, assumono rilievo da un lato l’identificazione[30] del soggetto indagato - da effettuarsi tramite le autorità all’uopo istituite e prima dell’adozione di decisioni giudiziarie in merito all’opportunità di sottoporre a processo penale vittime di tratta - e, dall’altro lato, il coordinamento effettivo ed efficace tra i vari attori impiegati nella lotta alla tratta (da compiersi tramite una tempestiva attivazione dei Meccanismi Nazionali di Referral e l’adozione di esaustive decisioni delle autorità giudiziarie che siano attinenti alla definizione di tratta e alle conclusioni a cui sono giunte le autorità competenti).
Si tratta di indicazioni di non poco rilievo e da cui emerge l’intento del giudice europeo di guidare le autorità nazionali verso una prospettiva di contrasto multilivello, che nella ricerca dell’equilibrio tra la tutela (penale) dell’ordine pubblico e la prevenzione di fenomeni di tratta tramite protezione delle sue vittime, mette in rilievo la dignità della persona, quale meta-valore ordinamentale[31]. In particolare, la pronta identificazione della vittima tramite personale qualificato e il repentino intervento dei Meccanismi di Referral sono elementi che richiamano l’attenzione sulle politiche dell’immigrazione concernenti l’identificazione[32] sollecitando un’analisi critica di quei sistemi giuridici che si mostrano meno inclini ad una visione preventivo-assistenziale e più orientati verso dinamiche di repressione penale e di puro contenimento dell’immigrazione[33].
Peraltro, a quest’ultima categoria sembra potersi in parte ricondurre il Regno Unito[34]. Infatti, sebbene la violazione della Convenzione accertata con la sentenza in commento non abbia inficiato l’intero sistema operativo messo in atto dall’ordinamento britannico a protezione delle vittime di tratta, le istanze di prevenzione manifestate dalla Corte EDU non sembrano trovare riscontro nella riforma anti-trafficking del 2015. Il Modern Slavery Act 2015, se per un verso ha introdotto un sistema di non punibilità delle vittime di tratta per i reati che sono stati costretti a commettere[35], per altro verso si è focalizzato principalmente su un impianto di repressione penale, incentrato sulla definizione del reato di tratta, che continua a relegare l’intervento del Meccanismo Nazionale di Referral in una fase post factum.
Così, ad esempio, la riforma nulla ha previsto in merito al cd. Tied Visa System del 2012, ossia il sistema di concessione dei visti per i domestic workers che crea un legame quasi indissolubile (e da qui il nome) tra la legittimità dello status del ‘migrante lavoratore domestico’, giunto tramite richiesta di un cittadino britannico, e il datore di lavoro. Si tratta di un sistema che ha reso i lavoratori domestici sovente vittime di tratta e di ogni genere abuso (lavorativo, sessuale e criminale) da parte del datore di lavoro. A riguardo, la riforma del 2015 si è limitata solo a prevedere che ove il soggetto sia fatto oggetto di sfruttamento lavorativo, sessuale o criminale, potrà rivolgersi alle Autorità Competenti ed al Meccanismo Nazionale di Referral – sempre che ne conosca l’esistenza - per essere identificato come vittima di tratta ed ottenere la proroga del visto[36]. Viene così creato un sistema generatore di abusi e di sfruttamento che si autoalimenta, ove il Meccanismo Nazionale di Referral deve individuare quelle vittime che sono state create dallo stesso legislatore nazionale.
Orbene, ancorché sia evidente che continuano ad incontrare numerosi ostacoli quelle istanze di protezione e prevenzione provenienti da strumenti esterni alla Convenzione EDU, tra cui inter alia la Convenzione di Varsavia e la Direttiva n.2011/36, la Corte EDU con la sentenza in commento e tramite la delimitazione del ruolo svolto dai Meccanismi Nazionali di Referral si è resa cauta portavoce di tali esigenze, ora non più relegate entro i limiti di strumenti di “soft law” [37]. In particolare, la vincolatività di cui sono dotate le decisioni dei giudici europei dovrebbe sensibilizzare i legislatori nazionali verso una politica anti-tratta che si basi su un approccio human rights-based ed in cui l’applicazione del principio di non punibilità delle vittime di tratta dovrebbe costituire l’extrema ratio a fronte di un sistema che dovrebbe tutelare preventivamente le vittime di tali crudeltà.
6. Brevi cenni sulle sfide sollevate dal principio di non punibilità delle vittime di tratta
La mancanza di assolutezza del principio di non punibilità delineato dalla Corte EDU nella sentenza in commento è inoltre testimoniata dall’assenza di precisazioni (e non potrebbe che essere così) circa le ulteriori sfide che il principio di non punibilità deve affrontare. Soggiace infatti a questo istituto una valutazione frutto di un bilanciamento non solo tra fatti penalmente rilevanti ma anche tra beni giuridici.
In particolare, i casi sottoposti al vaglio della Corte EDU vertevano sulla commissione di un reato, quale la produzione di stupefacenti, che rientra tra quei delitti che sovente sono connessi a vicende di tratta di esseri umani. È difficile pertanto ritenere che le indicazioni fornite dalla Corte EDU siano sufficienti per dare risposta (punibilità o non punibilità) a quelle ipotesi in cui la vittima di tratta venga costretta o persuasa a trasformarsi essa stessa in sfruttatore (fenomeno di cd. “cycle of abuse”[38]), facendosi soggetto attivo di condotte lesive di quegli stessi diritti e libertà che l’art.4 CEDU intende tutelare. Ciò potrebbe verificarsi nei casi in cui venisse lesa l’integrità fisica della persona (gravi lesioni personali e omicidio).
In tali ipotesi, soprattutto le più gravi, un diverso e più pregnante rilievo nell’opera di bilanciamento presupposta dal principio di non punibilità, dovrebbe essere accordato, in linea teorica, all’interesse all’avvio dell’azione penale, quantomeno ove già nella fase delle indagini e previo parere delle autorità competente, manchi quello stato di costrizione della vittima/carnefice su cui il principio di non punibilità si fonda. Diversamente argomentando, si correrebbe di svilire i nobili scopi della non-punishment provision rendendola un comodo escamotage elusivo della responsabilità penale.
7. Conclusioni
Il Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con questa innovativa decisione manifesta la presa di coscienza la una maggiore tutela delle vittime, anche sul piano giudiziale, è un passo necessario da compiere per adempiere alla missione di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e favorire l’emersione e la prevenzione dei fenomeni di tratta. Per quanto parte della dottrina[39] abbia criticato – in nome del principio della certezza del diritto – la forza espansiva di cui viene dotato l’art.4 CEDU, non può comunque negarsi che norme convenzionali aventi natura di jus cogens – in cui rientra a pieno titolo l’art.4 della Convenzione - richiedono che alle stesse sia accordata la capacità di adattarsi all’evoluzione della realtà fenomenica per fare fronte alle istanze di tutela della libertà e della dignità dell’essere umano a cui sono volte.
In chiave comparatistica, si può notare che l’attenzione riservata dalle Corte EDU all’istituto della non punibilità della vittima del reato di tratta per i reati che la stessa è stata costretta a commettere, non è la stessa che si riscontra nella normativa processuale italiana. Sul punto, l’Italia è stata già ripresa dal GRETA[40], senza che tuttavia il legislatore sia intervenuto sul punto. Pertanto, per quanto ammirevoli siano gli sforzi finora compiuti dall’ordinamento italiano nella lotta alla tratta[41], alla luce dei passaggi argomentativi della sentenza in esame, deve scorgersi la necessità che il sistema italiano incrementi la tutela, anche giudiziaria, della vittima.
[1] Venivano in ogni caso rimodulate le pene originariamente afflitte ai due ricorrenti: Mr. V.C.L. veniva condannato alla pena di 14 mesi di reclusione, mentre a A.N. veniva ridotta la pena da 18 a 4 mesi di reclusione.
[2] Ai sensi dell’art.4 par. 1 e 2 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo: “Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio.
[3] Ai sensi del citato art.26: “Ciascuna delle Parti stabilisce, in conformità con i principi fondamentali del proprio sistema giuridico nazionale, la possibilità di non comminare sanzioni penali alle vittime che sono state coinvolte nelle attività illecite, quando ne siano state costrette”.
[4] Cfr. The Child Exploitation and Online Protection Command, ed in particolare il First “scoping report”del giugno 2007 e la Child Traffing in the United Kingdom Strategic Threat Assessment dell’aprile 2009.
[5] Al fine di adempiere agli oneri di prevenzione e protezione scaturenti dalla Convenzione di Varsavia e dalla Dir.2011/36, la maggior parte dei paesi europei ha istituito i cd. Meccanismi Nazionali di Riferimento (Referral), ossia meccanismi di cooperazione che procedono all’identificazione dei soggetti vittime di tratta, basati su accordi di collaborazione con le organizzazioni della società civile attraverso i quali gli attori statali, adempiono ai loro obblighi di protezione e promozione dei diritti umani delle vittime. Per l’Italia cfr. le Linee Guida per l’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral elaborate dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e l’U.N.H.C.R.
[6] A norma dell’art.3 del Protocollo di Palermo: “«tratta di persone» indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi”.
[7] I sei indicatori sviluppati dall’OIL costituiscono il punto di riferimento nell’identificazione del lavoro forzato. Questi indicatori sono la minaccia di violenza o l’effettiva violenza fisica nei confronti della vittima, la restrizione della libertà di movimento dei lavoratori, la schiavitù per debiti, la trattenuta dei salari, la confisca di passaporti o documenti d’identità e la minaccia di denuncia alle autorità, nei casi in cui il lavoratore abbia lo status di migrante irregolare.
[8] La Direttiva 2011/36 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime è stata adottata in sostituzione della previgente Decisione Quadro del Consiglio 2002/629/GAI.
[9] Ai sensi dell’art.8: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie, conformemente ai principi fondamentali dei loro ordinamenti giuridici, per conferire alle autorità nazionali competenti il potere di non perseguire né imporre sanzioni penali alle vittime della tratta di esseri umani coinvolte in attività criminali che sono state costrette a compiere come conseguenza diretta di uno degli atti di cui all’articolo 2”.
[10] L’art.34 CEDU recita quanto segue: “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto”
[11] Cfr. The Child Exploitation and Online Protection Command, ed in particolare il First “scoping report” del giugno 2007 e la Child Traffing in the United Kingdom Strategic Threat Assessment dell’aprile 2009.
[12] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010, ric. n. 25965/04 e Caso Chowdury e altri c. Grecia, 30 marzo 2017, ric. 21884/15.
[13] In particolare, il Regno Unito aveva sostenuto che la Corte EDU avrebbe esulato dai propri poteri giurisdizionali, ove avesse importato all’interno dell’ambito applicativo dell’art.4 CEDU norme quali la non-punishment provision di cui all’art.26 della Convenzione di Varsavia.
[14] Ai sensi dell’art.4, lett. a) della Convenzione di Varsavia: “L’espressione “tratta di esseri umani” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, con la frode, con l’inganno, con l’abuso di autorità o della condizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di pagamenti o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù o l’espianto di organi”.
[15] Il Group of Experts on Trafficking in Human Being, cd. GRETA è un gruppo multidisciplinare di esperti istituito dall’art. 36 della Convenzione di Varsavia al fine vigilare sull’applicazione delle norme ivi previste e sull’efficacia delle azioni promosse dagli Stati firmatari. È composto da professionisti scelti tra personalità di elevata moralità, conosciute per la loro competenza nel campo dei diritti umani, dell’assistenza e della protezione delle vittime e della lotta contro la tratta di esseri umani o che possiedano una specifica esperienza professionale nel campo della tratta.
[16] Cfr. Positive Obligations under the European Convention on Human Rights, A guide to the implementation of the European Convention on Human Rights, Council of Europe: Human rights handbooks, N.7, 2007
[17] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev, cit. par.
[18] Infatti non era mai stata messa in dubbio la minore età di V.C.L., dovendosi solo chiarire in questo caso se l’indagato avesse 17 o 15 anni.
[19] La Corte EDU pur prendendo atto che le carenti linee difensive seguite dai ricorrenti erano imputabili ai loro avvocati difensori, non ha ritenuto tali elementi sufficienti per mandare esente lo Stato dalle sue responsabilità.
[20] Parisi F., (2016). Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 59(4), 1763-1802.
[21] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Rantsev, cit. La vicenda riguardava una cittadina russa, la quale, una volta recatasi a Cipro con un visto artistico per lavorare in un locale notturno, era deceduta in circostanze misteriose. Il padre adiva la Corte EDU lamentando la violazione dell'art 4 da parte dello stato russo e di quello cipriota, in quanto non avevano rispettato l'obbligo positivo di proteggere i cittadini dal traffico di esseri umani e non erano stati in grado di svolgere indagini appropriate circa i fatti che hanno visto il coinvolgimento della figlia.
[22] Corte europea dei diritti dell’uomo [GC], Hassan v. the United Kingdom, 16 settembre 2014, ric. n. 29750/09, par. 77: “(…) the Convention cannot be interpreted in a vacuum and should so far as possible be interpreted in harmony with other rules of international law of which it forms part”.
[23] La Corte nel caso di specie non ha spiegato con precisione in che modo la tratta rientra nell’ambito di applicazione dell’art.4 e quale sia il nesso con le condotte di schiavitù, servitù e lavoro forzato ivi previste. Si è limitata ad evidenziare che la tratta è un crimine che lede la dignità e la libertà umana e in quanto tale deve considerarsi incompatibile con la Convenzione (Caso Rantsev, par. 282). Per una critica a riguardo cfr. inter allia Milano V., Un approccio integrale per combattere la tratta degli esseri umani? Il contributo della Corte Europea e Interamericana dei diritti umani, in DEP, n. 40/2019.
[24] Se nel 2010 gli Stati Membri dell’Unione Europea totalizzavano c.a. 9.500 vittime di tratta, nel biennio 2017-2018 sono state registrare 26.268 vittime di tratta. cfr. Eurostat, Trafficking in Human Beings, 2013 reperibile sul sito https://ec.europa.eu/eurostat/documents/3888793/5856833/KS-RA-13-005-EN.PDF.pdf/a6ba08bb-c80d-47d9-a043-ce538f71fa65?t=1414780383000 e il Data collection on trafficking in human beings in the EU, elaborato a settembre 2020 dalla Commissione Europea, reperibile sul sito https://ec.europa.eu/anti-trafficking/sites/default/files/study_on_data_collection_on_trafficking_in_human_beings_in_the_eu.pdf
[25] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (GC), Caso S.M. c. Croazia, 25 giugno 2020, ric. n. 60561/14.
[26] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso A.I. c. Italia, 1 aprile 2021, ric.70896/17.
[27] Cfr. Vitarelli F., Vittime vulnerabili e art.4 CEDU – La Grande Camera estende l’ambito di operatività dell’art.4 CEDU: verso una sempre maggiore tutela delle vittime vulnerabili in contesti di sfruttamento, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, dicembre 2020, p.2116
[28] Cfr. GRETA, Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy pubblicato il 25 gennaio 2019, par.234.
[29] Cfr. Seconda relazione della Commissione la Parlamento europeo e al Consiglio relazione sui progressi compiuti nella lotta alla tratta di esseri umani (2020) a norma dell'art.20 della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, Bruxelles, 20.10.2020.
[30] Anche in merito alla centralità accordata all’identificazione del soggetto sospettato di essere vittima di tratta, sembra che la Corte EDU abbia tratto ispirazione dal Caso Chowdury cit., par.88 ove si evidenzia che, ai sensi dell’art.4 della Convenzione, sorge in capo agli Stati l’obbligo di procedere ad una pronta identificazione delle vittime di tratta.
[31] Cfr. Militello V., La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico di migranti, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2018, pag. 86.
[32] Appaiono emblematiche le parole del GRETA nel Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by the United Kingdom (2012): “Victims of trafficking must be identified and recognised as such in order to avoid police and public authorities treating them as “irregular migrants” or criminals. Victims should be granted physical and psychological assistance and support for their reintegration into society”.
[33] Cosi anche nello studio Policy and legislative recommendations towards the effective implementation of the non-punishment provision with regard to victims of trafficking pubblicato nel 2013 dall’Office of the Special Representative and Co-ordinator for Combating Trafficking in Human Beings dell’OSCE: “the application of the principle depends on the extent to which States prioritize the fight against trafficking in human beings over the punishment of victims. More broadly, the application of the principle clearly correlates to the extent to which States put the protection of the rights of trafficked persons at the centre of their anti-trafficking efforts”, par.68.
[34] Cfr. Parisi F., (2016). Il contrasto al traffico di esseri umani fra modelli normativi e risultati applicativi, cit.
[35] Con preciso riferimento ai minori di età, il Regno Unito ha accordato loro l’immunità penale per i reati dagli stessi commessi quando sono diretta conseguenza dello sfruttamento e cioè quando una persona ragionevole con le stesse caratteristiche del minore avrebbe fatto lo stesso. Simili disposizioni vengono altresì previste anche con riferimento a soggetti adulti, ancorché in tal caso si richiede che vi sia una precisa connessione tra la costrizione e la tratta.
[36] Cfr. Demetriou D., ‘Tied Visas’ and Inadequate Labour Protections: A formula for abuse and exploitation of migrant domestic workers in the United Kingdom’, in Anti-Trafficking Review, maggio 2015, p. 69–88, www.antitraffickingreview.org.
[37] Il GRETA, ancorché si impegni tramite i suoi reports triennali nel valutare le misure legislative e di altro tipo adottate o che devono essere implementate per dare effetto alle disposizioni della Convenzione di Varsavia, è privo di ogni potere vincolante in grado di incidere effettivamente sugli assetti ordinamentali interni.
[38] Cfr. Lo studio Policy and legislative recommendations towards the effective implementation of the non-punishment provision with regard to victims of trafficking, cit. par. 55.
[39] Cfr. V. Stoyanova, Dancing on the Borders of Article 4: Human Trafficking and the European Court of Human Right in the Rantsev case, in Netherlands Quarterly of Human Rights, 2012.
[40] GRETA, Report concerning the implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Italy cit., par.234.
[41] La Convenzione di Varsavia è stata ratificata dallo Stato italiano con la L.108/2010. Inoltre, in attuazione della direttiva 2011/36, il 26 febbraio 2016 il Consiglio dei ministri ha adottato il Piano d’azione nazionale contro la tratta ed il grave sfruttamento di esseri umani 2016-2018 che stabilisce le norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nell’ambito della tratta di esseri umani e disposizioni comuni per gli Stati membri della Ue, mirando a rafforzare, da un lato, la prevenzione e la repressione del reato, e dall’altro la protezione delle vittime.
Rosario Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede" di Don Baldo Reina*
*Rettore del Seminario Arcivescovile di Agrigento
Il prossimo 9 maggio verrà beatificato il giudice Livatino, barbaramente ucciso dalla “stidda” nel settembre del 1990. Il procedimento canonico non è stato per nulla facile poiché ha dovuto farsi strada tra varie domande, molte delle quali – probabilmente – ancora affiorano e meritano attenzione per capire meglio la scelta della chiesa cattolica di additare Livatino come martire. Si possono riassumere attorno a un unico polo con diverse sfaccettature: “perché un servitore della Stato, ucciso dalla malavita viene dichiarato beato? Non sono stati in tanti, purtroppo, a fare la stessa fine? Qual è (se c’è) la differenza fra un eroe della giustizia e un martire? Cosa c’è di così straordinario nella vicenda di Livatino? E ancora: come tradurre l’espressione di San Giovanni Paolo II che ha definito Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”? I martiri cristiani non sono riconosciuti tali perché uccisi in odio alla fede? Siamo proprio sicuri che le mani dei killer che uccisero “il giudice ragazzino” agivano per fare uno sfregio alla sua fede?”
