La discrezionalità amministrativa nel reato di abuso d’ufficio (note su Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Il rischio dell’esposizione alla responsabilità penale. - 2. Le riforme. - 3. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p.. - 4. La Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442. - 5. Che cosa vuole colpire la norma?
1. Il rischio dell’esposizione alla responsabilità penale
Il reato di abuso di ufficio rappresenta terreno di scontro che nel corso dei decenni ha creato alcune tensioni tra il legislatore e la giustizia penale. Vi è un’oggettiva difficoltà nell’individuare l’esatta articolazione del profilo strutturale di questo tipo di reato considerato “a maglie larghe”.
L’analisi richiede un approccio per certi versi interdisciplinare, poiché vi è una non definita tensione tra ciò che può considerarsi disvalore penale e ciò che rientra nell’illecito amministrativo[1]. Tuttavia, in certi casi l’approccio interdisciplinare non ha giovato e ha portato a soluzioni diametralmente opposte rispetto a quelle che il legislatore dell’art. 323 c.p. ha voluto attuare nelle quattro riforme che si sono susseguite.
Ciò che si coglie dalla lettura di alcune posizioni è la tendenza di identificare l’abuso con il semplice eccesso di potere e con alcune delle sue figure sintomatiche. Sul punto sembra che vi sia una scarsa convergenza che rischia di portare verso una “contrapposizione di paradigmi operativi differenti nel medesimo contesto d’azione”. Su quest’aspetto, la dottrina amministrativistica nota come rispetto alle linee evolutive del diritto amministrativo il diritto penale si presenta “estraneo, indifferente, distante: il diritto penale sembra semplicemente muoversi su un piano diverso. Le due dinamiche non si incrociano. E in questo contesto il giudice penale rischia oggettivamente di essere un ruolo di sbarramento, o quantomeno di ostacolo, sulla via della riforma amministrativa”[2].
Sul fronte legislativo invece accade che ciclicamente il legislatore di fronte all’eccessiva apertura della giurisprudenza penale interviene con riforme c.d. difensive e cerca di restringere l’area della punibilità.
L’eccessiva area di punibilità o di mero sospetto di punibilità ha comportato in capo ai funzionari pubblici la paura della firma fino ad arrivare alla creazione di una figura di amministrazione distorta che, da attiva, ha assunto la connotazione di amministrazione difensiva. Questo fenomeno ha comportato in capo al pubblico amministratore una posizione di immobilismo dovuto all’eccessiva, e per certe volte giustificata, prudenza[3].
Una simile disputa si è posta anche sul versante del danno erariale avanti alla Corte dei conti. Sono note le limitazioni della responsabilità alla sola colpa grave, l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali (cfr. art. 1, l. n. 20/1994), la limitazione dei danni all’immagine con il “lodo Bernardo”: tutti aspetti che avevano suscitato la reazione della giurisprudenza contabile che ha cercato di ridefinire il concetto di gravità nella colpa e, con riferimento al danno all’immagine, ha cercato di elaborare una nuova figura di danno alla reputazione. La stessa norma che ha rivisto l’abuso d’ufficio ha ora circoscritto la responsabilità erariale “oltre la colpa” attestandosi (in certi casi e per un periodo) sul solo dolo (cfr. art. 21 commi 1 e 2, d.l. 76/2020 conv. in. l. n. 120/2020).
Il timore della responsabilità erariale, penale o disciplinare indubbiamente può fungere da freno nell’azione del dipendente o del funzionario. Ciò non significa però che chi rifugge ha la coscienza sporca ma spesso ha timore o paura di decidere. Va anche considerato l’importante numero di procedimenti avviati per abuso d’ufficio in un contesto interpretativo della norma tale da arrivare ad utilizzare l’espressione “abuso dell’abuso d’ufficio”. In effetti, va notato che il numero dei procedimenti avviati per questo tipo di reato e quelli conclusi con una condanna,evidenziano un divario che è stato definito apparentemente paradossale ed è stato contabilizzato all’incirca da uno a cento[4]. Statisticamente la percentuale dei procedimenti che si chiudono con una condanna è esigua. È da dire che la “paura della firma” non discende tanto (solo) dal fatto di essere condannati, ma deriva dal rischio di subire il discredito sociale connesso alla semplice possibilità di essere sottoposti ad indagini, a perquisizioni, a sequestri, a interrogatori e all’ancora più temuto clamore mediatico e istituzionale. A questo si aggiunge il fattore tempo: l’ulteriore timore è dato dalla eccessiva durata dei processi e dalle conseguenze che ne derivano deriverebbero sulla carriera durante la pendenza del procedimento, potendo la durata rappresentare un valido strumento di eliminazione del pubblico amministratore o del politico rispettivamente dall’arena burocratica o politica[5].
