ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il diritto alla cura dei nati contra legem
di Alberto Gambino
Sommario: 1. I moniti - 2. Le vicende - 3. “Legami identitari” ovvero “du lien parent-enfant -4. La ricerca concreta della “soluzione ottimale”: più diritti cioè più cura? - 5. Il grande assente: il diritto del minore alla genitorialità naturale, nelle sue varianti riproduttive.
1. I moniti
Due questioni dal significativo impatto etico-sociale sono recentemente approdate davanti alla Corte costituzionale italiana, avendo entrambe quale oggetto la possibile giuridificazione della c.d. genitorialità d’intenzione. L’una è la vicenda di due uomini, sposati in Canada e uniti civilmente in Italia, che – attraverso il ricorso alla surrogazione di maternità – reclamavano lo stato genitoriale anche per l’unito civile che non aveva contribuito con il proprio gamete alla formazione dell’embrione che poi sarebbe stato generato. L’altra vicenda riguarda due donne, le quali - attraverso la pratica della fecondazione eterologa - avevano realizzato il loro “progetto procreativo”, salvo poi a separarsi e, nella crisi, rivendicare, l’una, la legittimazione esclusiva alla maternità e l’altra, l’applicazione, appunto, del principio della maternità d’intenzione.
Appare opportuno partire dalla fine e cioè dal diverso tenore dei due “moniti” della Corte.
Entrambe le decisioni si proponevano come punto centrale la risoluzione del problema relativo all’attuazione del “migliore interesse del bambino” in quelle date vicende, ponendosi il problema della rilevanza giuridica anche dell’interesse del componente della coppia che biologicamente non aveva legami con il minore. Eppure la diversità dei due rimedi per giungere alla maternità (surrogazione e fecondazione eterologa) evidentemente, nel bilanciamento di tutti i fattori in gioco – pubblici e privati – segna due decisioni di tenore diverso nel loro monito al legislatore, pur deponendo entrambe per l’inammissibilità delle questioni[1].
Nel caso della nascita per surrogazione di maternità, auspica il primo Giudice delle leggi (sentenza n. 33/2021): “Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.
Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore” [sottolineatura nostra].
Nel caso della nascita con fecondazione eterologa, con maggiore enfasi e perentorietà il secondo Giudice delle leggi (sentenza n. 32/2021), ammonisce: “Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale. […] Nel dichiarare l’inammissibilità della questione ora esaminata, per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario, questa Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia”[sottolineatura nostra].
Le vicende di madre e padre intenzionali, dunque, sembrano essere meritevoli di un trattamento non omogeneo, almeno a stare dal monito che le riguarda, più determinato per la prima, più prudente per la seconda. Come si vedrà in seguito, anche i suggerimenti della Consulta de iure condendo assumono contenuti solo parzialmente sovrapponibili.
2. Le vicende
Il caso dei due uomini (sentenza n. 33) origina da un’ordinanza della prima sezione civile della Corte di Cassazione (29 aprile 2020)[2], con cui si solleva - con riferimento a più articoli della Carta costituzionale (artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma) e a una serie di disposizioni di carattere sovranazionale (art. 8 Convenzione europea dei diritti dell’uomo; artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 Convenzione sui diritti del fanciullo; art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) - questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonché di altre norme precludenti un’interpretazione conforme al c.d. “diritto vivente” del provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (“maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico (art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218; art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396).
La decisione riguarda un bambino nato in Canada da una donna “portante”, che cioè aveva consentito che nel suo utero venisse impiantato un embrione formato con i gameti di una donatrice anonima e di un uomo di cittadinanza italiana, unito in matrimonio in Canada con un altro uomo italiano – con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili.
Le autorità giudiziarie canadesi optano per la doppia genitorialità della coppia e i due uomini richiedono all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare l’atto di nascita del bambino e, in seguito al rifiuto, presentano ricorso alla Corte d’appello di Venezia che lo accoglie. La Cassazione adita dal Ministero dell’interno e dal Sindaco rimette la questione alla Consulta, pur prendendo atto che nel frattempo è stata depositata la sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, che afferma il principio secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” – trattandosi di principio di ordine pubblico a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione[3]. Nella medesima decisione si suggerisce il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia).
A detta del giudice rimettente, i contenuti costituzionali cui andrebbe incontro il divieto di riconoscimento starebbero nell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai diritti del minore al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU), nonché – con riferimento al diritto vivente cristallizzato dalla pronuncia delle Sezioni unite - negli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost.
Rilievo significativo, inoltre assumerebbe, nella prospettazione dei giudici remittenti il parere consultivo della grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 aprile 2019, con il quale si è affermato che il diritto al rispetto della vita privata del bambino, ai sensi dell’art. 8 CEDU, richieda che il diritto nazionale offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione come autentica legal parent-child relationship[4].
Nel secondo caso, il Tribunale di Padova (ordinanza del 9 dicembre 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, anche qui con riferimento a più articoli della Carta costituzionale (artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma) e a una serie di disposizioni di carattere sovranazionale (artt. 8 e 14 Convenzione europea dei diritti dell’uomo; artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9 Convenzione sui diritti del fanciullo).
In questa vicenda, la madre intenzionale di due gemelle, nate a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) – cui si è sottoposta l’allora partner della stessa – ha adito i giudici per ottenere, in via principale, l’autorizzazione a dichiarare all’ufficiale dello stato civile di essere genitore, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004, o di essere dichiarata tale dalla sentenza dello stesso Tribunale per aver prestato il consenso alla fecondazione eterologa, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge. Alla cessazione della relazione fra le due donne, infatti, l’adozione in casi particolari, di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) è risultata impraticabile, in quanto l’art. 46 della medesima legge prescrive l’assenso del genitore legale dell’adottando, che, nella specie, è stato negato.
3. “Legami identitari” ovvero “du lien parent-enfant
Come ricorda la Consulta, il principio posto a tutela del migliore interesse del minore si afferma nell’ambito della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1959 (principio 2), in cui si prevede che, nell’approvazione di leggi e nell’adozione di tutti i provvedimenti che incidano sulla condizione del minore, ai best interests of the child deve attribuirsi rilievo determinante (“paramount consideration”). Successivamente, pur in assenza di una espressa base giuridica, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricondotto all’art. 8, spesso in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, l’affermazione che i diritti alla vita privata e familiare del fanciullo devono costituire un elemento determinante di valutazione («the child’s rights must be the paramount consideration»[5], così da reclamare garanzie anche per i legami affettivi stabili con chi, indipendentemente dal vincolo biologico, abbia in concreto svolto una funzione genitoriale, prendendosi cura del minore per un lasso di tempo sufficientemente ampio[6]. A meno che un distacco si renda necessario nel suo superiore interesse, di volta in volta rimesso alla valutazione del giudice, il minore non deve essere separato dai genitori contro la sua volontà[7]. Ne è seguita l’assimilazione al rapporto di filiazione del legame esistente tra la madre d’intenzione e la figlia nata per procreazione assistita, cui si era sottoposta l’allora partner, legame, dunque, che «tient donc, de facto, du lien parent-enfant»[8].
Nel ripercorrere tali itinerari giuridico-giurisprudenziali relativi alla fisionomia progressivamente assunta dal c.d. miglior interesse del minore, la Consulta prova a fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente già espresso dalle Sezioni unite civili (adozione in casi particolari), alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore alla sua identità, che si formerebbe anche in relazione alla rilevanza del legame di filiazione. In questa direzione depongono talune decisioni della Corte di Strasburgo, a partire dal noto “caso Mennesson”, in cui si riconosce che tali legami siano parte integrante della stessa identità del bambino[9], sia quando vive e cresce in una determinata famiglia sia quando si trovi nell’ambito di una determinata comunità di affetti, peraltro riconducibile, come ricorda la Consulta, al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost.
Sta allora dentro il perimetro del “miglior interesse del bambino” che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico così da attuarsi pienamente negli ambiti dalla cura della sua salute, dell’educazione scolastica, degli interessi patrimoniali ed ereditari e, soprattutto, perché il minore sia identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte. E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale.
Vi è, dunque, violazione del diritto alla vita privata del minore il mancato riconoscimento del legame di filiazione tra lo stesso e i genitori intenzionali, proprio in considerazione dell’incidenza del rapporto di filiazione, anche di tipo sociale, sulla costruzione dell’identità personale.
La Consulta ritiene, in buona sostanza, che sia preferibile per il minore cristallizzare giuridicamente entrambi i legami genitoriali, anziché ridurli esclusivamente dentro il solo già “legittimo”, così recependo il modello tradizionale della bi-genitorialità, che tuttavia affonda le radici nella differenziazione sessuale e, dunque, naturalmente procreativa della coppia. Dunque, un nuovo modello di bi-genitorialità sociale che mima quello naturale, senza tuttavia porsi il problema ben più profondo del perché nel modello naturalistico i genitori siano due e soltanto due.
4. La ricerca concreta della “soluzione ottimale”: più diritti cioè più cura?
La Consulta si mostra pienamente consapevole che il principio del best interest of the chiald non possa essere strumento interpretativo astratto – anche per la difficoltà di rappresentazione da parte del vero e unico titolare, il minore appunto – ma vada applicato modulandolo nella concretezza della vicenda data. Si invoca così il principio della ricerca della “soluzione ottimale” in concreto per l’interesse del minore, «quella cioè – secondo il magistero della Consulta - che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”» [10] . Là dove, la cura della persona implica, in senso estensivo, anche il più ampio esercizio dei diritti e, correlativamente, la più estesa doverosità soggettiva delle pretese giuridiche rivendicabili. Dunque, non solo un problema di “qualità” dei diritti ma anche di “quantità”. Pertanto – anche per confutare la prospettiva adultocentrica, che pur si affaccia nelle due decisioni della Corte – si precisa che nelle vicende della genitorialità d’intenzione non sarebbe in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino, bensì l’interesse del minore a che sia affermata in capo ai genitori intenzionali la titolarità giuridica di “quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi”. In questo senso, la Consulta afferma che l’interesse del minore non possa ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”: “laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata” (Sentenza n. 33, sottolineatura nostra). Afferma ancora la Corte, nello stesso caso della procreazione per surrogazione di maternità: “Non v’è dubbio, in proposito, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita […] da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata” (Sentenza n. 33, sempre sottolineature nostre).
Merita allora approfondimento la locuzione “eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”.
Nel caso della surrogazione, la Consulta, infatti, riconosce che l’interesse del bambino non possa essere considerato sempre prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco, dovendosi avere presente che in tema di diritti fondamentali, la prevalenza assoluta di uno di essi sugli altri comporterebbe la “tirannide” “nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sentenza n. 85 del 2013).
Correttamente la Consulta ricorda che gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore (sentenza n. 33). Il bilanciamento tra gli interessi del bambino e la legittima finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera illegittima e anzi meritevole di sanzione penale appare complesso (la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 2017 ha affermato, con parole forti, che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”). Resta però ferma la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.
Altro è il divieto di trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”, divieto funzionale allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi. Altra è la necessità che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati.
In altri termini, da un lato – stante la gravosità della vicenda di una maternità in surrogazione – la Corte non mette in alcuna discussione i possibili legami giuridici con la madre portante, ma, allo stesso tempo, dà per acquisito che il diritto alla genitorialità sociale dei genitori committenti corrisponde pienamente – potremmo dire senza ombra di discussione – all’interesse del minore. Eppure qui, anche soltanto in chiave logico-argomentativa, più di un ombra si riscontra. Delle due l’una: o si accetta che – stante l’impossibilità dichiarata di recidere i potenziali legami giuridici con la donna portante (unica madre del resto per il nostro ordinamento) – i genitori allora ben potrebbero essere tre, con buona pace della mimesi della bi-genitorialità anche nelle vicende che ci riguardano, con il corollario nevralgico di capire poi se ancora esista il best interest of the child in ipotesi di trigenitorialità; oppure ci si deve arrestare e con onestà intellettuale, capire che tale nodo è ineludibile.
Nodo che invece viene agevolmente sciolto nell’altra vicenda della eterologa. In questo caso, infatti, l’elusione del limite stabilito dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004, (accesso alle sole coppie di sesso diverso) come già detto, “non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali” (sentenza n. 32), non ritenendosi configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina.
La Corte richiama altresì la riforma del 2012 e del 2013, in tema di filiazione, che pone al centri i diritti del minore e la responsabilità genitoriale, che, tuttavia, come ricordato proprio sulle pagine di questa Rivista, “si tratta di situazioni che non possono essere poste sullo stesso piano al fine di invocare una presunta violazione del principio di uguaglianza e di unicità dello stato di figlio” [11].
5. Il grande assente: il diritto del minore alla genitorialità naturale, nelle sue varianti riproduttive
Il contenuto delle due decisioni della Consulta muove, dunque, da un assunto apparentemente granitico: che vi sia assoluta necessità di riconoscimento giuridico del “legame” tra il minore e il convivente non genitore naturale. A deporre per la corrispondenza “logica” tra tale urgenza e una piena tutela dell'interesse del minore si richiama, in questo senso, l’obiettivo di dare attuazione ai diritti fondamentali del generato. L’indagine analitica dei percorsi giurisprudenziali e normativi affrontati dalle due decisioni della Consulta non si occupa, però, di un’altra prospettiva altrettanto meritevole: l’incidenza, anche nelle vicende affrontate dalla Corte, del diritto del minore alla genitorialità naturale. Ne emerge un quadro parziale, dove, accanto all’apprezzamento per l’esaustività dei richiami favorevoli alla tesi condivisa dalla Consulta non può che accostarsi un rilievo per una certa lacunosità rispetto all’assenza di una riflessione, anche critica, dei contenuti di bisogni ed esigenze di tutela del minore connessi con il tema della genitorialità biologica.
Occorre, infatti, osservare che il paradigma costituzionale della genitorialità naturale ha una sua profonda ragione d'essere, proprio nella cristallizzazione delle prerogative che comporta nel mondo giuridico il legame biologico tra figlio e genitore. Così come le argomentazioni delle Corti hanno radicato la tutela del legame sociale tra genitore di volontà e minore nel diritto all'identità del generato e alla responsabilità del genitore sociale, identiche premesse possono essere richiamate per dare fondatezza alla rilevanza della genitorialità naturale.
Un punto di osservazione maggiormente realistico, che abbia di mira la tutela del generato, non può in effetti trascurare a priori il legame naturale e biologico tra due esseri umani.
Si rifletta sui temi della salute e della cura, specie laddove sia necessario per motivi di cura risalire all'identità sanitaria del genitore; si pensi al diritto, consolidato, di ciascuna persona a le proprie origini biologiche; si pensi - e qui il discorso si fa particolarmente complesso - al significato esistenziale/collettivo che assume la presa d’atto che soltanto la generazione biologica è in grado di assicurare discendenza all’umanità. In altri termini, non si può evadere il quesito di senso che reclama la precondizione della genitorialità biologica e ridurla a fattore “esterno” da rimuovere per cedere il passo dinnanzi a nuove esigenze di garanzia di legami sociali e affettivi tra le persone. D’altro canto, anche il principio dell’autoresponsabilità, nei termini di libertà procreativa, non può restare immune da valutazioni ma richiede l’approfondimento del significato umano e sociale del fatto del generare una persona umana.
Efficacemente, c’è chi, in effetti, ravvisa proprio nella prospettiva naturalistica della genitorialità biologica uno straordinario potenziale emancipatorio da talune deformazioni insite nella assolutizzazione del solo legame sociale proprio in casi pregni di conflittualità tra genitori sociali, naturali e conviventi[12].
Cosa accadrebbe, infatti, se la madre portante volesse trattenere il generato con sè? Cosa prevarrebbe, in questo caso, l’accordo negoziale – come accade nei Paesi che ammettono la maternità surrogata – o, appunto, il diritto inalienabile ad essere riconosciuto genitore del soggetto nato; per converso, quest’ultimo potrà reclamare la maternità del genitore naturale? E, ancora, nel caso di una fecondazione eterologa, praticata da una coppia di donne, davvero non ha alcuna rilevanza giuridica la figura del donatore del gamete?
Si tratta solo di alcuni tra i tanti quesiti ineludibili che il giudice delle leggi avrebbe potuto/dovuto affrontare per dare maggiore compiutezza ai ragionamenti sviluppati. Con ciò non si vuole certo affermare che non abbiano rilevanza fatti relazionali socialmente riconosciuti e radicati nella vita del minore. Così come, nei casi concreti, non si può non rimarcare che il migliore interesse del minore consista perlopiù nel restare nell’alveo della coppia sociale e non invece esservi sottratto per un successivo inserimento, nell’ambito della procedura adottiva, in una famiglia nuova.
Ora, la soluzione concretamente segnalata dalle Sezioni unite cioè il ricorso alla disciplina dell’adozione in casi particolari aveva il merito di sottoporre al vaglio giudiziale, nell’ottica del concreto interesse del minore, la rilevanza giuridica del legame con il genitore intenzionale, pur con l’effetto di una certa sopravvalutazione, come detto, della ineludibilità di una sua formalizzazione, quasi che ciò abbia la capacità taumaturgica di cancellare la realtà delle cose. A ben vedere, è proprio dal bilanciamento degli interessi in gioco - cui non può essere a priori escluso quello connesso alla genitorialità naturale - che si può giungere alla migliore soluzione a tutela dell’effettivo interesse del minore nella concretezza della realtà data. In questa direzione, proprio i diversi strumenti dell'autonomia privata potrebbero offrire contributi significativi, evidenziandosi peraltro come nelle attuali evoluzioni della materia del diritto di famiglia la mancanza di formalizzazione normativa dei legami affettivi e sociali non implichi affatto assenza di garanzie per la tutela di una loro continuità.
Quanto agli strumenti giurisdizionali che l’ordinamento appresta per dare attuazione al diritto/dovere del genitore d’intenzione, la soluzione del possibile ricorso all’adozione in casi particolari, ritenuto esperibile dalle Sezioni unite civili, come detto, appare ai giudici costituzionali non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati. La necessità dell’intervento legislativo discende dalla constatazione che l’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante, limita i vincoli di parentela con altri ascendenti e collaterali e, soprattutto, implica il necessario assenso del genitore “biologico” [13]. La Consulta, dunque, suggerisce, in via esemplificativa ed alternativa – almeno nella vicenda della fecondazione eterologa - una possibile “riscrittura” delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione “sociale”, lasciando il doveroso margine di apprezzamento al legislatore. L’indicazione è solo apparentemente “aperta”, in quanto sembra davvero arduo riscrivere le previsioni in materia di riconoscimento, se non assegnando in definitiva un problematico (per quanto sin qui detto) diritto allo status anche nei confronti del committente privo di legame biologico.