In questo contributo non ho la pretesa di rispondere a queste domande ma vorrei – come posso – semmai, a mettermi in ascolto di esse per approfondire tanto il tema della beatificazione quanto quello del servizio alla giustizia e per tentare di mostrarne il nesso e la luce che da una parte (martire della fede) va all’altra (martire della giustizia) e viceversa.
Desidero prendere l’avvio alla riflessione dalla frase di San Giovanni Paolo II e che ho scelto come titolo di quest’articolo proprio perché ha costituito la stella polare di questa vicenda. Il Santo Padre, che era stato in visita ad Agrigento nel 1993 (quindi tre anni dopo l’uccisione di Livatino), poco prima della Messa alla Valle dei Templi aveva avuto modo di incontrare i genitori del giudice e di raccogliere tutto il loro dolore e la loro amarezza. Si era fatto raccontare i fatti ed era rimasto colpito della descrizione che in tanti facevano di questo giudice come di una persona schiva, estremamente ligia al dovere, equilibrata e animata da una fede autentica che alimentava quotidianamente con la preghiera e con la partecipazione alla S.Messa. Nel frattempo iniziavano a uscire le prime pubblicazioni su Livatino, molte delle quali promosse dalla prof.ssa Ida Abate, che era stata sua insegnante di lettere classiche al Liceo “Ugo Foscolo” di Canicattì e che ne conosceva bene i tratti distintivi del carattere, dell’intelligenza e dell’impegno. Oltre ai pochissimi interventi pubblici vi erano anche le agende private del giudice con delle annotazioni che egli faceva su quanto gli capitava. Le pagine si chiudevano quasi sempre con la sigla “STD” che, ben presto fu decifrata: “Sotto la tutela di Dio”. Dal suo ambiente di lavoro si raccoglievano notizie che riguardavano il suo modo di vivere. Per esempio – solo per rimanere alla vicenda finale – si seppe che rifiutò la scorta (offertagli proprio perché stava lavorando a delle indagini molto delicate) per non impensierire gli anziani genitori e per non mettere in pericolo la vita di alcuni padri di famiglia. Il quadro che si andava delineando era quello di un giudice che, come tanti altri, aveva opposto una resistenza netta alla criminalità organizzata e si era speso con tutte le sue forze attorno all’ideale della giustizia; nonostante la giovane età egli aveva mostrato grande fermezza nelle scelte, nell’interpretazione del suo ruolo e di come questo potesse cambiare le sorti della società. In sintesi, un giudice che, nella fedele e cosciente ottemperanza al suo dovere, aveva deciso di vivere “per” qualcosa, per l’ideale della giustizia e per i valori da essa promossi.
Insieme a questo primo aspetto – se vogliamo quello più evidente – si sentì il bisogno di approfondire quello della fede cristiana che animò la sua vita sin dalla più tenera età. Livatino non amava ostentare la sua fede. Semplicemente la viveva nelle forme e nei modi che gli erano consoni: la preghiera personale, la partecipazione alla S.Messa, la lettura della Bibbia, l’approfondimento di alcuni testi di teologia etc…Il tutto con estrema umiltà e nascondimento. Si potrebbe dire di lui quello che Gesù raccomanda a proposito di alcune opere di pietà come la preghiera, il digiuno o la carità: fatele senza suonare la tromba, senza cercare le prime file e senza far vedere agli altri quanto avete deciso nel cuore. In una parola, nel segreto (letteralmente “in maniera criptata”), in modo che nessuno veda l’azione religiosa in se ma sia visibile l’effetto di quell’azione, cioè la testimonianza. Credo che il criterio scelto da Livatino sia stato proprio questo: non una fede da mostrare nelle forme ma da rendere leggibile nella testimonianza.
Su questo polo di dimensione credente di Livatino si è concentrata l’indagine diocesana prima e quella della Santa Sede, dopo, condotta magistralmente da Mons. Bertolone nella qualità di Postulatore (al quale spetta il compito di svolgere le indagini sulla vita del servo di Dio di cui si tratta, per conoscere la sua fama di santità e l’importanza ecclesiale della causa). La raccolta delle testimonianze del e sul giudice Livatino ha portato ben presto a comprendere che il primato di Dio nella sua vita era assoluto e principiale. Era, cioè, posto al principio e come principio di ogni cosa, di ogni scelta, di ogni attività, di ogni osservanza. Il processo canonico che culmina nel pronunciamento di Papa Francesco trova in questo punto il suo asse fondamentale. E’ vero che Livatino è stato un servitore della giustizia ma, ancor prima è stato un credente che ha cercato, con tutte le sue forze, di servire Dio e ha servito la giustizia mosso dalla forza di Dio, dalla sua grazia e dalla sua luce. In sintesi: se è vero che Livatino ha vissuto per qualcosa (per la giustizia) è altrettanto vero che innanzitutto egli ha vissuto per Qualcuno (per il Dio di Gesù Cristo). La sigla dei suoi diari è stata la cifra della sua vita e del suo impegno. Egli, prima ancora che dedicato alla causa della giustizia, si sentiva consegnato a Dio, sotto la sua tutela, affidato alla sua misericordia, obbediente alla sua Parola. La scelta di fede, alimentata quotidianamente nell’Eucarestia e nella preghiera personale, è stata l’impalcatura forte sulla quale Livatino ha costruito l’edificio della giustizia, dei processi, della dedizione alla verità, della correttezza, del coraggio per non scendere a compromessi o per non accettare scorciatoie. Il grappolo fecondo della sua testimonianza era alimentato dalla linfa di grazia del suo rapporto forte con Dio, vissuto con semplice umiltà, fino alle estreme conseguenze. Questi presupposti mostrano che tra i due poli (giustizia e Dio) non solo non si può attivare un braccio di ferro ad excludendum ma, nell’interpretazione esistenziale di Livatino, bisogna leggerli insieme nella logica della causa-effetto: proprio perché si è posto sotto la tutela di Dio egli ha deciso di vivere la professione del magistrato e del giudice in modo impeccabile e coerente. La scelta di vita abbracciata sin dalla più tenera età è stata concepita come risposta a una vocazione, ad una chiamata a vivere nel mondo (e in quel mondo particolare e delicato che è l’amministrazione della giustizia) da credente a tutto tondo. Il Concilio Vaticano II (1962-1965), raccogliendo i molteplici inviti della Bibbia, aveva insistito molto sulla necessità che tutti i battezzati si impegnassero a condurre una vita santa poiché tale proposta – così come Gesù l’ha formulata nei Vangeli – non è appannaggio per pochi ma è alla portata di tutti. E non si tratta di fare cose straordinarie ma di vivere in modo evangelico ogni scelta, lasciandosi guidare dall’Amore che si fa dono e riempiendo di Verità ogni battito del cuore. Livatino, figlio di una chiesa post-conciliare, cresciuto in un contesto ecclesiale stimolante che tanto si era impegnato a promuovere questo concetto di santità laicale, ha creduto fino in fondo che la proposta del Vangelo è una proposta di bene, di bellezza e di pienezza e si è lasciato guidare passo passo da Dio. Nella scelta della giustizia ha intravisto la “sua” strada, quella alla quale il Signore lo chiamava concretamente, per rispondere alla vocazione di una vita santa. Intravista la strada e presa la decisione di percorrerla ha mostrato fedeltà e perseveranza. Per dirla con le parole di Gesù, una volta messo mano all’aratro non si è voltato indietro ma ha lavorato assiduamente affinchè nella pratica della giustizia fosse rintracciabile l’impronta di un Dio che continua ad amare infinitamente l’uomo e lo vuole libero dalla schiavitù del male, del peccato e di ogni forma di inganno.
“Martire della giustizia e indirettamente della fede”. Alla luce di questa breve riflessione, forse, risulta più chiara l’intuizione di San Giovanni Paolo II confermata dalla scelta di Papa Francesco. Chi ha deciso di togliere di mezzo Livatino pensava di causare un danno alla giustizia eliminandone un servitore fedele e generoso. La “stidda” agrigentina aveva architettato il tutto individuando in Livatino un bersaglio facile (perché senza scorta e abitudinario) e importante (per le indagini che stava conducendo). Lo ha fatto e pure barbaramente. Ma mentre sventrava quel corpo indifeso, come si fa con una conchiglia trovata per caso, è venuta fuori una perla, preziosa e purissima. Attraverso la morte è emersa tutta la portata della vita che Livatino aveva deciso di spendere per Dio. “Indirettamente”, così è la strada obbligata per la santità, perché i santi non si mettono in mostra ma, al contrario, vivono nascosti in Dio e in una condizione di normalità. Solo alla fine emerge la Forza che li ha spinti, l’Amore che li ha abitati, la Sapienza che li ha condotti fino alla misura più alta affinchè dalla loro morte sorgesse ancora la vita e la speranza.
In questo modo la scelta della chiesa di beatificare Livatino si pone come riconoscimento per quello che egli è stato e come modello per quello che ogni cristiano è chiamato ad essere, nella certezza che ponendosi sub tutela Dei si fa sempre centro e si vive ogni scelta in modo pieno, anche se il prezzo da pagare è alto e si chiama “martirio”.
Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Cenni introduttivi: il dettato normativo. 2. La giurisprudenza degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso sull’appellabilità delle ordinanze cautelari. 3. L’orientamento del Consiglio di Stato favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico. 4. I risvolti pratici della pandemia da Covid-19 sulla tutela cautelare nel processo amministrativo. 5. Esigenze contingenti e art. 84 d.l. n. 18/2020. 6. Emergenza sanitaria e recenti pronunce a favore dell’appellabilità del decreto monocratico. 7. Una visione diametralmente opposta: l’orientamento contrario all’appellabilità. 8. Brevi considerazioni conclusive.
1. Cenni introduttivi: il dettato normativo
La legge n. 205/2000, come noto, ha dettato molteplici innovazioni in materia di giustizia amministrativa, perlopiù con riferimento all’ambito della tutela cautelare, in relazione alla quale ha altresì introdotto la possibilità per il ricorrente di rivolgersi direttamente al presidente del tribunale al fine di ottenere una misura cautelare provvisoria in casi di “estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”[1].
Lo strumento in questione, da ritenersi eccezionale, è stato ritenuto impiegabile, con tutta evidenza, in relazione alle situazioni nella quali l’attesa della decisione della questione in sede di camera di consiglio avrebbe potuto vanificare la speranza di tutela del ricorrente.
La norma ha previsto che il presidente del tribunale provvedesse mediante decreto motivato, decisione a carattere monocratico, emanata in assenza di una discussione delle parti avanti al presidente, ossia “anche” in assenza di contraddittorio ed a validità temporale limitata, ovverosia efficace sino alla pronuncia dell’organo collegiale, chiamato a confermare od annullare il predetto provvedimento presidenziale[2].
Il collegio, in altri termini, è stato ritenuto sede naturale di qualsivoglia forma di opposizione[3].
Ebbene, l’introduzione del rimedio del decreto presidenziale cautelare ad opera della legge n. 205/2000 è stata sin da subito accompagnata dalla convinzione circa l’inammissibilità dell’appello avverso il provvedimento stesso, in ragione del carattere provvisorio del medesimo, in quanto tale destinato ad essere inglobato di seguito dalla decisione collegiale[4].
Il prevalente orientamento dottrinale in questo senso è stato altresì confermato dalle stesse successive specifiche previsioni legislative, tra le quali, a titolo esemplificativo, l’art. 245 del previgente codice dei contratti pubblici, d.lgs. 163/2006, che espressamente negava l’impugnabilità dei provvedimenti presidenziali cautelari ante causam[5].
Ad oggi, l’art. 56, comma 1 del codice del processo amministrativo dispone che “in caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, il ricorrente possa, mediante la domanda cautelare, ovvero con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del T.A.R. od anche della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie.
È il comma successivo che precisa poi a chiare lettere come il Presidente provveda con “decreto motivato non impugnabile”; tale decreto, ai sensi dell’art. 56, comma 4 c.p.a., in caso di accoglimento, vede perdurare la propria efficacia sino alla predetta camera di consiglio, nell’ambito della quale l’istanza cautelare formulata è trattata nelle forme ordinarie. Alla luce del medesimo comma, il decreto perde efficacia se il collegio non provvede sulla domanda cautelare nella menzionata camera di consiglio; inoltre, fintantoché efficace, il provvedimento cautelare è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte.
In prima battuta appare pertanto evidente, alla luce del dettato normativo vigente, il carattere precario oltre che provvisorio della tutela cautelare monocratica di cui trattasi, misura in quanto tale legata in senso strumentale alla tutela cautelare collegiale[6].
Trattando della misura cautelare in esame, peraltro, si riscontra un’analogia con le misure cautelari ante causam, di cui all’art. 61 c.p.a., proponibili in casi di “eccezionale gravità e urgenza” e del pari delineate sul piano normativo quali provvedimenti non impugnabili (cfr. art. 61, commi 4-5 c.p.a.).
Sempre sull’appellabilità delle misure cautelari si pronuncia poi il successivo art. 62 c.p.a. laddove, volendo attenersi strettamente al dettato normativo, si rende esplicito che l’appello al Consiglio di Stato è unicamente ammesso nei confronti delle ordinanze cautelari.
Lo stesso dettato legislativo di cui all’art. 56, comma 2 c.p.a. appare inoltre inequivocabile, posta la chiara affermazione circa l’impossibilità di impugnare il provvedimento cautelare motivato con cui si esprime il presidente; appellabilità peraltro esclusa anche, implicitamente, dal successivo art. 62, comma 1 c.p.a., laddove, trattando degli atti impugnabili innanzi al Consiglio di Stato mediante ricorso in appello, non si fa menzione dei decreti.
Ebbene, a fronte della chiara disciplina vigente, di cui alle suddette previsioni del Codice del processo amministrativo, occorre registrare come, da qualche a tempo a questa parte, alla luce di un aumento esponenziale delle pronunce sulla questione in corrispondenza dell’esplosione della pandemia da Covid-19 – come si dirà oltre – si è affermato un filone giurisprudenziale nel senso dell’ammissibilità dell’appello nei confronti del decreto cautelare (cfr., in particolare, il successivo § 6).
2. La giurisprudenza degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso sull’appellabilità delle ordinanze cautelari
L’orientamento predetto collocatosi in senso favorevole rispetto all’appellabilità dei decreti cautelari monocratici si ritiene tragga la propria origine dal risalente filone giurisprudenziale creatosi negli anni Settanta del secolo scorso, intervenuto a modificare la precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato e volto ad affermare l’ammissibilità dell’appello avverso le ordinanze dei T.A.R. sulla sospensione del provvedimento impugnato[7].
Tale aspetto, infatti, è divenuto negli anni oggetto di dibattito nell’ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato, perlopiù con l’entrata in vigore della legge n. 1034/1971, la quale nulla prevedeva a proposito del regime dei gravami ammissibili avverso le pronunce cautelari emanate con ordinanza; la questione è pertanto stata deferita all’Adunanza plenaria[8].
Nelle more della pubblicazione delle statuizioni della plenaria, tuttavia, interveniva la legge 3 gennaio 1978, n. 1, in tema di accelerazione delle procedure per l’esecuzione delle opere pubbliche, la quale all’art. 5, ultimo comma, pronunciandosi mediante un intervento episodico in tema di giustizia amministrativa, dichiarava espressamente inappellabili le ordinanze del giudice amministrativo di primo grado pronunciatesi sulla sospensiva[9].
L’Adunanza plenaria, dunque, si è pronunciata sulla questione prima dell’entrata in vigore di tale legge e la decisione pubblicata ha chiaramente affermato, in contrasto con la subentrata legge, l’ammissibilità dell’appello al Consiglio di Stato avverso l’ordinanza del T.A.R. che avesse disposto sulla sospensione del provvedimento impugnato[10].
Ebbene, nell’ambito di tale pronuncia dell’Adunanza plenaria si rivengono diverse argomentazioni allora impiegate al fine di sostenere l’ammissibilità dell’impugnazione delle ordinanze e, ad oggi, riprese al fine di sostenere l’appellabilità dei decreti cautelari[11].
Nella pronuncia del 1978, nel dettaglio, si rilevava come la situazione normativa, non sembrasse sufficiente ad escludere la proponibilità dell'appello contro le ordinanze in materia di sospensione, considerato che, tanto la legge n. 1034/1971 quanto il sistema della giustizia amministrativa in cui era inserita non stabilivano una tipologia degli atti processuali del giudice, dalla quale fosse possibile desumere la precisa individuazione dei mezzi giuridici per la rimozione e la sostituzione degli atti stessi; le stesse disposizioni normative, a giudizio della Adunanza plenaria, non sancivano neppure, in alcun modo, il principio della tassatività delle impugnazioni.
Ne conseguiva l’affermazione per cui il regime di impugnabilità degli atti giurisdizionale pareva dovesse essere ricavato non dal modello formale e, dunque, dalla natura dell’atto, bensì dal suo effettivo contenuto: si riteneva cioè che la questione dell'appellabilità delle ordinanze dei T.A.R. sulle domande di sospensione dipendesse in definitiva dalla sussistenza o meno in tali pronunce del contenuto di vera e propria decisione di una controversia cosi come riscontrato in una sentenza.
In altri termini, a giudizio del collegio, il provvedimento che in forma di ordinanza definiva una domanda di sospensione aveva, certamente, natura decisoria poiché risolveva, in contraddittorio tra le parti, una specifica controversia, ossia un conflitto di pretese, dettando il regolamento giuridico di esso e attribuendo ad uno dei soggetti in contesa un concreto vantaggio garantito dalla legge, cosicché l’idoneità di tale pronuncia a pregiudicare in un senso o nell'altro gli interessi fatti valere nel processo conservativo avrebbe impedito d'includere la pronuncia stessa nel novero dei provvedimenti sforniti di efficacia decisoria. In quanto tale la pronuncia, produttiva di fatto di effetti equiparabili agli effetti della sentenza, veniva ritenuta suscettibile d’appello, ai sensi dell’art. 28, comma 2 l. n. 1034/1971.
Tale conclusione, peraltro, si riteneva corrispondente ad una interpretazione logico-sistematica degli art. 125, 2° comma, 3, 1° comma, 100, 1° comma, e 103, 1° comma, Cost.[12]
La stessa Adunanza plenaria, di lì a poco, si è poi nuovamente pronunciata sull’aspetto in esame, confermando la tesi dell’applicabilità del doppio grado di giudizio “senza eccezioni” anche nell’ambito del processo cautelare[13].
Tale statuizione si ritenga discenda altresì dalle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale di poco antecedente, la quale si è pronunciata sulla illegittimità costituzionale dell’art. 5 l. n. 1/1978[14]. La previsione della legge summenzionata – che aveva dettato previsioni in senso contrario rispetto alla pronuncia poc’anzi presa in esame (Con. St., Ad. plen. n. 1/1978) – infatti, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 125, comma 2 Cost., nella parte in cui escludeva l'appellabilità al Consiglio di Stato delle ordinanze dei tribunali amministrativi regionali pronunciate sulla domanda di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo impugnato nei giudizi concernenti opere pubbliche e impianti industriali.
Nella pronuncia in questione, in particolare, il Giudice costituzionale ha esplicitato come il principio del doppio grado di giurisdizione, dunque, la possibilità di un riesame del provvedimento decisorio del giudice di primo grado da parte del Consiglio di Stato, trovasse applicazione anche nei riguardi del processo cautelare; non si è neppure ravvisata nell’ambito dell’art. 125 Cost. alcuna limitazione dalla quale potesse dedursi che esso si riferisse esclusivamente alle pronunce di merito.