2. Le riforme
Le riforme che si sono succedute nel corso dei decenni sono state essenzialmente improntate a porre un argine all’asserita “ingerenza” della magistratura penale nell’attività del pubblico amministratore che agisce nell’ambito dei poteri discrezionali. Tuttavia i vari tentativi sono falliti in quanto se dopo un primo arresto in cui si prendeva atto delle modifiche normative sul sindacato giudiziale ben presto si assistette a una inversione di rotta che in sostanza e per molti versi riportava la figura alle originarie previsioni. Le ragioni possono essere molteplici (o nessuna): qualche sintomo si rinviene nell’inadeguata tecnica normativa, nello sbilanciamento dovuto alla rivisitazione e abrogazione di altre fattispecie delittuose che hanno ribaltato le aspettative sull’abuso d’ufficio, nello scontro e nella resistenza ideologica alle trasfigurazioni dell’istituto, nella personalizzazione della fattispecie, nell’eccessiva confusione tra illegittimità amministrativa e illiceità penale, tanto da poter dire che nulla è cambiato.
Il volto dell’articolo 323 c.p. è stato rimodellato per ben quattro volte ed è passato da clausola di riserva assolutamente indeterminata secondo il testo nella versione del codice Rocco che poteva essere applicato soltanto in difetto di una qualsiasi altra norma incriminatrice, poiché questa fattispecie criminosa era inserita tra il peculato per distrazione (art. 314 c.p.) e l’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p.). In tale contesto l’art. 323 c.p. ebbe una vita abbastanza equilibrata salvo alcune posizioni della giurisprudenza sui casi più eclatanti come lo “scandalo delle banane” degli anni Sessanta del precedente secolo[6].
Già nella versione iniziale dell’articolo 323 c.p. si poneva la questione dei confini tra giurisdizione penale e attività amministrativa che essenzialmente si identificavano, forse in modo non del tutto corretto, nella cognizione del giudice penale dell’atto amministrativo attraverso lo strumento della disapplicazione di cui all’art. 5 l. n. 2248/1865. Si poneva, infatti, il problema che poi si trascina fino ai giorni odierni, del rapporto tra l’illegittimità amministrativa e illiceità penale creando delle prospettive sostanzialmente illusorie.
Vi fu una prima riforma del 1990 (l. n. 89/1990) che aveva rivisto l’assetto originario soprattutto in funzione della riforma del reato di peculato e dall’abrogazione dell’interesse privato in atti d’ufficio. Se inizialmente l’art. 323 c.p. rappresentava un’ipotesi residuale di due fattispecie criminose ben definite in un successivo momento quest’articolo assunse una funzione diversa per così dire volta a colmare il vuoto che si era creato a seguito dell’abrogazione e modifica delle citate figure delittuose. La riforma del 1990 stravolse completamente la norma trasformando l’abuso di ufficio in una figura ampia, idonea a inglobare un numero indeterminato di condotte. Si ritiene, infatti, che in qualche modo fossero inglobate quelle fattispecie che prima rientravano nella figura criminosa del peculato per distrazione, della malversazione a danno di privati e che con la riforma del 1990 furono inserite nell’articolo 323 c.p..