Nel caso della surrogazione di maternità, la Consulta fa invece riferimento ad una disciplina genericamente “più aderente alle peculiarità della situazione in esame”, rispetto alla quale, occorre tenere presente che, in vista della migliore e concreta realizzazione dell’interesse del minore, non può però eludersi, anche qui, un vaglio giudiziale della reale consistenza del rapporto de facto col partner del genitore. Nell’interpretazione e nella valorizzazione dell’effettivo legame sociale tra il minore e il genitore d’intenzione, un prudente vaglio giudiziale appare in definitiva più coerente con la pluralità degli interessi in gioco e il loro diverso atteggiarsi nelle vicende concrete.
In questa prospettiva potrà eventualmente valutarsi anche la rilevanza di un diritto del generato alla genitorialità naturale e l’esigenza ad esso sottesa di garantire il significato personalistico della generazione umana.
Del resto, anche ove si riconosca un rapporto col genitore biologico, potrà essere comunque garantita la continuità del rapporto de facto col committente privo di legame biologico senza dar corso alla sua formalizzazione.
Certamente entrambe le decisioni della Consulta intendono ampliare l’orizzonte dei diritti per il minore. Ma mentre nel caso della fecondazione eterologa la Consulta richiama – pur con i limiti e le critiche espresse – anche possibili soluzioni pienamente legittimanti della formalizzazione di uno status, gli stessi esiti sono prudentemente taciuti nel caso della surrogazione di maternità.
Il disvalore sociale e costituzionale tra le due vicende è evidente. Nessuna di esse supera la barriera dell’ammissibilità, ma soltanto il caso dell’eterologa la dinamica legame-identità-migliore interesse reclama – nelle espressioni della Corte - una soluzione forte.
Oltre alla differente gravità delle violazioni delle norme previste dalla legge nei due casi, non si può a questo punto non osservare che si tratta di due fatti generativi che proprio in termini di rilevanza dell’ ”altro” legame con il genitore naturale, mostrano disomogeneità. E ciò perché il concetto di legame è più profondo di quello che appare anche nella sua dimensione di corporalità.
Nel caso della donazione di un gamete presupposto dell’eterologa, ci si spoglia della genitorialità ancor prima di avere acquisito un “legame” con il nascituro; diverso è, invece, il caso della surrogazione. Ci sono nove lunghissimi mesi in mezzo. Adriano Ossicini, padre della psicologia italiana, ha scritto volumi sulla rilevanza di un profondissimo legame non solo fisico ma addirittura psicologico del generato all’interno del grembo materno nel periodo della gravidanza[14].
La Consulta non azzarda esiti formalmente legittimanti alla genitorialità d’intenzione praticata con la tecnica della maternità surrogata, arrestandosi davanti all’intuitivo disvalore sociale della pratica vietata e pesantemente stigmatizzata. Forse, se avesse scavato più a fondo sulle ragioni ultime del disvalore penalistico della norma avrebbe rintracciato, oltreché ragioni deprecabili di sfruttamento di donne indigenti, anche un altro strettissimo legame biologico-esistenziale che si attiva tra la madre e il feto, certamente di qualità diversa rispetto al legame solo e puramente genetico tra il donatore del gamete e il generato.
[1] Afferma Renda in La surrogazione di maternità tra principi costituzionali ed interesse del minore, nota a Cass., 11 novembre 2014, n. 24001, pubblicata, tra l’altro, in Corr. giur. 2015, 481, che «la surrogazione di maternità destabilizza il sistema, violando principi fondamentali, assai più della donazione di ovociti».
[2] Il testo dell’ordinanza è pubblicato in Fam. e dir., 2020, 675 ss., con note di G. Ferrando, I diritti del bambino con due papà. La questione va alla Corte costituzionale e di G. Recinto, Un inatteso “revirement” della Suprema Corte in tema di maternità surrogata; in Corr. giur., 2020, 902 ss., con nota di U. Salanitro, L’ordine pubblico dopo le Sezioni Unite: la Prima Sezione si smarca… e apre alla maternità surrogata. Cfr. anche G. Luccioli, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione?, in questa Rivista (22 maggio 2020).
[3] Per tale sentenza, si vedano: Fam. e dir., 2019, 653 ss., con note di M. Dogliotti, Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri e G. Ferrando, Maternità per sostituzione all’estero: le Sezioni Unite dichiarano inammissibile la trascrizione dell’atto di nascita. Un primo commento; Nuova Giur. Civ. Comm., 2019, 737 ss., con nota di U. Salanitro, Ordine pubblico internazionale, filiazione omosessuale e surrogazione di maternità; Giur. it., 2020, 543 ss., con nota di A. Valongo, La c.d. “filiazione omogenitoriale” al vaglio delle Sezioni unite della Cassazione. Si legga anche G. Luccioli, Qualche riflessione sulla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019 in materia di maternità surrogata, in GenIUS, 2020 (www.articolo29.it, 23 maggio 2020).
[4] Per il testo dell’Advisory Opinion v. Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 757 ss., con nota di A. G. Grasso, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre intenzionale.
[5] Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 novembre 2002, Yousef contro Paesi Bassi; sezione prima, sentenza 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, paragrafo 133: «Bearing in mind that the best interests of the child are paramount in such a case»; grande camera, sentenza del 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 95: «the best interests of the child must be of primary consideration»).
[6] Corte EDU, sezione prima, sentenza del 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, paragrafo 66.
[7] Corte EDU, grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 207.
[8] Corte EDU, sezione quinta, sentenza 12 novembre 2020, Honner contro Francia, paragrafo 51.
[9] Corte EDU, sentenza 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia, paragrafo 96. Cfr., anche, l’altra sentenza “gemella” Labassee contro Francia, paragrafo 75.
[10] Sentenza n. 11 del 1981 (con richiami all’art. 30 Costit); ed è stato ricondotto anche all’art. 31 Costit. dalle sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014).
[11] M. Bianca, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020.
[12] L’itinerario prescelto è svolto da E. Bilotti, L’adozione semplice del figlio del convivente (dello stesso sesso), nota a Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Nuovo Diritto Civile, 2016, 91 ss..
[13] M. C. Venuti, Le sezioni unite e l’omopaternità: lo strabico bilanciamento tra il best interest of the child e gli interessi sottesi al divieto di gestazione per altri, GenIUS, 2020, 17.
[14] Ex multis, da ultimo, ne La Rivoluzione della psicologia, 2008.
La discrezionalità amministrativa nel reato di abuso d’ufficio (note su Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Il rischio dell’esposizione alla responsabilità penale. - 2. Le riforme. - 3. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p.. - 4. La Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442. - 5. Che cosa vuole colpire la norma?
1. Il rischio dell’esposizione alla responsabilità penale
Il reato di abuso di ufficio rappresenta terreno di scontro che nel corso dei decenni ha creato alcune tensioni tra il legislatore e la giustizia penale. Vi è un’oggettiva difficoltà nell’individuare l’esatta articolazione del profilo strutturale di questo tipo di reato considerato “a maglie larghe”.
L’analisi richiede un approccio per certi versi interdisciplinare, poiché vi è una non definita tensione tra ciò che può considerarsi disvalore penale e ciò che rientra nell’illecito amministrativo[1]. Tuttavia, in certi casi l’approccio interdisciplinare non ha giovato e ha portato a soluzioni diametralmente opposte rispetto a quelle che il legislatore dell’art. 323 c.p. ha voluto attuare nelle quattro riforme che si sono susseguite.
Ciò che si coglie dalla lettura di alcune posizioni è la tendenza di identificare l’abuso con il semplice eccesso di potere e con alcune delle sue figure sintomatiche. Sul punto sembra che vi sia una scarsa convergenza che rischia di portare verso una “contrapposizione di paradigmi operativi differenti nel medesimo contesto d’azione”. Su quest’aspetto, la dottrina amministrativistica nota come rispetto alle linee evolutive del diritto amministrativo il diritto penale si presenta “estraneo, indifferente, distante: il diritto penale sembra semplicemente muoversi su un piano diverso. Le due dinamiche non si incrociano. E in questo contesto il giudice penale rischia oggettivamente di essere un ruolo di sbarramento, o quantomeno di ostacolo, sulla via della riforma amministrativa”[2].
Sul fronte legislativo invece accade che ciclicamente il legislatore di fronte all’eccessiva apertura della giurisprudenza penale interviene con riforme c.d. difensive e cerca di restringere l’area della punibilità.
L’eccessiva area di punibilità o di mero sospetto di punibilità ha comportato in capo ai funzionari pubblici la paura della firma fino ad arrivare alla creazione di una figura di amministrazione distorta che, da attiva, ha assunto la connotazione di amministrazione difensiva. Questo fenomeno ha comportato in capo al pubblico amministratore una posizione di immobilismo dovuto all’eccessiva, e per certe volte giustificata, prudenza[3].
Una simile disputa si è posta anche sul versante del danno erariale avanti alla Corte dei conti. Sono note le limitazioni della responsabilità alla sola colpa grave, l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali (cfr. art. 1, l. n. 20/1994), la limitazione dei danni all’immagine con il “lodo Bernardo”: tutti aspetti che avevano suscitato la reazione della giurisprudenza contabile che ha cercato di ridefinire il concetto di gravità nella colpa e, con riferimento al danno all’immagine, ha cercato di elaborare una nuova figura di danno alla reputazione. La stessa norma che ha rivisto l’abuso d’ufficio ha ora circoscritto la responsabilità erariale “oltre la colpa” attestandosi (in certi casi e per un periodo) sul solo dolo (cfr. art. 21 commi 1 e 2, d.l. 76/2020 conv. in. l. n. 120/2020).
Il timore della responsabilità erariale, penale o disciplinare indubbiamente può fungere da freno nell’azione del dipendente o del funzionario. Ciò non significa però che chi rifugge ha la coscienza sporca ma spesso ha timore o paura di decidere. Va anche considerato l’importante numero di procedimenti avviati per abuso d’ufficio in un contesto interpretativo della norma tale da arrivare ad utilizzare l’espressione “abuso dell’abuso d’ufficio”. In effetti, va notato che il numero dei procedimenti avviati per questo tipo di reato e quelli conclusi con una condanna,evidenziano un divario che è stato definito apparentemente paradossale ed è stato contabilizzato all’incirca da uno a cento[4]. Statisticamente la percentuale dei procedimenti che si chiudono con una condanna è esigua. È da dire che la “paura della firma” non discende tanto (solo) dal fatto di essere condannati, ma deriva dal rischio di subire il discredito sociale connesso alla semplice possibilità di essere sottoposti ad indagini, a perquisizioni, a sequestri, a interrogatori e all’ancora più temuto clamore mediatico e istituzionale. A questo si aggiunge il fattore tempo: l’ulteriore timore è dato dalla eccessiva durata dei processi e dalle conseguenze che ne derivano deriverebbero sulla carriera durante la pendenza del procedimento, potendo la durata rappresentare un valido strumento di eliminazione del pubblico amministratore o del politico rispettivamente dall’arena burocratica o politica[5].
2. Le riforme
Le riforme che si sono succedute nel corso dei decenni sono state essenzialmente improntate a porre un argine all’asserita “ingerenza” della magistratura penale nell’attività del pubblico amministratore che agisce nell’ambito dei poteri discrezionali. Tuttavia i vari tentativi sono falliti in quanto se dopo un primo arresto in cui si prendeva atto delle modifiche normative sul sindacato giudiziale ben presto si assistette a una inversione di rotta che in sostanza e per molti versi riportava la figura alle originarie previsioni. Le ragioni possono essere molteplici (o nessuna): qualche sintomo si rinviene nell’inadeguata tecnica normativa, nello sbilanciamento dovuto alla rivisitazione e abrogazione di altre fattispecie delittuose che hanno ribaltato le aspettative sull’abuso d’ufficio, nello scontro e nella resistenza ideologica alle trasfigurazioni dell’istituto, nella personalizzazione della fattispecie, nell’eccessiva confusione tra illegittimità amministrativa e illiceità penale, tanto da poter dire che nulla è cambiato.
Il volto dell’articolo 323 c.p. è stato rimodellato per ben quattro volte ed è passato da clausola di riserva assolutamente indeterminata secondo il testo nella versione del codice Rocco che poteva essere applicato soltanto in difetto di una qualsiasi altra norma incriminatrice, poiché questa fattispecie criminosa era inserita tra il peculato per distrazione (art. 314 c.p.) e l’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p.). In tale contesto l’art. 323 c.p. ebbe una vita abbastanza equilibrata salvo alcune posizioni della giurisprudenza sui casi più eclatanti come lo “scandalo delle banane” degli anni Sessanta del precedente secolo[6].
Già nella versione iniziale dell’articolo 323 c.p. si poneva la questione dei confini tra giurisdizione penale e attività amministrativa che essenzialmente si identificavano, forse in modo non del tutto corretto, nella cognizione del giudice penale dell’atto amministrativo attraverso lo strumento della disapplicazione di cui all’art. 5 l. n. 2248/1865. Si poneva, infatti, il problema che poi si trascina fino ai giorni odierni, del rapporto tra l’illegittimità amministrativa e illiceità penale creando delle prospettive sostanzialmente illusorie.
Vi fu una prima riforma del 1990 (l. n. 89/1990) che aveva rivisto l’assetto originario soprattutto in funzione della riforma del reato di peculato e dall’abrogazione dell’interesse privato in atti d’ufficio. Se inizialmente l’art. 323 c.p. rappresentava un’ipotesi residuale di due fattispecie criminose ben definite in un successivo momento quest’articolo assunse una funzione diversa per così dire volta a colmare il vuoto che si era creato a seguito dell’abrogazione e modifica delle citate figure delittuose. La riforma del 1990 stravolse completamente la norma trasformando l’abuso di ufficio in una figura ampia, idonea a inglobare un numero indeterminato di condotte. Si ritiene, infatti, che in qualche modo fossero inglobate quelle fattispecie che prima rientravano nella figura criminosa del peculato per distrazione, della malversazione a danno di privati e che con la riforma del 1990 furono inserite nell’articolo 323 c.p..
Nel 1997 con l. n. 234/1997 vi fu un’altra rivisitazione improntata essenzialmente a prevenire le forzature giurisprudenziali che avevano portato “ad abbassare i confini”[7]. La versione del 1997 risultava caratterizzata dalla necessaria violazione di legge o di regolamento,oppure dell’inosservanza di un obbligo di astensione e dalla illiceità intrinseca del danno o del vantaggio patrimoniale[8]. L’intento legislativo presupponeva che vi fosse una norma imperativa di natura legislativa o regolamentare diretta al pubblico funzionario e riferita specificatamente al tipo di attività svolta in concreto. Da qui però la riscrittura da parte della giurisprudenza penale che aveva (giustamente) notato come le distorsioni più gravi si potessero compiere proprio nell’ambito dell’attività discrezionale. In tale contesto venne riconsiderata la nozione di violazione di legge ricomprendendo nel suo alveo anche le norme di principio e conseguentemente anche la fattispecie dell’eccesso di potere che nel diritto amministrativo ha subito un importante rivisitazione passando dalla identificazione nelle figure sintomatiche alla violazione di principi generali di norme a largo spettro.
L’eccesso di potere emerge non più come vizio a cognizione indiretta, ossia la cui conoscenza si può raggiungere soltanto attraverso sintomi, ma viceversa attraverso un tipo di cognizione analoga alla violazione di legge[9]. In tal modo diversamente dal dato letterale voluto dal legislatore, sintomatica sul punto fu la giurisprudenza penale[10] secondo la quale “ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione”.
In effetti, il punto di scontro stava proprio nel fatto che l’intento del legislatore del 1997, come emerge dai lavori preparatori, è dato dall’esclusione dell’eccesso di potere dall’ambito di rilevanza dell’abuso d’ufficio e alla definizione della condotta tipica circoscritta alla violazione di legge o di regolamento. La reazione della giurisprudenza fu di segno diverso, come appena notato. Non di meno nel diritto amministrativo la differenza tra eccesso di potere e violazione di legge deriva, per la violazione di legge, dall’inosservanza di regole scritte e puntuali ,mentre l’eccesso di potere presuppone che la disciplina violata si ricavi dai principi i quali anche se scritti in testi legislativi vanno resi regole concrete e specifiche mediante l’opera del giudice (amministrativo)[11].
Nel campo penale la violazione di legge fu letta come violazione della legalità amministrativa e nonostante lo sforzo di tipizzazione e di selezione dei fatti punibili, la fattispecie riformata nel 1997 ha continuato a riproporre le stesse problematiche iniziali della fattispecie di abuso del codice Rocco e della susseguente modifica del 1990[12].
3. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p.
Con la riforma del 2020 operata con decreto legge (d.l. 76/2020 conv. in. l. n. 120/2020) si è voluto ridurre l’ambito di applicabilità dell’abuso intervenendo sulle parole “di norme di legge o di regolamento” che sono state sostituite dalle parole “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge ed alle quali non residuano margini di discrezionalità”.
Si ricavano due parti innovative del testo.
La prima parte ci dice che non basta una violazione di norme di legge o di regolamenti ma deve trattarsi di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da altro atto avente forza di legge ,esplicitando l’idea che debbono assumere rilevanza alle sole norme precettive.
La seconda parte esclude ogni rilevanza ai fini di integrazione del reato al vizio di eccesso di potere, prevedendo che dalla norma violata non debbano rimanere margini di discrezionalità in capo al soggetto agente.
Dalla nuova formulazione normativa ne emerge un ambito applicativo ristretto rispetto a quello definito con la precedente versione. Qui, in effetti, si apre il dibattito sulla portata della norma sul riformato reato di abuso d’ufficio, in quanto a prima vista parrebbe che si è siavoluto eliminare dal panorama dell’illecito penale l’uso distorto dei poteri discrezionali del funzionario pubblico verso fini privati[13].
Le reazioni della dottrina sono state di vario tipo tanto che il legislatore è stato definito “schizofrenico”[14], “frettoloso e maldestro”[15] e la nuova variante è considerata un esempio di “assurdità legislativa”[16] avendo il legislatore “ribattuto lo stesso chiodo impiantato nel 1997” prevedendo le specificazioni che potrebbero dar luogo un “reato legislativamente impossibile”[17] o a una “incriminazione fantasma”[18]. Altra dottrina ravvisa invece la soluzione della soppressione della norma e la sua sostituzione con delle fattispecie più determinate e precise[19]. Questa soluzione era già stata proposta della commissione Morbidelli la quale prevedeva tre diverse fattispecie incriminatrici che descrivevano tipiche forme di condotta di abuso. In tal modo si cercava di dare i caratteri di determinatezza a un reato che, come abbiamo visto ,si presta a rischi di lettura troppo espansive. La proposta che poi non ha avuto seguito a ridosso delle precedenti riforme aveva l’obiettivo di svincolare la condotta dalla rilevanza penale dell’illegittimità dell’atto amministrativo e quindi dell’eccesso di potere nella forma dello sviamento prevedendo tre figure: la prevaricazione la cui caratteristica è la non venalità, il favoritismo affaristico e, infine, lo sfruttamento privato dell’ufficio secondo la falsariga dell’infedeltà patrimoniale dell’art. 2634 c.c. previsto per i reati societari.