Nella sentenza si poneva in luce, inoltre, come l'art. 28 1. n. 1034 del 1971, trattando dell'appello, menzionasse esplicitamente solo le sentenze dei T.A.R., tuttavia, da un lato esso si porrebbe in contrasto con la citata norma costituzionale ove fosse da interpretare restrittivamente e d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto tale disposizione come relativa a tutti i provvedimenti di carattere decisorio del giudice di primo grado, perciò anche all'ordinanza che pone termine al procedimento cautelare.
Appare evidente, pertanto, come le suddette pronunce abbiano assunto una rilevanza particolare in relazione all’evoluzione della tutela cautelare nel giudizio amministrativo, sancendone la rilevanza costituzionale e l’essenzialità ai fini della garanzia di una tutela adeguata degli interessi giuridicamente protetti, anche, ai fini della trattazione, in termini di doppio grado di giudizio[15].
3. L’orientamento del Consiglio di Stato favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico
Sulla scia delle pronunce che nei decenni precedenti hanno affermato l’ammissibilità dell’appello avverso le ordinanze cautelari, si è assistito, di seguito, alla formazione di un orientamento giurisprudenziale favorevole all’appellabilità dei decreti cautelari monocratici.
Peraltro, occorre registrare come le pronunce rientranti nell’ambito di tale filone giurisprudenziale non siano estremamente numerose, sebbene gli argomenti impiegati a sostegno siano stati diversi.
In quest’ottica può essere letto, in particolare, il decreto presidenziale n. 4628/2009 della sez. V del Consiglio di Stato di accoglimento dell’istanza di misure cautelari provvisorie e di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato in primo grado fino all’esito dell’esame collegiale dell’istanza cautelare[16].
Nell’ambito della suddetta pronuncia – emessa nella vigenza della legge n. 205/2000 – rammentato anzitutto come l’art. 3 della stessa legge non avesse formalmente previsto l’impugnazione in sede di appello avverso il decreto cautelare presidenziale di T.A.R. – nella fattispecie di diniego di misure cautelari provvisorie – si è esplicitato, in primo luogo, come l’inammissibilità dell’appello “si porrebbe in contrasto con i principi ispiratori dell’ordinamento che sono orientati a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, anche cautelare, delle posizioni soggettive fatte valere dagli interessati”.
In aggiunta, nel decreto in parola si è rilevata la presenza di motivi di estrema gravità ed urgenza, considerato che la camera di consiglio per l’esame collegiale dell’istanza cautelare risultava fissata in data successiva rispetto al periodo di efficacia del provvedimento impugnato in primo grado (nel caso di specie un decreto della Provincia autonoma di Bolzano concernente l’autorizzazione all’abbattimento delle marmotte ed avente una durata circoscritta nel tempo).
Ebbene, come acutamente osservato dalla dottrina a commento della pronuncia in esame, sebbene il rimedio del doppio grado di giudizio non fosse previsto sul piano normativo, tuttavia, non si può non registrare come il Consiglio di Stato sia frequentemente intervenuto in relazione al caso di specie ed altresì in precedenza, laddove necessario, pur in assenza di espresse disposizioni di legge[17].
Lo stesso strumento cautelare è stato plasmato dalla giurisprudenza amministrativa, in svariate occasioni, al di là del dato normativo, così come avvenuto in precedenza con l’affermazione dell’ammissibilità dell’appello avverso l’ordinanza cautelare di primo grado, alla luce del decisum di cui all’Adunanza plenaria n. 1/1978 menzionata, di seguito avallato dalla Corte costituzionale mediante la sentenza n. 8/1982 e, pur a fronte del dettato legislativo contrario di cui alla l. n. 1/1978.
L’apporto della giurisprudenza del Consiglio di Stato in questo senso può essere letto quale intervento di costruzione del provvedimento cautelare in risposta alle esigenze della società, al fine di fornire una risposta favorevole mediante un intervento urgente, nel quadro generale del ruolo attribuito alla tutela giurisdizionale[18].
Ed è secondo tale chiave di lettura che potrebbe essere interpretato, del pari, l’orientamento di talune sezioni del Consiglio di Stato, affermatosi negli ultimi mesi in corrispondenza della emergenza sanitaria, volto ad affermare l’ammissibilità dell’appello avverso il decreto cautelare monocratico, laddove sia configurabile una perdita definitiva ed irreversibile di un bene della vita corrispondente ad un diritto costituzionalmente tutelato del soggetto interessato.
Tale opzione interpretativa risulterebbe suffragata dall’argomentazione facente capo agli artt. 24 e 111 Cost. e, dunque, in senso generale, al principio costituzionale della tutela giurisdizionale.
In tal senso – stando alle pronunce in questione ed a quanto sostenuto dalla dottrina favorevole all’appellabilità delle decisioni cautelari di primo grado – sostanziandosi tale tutela in un diritto fondamentale dell’individuo, dovrebbe essere riconosciuta in maniera incondizionata, anche al di là del dato normativo testuale, sposando in taluni casi un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, oltre che delle previsioni ostative del legislatore, da ritenersi, in quanto tali, costituzionalmente illegittime.
Nell’ambito di tale cornice, di conseguenza, occorrerebbe impiegare qualsiasi rimedio astrattamente esperibile, anche nell’ambito cautelare, riconoscendo in sostanza l’atipicità della tutela cautelare nel processo civile, bensì anche in quello amministrativo[19].
Taluna dottrina si è pertanto pronunciata in senso favorevole rispetto all’appellabilità del provvedimento presidenziale, ritenendo corretta la stessa soluzione interpretativa adottata dal Consiglio di Stato nel decreto n. 4628/2009 ed evidenziando come non vi siano ragioni per escludere l’appello avverso il provvedimento in questione, così come riconosciuto in relazione alle ordinanze cautelari collegiali.
In dettaglio, nel caso dei decreti presidenziali potrebbe porsi unicamente un problema di ordine pratico legato all’esigenza di evitare una sovrapposizione tra provvedimento cautelare in appello e decisione collegiale in primo grado; tuttavia, i presupposti per la decisione in sede cautelare presidenziale sarebbero differenti da quelli ai fini della in sede cautelare collegiale, posto che il provvedimento presidenziale troverebbe la propria logica unicamente nella necessità di evitare danni irreparabili nelle more dell’esame della questione nella sede collegiale, con tutte le necessarie implicazioni in termini di rispetto del contraddittorio[20].
Altra pronuncia di rilievo sull’aspetto specifico in esame appare il decreto presidenziale della sezione III del Consiglio di Stato, 11 dicembre 2014, n. 5650, nell’ambito della quale si è esplicitato come, pur nel silenzio del Codice del processo amministrativo sullo specifico strumento impugnatorio, vada ad ogni modo considerato appellabile un decreto monocratico del T.A.R.
In dettaglio, il giudice avrebbe esplicitato in tale provvedimento, in ordine all’ammissibilità del dell’impugnabilità del decreto monocratico, come manchi di fatto una clausola preclusiva nei riguardi di tale gravame nel dettato dell’art. 56 c.p.a., con la conseguenza per cui quest’ultimo andrebbe interpretato “secondo ragionevolezza”, nel senso, cioè, che prevarrebbe la funzione cautelare anticipatoria laddove l’esigenza cautelare rappresentata sarebbe “per la natura degli interessi coinvolti o per la specificità della statuizione della P.A., di natura tale da dover esser protetta senza neppure attenderne la trattazione collegiale in camera di consiglio, anche in sede d’appello”[21].
Ancora, un’ulteriore argomentazione a sostegno dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico di primo grado è stata esposta nel recente decreto n. 5971/2018 reso dal Presidente della IV sezione del Consiglio di Stato, nell’ambito del quale, predicata l’appellabilità del decreto cautelare di primo grado, si è ritenuta la tutela monocratica del Consiglio di Stato quale unico strumento impiegabile al fine di garantire una effettiva tutela alla situazione di urgenza posta dal ricorrente[22].
In tale pronuncia, il Presidente, ha anzitutto richiamato i princìpi sulla indefettibilità della tutela cautelare nel corso di qualsiasi fase e grado del processo, rilevanti ai fini del processo amministrativo e ritenuti desumibili dall'art. 24 Cost., così come dagli art. 6 e 13 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo[23].
Inoltre, ha richiamato le pronunce già emesse sul punto, a conferma di tale interpretazione e così il menzionato decreto del Consiglio di Stato 11 dicembre 2014, n. 5650, oltre che le precisazioni e le statuizioni dell'Adunanza plenaria sull'ambito di applicazione dell'art. 125 Cost. rispetto alle fasi del giudizio cautelare nel processo amministrativo (cfr. Cons. St., Ad. plen., ord. n. 1 del 1978), definite nel provvedimento “ancora attuali”.
Di conseguenza, nel caso in questione, il giudice ha ritenuto ammissibile l’appellabilità del decreto monocratico del presidente del T.A.R. esclusivamente in presenza di eccezionali ragioni d’urgenza, tali da rendere irreversibile la situazione di fatto in conseguenza del tempo intercorrente tra la data di emanazione del decreto appellato e la data fissata per la camera di consiglio volta all’esame della domanda cautelare, ad opera del T.A.R. in sede collegiale; a tale statuizione si è aggiunta la precisazione per cui “il presidente della sezione del Consiglio di Stato, se ritiene di accogliere l'appello e di riformare il decreto impugnato, emette una misura che ha unicamente la finalità di evitare che una situazione di fatto diventi irreversibile e che comunque perde effetti quando il Tar esamina la domanda cautelare nell'ordinaria sede collegiale: il Tar, ove ritenga di non condividere il decreto reso in sede d'appello (pur se «confermato» dall'ordinanza del Consiglio di Stato in sede collegiale nella relativa peculiare fase incidentale), decide la domanda cautelare posta al suo esame, con la pienezza dei propri poteri”.
A giudizio del presidente, ad ogni modo, “il decreto cautelare monocratico del presidente della sezione del Consiglio di Stato va comunque sottoposto all'esame del collegio e, nel caso di accoglimento dell'appello rivolto contro il decreto del Tar, egli deve fissare senza indugio la camera di consiglio collegiale del Consiglio di Stato, affinché il collegio valuti (qualora il Tar non si sia già pronunciato in sede collegiale) se ribadire o meno le statuizioni del presidente, fermo restando in ogni caso il potere del Tar di decidere anche successivamente la fase cautelare, con le conseguenze sopra indicate”.
Tra le argomentazioni impiegate nell’ambito dell’orientamento in esame, certamente, rientra anche quella per cui l’appellabilità dovrebbe essere consentita laddove le censure proposte siano direttamente fondate sull’asserita violazione di principi di rango costituzionale[24].
Taluna dottrina, in commento a tale pronuncia, tuttavia, avrebbe rilevato come il profilo cruciale del decreto in questione non sia rappresentato dal “riconoscimento di un'ipotesi «eccezionale e limitata» rispetto a una regola generale di inammissibilità dell'appello”, ma “dalla affermazione di una eccezione, seppur circoscritta nella sua portata, in contrasto con il chiaro disposto della legge: la legge cioè detta una regola, quella della non impugnabilità del decreto cautelare, in termini generali e incondizionati, senza contemplare alcuna eccezione”[25].
4. I risvolti pratici della pandemia da Covid-19 sulla tutela cautelare nel processo amministrativo
Come accennato, con tutta evidenza, la tutela cautelare si pone quale strumento processuale di fondamentale importanza nell’ambito di contesti ed eventi emergenziali, caratterizzati da un’urgenza sul piano decisorio, poichè in grado di approntare una tutela rapida ed effettiva, ad ogni modo in senso strumentale e servente rispetto alla fase di analisi del merito della controversia[26].
L’emergenza pandemica, che ancora ci vede coinvolti, pare l’esempio lampante di quanto poc’anzi esposto ritenuto che, al fine di fronteggiare ed arginare la situazione di enorme difficoltà, le autorità nazionali sono state chiamate ad assumere provvedimenti a tutela dell’interesse pubblico e della salute dei cittadini, sovente fortemente limitativi dei diritti e delle libertà dei singoli[27].
In tale contesto, l’utilizzo in sequenza di provvedimenti ed atti peculiari, nell’ambito del sistema delle fonti di regolazione dell’emergenza, quali d.p.c.m. a livello statale ed ordinanze regionali, ha messo a dura prova la stessa effettività della tutela giurisdizionale valorizzando, tuttavia, la fase cautelare del processo[28].
Gli stessi decreti legge emanati con frequenza nei primi mesi del 2020, oltre che i numerosi e successivi d.p.c.m. adottati a livello centrale, hanno consegnato ai presidenti di regione ed agli amministratori locali una possibilità di azione ulteriore: ecco che, in svariati casi – come si avrà modo di esplicitare – avverso le predette misure regionali e locali è stata pertanto invocata la tutela cautelare del giudice amministrativo, chiamato a pronunciarsi circa la sospensione dell’atto in questione[29].
È innegabile, dunque, che nella gestione dell’emergenza sanitaria generatasi a partire dai primi mesi del 2020, con l’esplosione della pandemia da Covid-19, la tutela cautelare nell’ambito del procedimento amministrativo abbia assunto un ruolo centrale e sostanzialmente irrinunciabile[30].
In questo senso, in primo luogo – come si dirà a breve – lo stesso legislatore ha ritenuto di approntare una specifica disciplina volta a regolare la situazione emergenziale, dettando precise norme sulle istanze cautelari, con efficacia limitata al periodo 8 marzo-15 aprile 2020.
Come si è accennato, inoltre, a fronte della predicata centralità dello strumento della tutelare cautelare, in senso generale, ma perlopiù con specifico riferimento alla tutelare cautelare monocratica di primo grado, nel contesto globale di emergenza, si è assistito altresì all’emersione di una corrente giurisprudenziale nell’ambito del Consiglio di Stato, mostratasi favorevole rispetto alla questione dell’appellabilità del decreto cautelare in parola.
5. Esigenze contingenti e art. 84 d.l. n. 18/2020
Nel periodo di maggiore emergenza sul piano sanitario, in conseguenza della pandemia da Covid-19, il legislatore, mediante l'art. 84, 1° comma, d.l. 17 marzo 2020 n. 18, convertito, con modificazioni, nella l. 24 aprile 2020 n. 27, ha dettato una disciplina ad hoc rispetto al processo amministrativo disponendo che nel periodo compreso fra l'8 marzo e il 15 aprile 2020 sulle istanze cautelari provvedesse il presidente, con decreto, ai sensi dell'art. 56 c.p.a., in attesa della trattazione collegiale da tenersi dopo il 15 aprile 2020[31].
Nel dettaglio, il suddetto art. 84 d.l. 18/2020 – il quale ha abrogato l’art. 3 del d.l. 11/2020 – ha introdotto misure innovative a proposito del processo amministrativo, applicabili al limitato periodo temporale rammentato[32].
Per quel che rileva nella presente sede, in particolare, la norma ha disposto la sostanziale tramutazione della domanda cautelare collegiale in domanda al presidente, con conseguente applicazione del rito previsto dall’art. 56, comma 1 c.p.a., ovvero in presenza dei seguenti presupposti: presentazione della istanza di fissazione d’udienza; sussistenza della competenza del T.A.R. adito; applicazione della disciplina delle notificazioni ex art. 56, comma 2 c.p.a. e fissazione della camera di consiglio collegiale. La disciplina ha altresì previsto la possibile previa audizione delle parti senza formalità, in forma orale da remoto, ovvero per iscritto, oltre che la possibile subordinazione a cauzione[33].
Ebbene, ai fini della presente trattazione, occorre registrare come, pur a fronte della peculiare disciplina introdotta, neppure in tale occasione speciale e legata ad esigenze contingenti di tutela, sia stata prevista espressamente sul piano normativo l'impugnabilità del decreto cautelare presidenziale, restando invece espressamente confermata la revocabilità o modificabilità del medesimo su istanza di parte, alla luce della espressa statuizione «fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto art. 56, 4° comma».
Quantomeno a testimonianza della volontà del legislatore sul punto, pertanto, si ritiene degna di menzione la circostanza per cui la previsione circa l’appellabilità dei decreti monocratici di cui trattasi ex art. 84, dapprima inserita nello schema di decreto, è stata di seguito espunta dalla versione definitiva del medesimo provvedimento legislativo e non è stata prevista in sede di conversione del decreto legge[34].
A conferma di tale aspetto si porrebbe altresì una pronuncia del giudice amministrativo di appello, emessa nel periodo di vigenza della suddetta norma speciale, nell’ambito della quale si è confermata l’inammissibilità dell’impugnazione del decreto presidenziale, posto che pur in presenza di un’emergenza sanitaria, in assenza di espresse previsioni derogatorie, non si è ritenuto possibile disattendere il dato normativo in materia processuale[35].
In altri termini nel decreto in questione si è posto in luce come, a seguito dell’introduzione della normativa “speciale”, il processo amministrativo in sede cautelare continui a pendere in primo grado, con la conseguenza per cui – al fine di evitare una sovrapposizione di giudizi – sia il giudice di primo quello ad ogni modo chiamato a confermare, revocare o modificare il decreto presidenziale.
In relazione al decreto monocratico “speciale” in oggetto si è osservato che “proprio per l’eccezionalità della tutela cautelare derogatoria speciale e per la sua finalità specifica (di essere cioè una misura diretta a garantire il funzionamento della giustizia amministrativa cautelare nella situazione di emergenza sanitaria) l’apprezzamento da parte del giudice monocratico dei presupposti legittimanti e la relativa motivazione sugli stessi deve essere tale che gli effetti del decreto monocratico non siano assolutamente “irreversibili” tali da compromettere o pregiudicare cioè l’esercizio del potere cautelare da parte del collegio nell’udienza camerale appositamente indicata per la trattazione”[36].
6. Emergenza sanitaria e recenti pronunce a favore dell’appellabilità del decreto monocratico
Come esposto (cfr., in particolare, il § 3), nella giurisprudenza amministrativa si è progressivamente fatto strada un orientamento che, sulla base delle indicate argomentazioni facenti capo perlopiù a principi di rango costituzionale ed alla necessità di garantire l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo anche in relazione alla fase cautelare, ha ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto cautelare monocratico.
Ebbene, recentemente il Supremo consesso della giurisdizione amministrativa ha avuto modo di esprimersi in numerose occasioni in merito alla questione dell’appellabilità del decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a.
A partire dal 2020, in particolare, e nel corso della perdurante emergenza sanitaria diffusasi a livello globale, come accennato, stante la rilevanza che ha assunto la fase cautelare nell’ambito del processo amministrativo, si è fatto strada in seno alla giurisprudenza amministrativa un orientamento, perlopiù in capo alla sezione III del Consiglio di Stato, nel senso dell’ammissibilità di tale gravame.
In altri termini, i precedenti pronunciamenti del giudice amministrativo nel senso dell’ammissibilità dell’impugnazione del decreto presidenziale cautelare (in particolare Cons. St., sez. III, decr. n. 5650/2014 e sez. IV n. 5971/2018) sono stati riconsiderati e ripresi nel periodo emergenziale laddove in misura crescente si è avvertita l’esigenza di assicurare l’effettività della tutela giurisprudenziale a fronte della possibile compromissione in via irreversibile, nei tempi tecnici del procedimento cautelare previsti sul piano normativo, del bene della vita avente una rilevanza costituzionale[37].
In particolare, già nel marzo dello scorso anno, all’esordio dell’emergenza epidemiologica, il presidente della sezione III del Consiglio di Stato si è pronunciato con decreto sul tema rilevando in ordine all’ammissibilità dell’appello come il medesimo giudice avesse in precedenza ritenuto l’ammissibilità del gravame in questione “nei soli, limitatissimi, casi in cui l’effetto del decreto presidenziale del T.A.R. produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita, e che tale “bene della vita” corrisponda ad un diritto costituzionalmente tutelato dell’interessato”[38].