Nel 1997 con l. n. 234/1997 vi fu un’altra rivisitazione improntata essenzialmente a prevenire le forzature giurisprudenziali che avevano portato “ad abbassare i confini”[7]. La versione del 1997 risultava caratterizzata dalla necessaria violazione di legge o di regolamento,oppure dell’inosservanza di un obbligo di astensione e dalla illiceità intrinseca del danno o del vantaggio patrimoniale[8]. L’intento legislativo presupponeva che vi fosse una norma imperativa di natura legislativa o regolamentare diretta al pubblico funzionario e riferita specificatamente al tipo di attività svolta in concreto. Da qui però la riscrittura da parte della giurisprudenza penale che aveva (giustamente) notato come le distorsioni più gravi si potessero compiere proprio nell’ambito dell’attività discrezionale. In tale contesto venne riconsiderata la nozione di violazione di legge ricomprendendo nel suo alveo anche le norme di principio e conseguentemente anche la fattispecie dell’eccesso di potere che nel diritto amministrativo ha subito un importante rivisitazione passando dalla identificazione nelle figure sintomatiche alla violazione di principi generali di norme a largo spettro.
L’eccesso di potere emerge non più come vizio a cognizione indiretta, ossia la cui conoscenza si può raggiungere soltanto attraverso sintomi, ma viceversa attraverso un tipo di cognizione analoga alla violazione di legge[9]. In tal modo diversamente dal dato letterale voluto dal legislatore, sintomatica sul punto fu la giurisprudenza penale[10] secondo la quale “ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione”.
In effetti, il punto di scontro stava proprio nel fatto che l’intento del legislatore del 1997, come emerge dai lavori preparatori, è dato dall’esclusione dell’eccesso di potere dall’ambito di rilevanza dell’abuso d’ufficio e alla definizione della condotta tipica circoscritta alla violazione di legge o di regolamento. La reazione della giurisprudenza fu di segno diverso, come appena notato. Non di meno nel diritto amministrativo la differenza tra eccesso di potere e violazione di legge deriva, per la violazione di legge, dall’inosservanza di regole scritte e puntuali ,mentre l’eccesso di potere presuppone che la disciplina violata si ricavi dai principi i quali anche se scritti in testi legislativi vanno resi regole concrete e specifiche mediante l’opera del giudice (amministrativo)[11].
Nel campo penale la violazione di legge fu letta come violazione della legalità amministrativa e nonostante lo sforzo di tipizzazione e di selezione dei fatti punibili, la fattispecie riformata nel 1997 ha continuato a riproporre le stesse problematiche iniziali della fattispecie di abuso del codice Rocco e della susseguente modifica del 1990[12].
3. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p.
Con la riforma del 2020 operata con decreto legge (d.l. 76/2020 conv. in. l. n. 120/2020) si è voluto ridurre l’ambito di applicabilità dell’abuso intervenendo sulle parole “di norme di legge o di regolamento” che sono state sostituite dalle parole “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge ed alle quali non residuano margini di discrezionalità”.
Si ricavano due parti innovative del testo.
La prima parte ci dice che non basta una violazione di norme di legge o di regolamenti ma deve trattarsi di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da altro atto avente forza di legge ,esplicitando l’idea che debbono assumere rilevanza alle sole norme precettive.
La seconda parte esclude ogni rilevanza ai fini di integrazione del reato al vizio di eccesso di potere, prevedendo che dalla norma violata non debbano rimanere margini di discrezionalità in capo al soggetto agente.
Dalla nuova formulazione normativa ne emerge un ambito applicativo ristretto rispetto a quello definito con la precedente versione. Qui, in effetti, si apre il dibattito sulla portata della norma sul riformato reato di abuso d’ufficio, in quanto a prima vista parrebbe che si è siavoluto eliminare dal panorama dell’illecito penale l’uso distorto dei poteri discrezionali del funzionario pubblico verso fini privati[13].