Aldilà di queste reazioni è comunque da notare che la giurisprudenza ha già da tempo avvertito la necessità di circoscrivere l’ambito delle norme di legge rendendosi conto della necessità di garantire la determinatezza della fattispecie penale. In tal senso è stato previsto che non deve trattarsi di norme generalissime o di principio, nemmeno di norme strumentali alla sola regolarità del servizio pubblico e nemmeno norme veramente procedimentali salvo che siano specificatamente puntualmente finalizzate a disciplinare la condotta dell’agente[20].
In sintesi nel panorama giurisprudenziale e dottrinale si possono ravvisare tre posizioni.
Una prima posizione esclude che l’eccesso di potere, in qualsiasi sua forma, debba rilevare ai fini della configurabilità del reato.
La tesi opposta attribuisce rilevanza penale dell’eccesso di potere tout court (sia intrinseco che estrinseco): l’esercizio arbitrario del potere discrezionale, pur in assenza di una violazione formale, deve poter essere comunque sindacabile.
Vi è ovviamente la posizione intermedia che limita la rilevanza penale ai casi di eccesso (o sviamento) di potere c.d. estrinseco, ritenendo che possano assumere rilievo penale solo i casi in cui l’esercizio del potere discrezionale conduca al soddisfacimento di un interesse del tutto estraneo al modello giustificativo del potere stesso.
Sul punto dei limiti esterni e interni alla discrezionalità amministrativa si è aperto un dibattito che parte dai limiti interni ed esterni elaborati dalla giurisprudenza che si riferiva essenzialmente alla giurisdizione per poi riprendere i limiti elaborati da Giannini[21] e rivisti da altri Studiosi. Il tema è complesso ed è difficile fornire un criterio distintivo tra i due tipi di limiti. Va però considerato l’assunto che l’eccesso di potere non è solo (e tanto) una figura composita (come usualmente era considerata) ma “contiene in sé ipotesi di violazioni a cognizione null’affatto sintomatica che avrebbero da tempo aver trovato uno spazio autonomo e una collocazione diversa nella sistemazione dei vizi provvedi mentali”[22].
L’esempio più significativo è dato dallo sviamento di potere. Lo sviamento di potere “implica, infatti, la valutazione dei vincoli funzionali imposti all’amministrazione: si tratta di stabilire se lo scopo concretamente perseguito con il provvedimento è quello voluto dalla legge o uno scopo diverso”. Inoltre, esso “involge un’operazione valutativa delicatissima che può arrivare sino all’accertamento delle intenzioni effettive dell’amministrazione o dei suoi agenti (…)”[23].
La giurisprudenza penale intende lo sviamento del potere in modo leggermente diverso ovvero come una sorta di strumentalizzazione dell’ufficio per fini personali ovvero per fini egoistici e quindi uno sfruttamento che porta a fuoriuscire dalle finalità pubbliche per le quali quel potere è stato attribuito[24].
4. La Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442
A tracciare una prima linea interpretativa vi sono le prime sentenze della Cassazione intervenute su fatti anteriori la riforma e hanno attestato la retroattività della riforma intervenendo con la formula “perché il fatto non costituisce più reato”[25].
Significativa è la sentenza della Cassazione n. 442/2021 che interviene sul nuovo art. 323 c.p. e che identifica “la ragion d’essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l’art. 323 c.p. (…) nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’art. 97 Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità”.
La Cassazione ci fornisce alcune indicazioni iniziali su ciò che completa la nuova fattispecie incriminatrice. Si legge che: “La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa”.
Essa ha, infatti, ritenuto di non confermare la responsabilità dell’imputato perché, alla luce della riforma, risulta assente nella sua condotta alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non presidiano margini di discrezionalità. In tal modo essa afferma che può assumere rilievo solo la violazione di norme primarie di legge o assimilate.
L’altro aspetto importante è la “specificità della violazione”, infatti, la sentenza prevede che assumono rilievo norme di condotta “specificatamente disegnate in termini completi e puntuali”[26]. E pertanto “di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto”.
Per quanto riguarda i profili di discrezionalità la Cassazione esclude dall’ambito del penalmente rilevante le condotte alla cui base vi è l’esercizio di un potere discrezionale che sottende la possibilità di una scelta di merito, effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi in gioco, pubblici e privati.
Tuttavia, e questo è l’aspetto importante, la Corte precisa che l’irrilevanza penale dell’esercizio di un potere discrezionale trova un limite quando tale esercizio non trasmoda “in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi”.
Su questo la Cassazione ulteriormente specifica facendo una distinzione tra limiti esterni e limiti interni della discrezionalità amministrativa prevedendo la persistenza del rilievo penale del provvedimento che viola i limiti esterni della discrezionalità. Questo è l’aspetto che in qualche modo salva il significato della norma e non genera com’è stato definito dalla dottrina un reato impossibile. La sentenza indica uno spazio di operatività e fornisce una (prima) soluzione di applicabilità intertemporale evidenziando come “in linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Con il lineare corollario per cui all’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, consegue nei processi in corso il proscioglimento dell’imputato, con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”[27].
5. Che cosa vuole colpire la norma?
La nuova formulazione della norma ridimensiona molto lo spazio che aveva assunto questo reato che, essendo caratterizzato da condotta indeterminata o fluida, si prestava a facili ampliamenti (anche prima, forse, non consentiti dalla formulazione ex ante vigente).
In sostanza, cosa vuole colpire la norma?
Tutti quei comportamenti - ben individuati e predeterminati dalla legge, in situazioni in cui non vi è un potere di scelta tra varie opzioni tutte “possibili” (uso questo termine, senza addentrarmi tra opzioni legittime, ma magari inopportune, o opportune, ancorchè non del tutto legittime, perchè questo presuppone un ulteriore approfondimento concettuale), quindi in cui l’attività è vincolata, laddove l’agente usi il potere che la legge gli ha attribuito per un fine diverso da quello indicato dalla norma stessa, quindi nelle ipotesi classiche di sviamento, cioè di volontà (che nello sviamento, non va dimenticato, è volontà procedimentale, non psicologica, con tutte le conseguenze del caso) deviata dal suo fine predeterminato.
Riguardo alle due parti innovative della riforma: a) il comportamento e la sua fonte e b) la discrezionalità, si nota quanto segue.
Analizzando il testo dell’art. 323 c.p. e mettendo a confronto due passaggi: le “specifiche regole di condotta” e l’”espressamente previste dalla legge”, va fatta una notazione sulla fonte della violazione comportamentale. Com’è noto spesso la legge non contiene “specifiche regole” e ciò accade per ragioni di delegificazione o perché è “fisiologico” che sia la fonte subprimaria a disciplinare nel dettaglio[28]. Si immagini i concorsi universitari e il rinvio della legge ai regolamenti dei singoli atenei oppure all’ambito ambientale o urbanistico che rinvia ai regolamenti o agli atti amministrativi generali.
La soluzione alla questione dell’estensione agli atti subprimari molto dipenderà dalle posizioni giurisprudenziali: infatti, in questo periodo intertemporale è interessante leggere i provvedimenti di archiviazione e le sentenze di merito. Se si va oltre il dato letterale e si qualificano gli atti secondari come presupposti della legge, è plausibile anche sostenere che si viola la legge violando l’atto secondario. Tesi potenzialmente sostenibile nelle ipotesi di delegificazione poiché la legge attribuisce il valore normativo all’atto secondario.
Per quanto riguarda la questione della discrezionalità, dalla lettura della norma la conseguenza parrebbe ovvia: dove c’è discrezionalità (cioè potere di scelta), la rilevanza penale perciò sola verrebbe meno. Tuttavia, anche se ci sono una molteplicità di scelte (cioè quando l’agente si trova in un’ipotesi classica di discrezionalità amministrativa), la volontà dell’agente può essere deviata da interessi non tutelati da quella specifica norma. Di conseguenza, non penso rilevi tanto il fatto che l’attività sia o meno discrezionale, vincolata o predeterminata dalla norma, ma piuttosto che lo sia la finalità per cui il potere è dato: si prenda a mente l’espropriazione per pubblica utilità. Nell’espropriazione il vincolo normativo che farebbe assurgere l’atto o l’attività a fattispecie penalmente rilevante non è la vincolatezza o l’assenza della discrezionalità, ma solo del fine cui è rivolta l’attività; e nell’espropriazione il fine è dato dal fatto che non ci deve essere interferenza di interessi privati.
La Cassazione ha fatto un ragionamento pienamente condivisibile in astratto in tutti gli elementi di come la norma penale è ora strutturata a seguito della riforma e sembra portare in quella direzione[29].
In concreto però non è (sempre) così, bisogna guardare com’è strutturata la specifica norma attributiva del potere. Se la norma non stabilisce un fine specifico allora in questo caso nulla si può dire in quanto vi è discrezionalità. Se la norma stabilisce un fine specifico predeterminato e non è osservato, in quel caso occorre la fattispecie dell’abuso anche con un atto discrezionale[30].
***
[1] È stata espressa “l’esigenza di convergere su un linguaggio condiviso fra i due settori del diritto, che scongiuri la contrapposizione di paradigmi operativi differenti nel medesimo contesto d’azione, che rendono obiettivamente difficile l’esercizio della funzione o l’espletamento del servizio”, sul punto l’analisi di A. MERLO, Lo scudo di cristallo: la riforma dell’abuso d’ufficio e la riemergente tentazione “neutralizzatrice” della giurisprudenza, in Sistema penale, 1° marzo 2021. Sul tema si v. P. TANDA, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o di regolamento, in Cass. pen., 1999, p. 2121..
[2] L. VANDELLI, Riforma amministrativa e esigenza di rimodulare il ruolo del giudice penale”, in D. SORACE, Domenico, Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, Padova, 1998, pp. 513 ss; G. COMPORTI e E. MORLINO, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2019, pp. 129-187; C. CUDIA, L’atto amministrativo contrario ai doveri di ufficio nel rato di corruzione propria: verso una legalità comune al diritto penale e al diritto amministrativo, in Diritto pubblico, 2017, pp. 683-722.
[3] M.A SANDULLI, Introduzione, in Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, 13 luglio 2020, Webinar in https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8 e https://lamministrativista.it/articoli/news/webinar-abuso-d-ufficio-e-responsabilit-amministrativa-il-difficile-equilibrio-tra .
[4] Nel 2017 a fronte di oltre 6.500 cause, l'Istat ne ha contate 57 - e arrivano a distanza di anni, cfr. https://www.telemat.it/rischio-abuso-dufficio-6-500-inchieste-lanno-ma-solo-57-condanne/ e http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_CONDCRIM1, v. G.L. GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo ‘salvo intese’ (e la riserva di legge?), in Sistema Penale, 17 luglio 2020, p. 5; V. MAGLIONE, Il nuovo abuso d’ufficio non taglia i fascicoli a carico dei funzionari ma rischia di complicare le indagini, in Giustizia penale e riforme, Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020
[5] Sul concetto di abuso A. R. CASTALDO, L’abuso penalmente rilevante nel mercato economico finanziario e nella pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1-2/2018, 89 ss.; M. NADDEO, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e rischio socialmente adeguato, in L’Indice Penale, n. 2-2013, 421.
[6] T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza Penale, 2020, n. 7-8.
[7] M. NADDEO, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in A. R. CASTALDO (a cura di), Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Giappichelli, Torino, 2018, p.31 ss.
[8] G. FIANDACA, Verso una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?, in Questione giustizia, 1996, p. 319.
[9] M. D’ORSOGNA, L’invalidità del provvedimento amministrativo, in F.G. Scoca, Diritto amministrativo, Torino , 2019, p. 289.
[10]Cass. Pen. SS.UU., 29 settembre 2011, n. 155, in Cass. Pen ,2012, p. 2140.
[11] G. CORSO, Validità, in Enc. Dir., vol. XLVI, Milano 1993, p. 85.
[12] S. TORDINI CAGLI, Il reato di abuso d’ufficio tra formalizzazione del tipo e diritto giurisprudenziale: Una questione ancora aperta, In penale diritto e procedura
[13]A. D’AVIRRO, Focus, in il Penalista, I.d., Lo sviamento di potere nel nuovo reato di abuso d’ufficio: un ritorno al passato, ivi.
[14]Ibidem
[15] A. MERLO, Lo scudo di cristallo, cit..
[16]T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit..
[17]G. GATTA, “Da “spazza-corrotti a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (e la riserva di legge?)”, in Sistema penale, 17 luglio 2020.
[18] A. NATALINI, Il nuovo abuso d’ufficio il rischio è una incriminazione fantasma, in Guida al diritto, 24 ottobre 2020, 42, p. 76.
[19] S. CASSESE, Intervista, in Il Messaggero, 20 febbraio 2021.
[20] R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Questa Rivista.
[21] M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi (1939), in Scritti, 1, Milano, 2000,pp.51-56
[22] M. D’Orsogna, cit., p. 289.
[23] Ibidem.
[24] G. FIDELBO, Intervento in Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, 13 luglio 2020 Webinar in https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8 e https://lamministrativista.it/articoli/news/webinar-abuso-d-ufficio-e-responsabilit-amministrativa-il-difficile-equilibrio-tra.
[25] Cass. 25 agosto – 17 novembre 2020, n. 32174, si v. commento di G. AMATO, Una prima pronuncia che chiarisce la portata della limitazione introdotta, in Guida al diritto, 5 dicembre 2020, 48, p. 87 ss.
[26] La Cassazione sostiene che il nuovo art. 323 c.p. ha un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile: sottrae al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario, quanto il sindacato del mero “cattivo uso”, cioè la violazione dei limiti interni nelle modalità d’esercizio, della discrezionalità amministrativa.
[27] Sul punto dell’uso distorto del potere, v. G. AMATO, L’irrilevanza penale trova un limite nell’uso distorto del potere pubblico, in Guida al diritto, 6 febbraio 2021, 5, p. 99-100.
[28] A. ALBERICO, Le vecchie insidie del nuovo abuso d’ufficio Nota a Cass., Sez. VI, sent. 9 dicembre 2020 (dep. 8 gennaio 2021), n. 442, Pres. Fidelbo, Rel. Giorgi, in Sistema penale, 4, 2021, M. GAMBARDELLA, Simul Stabunt Vel simul Cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del Giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale 2020, p. 133 e ss.
[29] In effetti, l’analisi richiederebbe una approfondita considerazione non solo del versante oggettivo ma anche di quello soggettivo del giudizio di imputazione in termini di consapevolezza dell’imputazione, per un’analisi compiuta si v. A. PERIN, L’imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, in La legislazione penale, 23.10.2020in particolare pp. 36 -37.
[30] Pertanto andrebbe da dire che se la finalità è attribuita da un atto amministrativo (ad es. di tipo generale o un piano) allora sfuggirebbe all’applicabilità del nuovo art. 323 c.p.
Fissazione e applicazione delle regole del gioco in materia condominiale: la ripartizione “errata” delle spese comuni come chiave di riscrittura dell’invalidità delle delibere assembleari (nota a Cass., sez. un., n. 9839 dep. il 14/04/2021)
di Francesco Taglialavoro
Invalidità delle delibere assembleari che ripartiscono le spese comuni in violazione dei criteri legali o convenzionali: l’annullabilità “residuale” alla luce della certezza dei rapporti giuridici in ambito condominiale.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso - 3. Tre sentenza in una - 4. La nullità dell’ordinanza resa fuori udienza non comunicata (art. 176, comma 2, c.p.c.; 156, comma 3, c.p.c.) - 5. Il sindacato di validità della delibera assembleare nel giudizio di opposizione al conseguente decreto ingiuntivo stessa - 6. Nullità o annullabilità delle delibere assembleari - 7. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
È possibile sindacare la validità della delibera assembleare nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso in conseguenza della stessa? È nulla o annullabile la delibera che ripartisca le spese comuni in violazione dei criteri legali o convenzionali? Qual è il criterio generale per distinguere tra nullità e annullabilità delle delibere rese in ambito condominiale?
Muovendo dal particolare, le Sezioni unite riscrivono il sistema delle invalidità in ambito condominiale, offrendo all’interprete un nuovo criterio per distinguere tra nullità e annullabilità.
2. Il caso
L’assemblea condominiale delibera l’esecuzione di lavori di rifacimento e impermeabilizzazione del lastrico solare, imputando al proprietario esclusivo 1/3 della spesa complessiva.
Il decreto ingiuntivo, emesso sulla base di quella deliberazione, viene opposto, sostenendo, in via preliminare, la nullità del giudizio di primo grado per mancata comunicazione dell’ordinanza con la quale era stata fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni; nel merito, la nullità della delibera per violazione dei criteri previsti dall’art. 1126 c.c. (l’opponente deduce di avere la proprietà ma non l’uso esclusivo del lastrico solare).
Sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello respingono le domande, sul presupposto che la questione relativa alla validità della deliberazione non possa trovare ingresso nell’ambito del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo.
Con ordinanza interlocutoria n. 24476/19, la seconda sezione civile della Suprema Corte rileva un contrasto giurisprudenziale sulla natura dell’invalidità delle deliberazioni assembleari e sulla estensione dell’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione degli oneri condominiali.
Per comporre il contrasto e per esprimersi su una questione di massima di particolare importanza, viene quindi richiesta la pronuncia a Sezioni unite.
3. Tre sentenza in una
La sentenza annotata appare suddivisa in tre sezioni tra loro quasi autosufficienti.
Anzitutto viene trattato il profilo, logicamente preliminare, della nullità del giudizio per mancata comunicazione di una ordinanza pronunciata fuori udienza.
In seconda battuta, la Suprema Corte delinea il perimetro del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso sulla base di una delibera assembleare.
Infine, viene operata una riscrittura delle cause di nullità e annullabilità delle delibere rese in ambito condominiale, sovvertendo il precedente criterio discretivo enucleato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 4806/05.
Tutti i profili analizzati rivestono indubbia rilevanza pratica: si tenterà, dunque, una ragionata sintesi delle soluzioni proposte, col fine di orientare l’interprete in un territorio complesso la cui mappa viene, per di più, costantemente ridisegnata.