In buona sostanza, pertanto, in tale pronuncia il Presidente si è espresso favorevolmente rispetto all’ammissibilità dell’appello, rifacendosi in larga misura alla rilevanza costituzionale del diritto invocato dal ricorrente nel caso di specie e mostrando di avallare l’orientamento che ha attribuito priorità ai principi, perlopiù costituzionali, nell’erogazione della tutela, anche laddove ciò si esaurisca in una mancata adesione al dettato normativo processuale in senso letterale.
In altra occasione, sempre il presidente della sezione terza del Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile l’appello unicamente poiché, nel caso di specie, è stato escluso “ogni pericolo di perdita definitiva di un bene della vita direttamente tutelato dalla Costituzione”, discutendosi nella fattispecie di un temporaneo pregiudizio economico a fronte di una ordinanza comunale. Nella medesima pronuncia, tuttavia, si è fatto riferimento ai quei “casi eccezionali in cui, con interpretazione costituzionalmente orientata praeter legem, il Consiglio di Stato ha ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto cautelare del Presidente di T.A.R.” ritenendo dunque di convalidare tale ipotesi interpretativa richiamata[39].
Di seguito e più recentemente, sempre la stessa sezione terza del Consiglio di Stato si è pronunciata nel senso della ammissibilità dell’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal presidente del T.A.R. nei soli casi, ritenuti eccezionali, di provvedimento avente veste esclusivamente formale di decreto e, di contro, contenuto di fatto decisorio.
Tale decreto, nel dettaglio, viene anche denominato dal medesimo giudice quale “decreto meramente apparente” ed identificato in una decisione monocratica resa in primo grado di giudizio, non avente carattere interinale e provvisorio, bensì essenzialmente volto a definire – ovvero, quantomeno, avente caratteristiche tali per cui si pone sostanzialmente quale provvedimento che rischia di definire – in via irreversibile la materia del contendere[40].
In altra pronuncia di poco antecedente si è del pari operato un riferimento ai c.d. “decreti meramente apparenti”, evidenziando come solo in tali casi si ritiene debba intervenire il giudice di appello, al precipuo fine di “restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado”[41].
In tempi ancor più recenti, negli ultimi mesi, si di fatto è assistito alla proliferazione di pronunce – essenzialmente una serie di decisioni fotocopia – rese dalla terza sezione del giudice amministrativo d’appello, a fronte dell’impugnazione dei decreti cautelari monocratici emessi da diversi tribunali amministrativi regionali chiamati a pronunciarsi a proposito delle misure urgenti adottate perlopiù dai diversi presidenti di regione, al fine della prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19[42].
In taluni provvedimenti, in particolare, i giudici hanno indirettamente chiarito la ratio dell’appello avverso il decreto cautelare monocratico, precisando come in taluni casi concreti non sia ipotizzabile una sospensione di un qualsivoglia diritto costituzionalmente tutelato sino alla decisione cautelare nell’ambito della camera di consiglio innanzi al T.A.R[43].
Lo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana si è recentemente espresso mediante una pronuncia che si colloca nel solco delle suddette statuizioni sull’argomento, rese dalla sezione terza del Consiglio di Stato[44].
Nel dettaglio, nella summenzionata pronunciata si è rilevato, in primo luogo, come l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal presidente del T.A.R. debba ritenersi di norma inammissibile, per ragioni testuali, oltre che per ragioni sistematiche, posto che l’appello di cui trattasi non risulta né previsto e neppure configurabile, in via distinta ed autonoma ai sensi dell’art. 56 c.p.a. ed, inoltre, gli artt. 62 e 100 c.p.a. si pongano quali previsioni normative che consentono l’appello unicamente in relazione a sentenze ed ordinanze, dunque, non anche ai provvedimenti in forma di decreto.
Ne conseguirebbe, secondo quanto statuito dal Giudice in questione, che la revisione o riforma del decreto andrebbe trattata in termini generali nel medesimo grado della misura stessa, con lo stesso mezzo, ovvero in occasione della conseguente camera di consiglio, la cui ordinanza cautelare – come noto – può dare luogo ad appello cautelare, stando al dettato di cui all’art. 62 c.p.a.
Menzionando tale regola generale, tuttavia, anche nell’ambito della statuizione in esame si opera un espresso riferimento ai casi eccezionali in cui il provvedimento in forma di decreto cautelare monocratico abbia un contenuto sostanzialmente decisorio, non presentando cioè un carattere provvisorio e interinale, ma collocandosi quale provvedimento che rischia di definire in via irreversibile la materia del contendere: così nel caso di decreto cui non segua una camera di consiglio, ovvero laddove la fissazione di quest’ultima avvenga con una tempistica talmente irragionevole da privare di qualsivoglia utilità la successiva pronuncia collegiale con incidenza sul merito del giudizio, determinando un pregiudizio irreversibile (residuando al limite esclusivamente questioni risarcitorie).
In altri termini, tale predicata definizione irreversibile della controversia mediante decreto monocratico si ritiene debba determinare un danno irreparabile in relazione a diritti fondamentali della persona umana, non derivante ex se dal solo dato per cui il provvedimento impugnato esplica i suoi effetti prima della camera di consiglio collegiale in primo grado e determinante l’impossibilità di disporre una tutela in forma specifica, con sostanziale rimozione del provvedimento contestato, in sede collegiale.
Ecco che, stando a quanto sostenuto nell’ambito di tale ennesima recente pronuncia sul punto, solo in tale ultimo caso, in presenza degli eccezionali presupposti declinati, sarebbe consentita l’appellabilità del decreto monocratico[45].
Peraltro, il suesposto filone giurisprudenziale – collocabile nei primi mesi del 2021 – si è verosimilmente originato in conseguenza della pandemia in atto, oltre che delle rilevanti e palesi conseguenze della medesima, a livello globale, sul piano economico e sociale. Si pensi in questo senso, quantomeno sul piano nazionale, alle problematiche occorse in termini di chiusure degli istituti scolastici di ogni ordine e grado con conseguente attivazione di sistemi di didattica a distanza, ovvero in termini di sospensione di attività e introduzione di stringenti limiti alla circolazione delle persone; provvedimenti questi ultimi che hanno inevitabilmente condotto alla impugnazione in sede giurisdizionale avanti al Giudice amministrativo di provvedimenti adottati dalle autorità a livello locale, regionale, ovvero statale ed alla richiesta di disporre misure urgenti, con ampio ricorso allo strumento della tutela cautelare, anche monocratica[46].
7. Una visione diametralmente opposta: l’orientamento contrario all’appellabilità
Del resto, a fronte della tesi suesposta, anche nell’ambito della giurisprudenza più recente espressasi sul punto, si sono registrate pronunce del giudice amministrativo di segno opposto, le quali hanno ritenuto di attenersi alle previsioni legislative vigenti[47].
Nell’ambito di tale orientamento si inseriscono le pronunce del giudice amministrativo che hanno inteso il decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a. quale eccezionale misura cautelare monocratica presidenziale “che deroga – per la dominanza della somma urgenza – ai principi generali di collegialità e di contraddittorio” ed in quanto tale avente una “funzione strettamente interinale ed impiegabile «prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio»”, cosicchè il relativo «decreto» sarebbe “per legge «efficace sino a detta camera di consiglio», che costituisce la giusta sede per l’esame della domanda cautelare”[48].
Rispetto a tale misura cautelare monocratica presidenziale “la legge non prevede, né per il sistema processuale appare configurabile, la via di un distinto e autonomo appello, sicché ogni questione di revisione al riguardo va trattata nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione delle conseguente collegiale camera di consiglio (la cui «ordinanza cautelare» potrà semmai, a letterale tenore dell’art. 62, formare oggetto di appello cautelare)”[49].
Più recentemente, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, a fronte dell’appello proposto avverso decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell'art. 56 c.p.a., in base all'asserito inequivoco tenore letterale dell'art. 56, 2° comma, c.p.a., si è espresso, mediante inusuale pronunciamento, nel senso del non luogo a provvedere sull'istanza[50].
Secondo quanto statuito, in particolare, non vi sarebbe luogo a provvedere sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti, “perché non vi è luogo a incardinare una fase o grado di giudizio, esulando dalle competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge, sia nel senso che non è possibile provvedere sul merito della richiesta, sia nel senso che non è possibile rimettere l'affare all'esame del collegio”[51].
In senso conforme si è espresso sempre il C.g.a. mediante il decreto 22 maggio 2020, n. 455 (richiamando il condiviso orientamento di cui a Cons. Stato, sez. V, dec. n. 3015/2017 richiamato in precedenza) evidenziando come per la misura cautelare monocratica presidenziale ex art. 56 c.p.a. la legge non preveda e neppure risulti configurabile per il sistema processuale “la via di un distinto e autonomo appello, sicché ogni questione di revisione al riguardo va trattata nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione delle conseguente collegiale camera di consiglio (la cui «ordinanza cautelare» potrà semmai, a letterale tenore dell’art. 62, formare oggetto di appello cautelare)”. Tale sistema, come evidenziato, non risulterebbe nemmeno in contrasto con il principio costituzionale della pienezza ed effettività della tutela ex art. 24, Cost., ciò soprattutto in ragione della prevista revocabilità e modificabilità del decreto cautelare di cui trattasi (ai sensi dell’art. 56, comma 5 c.p.a.)[52].
Attenta dottrina pronunciatasi a proposito delle pronunce del Consiglio di Stato che hanno ritenuto ammissibile l’appello del decreto presidenziale (tra le altre, in particolare Consiglio di Stato, sezione IV, decreto n. 5971/2018,) haposto in evidenza come l’art. 56, comma 4 del Codice del processo amministrativo preveda che i decreti presidenziali siano «sempre» revocabili o modificabili su istanza di parte, con l’espressione «sempre» che non farebbe riferimento alla possibilità di proposizione in qualsiasi momento, sino alla pronuncia cautelare del collegio, ma alla facoltà di essere richiesta per qualsiasi motivo, anche al verificarsi delle situazioni sopravvenute richiamate di cui all’art. 58 cod. proc. amm.[53].
A conferma dell’inappellabilità del decreto cautelare del presidente del T.A.R. si porrebbe l’ulteriore argomentazione per cui tale dovrebbe essere considerata una regola generale che emerge dall’impianto del Codice del processo amministrativo, laddove anche un recente intervento di riforma del medesimo Codice ai sensi dell’art. 1 d.l. n. 115 del 5 ottobre 2018 (di seguito non convertito in legge e dunque privato di efficacia ex tunc) ha previsto la diretta appellabilità del decreto presidenziale monocratico, prima della trattazione collegiale, anche se reso ante causam e finché perduri la sua efficacia; ciò, tuttavia, nelle sole ipotesi di «accoglimento» della misura cautelare e «nei soli casi in cui l'esecuzione del decreto sia idonea a produrre pregiudizi gravissimi ovvero danni irreversibili prima della trattazione collegiale della domanda cautelare». Tale norma evidentemente eccezionale, in altri termini, avrebbe confermato la regola generale della inappellabilità dei decreti presidenziali cautelari.
Da ultimo, circa le ragioni di effettività e pienezza della tutela, richiamate nelle pronunce a sostegno dell’appellabilità dei provvedimenti cautelari in questione, si è sostenuto che la stessa Corte costituzionale, chiamata in passato pronunciarsi sull'assetto della tutela cautelare nel processo amministrativo, prima ancora dell’introduzione della tutela ante causam, aveva posto in evidenza la necessità di riferirsi alle scelte del legislatore, escludendo la configurazione di una violazione di principi costituzionali[54].
Sempre rispetto al profilo della presunta violazione di principi di rango costituzionale, si è rilevato come “il valore costituzionale degli interessi in gioco nella vertenza non attribuisce al giudice la capacità di disporre in contrasto con la legge processuale”[55].
In altri termini, la rilevanza di principi costituzionali rileverebbe in termini di valutazione del periculum in mora, dunque ai fini della pronuncia cautelare, ma non consentirebbe al giudice di individuare una disciplina in contrasto con il dettato legislativo; quest’ultimo, in quanto sempre soggetto alla legge, potrebbe al limite sottoporre alla Corte costituzionale questione di legittimità, laddove non ritenesse condivisibile quanto disposto dalla legge. Ciò, a maggior ragione, alla luce del disposto di cui all’art. 111, 1° comma Cost. e nella vigenza di una precisa riserva di legge in materia processuale nel nostro ordinamento avente valore per tutte le parti del processo.
8. Considerazioni conclusive
In conclusione, si deve constatare che, pur a fronte della inequivocabilità del dettato normativo, quello dell’appellabilità del decreto monocratico cautelare è un problema aperto in seno alla giurisprudenza amministrativa.
Le divergenze interpretative derivano con tutta evidenza dalla lettura data ai principi costituzionali ed eurounitari concernenti il diritto di difesa, l’effettiva della tutela ed il doppio grado di giudizio[56], (artt. 24, 113 e 125 Cost. e 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), con riferimento alla possibilità del giudice amministrativo di ricercare la sentenza “giusta” nel caso concreto anche a prescindere dalla disciplina processuale esistente[57].
In termini generali, non può essere certamente negata la necessità di assicurare il principio di effettività della tutela, utilizzando tutti gli strumenti individuabili nell’ambito dell’ordinamento interno e ciò, a maggior ragione in presenza di un’esigenza di una tutela pronta ed effettiva, così come si è ravvisato in particolare nel corso dell’emergenza sanitaria e della possibile compromissione in senso irreversibile del bene della vita preteso[58].
Imprescindibile, del pari, il dettato dell’art. 113 Cost. ove si trova precisato a chiare lettere come la tutela giurisdizionale non possa essere esclusa o limitata a particolari mezzi d’impugnazione o per determinate categorie di atti.
In tale quadro, certamente, si collocano pertanto le pronunce del giudice amministrativo mostratesi favorevoli rispetto all’ammissibilità dell’appello avverso il decreto cautelare monocratico, rimedio ritenuto ad ogni modo esperibile, nei provvedimenti in questione, laddove sia configurabile una perdita definitiva ed irreversibile di un bene della vita corrispondente ad un diritto costituzionalmente tutelato del soggetto interessato.
Anche nell’attuale momento storico, non si può tuttavia ignorare il fatto che il dato normativo vigente, in ragione della chiara previsione di cui all’art. 56, comma 2 c.p.a, in realtà non consente una tale interpretazione, neppure in un’ottica logico-sistematica, ovvero adottando un approccio ermeneutico costituzionalmente orientato.
Pur comprendendo le ragioni alla base del suddetto orientamento, sviluppatosi soprattutto per la necessità di commisurare l’intervento del giudice amministrativo alle peculiari esigenze di tutela dettate dall’emergenza sanitaria, rimane il fatto che la previsione puntuale ed inequivoca circa la non impugnabilità del decreto cautelare presidenziale rende la suddetta interpretazione non praeter, ma contra legem[59].
Ciò rende il discorso attuale diverso da quello che si è posto in passato in relazione alla possibilità di proporre appello avverso le ordinanze cautelari, in quanto all’epoca non c’era nell’ordinamento una precisa norma di legge che ne negasse esplicitamente la impugnabilità.
Sarebbe ovviamente risolutivo ed auspicabile un intervento del legislatore sul punto[60] che, a fronte di una inevitabile compressione del contraddittorio[61], desse comunque una univoca regola processuale o che in merito, a fronte dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali occasionati dalla esigenza di fornire adeguata risposta all’emergenza sanitaria, intervenisse quantomeno una pronuncia dell’Adunanza plenaria.
[1] La novella legislativa del 2000, in questo senso, ha ripreso le statuizioni di cui al parere del Consiglio di Stato, Adunanza generale, 8 febbraio 1990, n. 16.
[2] A proposito dello strumento in questione si v. P. Divizia, Considerazioni sulla tutela ante causam nel processo amministrativo, in Foro amm. TAR, 10, 2002, 3435 ss. L’A. ha delineato il decreto monocratico presidenziale quale provvedimento giudiziale “anomalo e di non chiara compatibilità costituzionale, atteso che in relazione ad esso il legislatore non ha previsto alcuna forma di controllo, reclamo o impugnazione”.
[3] Tra i primi commenti a proposito della legge n. 205/2000, con specifico riferimento alla tutela cautelare, si v. C.E. Gallo, Presidente e Collegio nella tutela cautelare: novità e prospettive nella disciplina della legge n. 205 del 2000, in www.giustizia-amministrativa.it., 2001.
[4] In dottrina si v., tra gli altri, A. Travi, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A Romano, Padova, 2001; U. Di Benedetto, Il provvedimento cautelare: forme ed effetti, in www.diritto2000.it; C. Mignone, Diritto amministrativo, II, a cura di AA. VV., Bologna, 2001, 2006 ss.; P. Divizia, Considerazioni sulla tutela ante causam nel processo amministrativo, cit.; F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2005, 1079.
Cfr., in tal senso, altresì Cons. St., sez. IV, 7 novembre 2000, n. 5602, inedita.
In termini generali sul provvedimento cautelare in esame cfr. G. Guidarelli, I provvedimenti cautelari monocratici nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 727 ss. e T. Nicolazzi, I provvedimenti presidenziali d’urgenza nel processo amministrativo, in Foro amm., 6, 2001, 1817 ss.
[5] V. sul punto Cons. St., parere 6 febbraio 2006, n. 355, in Foro amm. – Cds, 2006, 637, oltre che, in dottrina, M.A. Sandulli, Diritto europeo e processo amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, I, 37 e R. Garofoli, La tutela cautelare ante causam, in Trattato sui contratti pubblicidiretto da M. A. Sandulli-R. De Nictolis-R. Garofoli, vol. VI Il contenzioso, Milano, 2008, 4057.
[6] In proposito si v. V. Fanti, L’appellabilità del decreto monocratico nel processo amministrativo, in www.giustamm.it, 2, 2021.
[7] In questo senso, v. specialmente, Cons. st., sez. IV, 22 aprile 1977, n. 29, in Foro it, 1977, III, 233, con nota di F. Satta.
[8] V., tra le altre, Cons. St. sez. VI, 11 luglio 1977, n. 34, in Foro it., 1977, III, 545 e Cons. St., sez. IV, 14 giugno 1077, n. 41, inedita.
[9] Tale legge è entrata in vigore esattamente cinque giorni prima della lettura del dispositivo di cui alla pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 20 gennaio 1978, n.1.
[10] Cons. St., Ad plen., 20 gennaio 1978, n. 1, in Foro it., 1978, III, 1, con nota di F. Satta, e commentata anche da M. A. Sandulli, in Giur. it., 1978, III, 1, 145; Gasparini Casari, in Cons. Stato, 1978, I, 689; B. Moretti, in Foro amm., 1978, I, 19.
[11] Sulla questione si v. E. Follieri, Il giudizio cautelare amministrativo. Codice delle fonti giurisprudenziali, Rimini, 1992.
[12] Così Cons. St., Ad plen., 20 gennaio 1978, n. 1, cit.
[13] Cfr. Cons. St., Ad. plen., 8 ottobre 1982, n. 17, in Foro it., 1982, 106, II, 41.
[14] Corte cost., 1° febbraio 1982, n. 8, in Foro it., 1982, 105, I, 329.
[15] Si v. sul punto F. Satta, Giustizia cautelare, in Enc. dir., agg., I, 1997, I, Milano, 595 ss. Di recente, sul tema, v., inoltre, A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in www.federalismi.it, 2020.
[16] Cons. St., sez. V, dec., 18 settembre 2009, n. 4628, in Foro amm – Cds, 2009, 2614, con nota di C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale.
[17] Cfr. C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, nota a Cons. St., sez. V, dec., 18 settembre 2009, n. 4628, in Foro amm – Cds, 2009, 2615 ss.
[18] Cfr. C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, cit., 2616.