Le reazioni della dottrina sono state di vario tipo tanto che il legislatore è stato definito “schizofrenico”[14], “frettoloso e maldestro”[15] e la nuova variante è considerata un esempio di “assurdità legislativa”[16] avendo il legislatore “ribattuto lo stesso chiodo impiantato nel 1997” prevedendo le specificazioni che potrebbero dar luogo un “reato legislativamente impossibile”[17] o a una “incriminazione fantasma”[18]. Altra dottrina ravvisa invece la soluzione della soppressione della norma e la sua sostituzione con delle fattispecie più determinate e precise[19]. Questa soluzione era già stata proposta della commissione Morbidelli la quale prevedeva tre diverse fattispecie incriminatrici che descrivevano tipiche forme di condotta di abuso. In tal modo si cercava di dare i caratteri di determinatezza a un reato che, come abbiamo visto ,si presta a rischi di lettura troppo espansive. La proposta che poi non ha avuto seguito a ridosso delle precedenti riforme aveva l’obiettivo di svincolare la condotta dalla rilevanza penale dell’illegittimità dell’atto amministrativo e quindi dell’eccesso di potere nella forma dello sviamento prevedendo tre figure: la prevaricazione la cui caratteristica è la non venalità, il favoritismo affaristico e, infine, lo sfruttamento privato dell’ufficio secondo la falsariga dell’infedeltà patrimoniale dell’art. 2634 c.c. previsto per i reati societari.
Aldilà di queste reazioni è comunque da notare che la giurisprudenza ha già da tempo avvertito la necessità di circoscrivere l’ambito delle norme di legge rendendosi conto della necessità di garantire la determinatezza della fattispecie penale. In tal senso è stato previsto che non deve trattarsi di norme generalissime o di principio, nemmeno di norme strumentali alla sola regolarità del servizio pubblico e nemmeno norme veramente procedimentali salvo che siano specificatamente puntualmente finalizzate a disciplinare la condotta dell’agente[20].
In sintesi nel panorama giurisprudenziale e dottrinale si possono ravvisare tre posizioni.
Una prima posizione esclude che l’eccesso di potere, in qualsiasi sua forma, debba rilevare ai fini della configurabilità del reato.
La tesi opposta attribuisce rilevanza penale dell’eccesso di potere tout court (sia intrinseco che estrinseco): l’esercizio arbitrario del potere discrezionale, pur in assenza di una violazione formale, deve poter essere comunque sindacabile.
Vi è ovviamente la posizione intermedia che limita la rilevanza penale ai casi di eccesso (o sviamento) di potere c.d. estrinseco, ritenendo che possano assumere rilievo penale solo i casi in cui l’esercizio del potere discrezionale conduca al soddisfacimento di un interesse del tutto estraneo al modello giustificativo del potere stesso.
Sul punto dei limiti esterni e interni alla discrezionalità amministrativa si è aperto un dibattito che parte dai limiti interni ed esterni elaborati dalla giurisprudenza che si riferiva essenzialmente alla giurisdizione per poi riprendere i limiti elaborati da Giannini[21] e rivisti da altri Studiosi. Il tema è complesso ed è difficile fornire un criterio distintivo tra i due tipi di limiti. Va però considerato l’assunto che l’eccesso di potere non è solo (e tanto) una figura composita (come usualmente era considerata) ma “contiene in sé ipotesi di violazioni a cognizione null’affatto sintomatica che avrebbero da tempo aver trovato uno spazio autonomo e una collocazione diversa nella sistemazione dei vizi provvedi mentali”[22].
L’esempio più significativo è dato dallo sviamento di potere. Lo sviamento di potere “implica, infatti, la valutazione dei vincoli funzionali imposti all’amministrazione: si tratta di stabilire se lo scopo concretamente perseguito con il provvedimento è quello voluto dalla legge o uno scopo diverso”. Inoltre, esso “involge un’operazione valutativa delicatissima che può arrivare sino all’accertamento delle intenzioni effettive dell’amministrazione o dei suoi agenti (…)”[23].
La giurisprudenza penale intende lo sviamento del potere in modo leggermente diverso ovvero come una sorta di strumentalizzazione dell’ufficio per fini personali ovvero per fini egoistici e quindi uno sfruttamento che porta a fuoriuscire dalle finalità pubbliche per le quali quel potere è stato attribuito[24].