4. La nullità dell’ordinanza resa fuori udienza non comunicata (art. 176, comma 2, c.p.c.; 156, comma 3, c.p.c.)
Nella prima parte della decisione, le Sezioni unite analizzano il preliminare profilo della nullità dell’intero giudizio per mancata comunicazione dell’ordinanza – resa fuori udienza – con cui veniva fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni.
Ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c.: “le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi; quelle pronunciate fuori dell'udienza sono comunicate a cura del cancelliere entro i tre giorni successive”.
Secondo le Sezioni unite la mancata comunicazione dell’ordinanza può, in linea di principio, comportarne la nullità: ai sensi dell’art. 159, comma 1, c.p.c., tale radicale forma di invalidità importerebbe quella degli atti successivi dipendenti, sentenza compresa.
Il riferimento è a Cass. civ. n. 8002/09[1], per la quale: “la mancata comunicazione alla parte costituita, a cura del cancelliere, ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., dell'ordinanza istruttoria pronunciata dal giudice fuori udienza provoca la nullità dell'ordinanza stessa, per difetto dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, nonché la conseguente nullità, ai sensi dell'art. 159 c.p.c., degli atti successivi dipendenti”.
La regola appena esposta va però coordinata con quella di cui all’art. 156, ultimo comma, c.p.c., ai sensi del quale non può essere dichiarata la nullità di un atto che abbia comunque raggiunto il suo scopo: si tratta di una regola assai rilevante in ambito processuale, che spiega, fra l’altro, il notevole interesse pratico e teorico intorno alla figura della inesistenza[2].
Pur nel silenzio della sentenza annotata, l’interprete può agevolmente comprendere lo scopo della comunicazione imposta dall’art. 176, comma 2, c.p.c.: garantire alla parte un congruo termine per allestire le proprie difese.
Muovendo da tale implicito presupposto, le Sezioni unite ritengono infondata la censura, rilevando che il procuratore cui non fu comunicata l’ordinanza di fissazione della udienza avesse comunque presenziato alla stessa, senza chiedere termini a difesa.
La sentenza annotata, quindi, ritiene che: “quando la parte, alla quale non sia stata comunicata l'ordinanza pronunciata fuori dell'udienza, abbia egualmente, per altre vie, avuto conoscenza dell'udienza di rinvio ed abbia partecipato alla stessa, senza dedurre specificamente l'eventuale pregiudizio subito per la sua difesa a causa della mancata comunicazione e senza formulare istanze dirette ad ottenere un rinvio ad altra udienza, la nullità risulta sanata per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell'art. 156 c.p.c., comma 3, essendosi comunque conseguito lo scopo della prosecuzione del processo con la partecipazione di tutte le parti in contraddittorio tra loro”.
Possono dedursi i seguenti corollari applicativi.
Il procuratore cui non viene comunicata l’ordinanza di fissazione dell’udienza, ma che sia venuto comunque a conoscenza della stessa (ad esempio per avere consultato il fascicolo telematico) può:
1) non presenziare all’udienza: in questo caso il Giudice scrupoloso dovrebbe verificare che la propria ordinanza sia stata comunicata e, accortosi del contrario, disporre d’ufficio il rinvio dell’udienza. Se tale controllo non venisse effettuato, il procuratore assente potrebbe eccepire la nullità dell’ordinanza non comunicata e di tutti gli atti dipendenti successivi.
2) presenziare all’udienza e chiedere un rinvio, deducendo un concreto pregiudizio all’attività di difesa: in questo caso il rinvio dovrebbe essere accordato.
3) presenziare all’udienza e non chiedere un termine a difesa: in questo caso il giudizio dovrebbe seguire il suo corso.
5. Il sindacato di validità della delibera assembleare nel giudizio di opposizione al conseguente decreto ingiuntivo stessa
5.1. I precedenti giurisprudenziali
Secondo un orientamento, molto rigoroso, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di spese condominiali, la delibera assembleare potrebbe essere sindacata esclusivamente in relazione alla sua efficacia.
Il riferimento è, tra le altre, a Cass. 22573/16[3], per cui: “l’annullamento della delibera assunta dall’assemblea dei condomini, derivante dall’omessa convocazione di uno di essi, può ottenersi solo con il tempestivo esperimento di un'azione "ad hoc", non potendo tale doglianza formare oggetto di eccezione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo chiesto per il pagamento delle spese deliberate dall'assemblea medesima”.
Tale perentoria affermazione è spiegata mediante mero riferimento ad analoga statuizione resa nel 2006[4], la quale, però e a sua volta, non spiega le ragioni di tale decisione: è comunque significativo notare che, secondo la prospettazione del ricorrente, la mancata convocazione costituirebbe motivo di nullità; in tal senso il rigetto del motivo di ricorso pare suffragato da due concorrenti ragioni: i) la mancata convocazione costituirebbe soltanto un motivo di annullamento; ii) l’annullamento può essere chiesto soltanto in apposito giudizio e con il rispetto dei termini di cui all’art. 1137 c.c.
Vien da chiedersi, quindi, cosa sarebbe accaduto se fosse stata rilevata la nullità.
Soccorre, in tal senso, la decisione resa a Sezioni unite con sentenza n. 26629/09[5], con la quale si è ritenuto sottratto allo scrutinio del Giudice dell’opposizione il sindacato sulla validità della delibera[6]: anche questa decisione, però, è spiegata tramite il mero richiamo a un’ulteriore sentenza, Cass. S.U. 4421/07, che appare finalmente decisiva.
La sentenza da ultimo richiamata si occupa di definire i contorni della sospensione del giudizio per pregiudizialità, ai sensi dell’art. 295 c.p.c.
Si dia il seguente caso: l’amministratore richiede e ottiene, ex art. 63 disp. att. c.c., un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea. Il condòmino, che già aveva impugnato la delibera deducendone l’invalidità, oppone il decreto, chiedendo la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.c.
Secondo le Sezioni unite del 2007 la sospensione non è dovuta.
La Cassazione fonda tale decisione sull’indirizzo, appena illustrato, per il quale in sede di opposizione a decreto ingiuntivo (sia pure emesso ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c.) non può essere sindacata la validità della delibera.
Le ragioni, finalmente chiarite, sono in sintesi le seguenti: i) le deliberazioni condominiali, pur essendo soggette ad impugnativa ai sensi dell'art. 1137 c.c., restano vincolanti per i singoli condomini nonostante l’esperita impugnazione, salvo che il giudice di questa ne disponga la sospensione dell’efficacia esecutiva; ii) tale delibera costituisce, di per sé, prova idonea, ai fini di cui agli artt. 633 e 634 c.p.c., dell’esistenza del credito, si da legittimare non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio d’opposizione all’ingiunzione[7].
Il processo di opposizione, dunque, non potrebbe essere sospeso, avendo i due giudizi oggetti radicalmente diversi (la perdurante efficacia della delibera, per l’opposizione; la validità della stessa, per l’impugnazione): la tutela dell’opponente sarebbe quindi consegnata alla possibile sospensione dell’efficacia della deliberazione ex art. 1137 c.c.
Alla tesi restrittiva si è contrapposta ampia parte della giurisprudenza, sia pure limitata alla sola eccezione di nullità.
Con grande chiarezza, in tal senso, Cass. civ. n. 305/16[8] ha statuito che: “nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo emesso a favore del condominio, ai sensi dell'art. 63 disp. att.c.c., per la riscossione dei contributi condominiali, il giudice può sindacare, in via incidentale, anche la validità della relativa delibera assembleare, qualora essa sia affetta da vizi che ne comportino non la semplice annullabilità, ma la nullità radicale”. Se il giudice può sindacare la validità della deliberazione, non si comprende, però, perché tale scrutinio debba arrestarsi difronte a una delibera invalida perché annullabile. Va comunque considerato che, in quello specifico caso, la delibera era in effetti nulla (perché disponeva l’esecuzione di opere su un bene di proprietà esclusiva dell’opponente) e non era stata autonomamente impugnata[9].
5.2. La decisione delle Sezioni unite
Chiamate a dirimere il superiore contrasto, le Sezioni unite respingono entrambe le tesi a favore di un’impostazione ancora più permissiva e, sia consentito, condivisibile.
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo può essere sindacata la validità della delibera che costituisce la fonte della pretesa creditoria. Tale sindacato non è limitato alla nullità ma si estende anche all’annullabilità.
Diverse le ragioni.
Anzitutto, è incontestabile che con l’opposizione a decreto ingiuntivo si apra un giudizio ordinario, il perimetro del quale non è limitato alle condizioni di valida emissione dell’ingiunzione ma attiene, piuttosto, all’accertamento dei fatti costitutivi del diritto in contestazione, ossia al merito della pretesa creditoria: risulta pertanto arduo sostenere che il giudice debba ritenere fondata una pretesa non potendo sindacare la validità del titolo su cui la stessa risulta fondata. In caso contrario, secondo le Sezioni unite, si creerebbe un inammissibile ius singulare in materia condominiale.
In secondo luogo, la tesi permissiva risponde a precise esigenze di economia processuale, evitando la moltiplicazione dei giudizi e i possibili contrasti di giudicato.
Il sindacato del giudice dell’opposizione è dunque esteso alle questioni relative alla nullità della delibera: del resto, poiché tale radicale forma di invalidità impedisce la produzione di effetti, negare tale sindacato equivarrebbe a costringere il Decidente a considerare efficace ciò che non lo è. Equivarrebbe, secondo la Corte, a negare la stessa nozione di nullità.
Non solo: attesa la natura del vizio di cui si discute, il giudice dell’opposizione ha il potere dovere di rilevare d’ufficio l’eventuale nullità della deliberazione, provocando il contraddittorio ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.c.
Tale sindacato, ed è questa la parte maggiormente innovativa della sentenza annotata, è esteso anche all’annullabilità: l’art. 1137 c.c., del descrivere il modello legal-tipico tramite il quale l’annullabilità della deliberazione può essere dedotta, non prevede infatti alcuna riserva dell’esercizio dell’azione di annullamento ad un apposito autonomo giudizio a ciò destinato, nè fornisce alcuna indicazione che legittimi una tale conclusione.
L’articolo 1137 c.c., secondo le Sezioni unite, prevede però che il vizio in parola possa essere dedotto esclusivamente tramite l’azione di annullamento: per questa ragione e per la finalità, sottesa al sistema, di assicurare la stabilità dei rapporti in ambito condominiale, l’annullabilità può essere fatta valere soltanto in via di azione e non, a differenza della materia contrattuale, in via di eccezione e quindi: i) in via principale, nell’ambito di apposito e separato giudizio; ii) in via riconvenzionale, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, salvo, per entrambi i casi, il rispetto del termine decadenziale di cui all’art. 1137 c.c.
5.3. Alcune osservazioni critiche
La soluzione prospettata, sia pure decisamente apprezzabile rispetto alla tesi restrittiva, presta il fianco ad alcune osservazioni critiche.
Dal punto di vista teorico, l’avere imposto, in relazione all’annullabilità, il rispetto del termine di trenta giorni ex art. 1137 c.c., comporta sia la creazione di una ius singulare in materia condominiale (cfr. art. 1442, ultimo comma, c.c.); sia la possibile moltiplicazione dei giudizi con rischio di giudicati contrastanti.
Comporta, in altre parole, conseguenze opposte alle esigenze che hanno portato al superamento della tesi restrittiva.
Dal punto di vista pratico, infatti, il condòmino che ritenga annullabile una delibera ha l’onere di impugnarla entro trenta giorni in apposito giudizio. Qualora a tale delibera segua l’ingiunzione di pagamento, lo stesso condòmino potrebbe riproporre in via riconvenzionale l’azione di annullamento col rischio di contrasti di giudicato. La soluzione a quanto appena esposto potrebbe ricavarsi dalla sospensione necessaria del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 295 c.p.c.: si è già visto, in proposito, che secondo la decisione resa a Sezioni unite con sent. n. 4421/07, il giudizio di opposizione non potrebbe essere sospeso.
Tale decisione, però, si fondava sulla asserita diversità di piani dei due processi: poiché tale diversità appare oggi superata, potendo entrambi i giudici sindacare la validità della delibera, l’orientamento espresso in quel precedente potrebbe essere superato.
La possibilità di opporre un decreto ingiuntivo entro trenta giorni dalla delibera che ne costituisce il fondamento appare, peraltro, praticamente quasi impossibile.
L’ingiunzione di pagamento, infatti, dovrebbe essere notificata (e quindi richiesta e ottenuta) entro trenta giorni dalla deliberazione: l’unica possibilità plausibile è che il decreto ingiuntivo venga emesso in pendenza del procedimento di mediazione, poiché la comunicazione della domanda interrompe i termini per l’impugnazione[10].
6. Nullità o annullabilità delle delibere assembleari
Poiché l’eventuale annullabilità della deliberazione può essere dedotta soltanto in via di azione e non di eccezione (col rispetto, quindi, del termine di cui all’art. 1137 c.c.), risulta dirimente comprendere quando la deliberazione sia invece radicalmente nulla.
6.1. La struttura della motivazione
Le Sezioni unite, in questa parte della sentenza, ragionano su due livelli: uno particolare, uno generale.
Nel particolare, analizzano la giurisprudenza relativa allo specifico caso della invalidità della delibera che abbia ripartito le spese condominiali in maniera difforme dai criteri legali o convenzionali.
Più in generale, analizzano la giurisprudenza relativa alla differenza tra nullità e annullabilità di (tutte) le delibere assembleari, illustrando il criterio discretivo proposto da Cass. S.U. 4806/2005.
Lo schema seguito è il seguente:
1) viene esposto l’orientamento “tradizionale” in materia di impugnazione della delibera che abbia ripartito le spese condominiali in modo difforme dai criteri legislativi o convenzionali;
2) viene esposto il criterio generale di distinzione tra delibera nulla e delibera annullabile proposto da S.U. 4806/2005;
3) viene affermato che il criterio discretivo “generale” non si è rilevato del tutto adeguato allo specifico tema oggetto d’analisi, contribuendo alla creazione di due orientamenti contrapposti;
4) per comporre questo contrasto viene ripensato l’orientamento generale, giungendo in applicazione di questo alla soluzione del caso.
6.2. I precedenti giurisprudenziali
Secondo la giurisprudenza tradizionale[11] occorre distinguere tra delibere che stabiliscono o modificano i criteri di ripartizione delle spese ai sensi dell’art. 1123 c.c. e delibere con le quali vengono in concreto ripartite le spese medesime: le prime richiedono l’unanimità, in difetto della quale sono nulle; le seconde, ove la ripartizione avvenga in violazione dei criteri legali o convenzionali, sarebbero annullabili.
Una metafora aiuterà a comprendere meglio la questione: le delibere che fissano le regole del gioco richiedono l’unanimità, diversamente sono nulle; le delibere che applicano le regole del gioco in maniera erronea sono annullabili.
A questo orientamento se n’è contrapposto un altro, fertile germoglio nel terreno grigio fra nullità e annullabilità.
È noto, infatti, che per Cass. S.U. 4806/05 la differenza tra le due ipotesi di invalidità va ricercata, in linea generale, nel binomio “vizi di forma, vizi di sostanza”: i primi, evidentemente meno gravi, comportano l’annullabilità; i secondi, “strutturali”, la ben più grave nullità.
A questo criterio discretivo, già parecchio incerto, le S.U. del 2005 affiancano un’ulteriore distinzione per casi ritenendo nulle le delibere: prive degli elementi essenziali; con oggetto impossibile o illecito (perché contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume[12]); con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea (per difetto assoluto di attribuzioni); che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini[13].
Sarebbero invece meramente annullabili le delibere: con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea; quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale; quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea; quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione; quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
L’aver specificato sia i casi di nullità, sia i casi di annullabilità, ha avuto l’effetto – non voluto ma probabilmente inevitabile – di concimare proprio quel terreno grigio di cui si parlava: è, infatti, sull’impossibilità giuridica dell’oggetto che si fonda il principale orientamento contrastante a quello tradizionale.
Sarebbero così radicalmente nulle le delibere adottate in violazione dei criteri normativi o regolamentari di ripartizione delle spese (…) seppur limitate alla suddivisione di un determinato affare o di una specifica gestione, trattandosi di invalidità da ricondursi alla "sostanza" dell'atto e non connessa con le regole procedimentali relative alla formazione delle decisioni del collegio, non potendo la maggioranza dei partecipanti incidere sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata per legge o per contratto”.
Secondo questo orientamento, peraltro, tali delibere finirebbero per incidere negativamente sulla sfera patrimoniale del singolo condomino, risultando nulle, ove non approvate all’unanimità, anche sotto tale profilo.
6.3. La riscrittura della differenza tra delibere nulle e delibere annullabili
Qualcosa non funziona, si potrebbe dire.
E si avrebbe ragione: il criterio discretivo sopra sintetizzato ha comportato notevoli incertezze, alimentate dal fine di sottrarre un’eventuale impugnazione agli stringenti limiti di cui all’art. 1137 c.c.
Da questa constatazione prende le mosse la parte forse più importante della decisione annotata.
Le Sezioni unite, preso atto degli esiti particolari che l’applicazione di quel criterio generale ha comportato, riscrivono il criterio discretivo delle invalidità in materia condominiale, indicando tipologicamente poche cause di nullità e qualificando qualsiasi altro vizio come causa di annullamento.
Il ragionamento prende le mosse dall’art. 1137 c.c. che prevede, per le delibere contrarie alla legge o al regolamento di condominio, esclusivamente il possibile annullamento.
La ragione di questa scelta è individuata nel favor legislativo verso la stabilità delle decisioni: in una realtà così complessa quale il condominio, si è ritenuto opportuno non lasciare esposte le deliberazioni assembleari in perpetuo all’azione di nullità, proponibile senza limiti di tempo da chiunque vi abbia interesse.
In definitiva, il tenore amplissimo della disposizione non lascia dubbi sull’intento del legislatore di ricondurre ogni forma di invalidità delle deliberazioni assembleari, senza distinzioni, alla figura della "annullabilità" e di porre così a carico del singolo condomino l’onere esigibile sul piano della diligenza - di verificare, una volta ricevuta comunicazione di una deliberazione dell'assemblea, la sussistenza di eventuali vizi della stessa e, in caso positivo, di impugnarla, chiedendone l'annullamento.
Resta da chiedersi se, nonostante il tenore dell’art. 1137 c.c., possa talvolta parlarsi di nullità della deliberazione assembleare.