[19] Nell’ambito della disciplina sulle impugnazioni di cui al codice di procedura civile, peraltro, si rinviene la possibilità di esperire appello avverso l’ordinanza monocratica cautelare, seppure in forma di reclamo proposto ad un giudice diverso.
[20] C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, cit., 2619. L’A., nell’ambito del commento in questione richiama altresì, a sostegno della tesi dell’appellabilità, il caso precedentemente affrontato dal giudice amministrativo dell’appellabilità delle ordinanze collegiali chiamate a decidere sul ricorso in materia di accesso proposto in corso di causa, del pari risolto con l’affermazione della possibile appellabilità ammessa laddove la ragione della pronuncia fosse la sussistenza o meno dei presupposti dell’accesso agli atti amministrativi.
[21] Così Cons. St., sez. III, 11 dicembre 2014, n. 5650, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Cons. St., sez. IV, dec., 7 dicembre 2018, n. 5971, in Foro it., 2019, III, 117.
Nel caso di specie la questione riguardava l’ammissibilità del ricorso in appello avverso decreto cautelare del Presidente del T.A.R. Emilia Romagna di rigetto della domanda di sospensione del provvedimento di mancata ammissione alle prove scritte per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense in assenza della documentazione indispensabile da allegare alla domanda e alla luce della fissazione della camera di consiglio in data successiva rispetto a quella stabilita per lo svolgimento delle prove scritte.
Nello stesso senso si è pronunciato in precedenza sempre il Consiglio di Stato, nell’ambito dell’analizzato decreto della sez. III, 11 dicembre 2014, n. 5650.
[23] Nella pronuncia in esame, sul punto, si richiamano peraltro i precedenti decreti del Consiglio di Stato, sez. VI, 1° settembre 2017, n. 3538 e n. 3539; 30 agosto 2017, n. 3418 e n. 3419; 25 agosto 2017, n. 3408.
[24] Così, in particolare, Cons. St., sez. III, 26 novembre 2020, n. 6795, in www.giustizia-amministrativa.it.
[25] Così A. Travi, Considerazioni minime sull'appello contro i decreti cautelari dei tribunali amministrativi regionali, nota a Cons. St., sez. III, 26 novembre 2020, n. 6795, in Foro it., 2021, III, 7.
[26] La letteratura sul ruolo della tutela cautelare in senso generale è, come noto, sterminata. Ad ogni modo, tra gli altri contributi si v. P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936; E. Follieri, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981; A. Romano, Tutela cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, in Foro it., 1987, III, 2491; A. Travi, La tutela cautelare nei confronti dei dinieghi di provvedimenti e delle omissioni della P.A., in Dir. proc. amm., 1990, 329 ss.; M. Andreis, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996; R. Garofoli – M. Protto, Tutela cautelare, monitoria e sommaria nel nuovo processo amministrativo, Milano, 2002; S. Raimondi, Profili processuali ed effetti sostanziali della tutela cautelare tra giudizio di merito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007. 609 ss.; M.A. Sandulli, La tutelare cautelare nel processo amministrativo, in www.federalismi.it, 2009; R. Cavallo Perin, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2010, 4, 1165.; A. Police, La tutela cautelare di primo grado, in il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Padova, 2017; M. Lipari, La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi: il 'rito appalti' e le esigenze imperative di interesse generale, in www.federalismi.it, 2017; Id., "Fase 2". I giudizi camerali nel processo amministrativo, oltre la legislazione dell'emergenza: Riti speciali, "camere di consiglio" atipiche e funzione "preparatoria" della decisione di merito. Relazione al Convegno "Dal processo al procedimento: ruolo e prospettive della tutela cautelare e del rito camerale nel rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione", Venezia, 2 dicembre 2019, in www.federalismi.it, 2020.
[27] Sul tema si v. in senso generale: R. Cavallo Perin, Il diritto amministrativo dell'emergenza per fattori esterni all'amministrazione pubblica, in Dir. amm., 2005, 4, 777-841; M. Chiti, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006; A. Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzia, Bologna, 2008; L. Giani-M. D’Orsogna-A. Police, Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018.
[28] Cfr. sul punto R. Dagostino, Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica), in questa rivista, 2020. L’A. evidenzia in particolare come la risposta del giudice interrogato in sede cautelare al fine di garantire una tutela giurisdizionale, sospesa tra effettività della tutela e rispetto della legalità, rischi in taluni casi di concretizzarsi in “manifestazioni estremistiche, non giustificabili, quali sono quelle del creazionismo giudiziario o, all’opposto, un eccessivo e ingiustificato self-restraint dell’organo giudicante”.
[29] Sull’argomento si v. M. Midiri, Emergenza, diritti fondamentali, bisogno di tutela: le decisioni cautelari del giudice amministrativo, in www.dirittifondamentali.it, 2020, 2, 61-71.
[30] Si v. sul tema il Webinar di Modanella, Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, sul tema “L’emergenza Covid-19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro”, 30 giugno-1° luglio 2020, pubblicati in questa rivista il 6 luglio 2020.
[31] L’art. 84, comma 1 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, ha testualmente disposto la decisione dei procedimenti cautelari promossi o pendenti tra l’8 marzo e il 15 aprile 2020 con decreto monocratico del presidente o di un magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo. Con le precisazioni per cui “il decreto è tuttavia emanato nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo, salvo che ricorra il caso di cui all’articolo 56, comma 1, primo periodo, dello stesso codice. I decreti monocratici che, per effetto del presente comma, non sono stati trattati dal collegio nella camera di consiglio di cui all'articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo restano efficaci, in deroga all'articolo 56, comma 4, dello stesso codice, fino alla trattazione collegiale, fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto articolo 56, comma 4”.
[32] Tra i commenti a proposito della disciplina in questione si v.: P. D’angiolillo, Prime osservazioni sulle misure derogatorie definite dall’art. 84 del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. “Cura Italia”) in tema di processo amministrativo “condizionato” dall’emergenza “Covid-19”, in www.lexitalia.it, 2020; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.lexitalia.it, 2020; C. Cataldi, La giustizia amministrativa ai tempi del Covid 19, in www.giustamm.it, 3, 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza : sempre più speciale, in www.giustamm.it; C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art. 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, in www.giustamm.it, 3, 2020; F. Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in www.federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 23 marzo 2020; M.A. Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid-19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in www.lamministrativista.it; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in www.federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 6 aprile 2020.
[33] Sull’applicazione della disciplina in questione si è peraltro espresso il presidente del Consiglio di Stato, mediante nota esplicativa del 19 marzo 2020, n. 1454, consultabile in www.giustizia-amministrativa.it.
[34] Sul punto si v. F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in www.federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 15 aprile, 2020. L’A., pone in luce in senso generale come le norme dettate per contrastare la situazione di emergenza che interessano il processo amministrativo “differentemente da quelle dettate per la generalità degli altri processi, non rispondono ad alcun principio e si disperdono in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento”.
[35] Si fa riferimento a Cons. St., sez. VI, dec., 23 marzo 2020, n. 1343, che richiama la menzionata nota di chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato, n. 1454/2020.
Sull’argomento si v., inoltre, in dottrina M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in www.federalismi.it, 2020. L’A. ivi evidenzia come il divieto di impugnazione dei decreti monocratici sia testualmente sancito all’art. 56, comma 2 c.p.a., norma dal “chiaro e inequivocabile tenore”, mentre nell’ambito del d.l. 18/2020 non siano ravvisabili previsioni derogatorie rispetto alla suddetta norma.
[36] Cfr. C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art. 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, cit.
[37] M. Midiri, Emergenza, diritti fondamentali, bisogno di tutela: le decisioni cautelari del giudice amministrativo, cit.
[38] Cons. St., sez. III, dec., 30 marzo 2020, n. 1553, in www.giustizia-amministrativa.it. Nel caso di specie, concernente la richiesta di sospensione cautelare dell’ordine di quarantena obbligatoria con sorveglianza sanitaria e isolamento presso la propria residenza avanzata da un bracciante agricolo che si era allontanato dalla propria abitazione per andare a lavorare nei campi, tuttavia, non sono state ritenute sussistenti le condizioni per un accoglimento dell’appello cautelare proposto, considerato che la gravità del danno individuale si è ritenuto non potesse condurre a derogare, limitare, comprimere la primaria esigenza di cautela avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell’Italia oggi non superabile in alcun modo.
In senso analogo v. altresì Cons. St., sez. III, dec., 31 marzo 2020, n. 1611 e Cons. St., sez. III, dec., 23 aprile 2020, n. 2129, ove si è esplicitato chel’appello avverso il decreto presidenziale del T.A.R. è ammesso soltanto allorché sia dimostrato il pericolo concreto di irreversibile perdita di un “bene della vita” tutelato da norme costituzionali, presupposto non ravvisato nel caso di specie.
[39] Cons. St., sez. III, dec., 27 aprile 2020, n. 2294, in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Cfr., in questo senso, tra le altre, Cons. St., sez. III, 10 marzo 2021, n. 1224. Nel caso di specie, in particolare, il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare, confermando quanto rilevato nell’ambito del decreto presidenziale, di seguito appellato dal ricorrente, circa la mancanza nel caso in questione di irreparabilità e di gravità del danno lamentato e la coerenza della misura regionale contestata con gli obiettivi primari di precauzione, nell’ambito di un giudizio promosso a fronte della presunta invasività e pericolosità di misure precauzionali, quali il tampone molecolare, adottate dall’autorità regionale per fronteggiare la pandemia da Covid-19.
[41] Così Cons. St., sez. III, 3 marzo 2021, n. 1034, decisione resa in appello a proposito della questione di stretta attualità della generalizzata sospensione dell’attività didattica in presenza per la scuola dell’infanzia e primaria, nell’ambito della quale si è sostanzialmente posto in luce come il giudice amministrativo non possa sostituirsi all’autorità, nella specie il presidente della regione, nell’effettuare una scelta applicando il principio di massima precauzione sanitaria a scapito della compressione temporanea del diritto alla frequenza scolastica in presenza.
[42] Si v., in questo senso, Cons. St., sez. III, 3 marzo 2021, n. 1031; Cons. St., sez. III, 11 gennaio 2021, n. 18, oltre che Cons. St., sez. III, 15 febbraio 2021, n. 749, decreto quest’ultimo che, rammentata la categoria dei “decreti meramente apparenti” ha provveduto ad accogliere l’istanza cautelare proposta dalla Regione Umbria concernente il ripristino dell’efficacia dell’ordinanza di chiusura temporanea degli istituti per infanzia e nidi della Regione.
[43] Così, in particolare, Cons. St., sez. III, 26 gennaio 2021, n. 304, laddove si è accolta l’istanza cautelare, sospendendo nei confronti degli appellanti l’esecutività del d.p.c.m. impugnato per la parte relativa all’obbligo per un minore infradodicenne di indossare la mascherina, quale d.p.i., a scuola durante l’orario scolastico.
[44] Si v. in questo senso C.g.a., dec., 25 gennaio 2021, n. 61, in www.giustizia-amministrativa.it.
[45] Lo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, si è assai recentemente espresso sempre sulla specifica questione della impugnazione delle misure cautelari monocratiche rilevando, nel caso di specie, come nessuna previsione del Codice del processo amministrativo preveda ovvero consenta la richiesta in via autonoma di misure cautelari monocratiche in corso di causa, in assenza cioè della contestuale domanda principale di misure cautelari collegiali (cfr. C.g.a., 20 marzo 2021, n. 199).
[46] Sulla questione si v. R. Dagostino, Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica), cit.
[47] Evidentemente, come rilevato in dottrina, tale giurisprudenza ha fatto proprio un approccio al dato normativo assai differente rispetto a quello di cui alla menzionata Ad. plen. 1/1978, cui si sono invece uniformate le pronunce dimostratesi in favore dell’appellabilità dei decreti cautelari, le quali hanno assegnato un valore “relativo” alla prescrizioni processuali, leggendole le stesse alla luce del principio di effettività della tutela, che si concretizza nel caso in esame nel principio del doppio grado di giudizio, al fine di rafforzare in senso effettivo la giustiziabilità del potere amministrativo. In questo senso A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, cit.
[48] Cfr., in questo senso, Cons. St., sez. V, 19 luglio 2017, n. 3015, in www.giustizia-amministrativa.it.
Si v., inoltre, sul punto le argomentazioni di cui a C.g.a., dec., 5 dicembre 2019, n. 780, laddove si è precisato che il potere cautelare monocratico è esercitabile solo “prima della trattazione della domanda cautelare da parte del Collegio” (art. 56, comma 1, c.p.a.), sicché, dopo che sia già intervenuta la pronuncia collegiale, un riesame della stessa può essere pronunciato solo dal Collegio (art. 58, comma 1, c.p.a.). In questo senso, si è chiarito come il combinato disposto dell’art. 56, comma 1 e dell’art. 58 comma 1 c.p.a. debba essere interpretato nel senso che il potere cautelare monocratico sia esercitabile solo prima che il Collegio non si sia mai pronunciato, e non anche dopo il primo esercizio del potere cautelare collegiale, quando vengano presentate istanze di riesame o modifica dei provvedimenti collegiali. Un’opposta esegesi, infatti, che consentisse di intervenire monocraticamente dopo e su decisioni cautelari collegiali, vanificherebbe il principio di collegialità della misura cautelare e quello di eccezionalità del potere monocratico cautelare, che può solo anticipare quello collegiale, ma mai seguirlo e tradursi in un riesame del medesimo.
[49] Cons. St., sez. V, 19 luglio 2017, n. 3015, in www.giustizia-amministrativa.it.
[50] C.g.a., sez. giurisd., dec., 25 agosto 2020, n. 624, in Foro it., 2020, III, 567.
Nello stesso senso, ha dichiarato in termini generali il «non luogo a procedere» sull'appello proposto contro un decreto cautelare, Cons. Stato, sez. IV, ord. caut. 11 gennaio 2019, n. 39, in Foro it., 2019, III, 117, rilevando come nel processo amministrativo, il Consiglio di Stato sia incompetente a confermare o revocare la misura cautelare concessa con decreto del presidente del T.A.R., in quanto, ai sensi dell'art. 62 cod. proc. amm., la pronuncia cautelare collegiale del Consiglio di Stato non può precedere quella del T.A.R., essendo configurata esclusivamente quale decisione avente ad oggetto una decisione cautelare assunta in primo grado nella sede collegiale.
Si v., inoltre, in senso conforme Cons. St., sez. VI, 4 ottobre 2018, n. 4875, e sez. V, dec., 19 luglio 2017, n. 3015, entrambi in www.giustizia-amministrativa.it.
[51] C.g.a., sez. giurisd., dec., 25 agosto 2020, n. 624.
[52] Così C.g.a., dec. 22 maggio 2020, n. 455, in www.giustizia-amministrativa.it, pronunciatosi a proposito dell’appello proposto avverso il decreto monocratico cautelare del giudice di primo grado che ha respinto l’istanza di sospensione dell’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione siciliana n. 21 del 17 maggio 2020, recante "misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19”.
[53] Così A. Travi, In tema di impugnabilità del provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo di primo grado, nota a Cons. St., sez. IV; ord., 11 gennaio 2019, n. 39; Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 2019, n. 5971, in Foro it., 2019, III, 119-121. Sul punto si v. altresì F. Aperio Bella, Il procedimento cautelare, in Il nuovo processo amministrativo a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2013, 181. Nel senso della necessità di contestare la «ingiustizia» o l'invalidità del decreto presidenziale mediante richiesta di revoca di tale decreto, come asserito dall’A., si v. inoltre i richiamati contributi di A. Police, La tutela cautelare di primo grado, in Il nuovo diritto processuale amministrativo a cura di Cirillo, Padova, 2014, 509 e M.A. Sandulli, Commento all'art. 56 e Commento all'art. 61, in Il processo amministrativo, a cura di Quaranta e Lopilato, Milano, 2011, 513 e 529.
[54] V. A. Travi, In tema di impugnabilità del provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo di primo grado, cit. Ivi l’A. fa riferimento, in particolare, a Corte cost., ord. 10 maggio 2002, n. 179.
[55] A. Travi, Considerazioni minime sull'appello contro i decreti cautelari dei tribunali amministrativi regionali, cit.
[56] In questo senso si v. in particolare le argomentazioni di cui a Cons. St., Ad. plen., 8 ottobre 1982, n. 17, cit.
[57] Cfr. in argomento F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018 e Id. (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018.
[58] In dottrina, tuttavia, prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, si era posto in evidenza come la tutela in sede giurisdizionale, per il fatto di corrispondere ad un diritto fondamentale dell’individuo, “deve essere riconosciuta sempre, ove necessario, con l’utilizzazione di tutti i rimedi che, astrattamente, l’ordinamento ammette siano esperiti, anche al di là delle previsioni ostative del legislatore che, in questo caso devono considerarsi costituzionalmente illegittime”. Così C.E. Gallo, L’appellabilità del provvedimento cautelare presidenziale, cit., 2618.
Del medesimo avviso, più di recente, A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, cit.
[59] Non è del tutto chiaro se secondo V. Fanti, L'appellabilità del decreto cautelare monocratico nel processo amministrativo, cit., sarebbe comunque soltanto un problema di “lacune” normative.
[60] Si rammenta come in passato il legislatore sia intervenuto introducendo l’appello avverso il decreto presidenziale adottato ai sensi dell’art. 56 c.p.a. purchè positivo: in tal senso disponeva, infatti, l’art. 1, comma 1, lett. d) del d.l. 5 ottobre 2018, n. 115. Tale intervento, tuttavia, non è stato di seguito convertito in legge e appariva inoltre limitato alle sole controversie sportive. Sull’argomento si v. I. Tranquilli, L’appello contro il decreto cautelare: il Governo entra “a gamba tesa” sul processo amministrativo, in www.giustamm.it, 10, 2018.
[61] Sul principio del contradditorio rispetto al giudizio cautelare si v. F. Francario, Processo amministrativo e definitività dei provvedimenti cautelari, in Giorn. dir. amm., 8, 1996, 743 ss.
Il concordato “in bianco” e le cause di esclusione nell’art. 80, d.lgs. n. 50/2016 (nota a Consiglio di Stato, Sez. V, ord.za 8 gennaio 2021 n. 309)
di Tania Linardi
Sommario: 1. Fatto. 2. Deferimento all’Adunanza Plenaria. 3. Le cause di esclusione di cui all’art. 80 del Codice dei contratti pubblici: considerazioni generali. 4. Concordato preventivo in continuità aziendale e concordato in bianco. 5. Posizione della giurisprudenza in relazione agli effetti del concordato in bianco sulle procedure di gara pubbliche. 5.1 La tesi restrittiva. 5.2 La tesi estensiva. 6. La posizione dell’Ordinanza di rimessione sulla quaestio iuris sorta nella vicenda. 7. Considerazioni conclusive: effetti sostanziali e formali della tesi restrittiva ed estensiva.
1. Fatto.
L’Ordinanza n. 309 del 2021 di rimessione all’Adunanza Plenaria affronta la delicata questione relativa alle ripercussioni sulla procedura di gara derivanti dalla presentazione, da parte di un operatore economico quale mandante di un RTI, di un’istanza di concordato preventivo in bianco.
Nel caso di specie, dapprima l’aggiudicazione veniva disposta nei confronti di uno degli operatori concorrenti, per poi essere successivamente annullata dal Tribunale amministrativo (e confermata anche in sede di appello) a causa di taluni vizi riscontrati in sede di ricorso promosso dalla società seconda classificata.
Nelle more di tale giudizio di annullamento, tuttavia, la società mandante di un raggruppamento presentava, di fronte al giudice ordinario competente, Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, un ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo di cui all’art. 161, comma 6, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), ottenendo un termine di centoventi giorni per produrre la relativa proposta concordataria.