4. La Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442
A tracciare una prima linea interpretativa vi sono le prime sentenze della Cassazione intervenute su fatti anteriori la riforma e hanno attestato la retroattività della riforma intervenendo con la formula “perché il fatto non costituisce più reato”[25].
Significativa è la sentenza della Cassazione n. 442/2021 che interviene sul nuovo art. 323 c.p. e che identifica “la ragion d’essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l’art. 323 c.p. (…) nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’art. 97 Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità”.
La Cassazione ci fornisce alcune indicazioni iniziali su ciò che completa la nuova fattispecie incriminatrice. Si legge che: “La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa”.
Essa ha, infatti, ritenuto di non confermare la responsabilità dell’imputato perché, alla luce della riforma, risulta assente nella sua condotta alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non presidiano margini di discrezionalità. In tal modo essa afferma che può assumere rilievo solo la violazione di norme primarie di legge o assimilate.
L’altro aspetto importante è la “specificità della violazione”, infatti, la sentenza prevede che assumono rilievo norme di condotta “specificatamente disegnate in termini completi e puntuali”[26]. E pertanto “di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto”.
Per quanto riguarda i profili di discrezionalità la Cassazione esclude dall’ambito del penalmente rilevante le condotte alla cui base vi è l’esercizio di un potere discrezionale che sottende la possibilità di una scelta di merito, effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi in gioco, pubblici e privati.
Tuttavia, e questo è l’aspetto importante, la Corte precisa che l’irrilevanza penale dell’esercizio di un potere discrezionale trova un limite quando tale esercizio non trasmoda “in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi”.
Su questo la Cassazione ulteriormente specifica facendo una distinzione tra limiti esterni e limiti interni della discrezionalità amministrativa prevedendo la persistenza del rilievo penale del provvedimento che viola i limiti esterni della discrezionalità. Questo è l’aspetto che in qualche modo salva il significato della norma e non genera com’è stato definito dalla dottrina un reato impossibile. La sentenza indica uno spazio di operatività e fornisce una (prima) soluzione di applicabilità intertemporale evidenziando come “in linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Con il lineare corollario per cui all’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, consegue nei processi in corso il proscioglimento dell’imputato, con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”[27].
5. Che cosa vuole colpire la norma?
La nuova formulazione della norma ridimensiona molto lo spazio che aveva assunto questo reato che, essendo caratterizzato da condotta indeterminata o fluida, si prestava a facili ampliamenti (anche prima, forse, non consentiti dalla formulazione ex ante vigente).
In sostanza, cosa vuole colpire la norma?
Tutti quei comportamenti - ben individuati e predeterminati dalla legge, in situazioni in cui non vi è un potere di scelta tra varie opzioni tutte “possibili” (uso questo termine, senza addentrarmi tra opzioni legittime, ma magari inopportune, o opportune, ancorchè non del tutto legittime, perchè questo presuppone un ulteriore approfondimento concettuale), quindi in cui l’attività è vincolata, laddove l’agente usi il potere che la legge gli ha attribuito per un fine diverso da quello indicato dalla norma stessa, quindi nelle ipotesi classiche di sviamento, cioè di volontà (che nello sviamento, non va dimenticato, è volontà procedimentale, non psicologica, con tutte le conseguenze del caso) deviata dal suo fine predeterminato.
Riguardo alle due parti innovative della riforma: a) il comportamento e la sua fonte e b) la discrezionalità, si nota quanto segue.
Analizzando il testo dell’art. 323 c.p. e mettendo a confronto due passaggi: le “specifiche regole di condotta” e l’”espressamente previste dalla legge”, va fatta una notazione sulla fonte della violazione comportamentale. Com’è noto spesso la legge non contiene “specifiche regole” e ciò accade per ragioni di delegificazione o perché è “fisiologico” che sia la fonte subprimaria a disciplinare nel dettaglio[28]. Si immagini i concorsi universitari e il rinvio della legge ai regolamenti dei singoli atenei oppure all’ambito ambientale o urbanistico che rinvia ai regolamenti o agli atti amministrativi generali.