La risposta delle Sezioni unite è affermativa: “esistono categorie, nel mondo del diritto, che non sono monopolio del legislatore, ma scaturiscono spontaneamente dal sistema giuridico, al di fuori e prima della legge”.
Questa affermazione appare piuttosto sorprendente, specie se rivolta alla nullità, categoria chiaramente di diritto positivo: limitando l’analisi alle categorie (si pensi, tra gli istituti, alla famiglia, della quale si potrebbe predicare la preesistenza rispetto alla legge) il riferimento potrebbe assumere maggior pregio in relazione all’inesistenza: che, nel ragionamento delle Sezioni unite, i due istituti siano in un certo senso collimanti, pare evincersi dal dato che, si legge in motivazione, la nullità atterrebbe a quei vizi talmente radicali da privare la deliberazione di cittadinanza nel modo giuridico.
Maggiormente convincente appare il richiamo all’art. 1418 c.c., col dichiarato intento di verificare quali, tra le ipotesi di nullità ivi contemplate, possano valere per le deliberazioni dell'assemblea del condominio e siano compatibili col carattere collegiale dell'assemblea e col principio maggioritario.
Probabilmente, invece che evocare un’origine quasi giusnaturalistica nella nullità, la Suprema corte avrebbe potuto riferirsi all’art. 1418 c.c. come espressivo di un principio generale di invalidità e, dunque, di validità, degli atti giuridici anche diversi dai contratti.
Le delibere assembleari sono quindi nulle per:
1) Mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali.
È l’ipotesi di nullità strutturale mutuata dal secondo comma dell’art. 1418 c.c.: è quindi nulla la delibera priva di un decisum determinato o determinabile, quella priva di senso, quella non verbalizzata, quella adottata senza la votazione dell’assemblea.
2) Illiceità.
È l’ipotesi di delibera illecita perché contraria alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume.
La sentenza annotata richiama l’art. 1343 c.c. (causa illecita) ma si deve ritenere nulla anche la decisione che preveda prestazioni di per sé stesse illecite (oggetto illecito).
È quindi nulla per illiceità della causa la delibera che preveda un accantonamento di per se lecito che serva a evadere le imposte; è nulla per illiceità dell’oggetto la delibera che preveda la realizzazione di opere finalizzate alla creazione di barriere architettoniche.
3) Impossibilità dell’oggetto, in senso materiale o in senso giuridico.
È impossibile in senso materiale l’oggetto che non può essere fisicamente realizzato (la costruzione di un campo da calcio regolamentare nel piccolo giardino condominiale).
È impossibile in senso giuridico la delibera resa in carenza assoluta di attribuzioni: tale vizio, che attiene non al quomodo ma all’an dell’esercizio del potere, può verificarsi quando l’assemblea persegua finalità extracondominiali o si occupi dei beni appartenenti in proprietà esclusiva ai singoli condomini o a terzi.
È resa in carenza assoluta di attribuzioni, e veniamo allo soluzione della questione particolare, anche la delibera adottata a maggioranza con la quale si stabiliscano in via generale e per il futuro i criteri di ripartizione delle spese condominiali.
6.4. Nullità o annullabilità della delibera che ripartisca le spese in violazione dei criteri legali o convenzionali
In linea generale, quindi, sono nulle le delibere che mancano degli elementi costitutivi essenziali, quelle che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o in senso giuridico e quelle che hanno un contenuto illecito.
In tutti gli altri casi si può parlare esclusivamente di annullabilità, la cui azione deve essere esercitata nei modi e nei termini di cui all’art. 1137 c.c.
Il criterio discretivo sopra illustrato ha sicuramente il pregio della chiarezza, limitando le incertezze interpretative e superando la precedente distinzione generale tra vizi di forma e vizi di sostanza (ritenuta non conforme alla legge[14]).
Il contrasto giurisprudenziale sulla validità della delibera che ripartisca le spese comuni in difformità dai criteri legali o convenzionali, però, aveva trovato terreno fertile sulla ipotesi di nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto, ipotesi tenuta ferma dalla sentenza annotata anche se circoscritta alla carenza assoluta di attribuzioni.
Quid iuris?
Compete certamente all’assemblea, con deliberazione da assumere secondo il metodo maggioritario, l’approvazione e la ripartizione delle spese per la gestione ordinaria e straordinaria delle parti e dei servizi comuni: in tal senso, dunque, una delibera che preveda una ripartizione contraria alla legge non può dirsi, in linea di principio, impossibile per carenza assoluta di attribuzioni. Per tale ragione, applicando i risultati ermeneutici generali sopra illustrati, tale decisione è annullabile.
Non compete all’assemblea, però, il potere di modificare, a maggioranza, in astratto e per il futuro, i criteri previsti dalla legge o quelli convenzionalmente stabiliti: in questo caso si troverebbe ad operare in difetto assoluto di attribuzioni.
Per cui: la deliberazione che ripartisca le spese comuni in violazione dei criteri legali o convenzionali è annullabile; la deliberazione che a maggioranza, stabilisca o modifichi anche per il futuro i criteri generali di ripartizione delle spese previsti dalle legge o dalla convenzione, è nulla, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall'art. 1135 c.c., nn. 2) e 3).
In sintesi: se l’assemblea decide di ripartire le spese in modo difforme dalla legge o dalla convenzione, essa sta violando le regole del gioco. Per tale ragione è annullabile.
Se l’assemblea stabilisce a maggioranza un criterio di ripartizione generale e valido anche per il futuro, sta scrivendo le regole del gioco ed è, pertanto, nulla.
7. Considerazioni conclusive
La sentenza annotata avrà certamente un notevole impatto pratico.
Per quanto riguarda la distinzione generale tra le cause di invalidità, il precedente e farraginoso sistema basato sul binomio vizi di sostanza/vizi di forma, è superato dall’individuazione di poche cause di nullità: l’operatore del diritto dovrà quindi preliminarmente valutarne la sussistenza qualificando eventuali vizi diversi come motivo di annullabilità.
Per quanto attiene al perimetro del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la decisione annotata, sia pure apprezzabile rispetto all’orientamento più rigoroso, non pare fugare tutti i dubbi, residuando tutt’ora il concreto rischio della moltiplicazione dei giudizi e di eventuali giudicati contrastanti.
[1] In Giust. civ. Mass., 2009, 4, 565.
[2] Interesse soprattutto processuale. Si veda, in particolare, quel copioso filone giurisprudenziale che distingue fra notifica nulla (e quindi sanabile per raggiungimento dello scopo) e notifica inesistente: per Cass. 23760/20 in Guida al diritto 2020, 49, 79, “la notificazione di un atto di appello non compiutasi, perché tentata presso il precedente recapito del difensore della controparte che abbia trasferito altrove il suo studio, è inesistente in rerum natura, ossia per totale mancanza materiale dell'atto, non avendo conseguito il suo scopo consistente nella consegna dell'atto al destinatario; essa non è pertanto suscettibile di sanatoria ex articolo 156, comma 3, del codice di procedura civile a seguito della costituzione in giudizio dell'appellato, né di riattivazione del relativo procedimento, trattandosi di vizio imputabile al notificante in considerazione dell'agevole possibilità di accertare l'ubicazione dello studio attraverso la consultazione telematica dell'albo degli avvocati”.
In ambito sostanziale, la categoria in questione assume interesse per lo più in relazione ad atti diversi dal contratto (delibere assembleari, matrimonio e testamento): è inesistente il negozio nel quale mancano anche quei minimi requisiti perché la fattispecie possa essere sussunta nella categoria di riferimento. L’inesistenza, che pare essere stata ideata per impedire gli effetti del matrimonio tra persone dello stesso sesso (cfr. V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 756), assolve a due funzioni: i) evitare la produzione di quei pur limitati effetti che un negozio nullo può avere (in ambito processuale, appunto, l’applicazione dell’art. 156 c.p.c.); ii) impedire che si possano produrre addirittura gli effetti di un negozio valido (si pensi, prima della riforma del 2003, alle delibere societarie rese in assenza di convocazione o di verbalizzazione: a fronte di una regola che prevedeva la nullità soltanto delle delibere con oggetto impossibile o illecito, la mancanza di verbalizzazione venne descritta come ipotesi di inesistenza. Si confronti, per tutte, Cass. 9364/03 in Giust. civ., 2004, 11, p. 2767 con nota di L. Marchegiani, per la quale: “l’inesistenza della delibera assembleare di società di capitali ricorre quando manca alcuno dei requisiti procedimentali indispensabili per la formazione di una delibera imputabile alla società, determinandosi così una fattispecie apparente, non sussumibile nella categoria giuridica delle deliberazioni assembleari”.
[3] In Giust. civ. Mass, 2016.
[4] Cass. 17486/06 in Giust. civ. Mass, 2006.
[5] In Giust. civ. Mass. 2009.
[6] “Nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative delibere assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa riservata al giudice davanti al quale dette delibere siano state impugnate”.
[7] Così in motivazione: “le deliberazioni condominiali sono soggette ad impugnativa ai sensi dell'art. 1137 c.c., comma 2 e tuttavia, per espressa previsione della medesima norma, restano non di meno vincolanti per i singoli condomini, nonostante l’esperita impugnazione, salvo il giudice di questa ne disponga la sospensione dell'efficacia esecutiva, tale delibera costituendo, infatti, ex lege titolo di credito in favore del condominio e, di per sè, prova idonea, ai fini di cui agli artt. 633 e 634 c.p.c., dell’esistenza di tale credito, si da legittimare non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio d'opposizione che quest'ultimo proponga contro tale decreto, ed il cui ambito è, dunque, ristretto alla sola verifica dell’esistenza e dell'efficacia della deliberazione assembleare d'approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere”
[8] in Foro it. 2016, 5, I.
[9] Si nota, in parte motiva, un certo imbarazzo nei confronti della decisione n. 26629/09 che, come visto, richiama la precedente del 2007: “Effettivamente, considerato che pacificamente i lavori approvati all'esito dell'assemblea dell'11/8/2003 riguardavano anche interventi sui balconi di proprietà esclusiva dei ricorrenti, il vizio in oggetto, alla luce delle indicazioni fornite dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 4806 del 2005 del 28 luglio, risulterebbe effettivamente, ove sussistente, suscettibile di provocare la nullità della delibera, di modo che non appare correttamente applicato il principio della rilevabilità, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo, dell'invalidità della delibera assembleare. Effettivamente, il precedente richiamato in sentenza dal giudice di appello (Cass. n. 10427 del 2000) nella massima sembrerebbe accomunare delibere mille ed annullabili circa la conseguenza dell'irrilevabilità della loro invalidità in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, tuttavia la lettura della motivazione del precedente in questione denota che concerneva una fattispecie che, alla luce dei principi affermati da Cass. n. 4806/2005, oggi andrebbe qualificata in termini di annullabilità (vizi relativi alla convocazione dei condomini), sebbene all'epoca ritenuta tale da determinare, secondo il preesistente orientamento giurisprudenziale, la nullità della delibera.
Rispetto al precedente invocato nella sentenza appellata, deve tenersi in adeguata considerazione l'impatto che ha avuto sulla materia, il più volte menzionato intervento delle Sezioni Unite del 2005, che ha portato questa stessa Corte ad affermare con nettezza i criteri per poter distinguere tra delibere mille ed annullabili, così che appare assolutamente necessario ritenere che il limite in merito al rilievo dell'invalidità in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, operi solo per le delibere annullabili. In tal senso Cass. Sez. 2, n. 9641 del 27/04/2006, secondo cui ben può il giudice rilevare di ufficio la nullità quando, come nella specie, si controverta in ordine alla applicazione di atti (delibera d'assemblea di condominio) posta a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, la cui validità rappresenta elemento costitutivo della domanda”.
[10] Termini che riprendono a decorrere, per nuovi trenta giorni, dalla conclusione del procedimento. Si cfr. Corte App. Palermo, 1245/15 in Arch. locazioni 2017, per cui “in tema di impugnazione di delibera assembleare, il termine decadenziale di trenta giorni interrotto a seguito della comunicazione di convocazione innanzi all'organismo di mediazione, riprende nuovamente a decorrere, per un ulteriore termine di trenta giorni, a far data dal deposito del verbale presso la segreteria dell'organismo di mediazione”.
[11] Cass. 1455/95 in Arch. locazioni 1995, 622 e Cass. 1213/93 in Arch. locazioni 1993, 529: “riguardo alle delibere della assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 c.c. ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135 c.c., nn. 2 e 3, vengono in concreto ripartite le spese medesime, atteso che soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall'art. 1137 c.c., comma 2”.
[12] Cause di nullità, queste, evidentemente mutuate dall’art. 1418 c.c.
[13] Cause di nullità “specifiche” per le assemblee condominiali.
[14] Secondo la Suprema Corte, infatti: afferiscono senz'altro al contenuto delle deliberazioni dell'assemblea condominiale le numerose disposizioni di legge che disciplinano la ripartizione delle spese tra i condomini: così, innanzitutto, l'art. 1123 c.c., che detta il criterio generale per cui "Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione"; ma anche le altre disposizioni particolari che dettano specifici criteri di ripartizione con riferimento all'oggetto della spesa (così, l'art. 1124 c.c., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la sostituzione delle scale e degli ascensori; l'art. 1125 c.c., in tema di ripartizione delle spese per la manutenzione e la ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai; e lo stesso art. 1126 c.c., in tema di ripartizione delle spese per le riparazioni o le ricostruzioni dei lastrici solari di uso esclusivo).
La violazione di tali disposizioni dà luogo a deliberazioni assembleari "contrarie alla legge" con riferimento al loro "contenuto" e, perciò, affette da un vizio di "sostanza"; ma ciò non esclude che tale vizio rientri, in via di principio, tra quelli per i quali l'art. 1137 c.c. prevede l'azione di annullamento.
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Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato (nota a Cons. Stato, II, ord. 9 marzo 2021, n. 2013) di Clara Napolitano
Sommario: 1. Il caso dinanzi al G.a. e l’ordinanza di rimessione. – 2. Giudice adito, questione di giurisdizione in appello e abuso del processo. – 3. La giurisdizione sulla richiesta risarcitoria per lesione del legittimo affidamento da provvedimento annullato in via giurisdizionale. – 4. Segue: i presupposti della tutela. – 5. Conclusioni interlocutorie in attesa della Plenaria.
1. Il caso dinanzi al G.a. e l’ordinanza di rimessione.
L’ordinanza in commento origina da un giudizio nel quale la società ricorrente aveva adito il G.a. al fine di ottenere dal Comune resistente il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale[1] di una concessione edilizia e delle sue varianti.
Il Giudice di primo grado[2] – a fronte dell’eccezione proposta dal Comune e instauratosi il contraddittorio tra le parti – aveva dichiarato la propria giurisdizione, pronunciandosi sulla domanda. Ciò alla luce degli artt. 7 e 133, lett. f) c.p.a.[3]: secondo il Tar, il ricorso non si fondava su un mero comportamento dell’A.c., non collegato all’esercizio di potere, ma sulla circostanza che questa aveva rilasciato un P.d.C. sulla base di un’interpretazione normativa poi rivelatasi errata. Insomma, un’attività amministrativa procedimentalizzata[4].
Stante la reiezione della sua domanda nel merito, la ricorrente aveva poi appellato la sentenza, impugnandola anche per difetto di giurisdizione del G.a.: ne è derivata la prima questione – in via pregiudiziale – di cui all’ordinanza di remissione qui commentata, ovvero quella sull’ammissibilità in appello della c.d. auto-eccezione di giurisdizione.
Sul punto, l’ermeneusi del Consiglio di Stato conduce a due approdi.
Per un verso, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, il soggetto che ha proposto ricorso al Giudice amministrativo non può poi contestarne la giurisdizione[5]: ciò perché, anzitutto, quel ricorrente non è risultato soccombente su quel punto; in secondo luogo, perché tale condotta processuale integra un abuso del diritto di difesa, scaturente dal venire contra factum proprium, sanzionato con l’inammissibilità del gravame, nonché una violazione del dovere di cooperazione per la realizzazione della ragionevole durata del processo sancita dall’art. 2, comma 2, c.p.a.[6].
A questa consolidata opinione giurisprudenziale fa da contrappeso un’altra, sviluppata dalle Sezioni Unite della Cassazione[7], la quale invece ammette che lo stesso ricorrente proponga la questione di giurisdizione in appello: da ritenersi improponibile in seconde cure solo laddove coperta da giudicato (implicito o esplicito che sia); nondimeno, essa è ammessa in secondo grado – anche proposta dallo stesso ricorrente/attore in prime cure – laddove vi sia un «obiettivo dubbio sulla questione di giurisdizione»[8].
Di logica consequenzialità, la seconda questione rimessa alla Plenaria: ove ammissibile il gravame, a quale Giudice è rimessa la cognizione sulla domanda di risarcimento del danno da provvedimento favorevole annullato?
L’interrogativo pareva ormai sopito con le note ordinanze “gemelle” delle Sezioni Unite del 23 marzo 2011, nn. 6594, 6595, 6596[9], per le quali «la domanda risarcitoria proposta nei confronti della pubblica Amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo rientra nella giurisdizione ordinaria (anche nelle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione del diritto soggettivo alla sua integrità patrimoniale oppure (più recentemente) di una lesione all’affidamento incolpevole quale situazione giuridica soggettiva autonoma, dove l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno-evento»[10].
A quest’orientamento – al quale ha aderito lo stesso Consiglio di Stato[11] – se ne contrappone un altro che, limitatamente alle materie di giurisdizione esclusiva, afferma sussistere il potere di cognizione del G.a.[12].
A differenza della prima questione, su questo punto il Collegio esprime la propria posizione: la quale, nello specifico, è favorevole alla sussistenza della giurisdizione amministrativa. Ciò in quanto la domanda del ricorrente non contesta un comportamento amministrativo ma ha per oggetto il risarcimento dei danni provocati da un’attività amministrativa procedimentalizzata e condensatasi in un provvedimento – pur illegittimo – perfettamente esistente, efficace e valido fino all’avvenuto annullamento; quest’ultimo è da ritenersi come momento successivo sul piano cronologico e non rilevante né ai fini della qualificazione della sua situazione soggettiva come diritto (e non – invece – come interesse legittimo), né dell’incardinazione della giurisdizione dinanzi al Tar. Così argomentando, il Collegio rimettente contesta la fondatezza dell’orientamento pro giurisdizione ordinaria perché esso «si basa sul presupposto per cui vi sarebbe l’interesse legittimo solo a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non nell’illegittimo riconoscimento del bene. Tale impostazione non appare coerente con il generale criterio di riparto sancito dalla Costituzione che non condiziona la natura delle situazioni soggettive al carattere satisfattivo o meno del provvedimento amministrativo»[13].