All’esito delle rinnovate operazioni di gara, l’aggiudicazione dell’appalto di lavori veniva disposta proprio in favore del RTI coinvolto nella procedura concordataria.
Di talché, la società seconda classificata interponeva ricorso al T.a.r. dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, avverso tale aggiudicazione, ritenuta illegittima in quanto disposta nei confronti di impresa in procedura concordataria ex art. 161, comma sesto, della Legge fallimentare e non ammessa alla continuità aziendale.
Di contro, la società mandataria del RTI primo classificato presentava ricorso incidentale al fine di impugnare, in via condizionata, la proposta di aggiudicazione disposta nei confronti del proprio raggruppamento e di ottenere la modifica della mandante, sostituendola con altra società indicata nel corso della procedura, ai sensi dell’art. 48, commi 18 e 19- ter, d.lgs. n. 50 del 2016.
Ma a seguito della prioritaria disamina del ricorso incidentale, il Tribunale amministrativo concludeva con il suo rigetto, ritenendo invece di dover accogliere il ricorso principale e, per l’effetto, annullare l’aggiudicazione precedentemente disposta.
Nel delineato contesto, il RTI soccombente in primo grado proponeva appello[1] al fine di contestare gli approdi cui era giunto il giudice di prime cure. In primo luogo, si evidenziava come le informazioni relative alla procedura per l’ammissione al concordato non fossero mai state sottaciute. Si aggiungeva, peraltro, che non era stata effettuata alcuna modifica soggettiva dell’operatore risultato aggiudicatario, in quanto l’indicazione dell’ATI alternativa era condizionata all’esito negativo della procedura concordataria. Infine, le appellanti lamentavano il fatto che nella sentenza impugnata non era stata debitamente presa in considerazione l’autorizzazione giudiziale intercorsa in pendenza della procedura concordataria, con la quale si consentiva, tra gli altri, la stipula del contratto di appalto.
Ebbene, il nodo problematico di maggior rilievo riguarda la questione degli effetti della proposizione di una domanda di concordato preventivo “in bianco” nell’ambito della procedura di una gara pubblica, in quanto occorre chiarire se essa debba qualificarsi quale motivo di esclusione automatica o meno. Per tal ragione, nell’Ordinanza in commento si richiede il deferimento del dubbio interpretativo all’Adunanza Plenaria.
Mentre le società appellanti escludevano l’ipotesi dell’automatica esclusione, le appellate evidenziavano la correttezza dell’intercorso annullamento dell’aggiudicazione, stante la pendenza di una procedura di concordato preventivo “in bianco” privo della richiesta per l’ammissione alla continuità aziendale. Si condivideva, inoltre, la conclusione cui era giunta la sentenza di primo grado, nella parte in cui escludeva la possibilità di sostituire la mandante con altra impresa esterna al raggruppamento. Del pari, si ribadiva che il mancato possesso dei requisiti della mandante con soluzione di continuità non avrebbe potuto esser sanato da un successivo ricorso finalizzato ad ottenere l’ammissione al concordato con continuità aziendale. Analogamente, l’intervenuta autorizzazione da parte del Tribunale competente non avrebbe potuto sanare retroattivamente il vizio legittimante l’esclusione.
2. Deferimento all’Adunanza Plenaria.
Alla luce delle ragioni sopra esposte, la Sezione Quinta del Consiglio di Stato ritiene opportuno deferire tali questioni giuridiche all’Adunanza Plenaria, ripercorrendo il quadro normativo di riferimento ed i contrapposti orientamenti giurisprudenziali delineatisi in materia.
La necessità dell’intervento risolutore del Supremo Consesso amministrativo muove, infatti, dalla difficoltà di pervenire ad univoche interpretazioni dell’art. 80, comma 5, lett. b), d. lgs. n. 50 del 2016, laddove si richiama la fattispecie del concordato preventivo quale ipotesi di esclusione dalle procedure di evidenza pubblica, tuttavia predisponendo specifiche condizioni in presenza delle quali poter derogare a tale principio. Ed è proprio la portata applicativa di tale regime di esclusione a rappresentare il presupposto su cui si fonda il quesito dei Giudici remittenti, specie a seguito dei numerosi interventi normativi che ne hanno modificato sensibilmente i presupposti e gli elementi di raccordo con la disciplina del diritto fallimentare.
Basti pensare che l’attuale formulazione della disposizione è stata introdotta a seguito del d.l. n. 32 del 2019, c.d. Decreto Sblocca cantieri, convertito in legge n. 55 del 2019, ove non appare riprodotto il previgente riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale, quale ipotesi derogatoria del principio di esclusione, ma si rinviene invece l’inserimento dell’operatività della disciplina di cui all’art. 186 - bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 relativamente alle procedure di concordato preventivo tout court.
È, quindi, del tutto evidente come l’intera fattispecie in esame risulti connotata da complessi elementi di interdisciplinarità, dovendosi preliminarmente soffermare sulla portata applicativa ed i risvolti processuali che interessano, da un lato, la domanda di concordato preventivo con riserva, ovvero “in bianco”, disciplinata dall’art. 161, comma sesto, l. fall.; dall’altro, la fattispecie del concordato con continuità aziendale, nell’ottica delle ripercussioni di tali procedure sulla conservazione, o meno, dei requisiti degli operatori economici che partecipano alle gare pubbliche.
All’uopo, appare necessario richiamare, in chiave sistematica, sia i principi regolatori della disciplina sulle gare per l’aggiudicazione di appalti pubblici, di cui al D. Lgs. n. 50 del 2016 ed in particolare l’art. 80; sia quelli relativi alle procedure concorsuali nell’ambito del diritto fallimentare, al fine di rintracciare un ragionevole punto di equilibrio tra le differenti aree tematiche del diritto.
3. Le cause di esclusione di cui all’art. 80 del Codice dei contratti pubblici: considerazioni generali.
L’istituto delle cause di esclusione, disciplinato dall’art. 80 d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50, contiene un elenco di situazioni soggettive nelle quali l’operatore economico non deve incorrere al fine di poter partecipare correttamente alle procedure di affidamento degli appalti pubblici.
Tali condizioni si inseriscono nell’alveo della categoria dei requisiti di ordine generale[2] e di natura soggettiva, taluni positivi, talaltri negativi, che fungono da criteri guida per l’individuazione delle imprese da ritenersi idonee alla partecipazione alle gare.
Trattasi, in particolare, di requisiti di idoneità morale e professionale, che operano a prescindere dalle caratteristiche oggettive dell’appalto[3] e si sostanziano in una serie di condizioni dell’impresa concorrente in grado di precluderne la partecipazione, ove sussistenti[4]. Diversamente, altro ordine di condizioni si collega alla capacità economico – finanziaria e tecnico – professionale degli operatori economici, che variano in funzione delle specifiche caratteristiche della prestazione oggetto dell’appalto.
Nel processo evolutivo di tale sistema normativo, si è affermata la necessità di distinguere due tipologie di requisiti, la cui operatività viene in rilievo in momenti differenti della procedura di selezione per l’aggiudicazione: i criteri di selezione ed i criteri di scelta. I primi attengono a quel complesso di caratteri, quali la professionalità e la solidità economica, che consentono di valutare l’idoneità di un operatore concorrente all’esecuzione della prestazione oggetto della gara. I secondi, invece, sono finalizzati alla scelta in concreto dell’aggiudicatario in base all’offerta formulata, a seguito della comparazione con le altre imprese concorrenti precedentemente ammesse alla gara[5].
Per quanto tali criteri appaiano, almeno in astratto, di chiara percezione, deve darsi atto delle numerose ipotesi di sovrapposizione fra di essi riscontrate nell’applicazione pratica, soprattutto in relazione al settore degli appalti di servizi. Difficoltà che, come sostenuto dalla dottrina, sembra essersi affievolita grazie agli approdi raggiunti con la nuova codificazione delle norme sui contratti pubblici, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ove si distingue a livello terminologico la dizione dei “criteri di selezione”, contenuta nella rubrica dell’art. art. 83, da quella dei “criteri di aggiudicazione”, di cui all’art. 95[6].
Tornando all’analisi delle caratteristiche distintive dei motivi di esclusione di cui all’art. 80, Codice dei contratti pubblici, tra di esse viene certamente in rilievo l’elemento della tassatività, quale principio che vieta alla stazione appaltante di indicare autonomamente e discrezionalmente cause di esclusione ulteriori rispetto a quelle normativamente elencate, ai sensi dell’art. 83, comma 8, codice dei contratti pubblici. Ciò si giustifica in ragione del fatto che le stesse ipotesi di esclusione limitano, anzitutto, la capacità contrattuale dell’operatore economico, costituzionalmente garantita nella forma della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.; nonché il principio del favor partecipationis, rilevante nel diritto europeo in quanto ritenuto necessario al fine del perseguimento della concorrenza nel mercato. Quale corollario del principio di tassatività delle cause di esclusione si pone, conseguentemente, il divieto di interpretazione estensiva o analogica di esse[7].
La ratio ispiratrice della previsione di tali requisiti si rinviene senz’altro nell’esigenza di garantire l’individuazione di un operatore economico aggiudicatario che risulti affidabile, sia dal punto di vista economico, che professionale. Il tutto, al fine di consentire un efficiente funzionamento non solo delle singole procedure di gara per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, ma anche del più ampio comparto economico di riferimento.
L’intero impianto codicistico si colloca, infatti, nel solco di una progressiva valorizzazione dei principi dell’Unione europea della concorrenza e della trasparenza che, nell’ottica del perseguimento delle quattro libertà fondamentali e del mercato unico, necessitano della vigenza di regole obiettive e criteri di partecipazione alle gare pubbliche predeterminati ex ante, per consentire alla PA di individuare la migliore offerta, connotata dai requisiti della completezza e serietà[8]. In passato, invece, la legislazione in vigore[9] non consentiva di ritenersi pienamente soddisfatti tali obiettivi, in quanto la stessa pubblica amministrazione molto spesso godeva di un più ampio margine di discrezionalità in ordine alla scelta, ovvero alla esclusione, del proprio interlocutore[10].
A riprova delle difficoltà di interpretazione sorte in relazione alla disciplina in commento, basti pensare alle stratificazioni normative che hanno interessato l’attuale formulazione della disposizione di cui all’art. 80, d. lgs. n. 50 del 2016, attuativo degli artt. 38 della direttiva 2014/23/UE e 57 della direttiva 2014/24/UE, e modificato dal “correttivo” di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, che nel tempo hanno modificato il previgente art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, attuativo degli artt. 45 della direttiva 2004/18/CE e 54 della direttiva 2004/17/CE.
Ed anche sotto la vigenza della precedente formulazione, non sono mancati dubbi circa l’esatta perimetrazione dell’ambito di operatività del meccanismo della suddetta esclusione, posto che alcuni autori la ritenevano riconducibile alle ipotesi di effettiva mancanza dei requisiti generali; altri, invece, invocavano l’esclusione anche nei casi di omessa dichiarazione del possesso di requisisti da parte dell’operatore concorrente. Nel primo caso, come noto, si attribuirebbe valore al dato sostanziale, mentre nella seconda ipotesi si accoglierebbe una opzione interpretativa più formalistica[11].
A dirimere, almeno in parte, alcuni nodi problematici in materia è intervenuta la successiva formulazione della norma di cui all’art. 80[12], codice contratti pubblici, che appare finalizzata a consentire una più ampia partecipazione degli operatori economici alle gare, mediante la valorizzazione del principio del favor partecipationis e la riduzione di taluni oneri amministrativi, come sancito dal considerando 84 della direttiva 2014/24/UE. Ulteriore modifica è stata da ultimo apportata, all’art. 80 Codice dei contratti pubblici, mediante il d.l. 14 dicembre 2018, 135, convertito con modificazioni nella l. 11 febbraio 2019, n. 12, nonché il d.l. 18 aprile 2019, n. 32, come si evince dalla legge di conversione 14 giugno 2019, n. 55.
Ciò posto, nell’ampia categoria della cause di esclusione, si colloca certamente l’intero comparto delle procedure concorsuali, come testimonia la locuzione contenuta nell’art. art. 80, comma 5, lett. b) Codice dei contratti pubblici, ai sensi della quale è sancito che la stazione appaltante debba escludere dalla procedura di gara un soggetto qualora “l’operatore economico sia stato sottoposto a fallimento o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o sia in corso nei suoi confronti un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, fermo restando quanto previsto dall’art. 110 del presente codice e dall’art. 186- bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.” [13]
In tali casi, l’attenzione del legislatore si giustifica in quanto la generale condizione di solvibilità dell’impresa potrebbe risultare minata, ciò compromettendo la capacità di adempiere le prestazioni eventualmente assunte in sede di aggiudicazione.
Autorevole dottrina[14] osserva come tale impianto normativo risulti in concreto finalizzato ad individuare un punto di equilibrio tra due ordini di esigenze: da un lato, quella di evitare che le amministrazioni appaltanti abbiano come controparte contrattuale un soggetto in stato di difficoltà economica tale da compromettere il regolare adempimento delle obbligazioni; dall’altro lato, l’esigenza di consentire, al ricorrere delle condizioni previste per legge, gli obiettivi del risanamento delle imprese in stato di crisi[15].
Ma in letteratura si è posta anche un’ulteriore questione da dirimere, relativa al significato da attribuire all’inciso “procedimento in corso” contenuto nella dizione letterale dell’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, anch’esso rilevante ai fini della esclusione dell’operatore dalle procedure di gara. Secondo un’interpretazione letterale, dovrebbe attribuirsi rilievo ai casi in cui sia stata presentata una mera istanza di dichiarazione di fallimento, liquidazione coatta, concordato preventivo. Ciò si verificherebbe, secondo taluni autori, a far data dal deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, qualificandosi tale condotta come confessoria della consapevolezza dello stato di dissesto dell’operatore economico[16]. Diversamente, altra dottrina critica tale impostazione, in quanto eccessivamente penalizzante per le imprese[17].
4. Concordato preventivo in continuità aziendale e concordato in bianco.
Nel decalogo dei motivi di esclusione, si attribuisce particolare rilevanza alle ipotesi in cui l’operatore si trovi coinvolto in una procedura di concordato preventivo, fattispecie che viene in rilievo nell’Ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria.
L’istituto de quo[18] si colloca nella categoria delle procedure concorsuali ed è stato oggetto di molteplici interventi del legislatore, che ne hanno modificato sensibilmente la portata applicativa[19]. Sin dalla legislazione del 1942, la problematica relativa alla qualificazione della natura giuridica ha diviso la dottrina: vi era chi aderiva alla tesi contrattualistica del concordato e chi, diversamente, propugnava la natura pubblicistica di detto istituto[20].
In via generale, la domanda di concordato è disciplinata dall’art. 161 del r.d. 16 marzo del 1942, n. 267 e prevede l’istaurazione di una procedura concorsuale che, al ricorrere dei presupposti analiticamente enucleati dalla norma, consente all’imprenditore che versi in una situazione di crisi di tentare il risanamento evitando di incorrere nel fallimento. Il tutto regolando i propri rapporti con i creditori mediante un concordato preventivo, ai sensi degli artt. 160 ss. legge fallimentare[21].
In tale quadro normativo, lo stato di crisi dell’imprenditore rappresenta uno dei presupposti per l’instaurazione di detta procedura e, secondo l’interpretazione autentica fornita dal legislatore, è sancito che per “crisi” debba intendersi anche lo stato di insolvenza, secondo un rapporto di genus ad species [22].
Ad ogni modo, la nozione di “crisi” assume una portata semantica maggiormente autonoma, rispetto al concetto di insolvenza, nell’ambito del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza del 2019, ove l’art. 2, lett. a) prevede che essa debba esser individuata nella probabilità dell’insolvenza, definita in termini di “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni pianificate”.
È stato, poi, da taluni osservato come tale concetto non si identifichi tanto nella temporanea difficoltà ad adempiere dell’imprenditore, dovendosi invece rintracciare l’esistenza di ipotesi specifiche, quali il concreto rischio di insolvenza, la presenza di uno sbilancio patrimoniale connotato dalla grave prevalenza del passivo sull’attivo ovvero ulteriori precisi elementi sintomatici della imminente crisi[
D’altra parte, lo stato di insolvenza, di cui alla lett. b) dell’articolo sopra richiamato, è connotato da una generale incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. In ogni caso, l’art. 85 cod. prevede che l’imprenditore possa proporre una domanda di concordato preventivo qualora si trovi in una delle situazioni sopra evidenziate, ponendosi in termini di alternatività la sussistenza di uno stato di crisi ovvero di insolvenza.
Ciò detto in termini generali, occorre analizzare la fattispecie del concordato in continuità aziendale, quale ipotesi innovativa connotata dal maggior grado di deroghe rispetto all’operatività della disciplina dei motivi di esclusione nelle procedure di appalto.
Ed invero, la fattispecie de qua è stata introdotta con l’art. 186-bis, a seguito dell’intervento della L. n. 134/2012, ai sensi del quale è sancito che il debitore deve dare atto, nel piano concordatario, della prosecuzione dell’attività di impresa ovvero, in alternativa, deve prevedere la cessione o il conferimento dell’azienda.
A livello sistematico, certamente la continuità aziendale rappresenta uno dei nodi fondamentali su cui si articola l’intero impianto della novella legislativa, come è possibile desumere da una serie di disposizioni: l’art. 182 - quinquies, che concede la prededuzione ai finanziamenti contratti a tal fine; nonché l’art. 169-bis, che sancisce la possibilità di recesso del debitore dai contratti pendenti, ove la prosecuzione di essi si frapponga o aggravi la realizzazione del piano.
Di talché, autorevoli autori hanno messo in luce tale obiettivo, che ha rappresentato un profondo mutamento dell’angolo prospettico attraverso il quale affrontare i concetti del diritto concorsuale[24], passandosi da un sistema costruito sulla figura dell’imprenditore insolvente e “su una visione statica dei rapporti (i debiti e la loro garanzia patrimoniale)” ad un differente sistema che vede al centro della propria disciplina l’attività d’impresa, nell’ottica della dinamicità che connota le fasi del ciclo economico e produttivo[25]. In altri termini, attualmente sembrerebbe assumere un rilievo preminente il dato oggettivo dell’attività di impresa, intesa nella sua estrinsecazione dinamica e funzionale, piuttosto che l’aspetto “soggettivo” dell’imprenditore insolvente ed i debiti ad esso riconducibili.
Quanto alla facoltà di partecipare alle gare d’appalto, viene in rilievo il comma terzo dell’art. 186 bis della legge fallimentare sui contratti in corso di esecuzione, nonché i commi 4 e 5, regolanti le modalità di partecipazione alle procedure di assegnazione di contratti pubblici. Ciò al fine di consentire all’impresa, seppure al ricorrere di specifici presupposti, di preservare le posizioni di mercato che abbia nel tempo conseguito, nell’ottica della valorizzazione del risanamento aziendale[26].
In tal senso, anche l’adozione del nuovo Codice della crisi d’impresa del 2019 rappresenta, una volta entrato in vigore, una valida linea di continuità rispetto ai principi espressi già in sede di riforma con la novella del 2012[27].
Accanto al concordato in continuità aziendale, si pone poi l’ulteriore fattispecie del concordato con riserva o “in bianco”, disciplinato dall’art. 161, comma 6, l. fall. ed oggetto di numerosi dubbi interpretativi circa la disciplina applicabile alle imprese coinvolte nella partecipazione alle procedure di gara.
In particolare, la peculiarità dell’istituto in esame consiste nel permettere al debitore di depositare il ricorso contenente la domanda di concordato sulla base della semplice allegazione dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, l’elenco nominativo dei creditori e dei rispettivi crediti[28], posticipando la presentazione della proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo entro il termine fissato dal giudice, compreso tra sessanta e centoventi giorni, salva la possibilità di proroga come previsto dalla norma in commento.