La soluzione alla questione dell’estensione agli atti subprimari molto dipenderà dalle posizioni giurisprudenziali: infatti, in questo periodo intertemporale è interessante leggere i provvedimenti di archiviazione e le sentenze di merito. Se si va oltre il dato letterale e si qualificano gli atti secondari come presupposti della legge, è plausibile anche sostenere che si viola la legge violando l’atto secondario. Tesi potenzialmente sostenibile nelle ipotesi di delegificazione poiché la legge attribuisce il valore normativo all’atto secondario.
Per quanto riguarda la questione della discrezionalità, dalla lettura della norma la conseguenza parrebbe ovvia: dove c’è discrezionalità (cioè potere di scelta), la rilevanza penale perciò sola verrebbe meno. Tuttavia, anche se ci sono una molteplicità di scelte (cioè quando l’agente si trova in un’ipotesi classica di discrezionalità amministrativa), la volontà dell’agente può essere deviata da interessi non tutelati da quella specifica norma. Di conseguenza, non penso rilevi tanto il fatto che l’attività sia o meno discrezionale, vincolata o predeterminata dalla norma, ma piuttosto che lo sia la finalità per cui il potere è dato: si prenda a mente l’espropriazione per pubblica utilità. Nell’espropriazione il vincolo normativo che farebbe assurgere l’atto o l’attività a fattispecie penalmente rilevante non è la vincolatezza o l’assenza della discrezionalità, ma solo del fine cui è rivolta l’attività; e nell’espropriazione il fine è dato dal fatto che non ci deve essere interferenza di interessi privati.
La Cassazione ha fatto un ragionamento pienamente condivisibile in astratto in tutti gli elementi di come la norma penale è ora strutturata a seguito della riforma e sembra portare in quella direzione[29].
In concreto però non è (sempre) così, bisogna guardare com’è strutturata la specifica norma attributiva del potere. Se la norma non stabilisce un fine specifico allora in questo caso nulla si può dire in quanto vi è discrezionalità. Se la norma stabilisce un fine specifico predeterminato e non è osservato, in quel caso occorre la fattispecie dell’abuso anche con un atto discrezionale[30].
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[1] È stata espressa “l’esigenza di convergere su un linguaggio condiviso fra i due settori del diritto, che scongiuri la contrapposizione di paradigmi operativi differenti nel medesimo contesto d’azione, che rendono obiettivamente difficile l’esercizio della funzione o l’espletamento del servizio”, sul punto l’analisi di A. MERLO, Lo scudo di cristallo: la riforma dell’abuso d’ufficio e la riemergente tentazione “neutralizzatrice” della giurisprudenza, in Sistema penale, 1° marzo 2021. Sul tema si v. P. TANDA, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o di regolamento, in Cass. pen., 1999, p. 2121..
[2] L. VANDELLI, Riforma amministrativa e esigenza di rimodulare il ruolo del giudice penale”, in D. SORACE, Domenico, Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, Padova, 1998, pp. 513 ss; G. COMPORTI e E. MORLINO, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2019, pp. 129-187; C. CUDIA, L’atto amministrativo contrario ai doveri di ufficio nel rato di corruzione propria: verso una legalità comune al diritto penale e al diritto amministrativo, in Diritto pubblico, 2017, pp. 683-722.
[3] M.A SANDULLI, Introduzione, in Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, 13 luglio 2020, Webinar in https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8 e https://lamministrativista.it/articoli/news/webinar-abuso-d-ufficio-e-responsabilit-amministrativa-il-difficile-equilibrio-tra .
[4] Nel 2017 a fronte di oltre 6.500 cause, l'Istat ne ha contate 57 - e arrivano a distanza di anni, cfr. https://www.telemat.it/rischio-abuso-dufficio-6-500-inchieste-lanno-ma-solo-57-condanne/ e http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_CONDCRIM1, v. G.L. GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo ‘salvo intese’ (e la riserva di legge?), in Sistema Penale, 17 luglio 2020, p. 5; V. MAGLIONE, Il nuovo abuso d’ufficio non taglia i fascicoli a carico dei funzionari ma rischia di complicare le indagini, in Giustizia penale e riforme, Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020
[5] Sul concetto di abuso A. R. CASTALDO, L’abuso penalmente rilevante nel mercato economico finanziario e nella pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1-2/2018, 89 ss.; M. NADDEO, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e rischio socialmente adeguato, in L’Indice Penale, n. 2-2013, 421.