La Sezione rimettente approda, di poi, alla terza questione: qualora la Plenaria ritenesse la questione ammissibile nell’an e assegnasse la giurisdizione al G.a., devono infatti essere valutati i presupposti dell’azione risarcitoria proposta dal privato. Il tema è, dunque, il risarcimento del danno da provvedimento amministrativo favorevole illegittimo, successivamente annullato in sede giurisdizionale.
Secondo una prima ricostruzione, la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo ha accertato l’assenza del danno ingiusto[14] perché all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo: non può dolersi del danno chi abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto non assentibile; in tal caso il ricorrente avrebbe, sotto il profilo soggettivo, manifestato quanto meno una propria colpa e, sotto il profilo oggettivo, avrebbe attivato con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno[15].
Un diverso orientamento giurisprudenziale è invece favorevole al riconoscimento della risarcibilità della lesione dell’affidamento del privato nei confronti di un provvedimento illegittimo, annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale, seppur in presenza di stringenti limiti di prova della colpa dell’amministrazione, del danno subito dall’istante e del nesso di causalità tra l’annullamento e il danno[16].
Anche qui, il Collegio esprime la propria adesione: nello specifico, al primo orientamento, il quale nega il diritto al risarcimento.
Questo per due ragioni fondamentali.
Anzitutto perché – secondo le argomentazioni del Collegio – il legittimo affidamento non è un diritto soggettivo, bensì una situazione giuridica soggettiva dai tratti peculiari propri. Perché esso venga a esistenza, invero, occorre che la condotta della p.A. sia quantomeno colposa o in mala fede, tale comunque da far sorgere in capo all’interessato – versante, in modo speculare, in condizione di totale buona fede – un’aspettativa qualificata al conseguimento del bene della vita: la pretesa del privato dev’essere inoltre ragionevole in relazione al quadro ordinamentale applicabile alla fattispecie, e non colposamente assunta come fondata.
In secondo luogo, a differenza dell’esercizio del potere di autotutela, l’annullamento del provvedimento illegittimo avvenuto – come nel caso di specie – per via giurisdizionale esclude in radice l’esistenza di un affidamento legittimo in capo al privato: nei confronti del potere giurisdizionale non può esserci ab imis, per la natura terza del Giudice, alcuna aspettativa qualificata ‒ e dunque tutelabile mediante ristoro patrimoniale ‒ all’accoglimento delle proprie ragioni.
Tre, dunque, i gangli fondamentali della rimessione all’Adunanza plenaria:
- se sia ammissibile l’auto-eccezione di giurisdizione;
- in caso affermativo, come su di essa ci si debba pronunciare, se in favore del G.a. o del G.o.;
- in caso di giurisdizione amministrativa, quali siano i presupposti per il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in capo al privato.
Ciascuna delle questioni ora riportate merita, qui, qualche breve riflessione.
2. Giudice adìto, questione di giurisdizione in appello e abuso del processo.
Secondo un recente studio sul tema dell’abuso del diritto[17] e, più nel particolare, del diritto processuale, in origine il formante giurisprudenziale ammetteva pacificamente l’appello per motivi di giurisdizione proposto dal ricorrente in primo grado, stante il dettato dell’art. 37 c.p.c. per il quale il difetto di giurisdizione è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo. Invero, «la soccombenza che giustifica l’appello sussiste anche quando il ricorrente, soccombente nel merito, abbia visto risolta in suo favore una questione pregiudiziale di rito rilevabile d’ufficio, che, risolta diversamente, gli consentirebbe la riproposizione della domanda»[18]: il Giudice riconosce in capo alla parte l’esistenza di un interesse ad appellare meritevole di tutela, poiché dall’eventuale accoglimento del motivo di gravame sulla giurisdizione discenderebbe l’annullamento dell’impugnata sentenza e la translatio judicii davanti al Giudice ordinario. Non è a ciò ostativa l’eventuale contraddittorietà logica del percorso prescelto dal ricorrente: il motivo sulla giurisdizione è comunque idoneo a ovviare alla soccombenza derivante dalla decisione appellata[19].
È poi sopravvenuto il recepimento nell’art. 9 c.p.a.[20] di una «giurisprudenza “creativa” della Cassazione in tema di giudicato implicito sulla giurisdizione»[21]: secondo la quale il difetto di giurisdizione non è rilevabile per la prima volta in sede di appello.
Secondo le Sezioni Unite[22], qualora il difetto della giurisdizione non sia eccepito dalle parti né rilevato dal Giudice in primo grado, deve ritenersi suscettibile di formazione su di essa un giudicato implicito: il quale, sul piano della coerenza del sistema, ha lo stesso effetto preclusivo del giudicato esplicito, posto che incombe su tutti i soggetti del rapporto processuale l’obbligo di controllare il corretto esercizio della potestas iudicandi sin dalle prime battute processuali, in forza dell’art. 37 c.p.c., anche quando la questione non sia espressamente sollevata[23].
Il revirement pretorio, poi cristallizzato nella disposizione codicistica del processo amministrativo, ha condotto – tra l’altro – all’affermazione del divieto di venire contra factum proprium: il ricorrente che abbia adito l’Autorità giurisdizionale, uscendo dal giudizio soccombente nel merito, non può poi esercitare una sorta di jus poenitendi strumentale e contestare in appello la sussistenza di quella giurisdizione da lui stesso adìta. La trasgressione di questo divieto costituisce un abuso del diritto, nella specie del diritto processuale[24], per violazione sia del principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., sia delle regole di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c., applicati anche sul piano del processo.
I due orientamenti continuano a persistere in reciproca opposizione, sorretti dalle rispettive argomentazioni.
Quello favorevole all’auto-eccezione in appello del difetto di giurisdizione si fonda sulla sostanziale genuinità dell’interesse dell’appellante a ottenere una pronuncia a sé favorevole tramite la translatio iudicii: un interesse che non dovrebbe esser letto in via distorta e abusiva dell’istituto processuale, bensì quale pretesa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento nell’ottica della pienezza e dell’effettività[25].
Inoltre, la giurisprudenza della Cassazione ha riconosciuto anche un «diritto di avere torto»[26] delle parti che abbiano adito un plesso giurisdizionale e se ne siano poi “pentite”, impugnando la sentenza sulla base dell’interesse che deriva dalla soccombenza nel merito: il gravame, pur censurabile sotto il profilo della coerenza processuale, è ammissibile.
A questo, tuttavia, si oppone l’argomentazione fondata sull’art. 111 Cost. e sull’abuso del processo[27]: il “pentimento” costituisce, in realtà, un utilizzo distorto degli istituti processuali, idoneo ad aggravare il processo, a renderlo molto più oneroso per la controparte, utilizzandolo per conseguire una determinata utilità senza avere tuttavia un interesse apprezzabile e meritevole di protezione da parte dell’ordinamento. Questo abuso meriterebbe, dunque, d’esser sanzionato con l’inammissibilità del gravame.
È su quest’ultimo punto che quest’orientamento genera una gemmazione. Secondo alcune sentenze del Giudice di legittimità[28], la sanzione alla condotta contraddittoria di chi adisce un Giudice e poi ne contesta la giurisdizione non dovrebbe essere quella della inammissibilità: l’incoerenza del comportamento della parte dovrebbe, semmai, essere stigmatizzata con la condanna alle spese per trasgressione ai doveri di lealtà e probità, ex art. 88 c.p.c., secondo la disciplina dettata dall’art. 92, comma 1, ultima parte, c.p.c.[29].
La sanzione dell’inammissibilità ha trovato comunque progressivo consolidamento sia dinanzi alla Cassazione sia dinanzi al Consiglio di Stato. Nucleo centrale dell’argomentazione è il c.d. giudicato interno: l’accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo, che è pienamente capace di passare in giudicato, anche se il Giudice si sia pronunciato solo implicitamente sullo stesso.
Pertanto, di fronte a una sentenza di rigetto della domanda, non è ravvisabile una soccombenza del ricorrente sulla questione di giurisdizione; rispetto a questo capo, infatti, questo va considerato vincitore. Essendo tale, non sarà legittimato a contestare il capo sulla giurisdizione e a sostenere che la potestas iudicandi spetti a un Giudice diverso.
Si tratta di una posizione estrema, per la quale si può pensare a un diniego di giustizia: si negherebbe, cioè, al ricorrente di adire il suo Giudice naturale precostituito per legge. Non v’è dubbio, però, che questo sia comunque un valore presidiato dall’obbligo del Giudice di procedere d’ufficio in primo grado alla verifica della sua potestas iudicandi e che vada bilanciato con l’esigenza di speditezza del processo, nonché dall’art. 41 c.p.c., che consente a ciascuna parte di chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione[30].
Vale forse la pena allora di porre mente a quell’orientamento – molto minoritario – pure citato dal Consiglio di Stato nell’ordinanza qui commentata, e apparentemente corrivo: quello che ammette il gravame nel caso di «obiettivo dubbio sulla questione di giurisdizione»[31].
Si disvelano, cioè, fattispecie nelle quali – per la complessità della questione, o il numero di ricorsi, o anche l’incertezza del quadro normativo – è obiettivamente difficile adire il giudice correttamente dotato del potere di ius dicere: ciò potrebbe comportare ripensamenti della linea difensiva e necessità di chiarimento che sorgono solo in un secondo momento.
Vien da sé che, in queste fattispecie, risulta fondamentale il potere valutativo del Giudice, al quale è attribuita una discrezionalità nell’apprezzare anche il comportamento delle parti in causa, nonché la questione sottoposta al suo giudizio. Si pensi all’ambito delle concessioni, seguite da contratti, che siano poi oggetto di plurimi ricorsi o giudizi consecutivi. Il ragionevole dubbio del ricorrente non merita, probabilmente, d’esser sanzionato con l’inammissibilità del gravame tout court, ma dovrebbe comportare quanto meno una valutazione da parte dell’Autorità giudiziaria in relazione alla complessità della fattispecie sub iudice.
È – d’altra parte – la condizione nella quale versa la querelle dalla quale origina l’ordinanza in commento: si tratta del giudizio risarcitorio a seguito di annullamento giurisdizionale di provvedimento amministrativo illegittimo. Una fattispecie nella quale i contrasti giurisprudenziali sono ampi e fondati su ragioni fortemente contrastanti, oltre che spesso di difficile profilazione, anzitutto sull’ambito della giurisdizione. Tanto che, appunto, la Sezione remittente segnala alla Plenaria i due orientamenti contrapposti che, come ora si vedrà, sono tutt’altro che chiari.
3. La giurisdizione sulla richiesta risarcitoria per lesione del legittimo affidamento da provvedimento annullato in via giurisdizionale.
La determinazione del Giudice competente a decidere sulla richiesta di risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento per annullamento – in via giurisdizionale o di autotutela – del provvedimento amministrativo illegittimo è la seconda questione-chiave posta dalla Sezione rimettente all’Adunanza plenaria.
La diatriba è molto nota ed esplorata da giurisprudenza e dottrina[32] e pareva aver trovato composizione – come detto in apertura – con alcune pronunce della Cassazione che qualificano l’adozione e il successivo annullamento del provvedimento favorevole come un unicum, un “comportamento” complessivamente lesivo dell’affidamento del privato, del suo «diritto soggettivo all’integrità patrimoniale»[33] e, come tale, rilevante ai fini della responsabilità per violazione dei principi di buona fede e correttezza[34] e rientrante nella giurisdizione ordinaria. È opportuno soffermarsi sui passaggi logici di questo orientamento, consolidatosi con le note ordinanze “gemelle” della Cassazione nn. 6594, 6595, 6596 del 2011.
Secondo le Sezioni Unite, l’annullamento – in via di autotutela o giurisdizionale – del provvedimento favorevole priva i soggetti, che ne erano stati beneficiari, del diritto conseguito illegittimamente: costoro perdono, dunque, le facoltà che erano state loro attribuite contra ius, così la p.A. (o il Giudice amministrativo) ripristinando la legalità violata. La legittima privazione del diritto conseguente a un provvedimento illegittimamente favorevole (o esercitabile sulla base di quest’ultimo), non consente di accedere alla tutela demolitoria dinanzi al G.a.: ne risulta precluso l’accesso anche alla tutela risarcitoria consequenziale, non integrando il risarcimento del danno una materia di giurisdizione esclusiva ma una tutela ulteriorerispetto a quella caducatoria.
L’avvenuto annullamento del provvedimento favorevole, dunque, comporta che questo continui a rilevare per il soggetto che ne aveva tratto vantaggio esclusivamente quale “mero comportamento” degli organi che lo avevano rilasciato, rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c. quale atto illecito per violazione del principio neminem laedere. L’unica tutela invocabile sarebbe così quella risarcitoria fondata sull’affidamento, relativa a un danno «che oggettivamente prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere pubblico», fondandosi su doveri di comportamento in buona fede richiesti dall’ordinamento anche all’Amministrazione. Questa tutela, però – stante la mancanza di connessione tra il danno e il potere pubblico, e la consistenza di diritto soggettivo della situazione (affidamento) fatta valere – non sarebbe riconducibile alla giurisdizione del G.a., con conseguente riserva della relativa cognizione al Giudice ordinario[35].
Questa lettura non è andata certo esente da critiche: ne è stata subito evidenziata l’incoerenza col sistema del c.p.a., improntato alla concentrazione delle tutele innanzi al Giudice amministrativo, tramite l’attribuzione a questi di tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’Amministrazione. Si è osservato, in particolare, che la circostanza che il danno non sia immediatamente cagionato dal provvedimento – che appare legittimo – ma emerga solo dopo l’annullamento dell’atto, sia questione che attiene esclusivamente al piano cronologico. Si tratta di circostanza che invece non incide sulla ricollegabilità diretta del pregiudizio – sul versante eziologico, rilevante ai sensi dell’art. 1223 c.c. – all’adozione del provvedimento amministrativo[36]: ne consegue che l’azione caducatoria e quella risarcitoria – anche nel caso di annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole illegittimo – ricadono nella giurisdizione amministrativa, essendo comunque inerenti al cattivo esercizio del potere.
Né si può pensare che il radicamento della giurisdizione in base al criterio della causa petendi cambi a seconda che il danno sia stato provocato da un provvedimento favorevole o sfavorevole. Secondo l’opinione che radica la giurisdizione dinanzi al G.o., «vi sarebbe l’interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi nell’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene». Una lettura, questa, che porta inevitabilmente il titolare di un interesse pretensivo illegittimamente insoddisfatto a rivolgersi al G.a. per il danno derivante dall’illegittimo diniego, mentre il titolare di un interesse oppositivo all’eventuale annullamento d’ufficio a rivolgersi al G.o.[37]: situazioni soggettive che potrebbero riguardare tanto i destinatari dei provvedimenti quanto i controinteressati, non essendo certo infrequente che un medesimo provvedimento, frutto di un medesimo unico esercizio di potere, generi interessi contrastanti nei soggetti che ne subiscono gli effetti diretti o riflessi.
I commenti critici alle ordinanze “gemelle” hanno peraltro sottolineato che la lesione di un interesse legittimo si configura anche quando la p.A. illegittimamente rilasci al cittadino un provvedimento favorevole[38]: basterebbe già questo, quale fonte della lesione, a costituire titolo per chiedere il risarcimento del danno. Ne è derivato un dubbio consistente circa la necessità di far riferimento alla figura dell’affidamento per la tutela risarcitoria[39].
L’orientamento affermativo della giurisdizione ordinaria porta con sé un’altra perplessità: la possibilità di risarcire il danno per la lesione del legittimo affidamento quale situazione soggettiva rilevante ex se, pienamente scorporata dal pregresso esercizio di potere amministrativo, degradato a comportamento illecito presupposto ex art. 2043 c.c.. Ci si è chiesti[40], infatti, se davvero l’affidamento possa esser tenuto in separata considerazione rispetto alla vicenda amministrativa sottostante, tanto da affidarne la protezione a un organo giurisdizionale diverso rispetto a quello che ha il potere di cognizione su di essa.
Al netto delle osservazioni sulla effettiva scorporabilità dell’affidamento rispetto al rapporto amministrativo sotteso, la questione parrebbe condensabile in questa alternativa: se si ritiene che il danno sia comunque una conseguenza dell’illegittimità del provvedimento favorevole originariamente emanato, la giurisdizione si radicherebbe in capo al Giudice amministrativo; diversamente, qualora si ritenesse che il danno nasce dalla condotta complessiva dell’amministrazione e non dagli effetti del provvedimento, la giurisdizione spetterebbe al Giudice ordinario[41].
L’ordinanza di rimessione qui commentata, prima ancora d’addentrarsi nella qualificazione di questa situazione giuridica soggettiva, opta però – forse anche alla luce dell’ultimo arresto della Cassazione che amplia ancora la giurisdizione ordinaria sulla tutela risarcitoria della lesione del legittimo affidamento[42] – per una forte riconnessione del danno all’esercizio del potere amministrativo. Non v’è dubbio, per il Collegio, che la lesione si sia verificata a seguito di un illegittimo esercizio del potere amministrativo ampliativo, fondato su una interpretazione errata delle norme di riferimento da parte dell’Amministrazione: il fatto che quel provvedimento sia stato poi annullato è un dato che rileva dal punto di vista meramente cronologico, non logico né eziologico del danno.
Il G.a. remittente, in altre parole, si rifà alle osservazioni critiche rispetto alle posizioni assunte dalla Cassazione: il danno non è pervenuto dal “comportamento complessivo” dell’Amministrazione, ma dall’illegittimo esercizio del potere. E, trattandosi nella specie di potere esercitato in materia urbanistico-edilizia, la cognizione non può che rientrare nell’alveo della giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, lettera f), c.p.a., atteso che l’ordinamento attribuisce, in ossequio al principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale, alla cognizione del G.a. tutti gli strumenti processuali idonei a tutelare la posizione lesa dall’esercizio dei pubblici poteri di cui è titolare l’Amministrazione.
4. Segue: i presupposti della tutela.
Come anticipato nel paragrafo di apertura di questo commento, qualora la giurisdizione si radicasse innanzi al G.a., l’analisi successiva deve incentrarsi sui presupposti della tutela risarcitoria.
I contrastanti orientamenti, stavolta, guardano alla lesione del legittimo affidamento del privato e sulla necessità (o meno) che sussista l’elemento soggettivo (quanto meno) di colpa d’apparato per farlo valere dinanzi all’Autorità giurisdizionale.