La norma risulta connotata da un duplice obiettivo: determinare una temporanea paralisi delle azioni esecutive e cautelari dei creditori, nonché consentire la decorrenza del termine a quo per attribuire ai “crediti di terzi eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore”[29] la qualifica della prededucibilità, di cui all’art. 111 l. fall. [30].
Conseguentemente, la dottrina si è interrogata sulla qualificazione della natura giuridica del concordato preventivo “in bianco”, talvolta inquadrandola nella struttura di un procedimento atipico, in grado di assumere le vesti di una vera e propria procedura concorsuale soltanto in sede di decreto di ammissione al concordato preventivo[31]; talaltra definendola alla stregua di una vera e propria procedura concorsuale[32].
Come anticipato, qualora l’impresa richiedente l’ammissione al concordato partecipi anche ad una gara pubblica, il sopra citato art. 186 – bis, comma 4, l.fall., nell’attuale formulazione, dispone che “Successivamente al deposito della domanda di cui all’art. 161, la partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici deve essere autorizzata dal tribunale e, dopo il decreto di apertura, dal giudice delegato, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato”.
Il successivo comma sesto della medesima norma prevede, poi, che l’operatore economico coinvolto nella procedura concorsuale de qua possa partecipare alle gare anche unitamente ad altri soggetti, nella forma del raggruppamento temporaneo di imprese, sempreché non rivesta la qualifica di mandataria.
Appare evidente, pertanto, come tale disposizione rivesta un ruolo primario sia nella valorizzazione del principio del favor partecipationis, sia nella realizzazione degli obiettivi di implementazione della redditività dell’impresa. Dovendosi, in quest’ultimo caso, raggiungere un punto di ragionevole bilanciamento anche rispetto ad altri valori: la certezza del diritto, la competitività del sistema economico, nonché l’esigenza di garantire l’affidabilità degli operatori economici partecipanti alle procedure di evidenza pubblica, tutelando le pubbliche amministrazioni da eventuali rischi scaturenti dalle imprese in una situazione di irreversibile crisi[33].
5. Posizione della giurisprudenza in relazione agli effetti del concordato in bianco sulle procedure di gara pubbliche.
Le preliminari considerazioni affrontate rivestono un ruolo centrale nell’analisi degli effetti derivanti dalla proposizione di un’istanza di concordato preventivo “in bianco” sulle pendenti procedure di evidenza pubblica. La stessa Sezione remittente, infatti, analizza la questione relativa alla valutazione della compatibilità tra la domanda c.d. in bianco ed una proposta di concordato preventivo in continuità aziendale, di cui all’art. 186 – bis, l. fall., chiedendosi se gli effetti di quest’ultimo istituto possano configurarsi anche laddove vi sia una mera domanda di preconcordato.
D’altro canto, persino la cornice normativa entro cui si snodano tali rilievi non appare dirimente sul punto. Mentre la dizione letterale dell’art. 182 - quinquies, comma 1, l. fall., sembrerebbe alludere alla possibilità di presentare una domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, anche mediante un preconcordato di cui all’art. 161, comma 6[34], del medesimo avviso non appare, invece, l’art. 186 - bis, comma 1, laddove enuclea i caratteri del primo istituto, a detta di alcuni inconciliabili con la struttura del concordato in bianco[35].
Occorre, poi, tener conto anche delle modifiche apportate dal d.l. n. 32/2019 al testo dell’art. 110, Codice dei contratti pubblici, rilevante in quanto richiamato dall’art. 80, comma 5, lett. b). Tanto più se si considera che la previgente disciplina, all’art. 110, comma 4, secondo periodo, si limitava a riconoscere, nell’ambito del concordato in bianco, la facoltà di proseguire l’esecuzione dei contratti di appalto precedentemente stipulati, previa autorizzazione del giudice delegato.
È evidente che lo stato dell’arte in materia è frutto di continue oscillazioni interpretative, tanto che i Giudici remittenti, ai fini dell’analisi delle questioni giuridiche sottese alla pronuncia, ripercorrono in chiave ricostruttiva i principali approdi ermeneutici susseguitisi nel panorama giurisprudenziale.
5.1 La tesi restrittiva.
Secondo una corrente di pensiero, che può esser definita restrittiva[36], la formulazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, precluderebbe la partecipazione alle gare agli operatori che abbiano presentato istanza di concordato in bianco[37].
Si sostiene, infatti, che anche a voler invocare l’art. 186 – bis l. fall.[38], nella parte in cui consente ad un’impresa coinvolta nella procedura concordataria di ottenere l’autorizzazione dal Tribunale fallimentare a partecipare ad una gara di appalto, tale disciplina deve coordinarsi armonicamente con gli obiettivi stabiliti, a livello sistematico, dalle regole sulle procedure ad evidenza pubblica.
A titolo esemplificativo, tra di essi si può citare l’esigenza di celerità e definitività nell’assunzione degli impegni contrattuali nella fase dell’aggiudicazione, in antitesi rispetto all’ampiezza dei tempi di definizione della procedura di concordato in bianco, il cui esito è peraltro naturalmente incerto.[39]
La stipulazione del contratto di appalto, infatti, deve aver luogo entro sessanta giorni dal momento in cui è divenuta efficace l’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 32, comma 8, Codice dei contratti pubblici, momento entro il quale l’aggiudicatario dovrebbe esser in grado di produrre la documentazione all’uopo richiesta dall’art. 186 – bis, l. fall.
Conseguentemente, parte della giurisprudenza ha qualificato la fattispecie del concordato in bianco quale atto di straordinaria amministrazione, autorizzabile dal Tribunale solo ove esso risulti “urgente”, ai sensi dell’art. 161, comma 7, l. fall[40], consentendo in tal modo di riequilibrare i numerosi benefici in favore del debitore con un incisivo potere di controllo giudiziale, al fine di scongiurare condotte abusive in danno dei creditori.
Anche nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, vi era chi richiamava, a sostegno dell’orientamento restrittivo in parola, il principio della continuità del possesso dei requisiti di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica, da ritenersi violato nei casi di presentazione di una domanda di concordato in bianco da parte di un’impresa concorrente.
Ciò in quanto si verificherebbe il difetto dei requisiti di ordine generale previsti dall’art. 80, comma 5, lett. b), che invece riconosce l’operatività dell’eccezione, alla regola generale dell’esclusione, esclusivamente nei casi in cui l’operatore “si trovi” in continuità aziendale a seguito della intervenuta ammissione alla procedura. Diversamente, si ritiene che tali conclusioni non possano estendersi anche alle ipotesi in cui vi siano “procedimenti in corso” per l’ammissione al concordato, come accade in sede di presentazione di domanda di concordato in bianco. All’uopo, nemmeno un’eventuale ammissione giudiziale al concordato con continuità aziendale potrebbe sanare retroattivamente tale difetto di requisiti.
Aderiscono all’interpretazione restrittiva in commento anche alcune pronunce[41] successive alla novella legislativa apportata all’art. 110, comma 4, Codice dei contratti pubblici, dal d.l. n. 32 del 2019.
In termini, anche a fronte di quanto statuito dal sopra citato art. 110, comma 4, prima parte, ove è previsto che le imprese che abbiano presentato domanda di concordato, anche in bianco, sono assoggettate alla disciplina di cui all’art. 186 – bis, l. fall, la giurisprudenza ha sottolineato la necessità di tenere in considerazione la seconda parte della medesima disposizione, che richiede l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto, quale ulteriore elemento necessario per partecipazione.
Ed invero, si sostiene che la nuova formulazione dell’art. 110, comma 4, nonché dell’art. 186 – bis, comma 4, l. fall., laddove disciplina “la partecipazione alle procedure di affidamento”, intenda richiamare esclusivamente le ipotesi successive e non coeve alla presentazione della domanda di concordato in bianco. Queste ultime risulterebbero escluse dalla citata previsione, comportando la perdita sopravvenuta del requisito richiesto dall’art. 80, comma 5, lett. b).
A sostegno di tali rilievi, si suole invocare l’art. 80, comma 6, Codice dei contratti pubblici, che impone alle stazioni appaltanti di escludere gli operatori non solo per mancanza dei requisiti di partecipazione al momento della presentazione della domanda e dell’offerta, ma anche per la sopravvenuta mancanza di essi in corso di gara, alla luce del principio della par condicio dei partecipanti.
I fautori della tesi restrittiva, inoltre, utilizzano anche i rilievi effettuati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla questione relativa all’eventuale contrarietà alla normativa europea della legislazione nazionale che preveda un diverso trattamento a seconda che gli operatori economici concorrenti abbiano, o meno, presentato un ricorso di concordato contenente un piano per la continuità aziendale.
Sul punto, la Corte di Giustizia UE ha precisato che l’art. 45, par. 2, c. 1, lett. b), direttiva 2004/18/CE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che preveda la possibilità di escludere dalla procedura di appalto pubblico quell’operatore che abbia presentato un ricorso per l’ammissione al concordato preventivo, qualora si riservi di presentare il piano per la prosecuzione dell’attività in un momento successivo[42].
Di talché, il differente trattamento previsto dalla legislazione nazionale italiana non violerebbe il principio di eguaglianza ma si giustificherebbe sulla base delle differenze sostanziale che connotano i due istituti: l’affidabilità economica di un operatore che abbia incluso nel proprio piano per il concordato la prosecuzione dell’attività aziendale risulterebbe maggiore rispetto a chi si riservi di integrarlo.
Di conseguenza, gli Stati membri potrebbero applicare le cause di esclusione previste dalla direttiva inserendole nella legislazione nazionale con criteri più o meno rigorosi, ovvero escluderne l’applicazione in specifici casi.
Da ultimo, ma non per importanza, l’orientamento in analisi ha preso posizione anche in ordine all’ultima delle questioni giuridiche deferite all’Adunanza Plenaria[43], ritenendo esclusa la possibilità di operare modifiche nell’ambito della compagine del RTI aggiudicatario, all’interno del quale la società mandante aveva presentato domanda di concordato in bianco. In questo caso, quindi, enfatizzandosi un’interpretazione restrittiva delle ipotesi derogatorie di cui all’art. 48, commi 18 e 19 ter del d.lgs. n. 50 del 2016.
5.2 La tesi estensiva.
Sin dalla previgente formulazione della disciplina di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006, le conclusioni testé citate sono state avversate dai sostenitori della tesi estensiva.
Essi ritengono che la facoltà di partecipare alle gare pubbliche non dovrebbe esser preclusa alle imprese che hanno proposto un’istanza di concordato preventivo “in bianco”[44], in virtù del principio che ne consente la partecipazione nelle more tra la presentazione della domanda di concordato con continuità aziendale e la relativa ammissione[45].
La stessa corrente di pensiero, tuttavia, non sempre riconosce sic et simpliciter l’operatività di tali argomentazioni[46]: vi è, infatti, chi richiede ulteriormente la verifica della sussistenza, nella domanda di concordato, di elementi tali da far ragionevolmente presumere che l’intera procedura non si traduca in una mera ipotesi liquidatoria, bensì in una prosecuzione dell’attività aziendale[47].
In dottrina si è osservato[48] che i numerosi dubbi interpretativi sorti in materia, pur non essendo stati superati a livello legislativo né con l’adozione del nuovo Codice dei contratti pubblici, né con il decreto correttivo, sembrerebbero aver raggiunto una compiuta definizione mediante la novella introdotta con il d.l. n. 32 del 2019, convertito in legge n. 55/2019.
Ci si riferisce, in particolare, all’art. 110, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, che richiama espressamente la disciplina di cui all’art. 186-bis, l. fall., anche con riferimento alle ipotesi del concordato in bianco. Ciò testimonia, dunque, la voluntas legislatoris di estendere la disciplina ivi prevista all’intera categoria del concordato preventivo, da intendersi secondo una concezione più ampia, tale da ricomprendere al suo interno anche la fattispecie del concordato in bianco.
L’adesione a tali rilievi postulerebbe, quindi, la valorizzazione del principio del favor partecipationis, riconducibile anche agli obiettivi perseguiti dalla riforma fallimentare, finalizzata a superare quella concezione statica del concetto di crisi dell’impresa, per abbracciare una nozione di risanamento che tenga conto dell’attività dinamica posta alla base dell’intera vita operativa dell’azienda. Il tutto, fermo restando quanto previsto dall’art. 110, comma 4, ultimo periodo, del d.lgs. n. 50 del 2016, che richiede l’avvalimento dei requisiti di altro soggetto sino alla intervenuta ammissione al concordato.
Ciò posto, anche l’orientamento estensivo ha affrontato la problematica relativa alla qualificazione della natura giuridica della partecipazione delle imprese concorrenti alle procedure di evidenza pubblica, da intendersi in termini di ordinaria o straordinaria attività.
Come noto, infatti, l’inclusione nell’una ovvero nell’altra categoria risulta fondamentale ai fini della individuazione dei poteri di gestione riconosciuti in capo all’impresa stessa, come testimonia la differente disciplina prevista dall’art. 161, comma 7, l. fall.
In particolare, dopo la presentazione dell’istanza di ammissione e prima della decisione del tribunale di cui all’art. 163 della medesima legge, il debitore può compiere atti di ordinaria amministrazione, senza la previsione di particolari formalità. Nel caso degli atti di straordinaria amministrazione, invece, è necessario che essi risultino “urgenti” e che sia intervenuta apposita autorizzazione del tribunale.
Nel delineato contesto, la soluzione accolta dalla tesi estensiva propende per la qualificazione della partecipazione alle gare pubbliche quale ipotesi di ordinaria amministrazione, trattandosi di attività riconducibile alla normale gestione dell’impresa e delle sue finalità, in grado di migliorare il patrimonio dell’azienda laddove essa risulti aggiudicataria dell’appalto[49].
Tanto evidente appare, quindi, la differenza sostanziale che connota, invece, gli atti di straordinaria amministrazione: la capacità di incidere negativamente nei confronti del patrimonio societario, compromettendone la stabilità ed in danno della massa dei creditori
Come anticipato, a livello normativo il fulcro della disciplina applicabile è racchiusa nell’art. 161, comma 7, l. fall., che enuclea, in via esemplificativa, una serie di atti considerati espressione dell’attività di straordinaria amministrazione. Tuttavia, lo stesso carattere esemplificativo, e non esaustivo, di tale elencazione impone di ricorrere ai principi generali operanti in materia, al fine di individuare, più compiutamente, il discrimen tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione[50].
In linea teorica, tale distinzione potrebbe apparire chiara: mentre gli atti legati ad un’attività ordinaria dell’impresa attengono alla conservazione ovvero al miglioramento del patrimonio, quelli che ne comportano l’eventuale dispersione rientrano nell’alveo della categoria della straordinaria attività di gestione dell’impresa. Ma sul piano pratico, non sempre si ha un automatico riscontro di tali elementi.
La bussola da tenere in adeguata considerazione attiene, quindi, all’interesse dei creditori: talune situazioni, pur se astrattamente qualificabili come di ordinaria amministrazione, possono infatti rilevarsi foriere di un elevato indice di pericolosità o rischio di depauperamento patrimoniale per l’assetto economico-organizzativo della impresa nell’ambito della procedura di concordato[51].
Con riferimento alla natura ed agli effetti dell’autorizzazione giudiziale del Tribunale civile ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, la tesi in commento ne propugna l’inquadramento in termini di condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione. Tale accezione, si sostiene, ne legittima l’intervento anche nel corso del procedimento di evidenza pubblica, se non addirittura a seguito della aggiudicazione, senza pur tuttavia comprometterne la regolarità e l’efficacia.
Aderiva a tale ricostruzione anche parte della giurisprudenza civile, in epoca anteriore alle recenti riforme delle procedure concorsuali, quando si interrogava sulla quaestio iuris relativa alla compatibilità di una sanatoria degli atti di straordinaria amministrazione, privi della relativa autorizzazione giudiziale, rispetto alla sanzione di cui all’art. 173 della legge fallimentare.
Orbene, anche in tal caso, essendo qualificata quale condicio iuris di efficacia dei negozi giuridici rispetto ai creditori anteriori alla procedura, si stabiliva che non era necessaria l’anteriorità dell’autorizzazione, ben potendo intervenire anche in un momento successivo[52].
Ed infine, occorre dare atto della posizione assunta dall’orientamento estensivo in relazione alla portata applicativa dell’art. 48, commi 17, 18, 19 ter del d.lgs. n. 50/2016, che si è espresso in termini favorevoli alla possibilità di consentire la sostituzione della mandante coinvolta nella procedura concorsuale di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., con altro operatore economico estraneo alla procedura di gara.
6. La posizione dell’Ordinanza di rimessione sulla quaestio iuris sorta nella vicenda.
La Sezione remittente, nel ricostruire le questioni oggetto delle differenti interpretazioni offerte dalla giurisprudenza e dalle parti del giudizio, mette in luce le conseguenze giuridiche, nonché pratiche, che scaturiscono dall’adesione alla tesi restrittiva, ovvero a quella estensiva.
Premessi taluni rilievi di ordine sistematico delle relative discipline applicabili agli istituti del concordato in bianco e del concordato con continuità aziendale, nell’Ordinanza di rimessione si evidenzia una propensione per la tesi estensiva, ritenuta maggiormente in linea con le finalità del diritto fallimentare, alla luce delle recenti riforme.
Nel giungere a tale conclusione, essa muove dall’assunto che vede gli istituti del concordato con continuità aziendale ed il concordato in bianco legati dalla medesima ratio, finalisticamente orientata a consentire alle imprese in crisi di partecipare alle procedure di evidenza pubblica, in deroga al divieto di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), d. lgs. n. 50 del 2016.
E il contrappeso, in grado di bilanciare questi benefici per l’operatore economico concorrente, va rintracciato nell’autorizzazione di cui all’art. 186 – bis, l. fall. (consistente nella verifica della conformità agli interessi dei creditori di una eventuale acquisizione della commessa pubblica), in grado quindi di tutelare anche le ragioni della Pubblica Amministrazione appaltante quanto alla verifica in concreto dell’affidabilità del soggetto contraente.
La Sezione, come anticipato, non manca di evidenziare la natura di atto di accertamento di tale autorizzazione, ciò implicando “la sua retroazione al momento in cui la valutazione si riferisce, e non già a quella in cui essa è stata formalizzata nell’atto autorizzativo”.
Orbene, nel solco delle considerazioni sostenute dai fautori della tesi estensiva, i Giudici remittenti ritengono che lo schema autorizzativo di cui all’art. 186 - bis, comma 4[53], possa estendersi anche ai casi di presentazione di una domanda di concordato in bianco, di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., valorizzandosi gli effetti prenotativi di tale atto, laddove volto alla prosecuzione dell’attività di impresa ed alla luce del carattere unitario dell’intera procedura.
Diversamente opinando, si osserva, potrebbero sorgere dei problemi di compatibilità dell’art. 80, comma 5, lett. b), d. lgs, n. 50 del 2016, con l’art. 57, par. 4, secondo periodo, della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, laddove dispone di effettuare una valutazione in concreto circa l’affidabilità dell’impresa, potendosi prevedere la deroga alla operatività delle ipotesi di esclusione nei casi di accertata capacità dell’impresa concorrente ad eseguire il contratto, nell’ottica della più ampia prosecuzione dell’attività aziendale.
Ulteriore ostacolo alla adesione alla tesi restrittiva è stato rinvenuto nella contrarietà ai precetti costituzionali di cui agli artt. 3, 41 e 117 Costituzione, in quanto l’opzione ermeneutica in parola si tradurrebbe in una ingiustificata disparità di trattamento riservata a situazioni analoghe, quali l’accesso immediato ovvero quello differito al concordato con continuità aziendale.