[6] T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza Penale, 2020, n. 7-8.
[7] M. NADDEO, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in A. R. CASTALDO (a cura di), Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Giappichelli, Torino, 2018, p.31 ss.
[8] G. FIANDACA, Verso una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?, in Questione giustizia, 1996, p. 319.
[9] M. D’ORSOGNA, L’invalidità del provvedimento amministrativo, in F.G. Scoca, Diritto amministrativo, Torino , 2019, p. 289.
[10]Cass. Pen. SS.UU., 29 settembre 2011, n. 155, in Cass. Pen ,2012, p. 2140.
[11] G. CORSO, Validità, in Enc. Dir., vol. XLVI, Milano 1993, p. 85.
[12] S. TORDINI CAGLI, Il reato di abuso d’ufficio tra formalizzazione del tipo e diritto giurisprudenziale: Una questione ancora aperta, In penale diritto e procedura
[13]A. D’AVIRRO, Focus, in il Penalista, I.d., Lo sviamento di potere nel nuovo reato di abuso d’ufficio: un ritorno al passato, ivi.
[14]Ibidem
[15] A. MERLO, Lo scudo di cristallo, cit..
[16]T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit..
[17]G. GATTA, “Da “spazza-corrotti a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (e la riserva di legge?)”, in Sistema penale, 17 luglio 2020.
[18] A. NATALINI, Il nuovo abuso d’ufficio il rischio è una incriminazione fantasma, in Guida al diritto, 24 ottobre 2020, 42, p. 76.
[19] S. CASSESE, Intervista, in Il Messaggero, 20 febbraio 2021.
[20] R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Questa Rivista.
[21] M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi (1939), in Scritti, 1, Milano, 2000,pp.51-56
[22] M. D’Orsogna, cit., p. 289.
[23] Ibidem.
[24] G. FIDELBO, Intervento in Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, 13 luglio 2020 Webinar in https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8 e https://lamministrativista.it/articoli/news/webinar-abuso-d-ufficio-e-responsabilit-amministrativa-il-difficile-equilibrio-tra.
[25] Cass. 25 agosto – 17 novembre 2020, n. 32174, si v. commento di G. AMATO, Una prima pronuncia che chiarisce la portata della limitazione introdotta, in Guida al diritto, 5 dicembre 2020, 48, p. 87 ss.
[26] La Cassazione sostiene che il nuovo art. 323 c.p. ha un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile: sottrae al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario, quanto il sindacato del mero “cattivo uso”, cioè la violazione dei limiti interni nelle modalità d’esercizio, della discrezionalità amministrativa.
[27] Sul punto dell’uso distorto del potere, v. G. AMATO, L’irrilevanza penale trova un limite nell’uso distorto del potere pubblico, in Guida al diritto, 6 febbraio 2021, 5, p. 99-100.
[28] A. ALBERICO, Le vecchie insidie del nuovo abuso d’ufficio Nota a Cass., Sez. VI, sent. 9 dicembre 2020 (dep. 8 gennaio 2021), n. 442, Pres. Fidelbo, Rel. Giorgi, in Sistema penale, 4, 2021, M. GAMBARDELLA, Simul Stabunt Vel simul Cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del Giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale 2020, p. 133 e ss.
[29] In effetti, l’analisi richiederebbe una approfondita considerazione non solo del versante oggettivo ma anche di quello soggettivo del giudizio di imputazione in termini di consapevolezza dell’imputazione, per un’analisi compiuta si v. A. PERIN, L’imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, in La legislazione penale, 23.10.2020in particolare pp. 36 -37.
[30] Pertanto andrebbe da dire che se la finalità è attribuita da un atto amministrativo (ad es. di tipo generale o un piano) allora sfuggirebbe all’applicabilità del nuovo art. 323 c.p.