L’opinione della Sezione rimettente è chiara: aderisce all’orientamento più restrittivo per il quale non è sufficiente – ai fini dell’affermazione della responsabilità per danno della p.A. – che il provvedimento avesse concesso al privato il bene della vita successivamente sottrattogli con l’annullamento giurisdizionale. Non è su questo, che si fonda il danno da lesione dell’affidamento.
Ciò sostanzialmente per una ragione. E cioè che – se il provvedimento ampliativo era illegittimo ed è stato quindi annullato – il privato non può – e non poteva – vantare alcun diritto sul bene della vita oggetto di quel provvedimento medesimo. Tanto che, se l’Amministrazione avesse agito jure, il privato quel bene non l’avrebbe certo ottenuto.
In altri termini, il privato non può dolersi del danno derivante dall’annullamento di un provvedimento ampliativo illegittimo laddove la sua istanza sia stata «oggettivamente» non assentibile: è una lettura confermata dalla giurisprudenza amministrativa in materia di titoli edilizi[43], la quale responsabilizza anche il privato istante nel momento in cui questi si rivolga alla p.A. e chieda un titolo abilitativo presentando un progetto «oggettivamente» contrario alle norme urbanistico-edilizie, così per un verso manifestando una propria colpa soggettiva e, per l’altro, contribuendo egli stesso al danno inducendo l’Amministrazione in errore.
Residua, così, un limitatissimo margine per la richiesta risarcitoria laddove il Giudice rilevi l’esistenza di un affidamento legittimo in capo al privato che sia in buona fede soggettiva, che abbia un’aspettativa ragionevole e non fantasiosa al conseguimento – secundum legem – del bene della vita chiesto alla p.A. e che – per contro – la p.A. abbia agito con mala fede o colpa tale da far sorgere l’aspettativa nell’interessato (lo si ripete, in totale buona fede): condizioni insomma molto restrittive.
A questo orientamento fa da contraltare un altro – che ha il suo terreno d’elezione nelle controversie aventi per oggetto l’annullamento di atti di gara, quindi un tema dominato dalla giurisprudenza europea che ne ha tratteggiato i profili di responsabilità oggettiva[44] – per il quale invece c’è spazio per il ristoro patrimoniale derivante dalla lesione dell’affidamento quando la p.A. abbia agito in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Ciò in ragione del principio più generale secondo il quale l’Amministrazione è tenuta, nello svolgimento della propria attività, a rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può fare nascere una responsabilità da comportamento scorretto, incidente non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze derivanti dall’altrui scorrettezza[45]. Ciò implica che il Giudice – pur nella legittimità dell’agire della p.A. anche in via di autotutela – non è esentato dall’indagare eventuali profili di responsabilità dell’apparato pubblico[46]. Ora, questa violazione degli obblighi di correttezza e buona fede può rilevare ex se[47] – come è nella disciplina degli appalti – oppure richiedere anche la prova dell’elemento soggettivo della colpa d’apparato[48].
Come detto, il Collegio propende per l’orientamento più restrittivo che richiede una rigida analisi della buona fede del privato e della oggettiva ragionevolezza della sua pretesa nei confronti della p.A.; con un passaggio tuttavia curioso, nel quale specifica che – in linea generale – il legittimo affidamento non è un diritto soggettivo, ma è «un istituto giuridico che taglia trasversalmente l’intero ordinamento giuridico», «una situazione giuridica soggettiva dai tratti peculiari propri». Come tale, esso non è tutelabile se non in ragione degli stringenti requisiti di cui sopra di buona fede (oggettiva e soggettiva) del privato nonché di assenza assoluta di sua colpa, nonché di un atteggiamento malevolo o colposo della p.A..
Ma non è l’unico passaggio degno di riflessione.
Il Collegio opera una distinzione circa il rilievo, nella lesione dell’affidamento, del tipo di annullamento del provvedimento intercorso: traccia una linea di demarcazione tra annullamento (o anche revoca) in via di autotutela e annullamento in sede giurisdizionale. Collegando solo al primo le conseguenze in tema di danno da lesione del legittimo affidamento: viceversa, secondo le parole dell’ordinanza, «l’annullamento del provvedimento amministrativo in sede giurisdizionale non può mai ridondare in una lesione di un affidamento legittimo, idonea a fondare una domanda risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione».
Ciò in quanto a fronte del medesimo petitum risarcitorio, ovvero il ristoro del danno da lesione del legittimo affidamento, le causae petendi sono differenti a seconda che l’annullamento sia avvenuto in sede di autotutela o giurisdizionale.
Nel primo caso, «l’eventuale affidamento del privato (ammesso che vi sia) verrebbe pregiudicato da un condotta dell’Amministrazione, la quale modifica unilateralmente, melius re perpensa o alla luce di sopravvenienze, l’assetto d’interessi precedentemente delineato nell’esercizio del suo potere pubblicistico»: come dire, ammesso che il privato possa vantare un qualunque affidamento (nei ristrettissimi margini consentiti dall’orientamento più rigido) su un provvedimento ampliativo, questo verrebbe leso dall’esercizio di un potere amministrativo; nel caso di annullamento da parte del G.a., il potenziale affidamento verrebbe leso «da un provvedimento promanante dal potere giurisdizionale, nei cui confronti non può esserci in radice, per la natura terza del giudice, alcuna aspettativa qualificata ‒ e dunque tutelabile mediante ristoro patrimoniale ‒all’accoglimento delle proprie ragioni».
Il passaggio è gravido di conseguenze sulla tutela risarcitoria, ed è potenzialmente in grado di scardinare la giurisprudenza ormai cristallizzata per la quale il provvedimento illegittimo ampliativo favorevole e il suo successivo annullamento – in via giurisdizionale o di autotutela – costituiscono presupposto tecnico-giuridico di una lesione che ha arrecato un danno al privato.
Se, cioè, per una considerevole parte del diritto vivente ci si trova dinanzi a «una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato, in sede giurisdizionale, in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio, che consegue a tale affidamentoe alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole»[49], l’ordinanza in commento – ove dovesse trovare condivisione in Plenaria – eliminerebbe ab imis la possibilità di chiedere il risarcimento per lesione dell’affidamento in caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo favorevole.
5. Conclusioni interlocutorie in attesa della Plenaria.
Il percorso dell’ordinanza di rimessione porta ad alcune riflessioni.
Anzitutto, l’auto-eccezione di giurisdizione da parte del ricorrente-appellante: entrambi gli orientamenti hanno alla base condivisibili argomentazioni circa la logica, la coerenza e la correttezza nell’uso degli strumenti processuali. L’inammissibilità del gravame sembra ancora la soluzione maggiormente condivisa: non v’è chi non veda, tuttavia, il pericolo che questa conduca a un diniego di giustizia laddove sulla controversia si sia pronunciato un Giudice sulla cui giurisdizione – anche se solo in grado d’appello – sia stata sollevata eccezione. D’altra parte, il timore di un utilizzo strumentale dell’auto-eccezione per fare turismo giustiziale è anch’esso fondato e trova appunto nella sanzione dell’inammissibilità una soluzione in grado di arginare questa pratica. Resterebbe da esplorare – ed eventualmente da costruire – la categoria delle ipotesi nelle quali vi sia il paventato «dubbio oggettivo sulla giurisdizione»: se dovesse trovare accoglimento questo “fontanazzo”[50] nella diga dell’inammissibilità delle auto-eccezioni sulla giurisdizione, non v’è dubbio che il diritto pretorio si rivelerà essenziale nel delinearne i profili applicativi.
Quanto poi alla giurisdizione sulla richiesta risarcitoria da lesione dell’affidamento: il conflitto tra gli orientamenti è assestato ancora sul crinale tradizionale del collegamento diretto o mediato al potere amministrativo, o meno. Di poi, in modo condivisibile, il Collegio mette in luce – come già attenta dottrina aveva fatto – la pericolosità di rimettere il criterio discretivo della giurisdizione al contenuto del provvedimento e, dunque, alla natura degli interessi legittimi a esso legati (se pretensivi od oppositivi), pena la gemmazione di più giudizi, lasciati a più plessi giurisdizionali, per i danni conseguenti all’esercizio di un medesimo potere amministrativo. Il Collegio rimettente si colloca nella scia più tradizionale della giustizia amministrativa, e richiama a sé la giurisdizione sulla richiesta risarcitoria per danno da lesione del legittimo affidamento sulla scorta del fatto che questo è derivato – direttamente o mediatamente – da un esercizio illegittimo in prima battuta del potere amministrativo, che non può essere relegato a mero presupposto fattuale quale parte di un “comportamento” dannoso.
Ma la parte più interessante è quella relativa ai presupposti della tutela risarcitoria: rigidissimi, per il Collegio, perché il legittimo affidamento non sarebbe un diritto soggettivo ma una situazione peculiare dotata di precisi e ristretti margini d’esistenza. Nessuno, peraltro, nel caso in cui il privato lamenti il danno subito per l’annullamento in via giurisdizionale di un provvedimento ampliativo illegittimo: ipotesi nettamente distinta da quella dell’annullamento in via di autotutela.
Questa ricostruzione genera qualche perplessità.
Andando con ordine. Nelle parole del provvedimento qui annotato, la ragione per la quale l’annullamento giurisdizionale non può dare adito ad alcuna richiesta risarcitoria per lesione dell’affidamento starebbe nel fatto che – stante la terzietà del Giudice – il privato non può muovere alcuna pretesa in merito all’esercizio del potere di jus dicere. Come dire: se l’Amministrazione autoannulla un proprio precedente provvedimento, esercita un potere nei confronti del quale possono sorgere pretese; se quel medesimo potere promana da un Giudice, non c’è alcuno spazio per quelle medesime pretese.
Le argomentazioni appaiono piuttosto criptiche, se non proprio apodittiche. A chi scrive pare che una possibile chiave del ragionamento del Giudice stia nella ricostruzione del legittimo affidamento quale istituto generale: ovvero la incolpevole situazione che spinge qualcuno a confidare nella coerenza dei comportamenti del suo interlocutore. Questo sembrerebbe implicare che, nel caso in cui la p.A. eserciti l’autotutela, dovrebbe rispondere di un comportamento contraddittorio, ove questo abbia prodotto un danno (la cui prova è comunque rimessa al privato che ne reclama il ristoro); ove invece la rimozione del provvedimento avvenga per statuizione del Giudice, e dunque per esercizio di un potere terzo, la contraddittorietà nel comportamento dell’Amministrazione mancherebbe, e dunque verrebbe meno il presupposto della lesione dell’affidamento.
Così congegnata, questa lettura presta il fianco a rilievi critici.
Anzitutto, essa omette di considerare che la figura chiamata istituzionalmente a rilevare l’esistenza di un legittimo affidamento è proprio il Giudice. Pertanto, per un verso, pare affermare che l’esercizio del potere giurisdizionale impedirebbe la configurazione del legittimo affidamento, così impedendo tout court la possibilità di ricevere tutela per chi ne lamenti la lesione; per altro verso, omette di ricordare che proprio il potere del Giudice serve a valutare se vi sia stata lesione o meno del legittimo affidamento derivante dall’incolpevole confiance sull’apparente legittimità di un provvedimento amministrativo ampliativo e, in caso affermativo, a erogare la tutela risarcitoria. Non si può dimenticare, invece, che Giudice ripristina la legalità violata e riporta la situazione secundum legem: questo, tuttavia, non lo esime dall’esaminare – ove esistente – il danno provocato non dal suo annullamento, bensì dal provvedimento ampliativo illegittimo.
Non si comprende, poi, il richiamo alla terzietà del Giudice: per il Collegio, “terzietà” implicherebbe l’impossibilità per la parte processuale di muover pretese nei suoi confronti; in realtà, la natura terza dell’organo giudicante è, per un verso, garanzia d’imparzialità, per altro verso, requisito necessario per la composizione di una controversia. Il richiamo, pertanto, parrebbe inconferente rispetto al tema dell’insorgenza di un legittimo affidamento del quale chiedere tutela.
Infine, il passaggio logico secondo il quale l’annullamento giurisdizionale del provvedimento amministrativo favorevole illegittimo impedirebbe ab imis la configurazione del legittimo affidamento contrasta con il ragionamento presupposto del Collegio: per il quale – lo si ricorda – l’annullamento (in autotutela o giurisdizionale) è vicenda che non rileva dal punto di vista dei presupposti tecnico-giuridici per la configurazione dell’affidamento (e dunque comporta l’assegnazione del potere di cognizione alla giurisdizione amministrativa, non ordinaria).
Ciò che non rilevava ai fini della giurisdizione rileverebbe, invece, e per ragioni che restano piuttosto criptiche nelle trame dell’ordinanza, ai fini della fondatezza della richiesta risarcitoria per lesione dell’affidamento.
Pare, cioè, che il Giudice – quando si parla della fondatezza – non stia più valutando l’esercizio illegittimo del potere ampliativo (che, nella prima parte dell’ordinanza, sarebbe stato causativo della lesione), bensì stia dando rilievo proprio al “comportamento complessivo” tenuto dalla p.A.: per un verso il Giudice sostiene la connessione del danno al potere amministrativo per richiamare a sé la giurisdizione; per altro verso – pur parlando di potere – in realtà il Giudice medesimo sembra negare la risarcibilità del danno perché non sussisterebbe il comportamento tipico che fonda la lesione dell’affidamento legittimo per ius commune ovvero la violazione del divieto di venire contra factum proprium.
Alla luce delle perplessità che l’ordinanza genera, specie in tema di presupposti della richiesta risarcitoria per lesione dell’affidamento, l’intervento della Plenaria diventa quanto mai necessario, posto che l’eventuale condivisione della lettura del Collegio rimettente potrebbe condurre alla negazione di tutela per tutti coloro che abbiano fatto incolpevole affidamento sulla legittimità di un provvedimento ampliativo e se lo siano poi visto annullare in sede giurisdizionale, subendone dei danni patrimoniali non più ristorabili.
[1] Disposto da Tar Pescara, I, 9 gennaio 2006, n. 11, confermata in appello da Cons. Stato, IV, 11 aprile 2007, n. 1672, e ulteriormente avvalorata dal rigetto di ricorso per revocazione, mediante decisione del medesimo Cons. Stato, IV, 12 maggio 2008, n. 2166.
[2] Tar Pescara, I, 20 giugno 2012, n. 293.
[3] Quale esercizio di potere amministrativo in materia urbanistico-edilizia.
[4] Queste le parole del Tribunale amministrativo: «questo Collegio rileva come nella fattispecie in esame non ci si trovi in presenza di un atto nullo o inesistente, o assunto a termini scaduti e quindi in carenza di potere, nel qual caso l’operato dell’amministrazione potrebbe ricondursi ad un mero comportamento, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, ma di fronte ad un atto formale amministrativo assunto dal Comune sulla base di un’interpretazione consolidata della normativa comunale applicabile e condivisa dalla stessa ditta ricorrente» (corsivo di chi scrive). Per questa ragione, secondo il G.a., si ricadeva in fattispecie differente da quella decisa da Cass. SS.UU., 23 marzo 2011, n. 6594, secondo cui la lesione del legittimo affidamento del privato da parte dell’Amministrazione a un mero comportamento illecito posto in violazione del principio del neminem laedere, dunque ricadente nella giurisdizione ordinaria.
[5] Il problema investe, più in generale, il rapporto tra giurisdizioni e coinvolge anche l’ambito penalistico. Per M. Caputo, Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo, in Iurisprudentia.it, 2016, p. 11, «L’abiura della giurisdizione adita ab origine si tradurrebbe, secondo l’orientamento negativo, in un prolungamento dei tempi della definizione del giudizio per ragioni meramente opportunistiche e strumentali. Peraltro ammettere l’auto-eccezione in appello vorrebbe dire riconoscere alla parte soccombente nel merito la possibilità per questi di ricusare ex post il giudice – rectius: la giurisdizione – in base all’esito della controversia».
[6] A questo proposito il Collegio cita numerosi precedenti giurisprudenziali: ex aliis, Cons. Stato, V, 19 settembre 2019, n. 6247; Id., 13 agosto 2018, n. 4934; Id., 27 marzo 2015, n. 1605; Id., 7 febbraio 2012, n. 656; Cons. Stato, III, 31 maggio 2018, n. 3272; Id., 1 dicembre 2016, n. 5047; Id., 26 ottobre 2016, n. 4501; Id., 13 aprile 2015, n. 1855; Id., 7 aprile 2014, n. 1630; Cons. Stato, IV, 22 maggio 2017, n. 2367; Id., 21 dicembre 2013, n. 5403; Cons.Stato, VI, 8 aprile 2015, n. 1778; Id., 8 febbraio 2013, n. 703.
[7] Cass., SS.UU., 27 dicembre 2010, n. 26129; Cass., SS.UU., 29 marzo 2011, n. 7097; Cass., SS.UU., 27 luglio 2011, n. 16391; Cass., SS.UU., 20 gennaio 2014, n. 1006; Cass., SS.UU., 20 maggio 2014, n. 11022; Cass., SS.UU., 28 maggio 2014, n. 11916; Cass., SS.UU., 19 giugno 2014, n. 13940; nonché Cons. Stato, V, 9 marzo 2015, n. 1192.
[8] Per esempio in materia di concessioni, v. Cons. Stato, n. 1192/2015, cit.: «pur avendo ripetutamente statuito che lo strumento tipico per risolvere la questione di giurisdizione prima che sia definito anche solo in parte il merito della controversia è il regolamento preventivo di giurisdizione, rispetto alla cui proposizione è pertanto legittimata anche la parte attrice o ricorrente (sentenza 23 aprile 2001, n. 174, ordinanze 25 luglio 2002, n, 10995, 6 luglio 2004, n. 12412, 14 gennaio 2005, n. 603, 21 settembre 2006, n. 20504, 27 gennaio 2011, n. 1876, 12 luglio 2011, n. 15237, 24 aprile 2014, n. 9251), nondimeno, in una recente pronuncia le stesse Sezioni unite hanno escluso che il divieto di abuso del processo sia violato dalla parte che abbia contestato la giurisdizione amministrativa da lui stesso adita, mediante motivo d’appello ai sensi dell’art. 9 del codice del processo di cui al d.lgs. n. 104/2010, in una controversia in cui il dubbio obiettivamente si poneva ed in relazione alla quale scaturiva quindi una “necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione” (sentenza 19 giugno 2014, n. 13940)».
[9] Seguite da altre ordinanze conformi: Cass., SS.UU., 4 settembre 2015, n. 17586; 22 maggio 2017, n. 12799; 22 giugno 2017, n. 15640; 2 agosto 2017, n. 19171; 23 gennaio 2018, n. 1654; 2 marzo 2018, n. 4996; 24 settembre 2018, n. 22435; 13 dicembre 2018, n. 32365; 19 febbraio 2019, n. 4889; 8 marzo 2019, n. 6885; 13 maggio 2019, n. 12635; 28 aprile 2020, n. 8236.