Sembra anche in tale inciso riecheggiare, a detta della Sezione remittente, la necessità di qualificare l’intera procedura concordataria alla stregua di un procedimento inteso nella sua dimensione unitaria, essendo le fattispecie del concordato in bianco ed in continuità aziendale entrambe connotate dalla medesima finalità, la stessa che ha spinto negli ultimi anni il legislatore a riformare più volte la materia fallimentare: quella di guidare l’impresa oltre la situazione di crisi, ciò nell’interesse sia dei creditori, sia del mercato, al ricorrere delle condizioni di legge.
7. Considerazioni conclusive: effetti sostanziali e formali della tesi restrittiva ed estensiva.
Sulla scorta dei rilievi ermeneutici effettuati dalla Sezione remittente ed in attesa che si pronunci definitivamente l’Adunanza Plenaria, occorre dare atto delle difficoltà interpretative che connotano le questioni oggetto dell’Ordinanza, essendo ciò comprovato anche dal continuo intervento del legislatore in subiecta materia, sia nella disciplina degli appalti, sia nel sistema delle procedure concorsuali.
Come ampiamente affrontato nel corso dei precedenti paragrafi, il carattere a tratti “ambivalente” delle disposizioni che vengono in rilievo ha dato la stura all’emersione di due differenti posizioni interpretative nella giurisprudenza amministrativa, dalle quali scaturiscono inconciliabili effetti sostanziali.
La tesi estensiva, ritenuta preferibile dalla Sezione remittente, propugna la valorizzazione del percorso storico evolutivo che ha, di recente, comportato la modifica, tra gli altri, della formulazione dell’art. 110, comma 4, Codice dei contratti pubblici, laddove estende l’operatività della disciplina derogatoria di cui all’art. 186 – bis l. fall. anche alle ipotesi di concordato in bianco. Conseguentemente, si è sostenuto che l’attivazione di una procedura concordataria di tal natura non possa esser qualificata alla stregua di una causa di automatica esclusione, ben potendo l’impresa concorrente richiedere la specifica autorizzazione del Tribunale fallimentare di cui all’art. 186 – bis l. fall. nel corso della procedura di gara.
Diversamente, la tesi restrittiva propende per una lettura di maggior rigore della normativa in commento, ai sensi della quale la formulazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 dovrebbe intendersi nel senso di precludere la partecipazione alle gare agli operatori economici che abbiano presentato un’istanza di concordato in bianco. A detta di tale orientamento, anche la nuova formulazione dell’art. 110, comma 4, Codice dei contratti pubblici, militerebbe in tal senso, laddove il richiamo all’art. 186-bis l. fall. si ritiene riconducibile esclusivamente alle ipotesi di partecipazione alle gare successive alla presentazione della domanda di concordato in bianco, non potendo quindi applicarsi alle gare pendenti.
Più in particolare, la ratio della tesi estensiva appare ispirata alla valorizzazione del principio del favor partecipationis, secondo una logica maggiormente inclusiva, consentendo la partecipazione alle gare anche a quelle imprese coinvolte nelle procedute di concordato in bianco, grazie agli effetti “prenotativi” ed alla luce degli obiettivi di prosecuzione dell’attività di impresa, nell’ottica del superamento della crisi.
Ciò posto, le stesse premesse da cui prende le mosse la tesi estensiva potrebbero rappresentare un eventualeelemento di criticità rispetto al principio generale del divieto di offerte condizionate nell’ambito delle procedure di gara[54], la cui ratio è duplice: da un lato, essa persegue l’obiettivo di tutelare la par condicio dei partecipanti; dall’altro, consente di individuare con precisione e certezza il contenuto dell’offerta[55], alla luce delle scelte effettuate dall’impresa concorrente.
In effetti, un’interpretazione eccessivamente rigorosa del divieto di offerte condizionate determinerebbe l’esclusione degli operatori economici che, in pendenza della gara pubblica, abbiano presentato domanda di concordato in bianco. Ciò in quanto la necessaria autorizzazione giudiziale richiesta dall’art. 186- bis l. fall. dovrebbe qualificarsi, con tutti i temperamenti del caso, come una sorta di “condizione” apposta alla partecipazione stessa, in modo da condizionare anche l’offerta dell’operatore economico, secondo un rapporto di derivazione.
Tuttavia, sul piano pratico, la suesposta interpretazione potrebbe comportare problemi di compatibilità con l’attuale formulazione del dato positivo, traducendosi in una consistente limitazione della portata applicativa della disciplina di cui agli artt. 80, comma 5, lett. b) e 110, comma 4, d. lgs. n. 50 del 2016.
Del resto, sulla scorta di una lettura sistematica della normativa in rilievo, l’interrogativo in analisi potrebbe all’oggi trovare una propria composizione anche grazie a taluni temperamenti introdotti dagli interpreti nell’ambito delle argomentazioni poste alle basi della tesi estensiva. Ci si riferisce, in particolare, ai casi in cui si richiede che l’autorizzazione di cui all’art. 186 – bis l. fall. debba intervenire prima dell’aggiudicazione, essendo quest’ultimo il momento che segna la conclusione della fase di selezione del contraente privato, in occasione del quale l’operatore economico deve essere in possesso dei requisiti di partecipazione[56]. Il tutto, come è evidente, al precipuo fine di evitare un’eccessiva dilatazione dell’iter afferente alla domanda di concordato in bianco, a fronte della necessaria celerità che contraddistingue la procedura di gara.
Ancor più di recente, in giurisprudenza si è anche affermato che l’intervento dell’ammissione giudiziale al concordato con continuità aziendale prima dell’aggiudicazione non consente di qualificare come causa di esclusione, di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, la proposizione di una domanda di concordato in bianco da parte dell’impresa concorrente[57].
Non da ultimo, la tesi estensiva impone di riflettere circa la sua portata applicativa rispetto al nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, laddove, senza pretesa di esaustività, la disciplina concordataria prevista all’art. 44, rubricato “Accesso al concordato preventivo e al giudizio per l’omologazione degli accordo di ristrutturazione”, consente al debitore di chiedere un termine, compreso tra trenta e sessanta giorni, per il deposito della proposta di concordato ed il piano, nonché l’ulteriore documentazione prevista per legge, ai sensi del comma 1, lett. a). Seppure non risulti espressamente stabilito dalla lettera della disposizione testé menzionata, la disciplina in essa contenuta sembrerebbe regolare proprio la fattispecie del concordato “in bianco”, o con riserva, attualmente cristallizzata nella disposizione di cui all’art. 161, comma 6, l. fall.
Sulla scorta di un raffronto tra la formulazione dello ius superveniens di cui all’art. 44, Codice della crisi d’impresa, e l’art. 161, comma 6, citato, appare evidente che i termini concessi al debitore sono dimidiati. Tale scelta legislativa sembra improntata alla necessità di imprimere maggiore celerità alla definizione della procedura concordataria con riserva. Elemento, quest’ultimo, utile per consentire de iure condendo una sorta di raccordo fra la procedura di concordato in bianco e le procedure di evidenza pubblica, nell’intricato contrasto sorto sia in dottrina sia in giurisprudenza che, da ultimo, ha imposto il deferimento delle sopra delineate questioni all’Adunanza Plenaria.
***
[1] In particolare, la società mandante e quella mandataria del RTI soccombente presentavano autonomi ricorsi in appello, riuniti in trattazione ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a. essendo rivolti avverso la medesima sentenza.
[2] Per approfondimenti sui requisiti di ordine generale ex multis v. R. Greco, I requisiti di ordine generale, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M. A. Sandulli, R. De Nictolis, II, Milano, Giuffrè, 2019, p. 1267 ss; R. De Nictolis, Manuale dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, Roma, EPC, p. 397 ss.; D. Villa, La selezione degli offerenti, in Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, diretto da F. Caringella, P. Mantini e M. Giustiniani, Roma, Dike, 2016, p. 273 ss.; R. Garofoli e G. Ferrari, La nuova disciplina dei contratti pubblici, II ed., Roma, Neldiritto, 2017, p. 445 ss.; F. Pignatiello, Le novità in tema di cause di esclusione, in Il correttivo al codice dei contratti pubblici. Guida alle modifiche introdotte dal d. lgs. 19 aprile 2017, n. 56, a cura di M. A. Sandulli, M. Lipari e F. Cardarelli, Milano, Giuffrè, 2017, p. 207 ss.; A. Cianfalone, G. Giovannini e F. Lopilato, L’appalto di opere pubbliche, XIII ed., I, Milano, Giuffrè, 2018, 599 ss.
[3] Sul commento dell’art. 80, Codice dei contratti pubblici, cfr. S. CACACE, La disciplina dei contratti pubblici dopo il d.lgs. n. 50 del 2016: motivi di esclusione e criteri di selezione, in www.giustizia-amministrativa.it., 8.11.2016.
[4] Cfr. S. Sticchi Damiani I requisiti di ordine generale, in I contratti di appalto pubblico, a cura di C. Franchini, Torino, Utet, 2010, p. 423-424.
[5] Cfr. P. Santoro, Manuale dei contratti pubblici, Rimini, Maggioli, 2005, p. 745.
[6] Sul punto, vedasi R. Greco, L’evoluzione normativa delle “cause di esclusione”, in Trattato sui contratti pubblici, vol. II, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, 2019, p. 759 ss.
[7] Per approfondimenti sul punto, vedasi Cons. St., sez. V, 21 luglio 2015 n. 3595, in Foro amm., 2015, n. 7-8, 1965; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 29 ottobre 2015 n. 12239, in dejure.it; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 13 gennaio 2014 n. 19, in Foro amm., 2014, n. 1, 235.
[8] Cfr. M. Antonucci, I nuovi criteri di partecipazione alle gare di appalto, su Il Cons. St., 2005, II, p. 557 ss.
[9] Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 2 e 4 del capitolato generale delle opere pubbliche, decreto del Ministro dei lavori pubblici del 28 maggio 1895.
[10] Cfr. P. Santoro, Manuale dei contratti pubblici, Maggioli, 2005, p. 746.
[11] In tema, si veda, tra gli altri, S.S. Scoca, Contratti pubblici: l’effettività della tutela tra formalismo e sostanzialismo, in Giur. it, 2015, n. 3, 699 ss.; S. Foa’, Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici, in Urb. app., 2014, n. 11, p. 1147 ss.
[12] Cfr. S. Cacace, La disciplina dei contratti pubblici dopo il d.lgs. n. 50 del 2016: motivi di esclusione e criteri di selezione, in www.giustizia-amministrativa.it, 8 novembre 2016.
[13] La norma attualmente in vigore è frutto delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 20, lett. o), n. 3 del d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019. Con particolare riguardo al nuovo art. 110, cfr. R. De Nictolis, Le novità sui contratti pubblici recate dal D.L. n. 32/2019 “sblocca cantieri”, in Urb. app., 2019, n. 4.
[14] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, p. 824 ss.
[15] Sul punto, vedasi F. Aperio Bella, Requisiti di ordine generale, in Manuale di diritto amministrativo, IV, I contratti pubblici, a cura di F. Caringella e M. Giustiniani, Roma, Dike, 2014, par. 2 (Fallimento e procedure concorsuali), 507 ss.; S. Ambrosini, La sorte dei contratti in corso di esecuzione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, a cura di F. Vassalli, F. P. Luiso e E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, Giappichelli, 2014, p. 123 ss.; R. Proietti, Commento all’art. 38. Requisiti di ordine generale, in Codice dell’appalto pubblico, a cura di S. Baccarini, G. Chine’ e R. Proietti, II ed., Giuffrè, 2015, p. 485 ss.
[16] Cfr. Cons. St., ad. plen., 15 aprile 2010 n. 2155, in Dir. proc. amm., 2010 n. 2, 617.
[17] Cfr. R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni dopo la legge “sblocca cantieri”, Zanichelli, 2020, p. 749.
[18] Per approfondimenti sull’istituto, cfr. C. Cecchella, Il diritto dell’impresa e dell’insolvenza, Cedam, 2020, p. 524 ss.
[19] Tra le riforme che hanno interessato l’istituto del concordato, si possono citare le modifiche apportate dal d.lgs. 5/2006, dalla L. n. 80/2005, ed i successivi interventi di cui al d.lgs. n. 169/2007, nonché la L. n. 134/2012, L. n. 98/2013 e il d.l. n. 38/2015, convertito nella L. n. 132/2015. In particolare, si segnala anche l’intervento del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, emanato con il D. Lgs. 14/2019.
[20] Per approfondimenti sulla ricostruzione del dibattito relativo alla natura giuridica del concordato preventivo, si veda G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffrè, 2017, p. 77 ss.
[21] G. F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. III, 2013, pag. 413 ss.
[22] Si veda l’art. 36 della legge 30 dicembre 2005 n. 273 (c.d. mille proroghe).
[23] Cfr. C. Cecchella, Il diritto dell’impresa e dell’insolvenza, cit., Cedam, 2020, p. 529.
[24] G. Terranova, Le procedure concorsuali, Giappichelli, 2019, p. 541 ss.
[25] Cfr. S. Pacchi, Dalla meritevolezza del debitore alla meritevolezza del complesso aziendale, Siena, 1988.
[26] G. Terranova, Le procedure concorsuali, cit., p. 604 ss.
[27] C. Cecchella, Il diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit. Cedam, 2020, p. 524 ss.
[28][28] Tale inciso è stato aggiunto con il “Decreto del fare”, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 98.
[29] Cfr. art. 161, comma 7, l. fall.
[30] Quanto alle analogie riscontrate rispetto alla disciplina già prevista per gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cfr. P. Valenzise, Commento all’art. 182-quater, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. A. Sandulli e V. Santoro, vol. III, Giappichelli, Torino, 2010, p. 2254 ss.; M. Fabiani, L’ulteriore upgrade degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, in Fallimento, 2010, p. 902.
[31] A. Patti, Quale compensazione nella consecuzione del fallimento a proposta di concordato preventivo inammissibile?, in Il fallimento, n. 7, 2015, p. 821; F. Lamanna, Le norme transitorie della miniriforma di cui al d.l. n. 83/2015: il significato di “procedimenti introdotti” dopo la legge di conversione, in www.ilfallimentarista.it , 13 novembre 2015.
[32] In tal senso, cfr. L. D’Orazio, Il procedimento e la deliberazione del concordato preventivo, in Il nuovo concordato preventivo, a cura di A. Caiafa, A. Salvi, Pacini giuridica, 2016, p. 52 ss.; S. Ambrosini, Il diritto della crisi d’impresa alla luce della miniriforma del 2015, la nuova riforma del diritto concorsuale, in AA. VV., Torino, 2015, 24; A. Farolfi, Le novità in materia di esecuzioni forzate e procedure concorsuali, Fallimento e concordato preventivo: le novità di agosto, Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Formazione decentrata di Bologna, 2015, 16.
[33] Sul punto, cfr. G. Terranova, Le procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2019, p. 606 ss.
[34] In tal senso, l’ANAC, con la determinazione n. 5 dell’8.4.2015, ha ritenuto che ciò possa configurarsi laddove nell’istanza, anche se in bianco, siano presenti taluni elementi esemplificativi della portata prenotativa del concordato con continuità aziendale.
[35] Tali ultimi rilievi vengono utilizzati da quell’orientamento che sostiene l’inconciliabilità tra i due istituti, con la conseguente inapplicabilità della deroga ex art. 186 – bis alle ipotesi di concordato preventivo in bianco, da qualificarsi, a detta di tale opzione ermeneutica, quale condizione impeditiva alla partecipazione delle gare pubbliche. Cfr., tra gli altri, Cons. St., Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 5966.
[36] Cfr. Cons. St., VI, 13.6.2019 n. 3984; Tar Piemonte, Torino, sez. II, 7 marzo 2019, n. 260.
[37] Per approfondimenti in tema, cfr. R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni dopo la legge “sblocca cantieri”, Zanichelli, Bologna, 2020, p. 748 ss.; V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), p. 834 ss.
[38] Laddove esso, anche a seguito di ricorso per l’ammissione al concordato, consente ad una impresa di poter ottenere un’autorizzazione giudiziale per la partecipazione alle gare di appalto.
[39] Come noto, la procedura di concordato “in bianco” o con riserva può sfociare non solo nel concordato in continuità aziendale, ma anche nel concordato liquidatorio.
[40] In tal senso, cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3984; TAR Piemonte, Torino, sez. II, 7 marzo 2019, n. 260; TAR, Lazio, Roma, sez. II ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[41] Tar Lazio, Roma, sez. II- ter, 22.7.2019, n. 9782.
[42] C. giust. UE, X, 28.3.2019 C-101/18, Idi srl.
[43] “Se le disposizioni normative di cui all’art. 48, commi 17, 18, 19 ter del d.lgs. n. 50/2016 debbano essere interpretate nel senso di consentire la sostituzione della mandante che abbia presentato ricorso di concordato preventivo c.d. in bianco ex art. 161, comma 6, cit. con altro operatore economico subentrante anche in fase di gara, ovvero se sia possibile soltanto la mera estromissione della mandante e, in questo caso, se l’esclusione del r.t.i. dalla gara possa essere evitata unicamente qualora la mandataria e le restanti imprese partecipanti al raggruppamento soddisfino in proprio i requisiti di partecipazione”.
[44] Tra le pronunce che accolgono la tesi estensiva, si segnalano, tra le altre, Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328; Cons. St., Sez. III, 20 marzo 2018, n. 1772; TAR Lazio, Sez. III quater, 19 settembre 2019, n. 11143; TAR Lombardia, Milano, Sezione IV, 30 dicembre 2015, n. 2877; Cons. St., Sez. VI, 3 febbraio 2016 n. 426, in dejure.it.
[45] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), p. 835.
[46] Per approfondimenti sulla tesi estensiva, si consiglia la consultazione di S. Francario, Autorizzazione alla continuità aziendale sopravvenuta in corso di gara, in l’Amministrativista, 26 febbraio 2021.
[47] Cfr. determinazione ANAC, 8 aprile 2015, n. 5.
[48] In tal senso, cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), p. 836; per ulteriori rilievi critici, cfr. anche R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni dopo la legge “sblocca cantieri”, Zanichelli, 2020, p. 746 ss.
[49] Cfr. Cons. St., Sez. III, 8 maggio 2019, n. 2963.
[50] Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffrè, 2017, p. 336 ss.
[51] Cfr. Cass. 11 agosto 2004 n. 15484, in Giust. civ. 2005, I, p. 2656 ed in Fallimento 2005, p. 92. Per approfondimenti sul tema, vedasi anche AA. VV. (M.M. Gaeta), Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di G. Fauceglia e L. Panzani, Torino Utet giuridica, 2009, p. 1645 ss. Sugli organi del concordato preventivo, cfr. A.A.V.V., (M. A. Perrino), Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Wolters Kluwer 2015, sub art. 165, p. 1968; P. Pellegrinelli; Gli aspetti processuali degli atti autorizzabili dal tribunale nel concordato preventivo, in Dir. fall. 2014, I, p. 532 ss.
[52] Trib. Verona 6 marzo 1991, in Fallimento 1992, II, p.818, con nota di M. Lazzera, vendita di azienda e concordato preventivo. Per approfondimenti anche sulle differenti concezioni, cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffré, 2017, p. 339; A.A. V.V. (M.M. Gaeta), Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di G. Faucella e L. Panzani, cit., p. 1653.
[53] Nella versione applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dal decreto – legge n. 32 del 2019.
[54] Sulla portata del principio generale del divieto di offerte condizionate, cfr. art. 72, R.D. n. 827 del 23 maggio 1994, Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato.
[55] Per approfondimenti sulla fase della presentazione delle offerte, cfr. M. Lipari, Fasi delle procedure di affidamento, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, p. 94.
[56] Cfr. Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328.
[57] Cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 22 febbraio 2021, n. 2150.
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