[10] Queste le parole della stessa ordinanza qui commentata.
[11] Cons. Stato, V, 27 settembre 2016, n. 3997; Cons. Stato, IV, 25 gennaio 2017, n. 293; Id., 20 dicembre 2017, n. 5980; Cons. Stato, VI, 13 agosto 2020, n. 5011.
[12] Cons. Stato, V, 23 febbraio 2015, n. 857; Tar Pescara, I, 20 giugno 2012, n. 312; nonché ordinanze Cass. SS. UU., 21 aprile 2016, n. 8057 e 29 maggio 2017, n. 13454 per l’ipotesi di annullamento di autotutela di provvedimento di affidamento di sevizio pubblico.
[13] Sicché questa soluzione «potrebbe condurre a esiti disarmonici, in quanto, in base ad essa, laddove il risarcimento venga chiesto dal controinteressato per i danni causatigli da un provvedimento illegittimo, vi sarebbe giurisdizione del giudice amministrativo su tale domanda, mentre, qualora la domanda risarcitoria sia proposta dal soggetto destinatario del medesimo illegittimo provvedimento a lui favorevole, la giurisdizione si radicherebbe presso l’autorità giudiziaria ordinaria»: il che contrasta con la lettura costituzionalmente orientata della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo, non attinente certo alla differente soggettività delle parti di fronte a un medesimo esercizio di potere amministrativo.
[14] Così Cons. Stato, V, 17 gennaio 2014, n. 183.
[15] Cfr. Cons. Stato, IV, 29 ottobre 2014, n. 5346.
[16] Cons. Stato, IV, 20 dicembre 2017, n. 5980; Tar Campania, Napoli, VIII, 3 ottobre 2012, n. 4017, che riconduce la tematica de qua alla responsabilità precontrattuale.
[17] G. Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015.
[18] Cons. Stato, VI, 10 settembre 2009, n. 5454.
[19] In questo senso anche Cons. Stato, V, 5 dicembre 2008, n. 6049; Cons. Stato, IV, 24 febbraio 2000, n. 999.
[20] In base al quale «Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione».
[21] G. Tropea, L’abuso, cit., p. 38.
[22] Cass., SS.UU., 9 ottobre 2008, n. 24883. Sulla pronuncia, tra i numerosi commenti, v. M.A. Sandulli, Dopo la “translatio iudicii”, le Sezioni Unite riscrivono l’art. 37 c.p.c. e muovono un altro passo verso l’unità della tutela (a primissima lettura in margine a Cass., SS.UU., 24883 del 2008), la quale trae dalla pronuncia echi di unità della tutela nei rapporti tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria, sottolineando la necessità – in ragione dei principi di equità e ragionevole durata del processo – di concentrare innanzi al Giudice amministrativo le controversie in materia di annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto; v. anche M. Lipari, La translatio del processo nel disegno di legge governativo approvato dalla Camera dei Deputati (AS-1082): certezze e dubbi; R. Vaccarella, Rilevabilità del difetto di giurisdizione e translatio iudicii, tutti in Federalismi.it, n. 24/2008.
[23] Continua la pronuncia: «In altri termini il giudice deve innanzi tutto autolegittimarsi (art. 276, comma 2, c.p.c.) ed eventualmente rilevare subito il difetto di giurisdizione (art. 37 c.p.c.) e, quindi, il suo silenzio equivale a una pronuncia positiva così come il silenzio delle parti vale acquiescenza (art. 329 c.p.c.)».
[24] Il principio risulta tutt’ora consolidato, v. per esempio Cons. Stato, II, 2 dicembre 2020, n. 7628: «Ai sensi degli artt. 74 e 88 comma 2 lett. d), c.p.a., è inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata in appello dalla stessa parte che aveva adìto la medesima giurisdizione con l’atto introduttivo di primo grado; tale regola processuale trova infatti fondamento nel divieto dell’abuso del diritto, quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche, in quanto vige nel nostro sistema un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva (divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto), in cui si inserisce anche l’abuso del processo».
[25] V. in proposito i commenti a Cass., SS.UU., 20 ottobre 2016, n. 21260: tra gli altri, G.G. Poli, Ancora limiti al difetto di giurisdizione: le sezioni unite dall’abuso del processo al difetto di interesse ad appellare dell’attore soccombente nel merito, in Il Foro it., 2017, I, cc. 977 ss.; A. Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva?, ivi, cc. 983 ss.; F. Auletta, La Corte di cassazione afferma il principio di coerenza nella difesa della parte: non si può più contestare il potere del giudice dal quale si è già preteso (invano) di ottenere ragione, ivi, cc. 986 ss. V., inoltre, R. Villata, La giurisdizione e il suo processo sopravviveranno ai “cavalieri dell’apocalisse”, in Riv. dir. proc., n. 1/2017, pp. 106 ss.; Id., Ancora in tema di inammissibilità dell’appello al Consiglio di Stato sulla giurisdizione promosso dal ricorrente soccombente in primo grado, ivi, n. 4-5/2017, pp. 1093 ss.
[26] Letteralmente da Cass., SS.UU., 29 marzo 2011, n. 7097, la quale puntualizza: «Il ricorso è ammissibile perché sulla questione di giurisdizione non si è formato il giudicato, né implicito, né esplicito. Come è noto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, anche dopo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 37 c.p.c., che ne ha delineato l’ambito applicativo in senso restrittivo, la questione di giurisdizione può essere sempre sollevata, anche in relazione alla sentenza di appello, quando una delle parti (non importa quale) abbia sollevato tempestivamente la questione stessa con i motivi di appello. Infatti, la portata dell’art. 37 c.p.c. riacquista la sua massima espansione quando il tenore della decisione (che attenga al rito o al merito, o ad entrambi) sia tale da escludere qualsiasi forma di decisione implicita o esplicita sulla giurisdizione (Cass. 24883/2008), ovvero quando la questione sia emersa entro i limiti cronologici consentiti, come nella specie».
[27] Su cui, oltre al già citato Tropea, v. anche, tra gli altri, M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio dell’abuso della tutela giurisdizionale, Milano, 2004; Id., Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012; Id., Recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi in tema di abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2015, pp. 445 ss.; C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2008, pp. 1005 ss.; N. Paolantonio, Abuso del processo (diritto processuale amministrativo), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, pp. 1 ss.; G. Verde, Abuso del processo e giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2015, pp. 1138 ss.; S. Baccarini, Giudizio amministrativo e abuso del processo, ivi, pp. 1203 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso di processo, ivi, pp. 1262 ss.; G. D’Angelo, Eccezione di difetto di giurisdizione e abuso del processo, in Urb. app., 2015, pp. 181 ss., nota a Cons. Stato, V, 29 ottobre 2014, n. 5346.
[28] Tra cui Cass., SS.UU., 27 dicembre 2010, n. 26129 e la già citata Cass., SS.UU., n. 7097/2011.
[29] Cass., SS.UU., n. 7097/2011: «il comportamento della parte la quale soltanto all’esito del giudizio di appello solleva la questione di difetto di giurisdizione del giudice da lei stesso adito (dopo avere contrastato la stessa eccezione formulata dalla controparte) costituisce violazione del dovere di lealtà e probità delle parti, di cui all’art. 88 cod. proc. civ.. Trattasi di un comportamento processuale idoneo a pregiudicare il diritto fondamentale della parte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost.. Pertanto tale condotta può determinare l’applicazione dell’art. 92 cod. proc. civ., comma 1, ultima parte secondo il quale, il giudice, a prescindere dalla soccombenza può condannare una parte al rimborso delle spese che, in violazione dell’art. 88 cod. proc. civ., ha causato all’altra parte (v. Cass. 18810/2010)».
[30] V. in proposito le riflessioni di S. Pignataro, L’auto-eccezione del difetto di giurisdizione: profili problematici e spunti ricostruttivi, in Federalismi.it, n. 6/2019.
[31] Si tratta di Cons. Stato, n. 1192/2015, cit.
[32] Si segnalano qui, tra gli innumerevoli contributi, quelli di G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Riv. giur. ed., n. 5/2016, pp. 483 ss.; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss.; F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento, in Federalismi.it, n. 24/2011; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, n. 7/2011; P. Chirulli, Responsabilità da comportamento. Report annuale 2011, in Jus Publicum, www.jus-publicum.com, 2011; da ultimo – più in generale sulla tutela dell’affidamento alla luce degli ultimi arresti giurisprudenziali della Cassazione – v. anche M. Filippi, Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione: riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza, in Giustiziainsieme.it, 11 febbraio 2021.
[33] Così Cass., SS.UU., ord. 4 settembre 2015, n. 17586: «L’azione di risarcimento dei danni per l’affidamento incolpevole del beneficiario del provvedimento amministrativo emesso illegittimamente e poi rimosso per annullamento in autotutela divenuto definitivo o per annullamento in sede giurisdizionale spetta alla giurisdizione del G.o.; il solo fatto che nella fattispecie rilevi l’agire della p.a. che ha portato all’adozione del provvedimento favorevole illegittimo non giustifica che la lesione che si manifesta ex post quando tale provvedimento viene rimosso, e fa sorgere eventuale diritto al risarcimento del danno da affidamento incolpevole, sia riferibile all’interesse legittimo che il beneficiario aveva in relazione a quell’agire, e ciò in quanto quell’interesse pretensivo non era già l’interesse all’agire legittimo della p.A., bensì quello all’emanazione del provvedimento ampliativo, che è stato, sia pure illegittimamente, soddisfatto. Ciò che viene in rilievo successivamente all’annullamento è piuttosto il diritto soggettivo all’integrità patrimoniale, con conseguente giurisdizione del G.o.». A commento di quest’ordinanza, cfr. M. Sinisi, Annullamento della concessione per la realizzazione e gestione di un porto turistico, in Riv. giur. ed., n. 5/2015, pp. 1059 ss.
[34] Cass., SS.UU., ord. 22 giugno 2017, n. 15640, statuisce che la responsabilità da annullamento in autotutela della p.A. non ricade né nella responsabilità aquiliana né in quella contrattuale, pur essendo più vicina a quest’ultima a causa del “contatto” qualificato tra le parti; la posizione giuridica ricoperta dal privato, peraltro, non ricadrebbe nell’interesse legittimo ma sarebbe «assimilabile» al diritto soggettivo.
[35] Le perplessità espresse sul punto, all’epoca dell’emanazione delle ordinanze, da M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno, cit., p. 11, sono chiare e condivisibili, poiché «il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico e coerentemente la lesione che esso arreca deve essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo: tanto più se esso ha già conosciuto in sede cognitoria della sua legittimità (su ricorso del terzo leso nel suo interesse oppositivo o del destinatario leso dal suo annullamento d’ufficio)». Questo a meno che la situazione di legittimo affidamento non sia considerata diritto soggettivo, tutelabile innanzi al Giudice ordinario: orientamento, questo, progressivamente consolidatosi negli anni successivi.
[36] Lo evidenzia con chiarezza M. Filippi, Il principio dell’affidamento, cit., p. 4.
[37] Con ulteriore complicazione qualora l’annullamento d’ufficio sia esercitato su istanza di un terzo controinteressato al provvedimento ampliativo di primo grado: cfr. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., n. 2/2011, p. 896 ss., spec. p. 809.
[38] C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss., spec. p. 569-570: «l’interesse legittimo vantato dal cittadino [...] è sempre il medesimo, e cioè è la pretesa ad un provvedimento (non solo) favorevole (ma anche) frutto dell’attività legittima dell’amministrazione […]. […] l’interesse legittimo non può essere disgiunto dalla legittimità del provvedimento; e ciò innanzitutto perché l’interesse legittimo è attribuito al cittadino in relazione a vicende nelle quali all’Amministrazione è attribuito un potere, che per definizione deve essere esercitato legittimamente al fine di perseguire il pubblico interesse, cosicché la coesistenza armoniosa delle due posizioni, interesse legittimo e potere, vi è soltanto se entrambe corrispondono al diritto. L’interesse legittimo, inoltre, è correlato al legittimo esercizio del potere, nel senso che lo richiede, perché nel nostro ordinamento […] non è ipotizzabile che vi sia una posizione di vantaggio che possa essere acquisita e mantenuta anche se è frutto di un’attività illecita o comunque contrastante con il diritto». Della stessa opinione è M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo, cit.; viceversa, secondo F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, p. 462 ss., la legittimità del provvedimento ampliativo è una qualità affatto indifferente per il privato destinatario, il quale più semplicemente mira al conseguimento e alla stabilità degli effetti di quel provvedimento.
[39] Cfr. A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, in Foro It., 2011, I, p. 2398.
[40] F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito, cit., p. 9, così si esprime: «è proprio incontrovertibile che l’affidamento sia un diritto soggettivo (o un interesse legittimo)? O meglio, è sicuro che esista un diritto all’affidamento o un diritto alla correttezza dell’azione amministrativa svincolato dalla vicenda amministrativa autoritativa? Cioè si è sicuri che la lesione dell’affidamento e la violazione della correttezza – che resta uno dei vizi di legittimità del procedimento amministrativo da tempi “sandulliani” e quindi costituisce un “parametro” del sindacato – diano invece luogo a posizioni soggettive autonome svincolate dalla vicenda sostanziale cui si riferiscono e idonee a essere riparate da un giudice diverso da quello della vicenda sostanziale? Cioè, si possono scorporare correttezza, non discriminazione, buon andamento, ecc. dal procedimento amministrativo e quindi dal luogo tipico di esercizio della funzione e di composizione tra interessi contrapposti? (Non si sottovaluti la normale trilateralità delle vicende sostanziali in esame e la potenziale plurioffensività dell’unica manifestazione del potere che si rinviene in esse). O piuttosto il giudice “ordinario” e naturale della funzione pubblica dovrebbe conoscere anche di quelle lesioni e di quelle violazioni provocate nell’esercizio del potere pubblico nell’ambito di una medesima vicenda sostanziale?».
[41] Così, P. Chirulli, Responsabilità da comportamento, cit., p. 14.
[42] Ci si riferisce a Cass., SS.UU., ord. 28 aprile 2020, n. 8236, con nota di G. Tropea e A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del G.o. Note critiche, in Giustiziainsieme.it, 15 maggio 2020; F. Ferretti, Lesione dell’affidamento del privato ad opera della p.A. e conseguenze sul riparto di giurisdizione (nota a Ord. Cass. Civ. Sez. Un. n. 8236 del 28 aprile 2020), in Judicium.it, 2020.
[43] Per la quale «nel caso di annullamento in sede giurisdizionale di un titolo abilitativo [...] non può [...] dolersi del danno chi ‒ per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. ‒ abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno»: Cons. Stato, IV, n. 5346/2014, cit.
[44] V. Tar Campania, Napoli, VIII, 3 ottobre 2012, n. 4017, in materia di revoca dell’aggiudicazione definitiva di una gara d’appalto: «Venendo, ora, a scrutinare l’an dell’invocato danno risarcibile, non rileva, innanzitutto, l’elemento psicologico del lamentato illecito precontrattuale. In questo senso, la Corte di giustizia UE (sez. III) ha reputato incompatibile con l’ordinamento comunitario la normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata (sent. 30 settembre 2010, C-314/09). Essa ha, dunque, configurato in modo marcatamente oggettivo la responsabilità dell’amministrazione nel particolare settore degli appalti pubblici, connotato dalla funzione riparatorio-compensativa della tutela risarcitoria per equivalente, con cui surrogare integralmente, in presenza dei medesimi e soli presupposti di illegittimità, quella in forma specifica, rivolta al conseguimento del bene della vita ambito (aggiudicazione), nonché connotato dalla sostanziale completezza, autoconclusività e puntualità della relativa disciplina, la cui inosservanza risulta, di per sé, presuntiva di colpa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 483/2012)».
[45] In questo senso anche la nota sentenza Cons. Stato, ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5, sulla quale v. il commento – e relativi rinvii bibliografici ivi riportati – di F.F. Guzzi, Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: l’Adunanza Plenaria fa un ulteriore passo in avanti verso la parificazione della PA al contraente privato anche nella fase della procedura di evidenza pubblica, in Federalismi.it, n. 3/2019.
[46] Tar Napoli, VIII, n. 4017/2012, cit.: «L’ordinamento, infatti, apprezza con favore il ripristino della legalità attraverso il riconoscimento dell’esercizio dei poteri di autotutela dell’Amministrazione, ma riconosce comunque che, dopo una “legittima” revoca dell’aggiudicazione, possa residuare spazio per il risarcimento dei danni precontrattuali conseguenti alla lesione dell’affidamento ingenerato nell’impresa vittoriosa in seno alla procedura di evidenza pubblica poi rimossa». In merito alla dicotomia tra legittimità del provvedimento di autotutela e responsabilità precontrattuale della p.A. sia consentito il rinvio a C. Napolitano, L’autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018, spec. pp. 268 ss.
[47] Cass., I, 20 dicembre 2011, n. 27648: «in tema di responsabilità precontrattuale, la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito ha l’onere di allegare, ed occorrendo provare, oltre al danno, l’avvenuta lesione della sua buona fede, ma non anche l’elemento soggettivo dell’autore dell’illecito, versandosi come nel caso di responsabilità da contatto sociale, in una delle ipotesi di cui all’art. 1173 c.c.». La sentenza è richiamata da Tar Napoli, VIII, n. 4017/2012, cit., la quale rimarca il concetto: «Perché sussista una tale responsabilità per “culpa in contrahendo” a carico della pubblica amministrazione, occorre però, da un lato, che il comportamento tenuto dalla P.A. risulti contrastante con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 del cod. civ., dall’altro, che lo stesso comportamento abbia ingenerato un danno del quale appunto viene chiesto il ristoro. L’obbligo di correttezza e buona fede nelle trattative va inteso in senso “oggettivo”, nel senso che non si richiede un particolare comportamento soggettivo di malafede, ma è sufficiente anche il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte che senza giustificato motivo ha eluso le aspettative della controparte».
[48] Cons. Stato, V, 22 ottobre 2019, n. 7161: «la responsabilità precontrattuale richiede non solo la buona fede soggettiva del privato, ma anche che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e lealtà dell’amministrazione, e che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione stessa, in termini di colpa o di dolo».
[49] Ex multis, Tar Campania, Napoli, V, 3 settembre 2019, n. 4440.
[50] Ci si riferisce qui alla nota figura metaforica di S. Giacchetti, Fontanazzi giuridici: l’integrazione in corso di giudizio del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1995, pp. 18 ss.
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