ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Cenni introduttivi: il dettato normativo. 2. La giurisprudenza degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso sull’appellabilità delle ordinanze cautelari. 3. L’orientamento del Consiglio di Stato favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico. 4. I risvolti pratici della pandemia da Covid-19 sulla tutela cautelare nel processo amministrativo. 5. Esigenze contingenti e art. 84 d.l. n. 18/2020. 6. Emergenza sanitaria e recenti pronunce a favore dell’appellabilità del decreto monocratico. 7. Una visione diametralmente opposta: l’orientamento contrario all’appellabilità. 8. Brevi considerazioni conclusive.
1. Cenni introduttivi: il dettato normativo
La legge n. 205/2000, come noto, ha dettato molteplici innovazioni in materia di giustizia amministrativa, perlopiù con riferimento all’ambito della tutela cautelare, in relazione alla quale ha altresì introdotto la possibilità per il ricorrente di rivolgersi direttamente al presidente del tribunale al fine di ottenere una misura cautelare provvisoria in casi di “estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”[1].
Lo strumento in questione, da ritenersi eccezionale, è stato ritenuto impiegabile, con tutta evidenza, in relazione alle situazioni nella quali l’attesa della decisione della questione in sede di camera di consiglio avrebbe potuto vanificare la speranza di tutela del ricorrente.
La norma ha previsto che il presidente del tribunale provvedesse mediante decreto motivato, decisione a carattere monocratico, emanata in assenza di una discussione delle parti avanti al presidente, ossia “anche” in assenza di contraddittorio ed a validità temporale limitata, ovverosia efficace sino alla pronuncia dell’organo collegiale, chiamato a confermare od annullare il predetto provvedimento presidenziale[2].
Il collegio, in altri termini, è stato ritenuto sede naturale di qualsivoglia forma di opposizione[3].
Ebbene, l’introduzione del rimedio del decreto presidenziale cautelare ad opera della legge n. 205/2000 è stata sin da subito accompagnata dalla convinzione circa l’inammissibilità dell’appello avverso il provvedimento stesso, in ragione del carattere provvisorio del medesimo, in quanto tale destinato ad essere inglobato di seguito dalla decisione collegiale[4].
Il prevalente orientamento dottrinale in questo senso è stato altresì confermato dalle stesse successive specifiche previsioni legislative, tra le quali, a titolo esemplificativo, l’art. 245 del previgente codice dei contratti pubblici, d.lgs. 163/2006, che espressamente negava l’impugnabilità dei provvedimenti presidenziali cautelari ante causam[5].
Ad oggi, l’art. 56, comma 1 del codice del processo amministrativo dispone che “in caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”, il ricorrente possa, mediante la domanda cautelare, ovvero con distinto ricorso notificato alle controparti, chiedere al presidente del T.A.R. od anche della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie.
È il comma successivo che precisa poi a chiare lettere come il Presidente provveda con “decreto motivato non impugnabile”; tale decreto, ai sensi dell’art. 56, comma 4 c.p.a., in caso di accoglimento, vede perdurare la propria efficacia sino alla predetta camera di consiglio, nell’ambito della quale l’istanza cautelare formulata è trattata nelle forme ordinarie. Alla luce del medesimo comma, il decreto perde efficacia se il collegio non provvede sulla domanda cautelare nella menzionata camera di consiglio; inoltre, fintantoché efficace, il provvedimento cautelare è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte.
In prima battuta appare pertanto evidente, alla luce del dettato normativo vigente, il carattere precario oltre che provvisorio della tutela cautelare monocratica di cui trattasi, misura in quanto tale legata in senso strumentale alla tutela cautelare collegiale[6].
Trattando della misura cautelare in esame, peraltro, si riscontra un’analogia con le misure cautelari ante causam, di cui all’art. 61 c.p.a., proponibili in casi di “eccezionale gravità e urgenza” e del pari delineate sul piano normativo quali provvedimenti non impugnabili (cfr. art. 61, commi 4-5 c.p.a.).
Sempre sull’appellabilità delle misure cautelari si pronuncia poi il successivo art. 62 c.p.a. laddove, volendo attenersi strettamente al dettato normativo, si rende esplicito che l’appello al Consiglio di Stato è unicamente ammesso nei confronti delle ordinanze cautelari.
Lo stesso dettato legislativo di cui all’art. 56, comma 2 c.p.a. appare inoltre inequivocabile, posta la chiara affermazione circa l’impossibilità di impugnare il provvedimento cautelare motivato con cui si esprime il presidente; appellabilità peraltro esclusa anche, implicitamente, dal successivo art. 62, comma 1 c.p.a., laddove, trattando degli atti impugnabili innanzi al Consiglio di Stato mediante ricorso in appello, non si fa menzione dei decreti.
Ebbene, a fronte della chiara disciplina vigente, di cui alle suddette previsioni del Codice del processo amministrativo, occorre registrare come, da qualche a tempo a questa parte, alla luce di un aumento esponenziale delle pronunce sulla questione in corrispondenza dell’esplosione della pandemia da Covid-19 – come si dirà oltre – si è affermato un filone giurisprudenziale nel senso dell’ammissibilità dell’appello nei confronti del decreto cautelare (cfr., in particolare, il successivo § 6).
2. La giurisprudenza degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso sull’appellabilità delle ordinanze cautelari
L’orientamento predetto collocatosi in senso favorevole rispetto all’appellabilità dei decreti cautelari monocratici si ritiene tragga la propria origine dal risalente filone giurisprudenziale creatosi negli anni Settanta del secolo scorso, intervenuto a modificare la precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato e volto ad affermare l’ammissibilità dell’appello avverso le ordinanze dei T.A.R. sulla sospensione del provvedimento impugnato[7].
Tale aspetto, infatti, è divenuto negli anni oggetto di dibattito nell’ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato, perlopiù con l’entrata in vigore della legge n. 1034/1971, la quale nulla prevedeva a proposito del regime dei gravami ammissibili avverso le pronunce cautelari emanate con ordinanza; la questione è pertanto stata deferita all’Adunanza plenaria[8].
Nelle more della pubblicazione delle statuizioni della plenaria, tuttavia, interveniva la legge 3 gennaio 1978, n. 1, in tema di accelerazione delle procedure per l’esecuzione delle opere pubbliche, la quale all’art. 5, ultimo comma, pronunciandosi mediante un intervento episodico in tema di giustizia amministrativa, dichiarava espressamente inappellabili le ordinanze del giudice amministrativo di primo grado pronunciatesi sulla sospensiva[9].
L’Adunanza plenaria, dunque, si è pronunciata sulla questione prima dell’entrata in vigore di tale legge e la decisione pubblicata ha chiaramente affermato, in contrasto con la subentrata legge, l’ammissibilità dell’appello al Consiglio di Stato avverso l’ordinanza del T.A.R. che avesse disposto sulla sospensione del provvedimento impugnato[10].
Ebbene, nell’ambito di tale pronuncia dell’Adunanza plenaria si rivengono diverse argomentazioni allora impiegate al fine di sostenere l’ammissibilità dell’impugnazione delle ordinanze e, ad oggi, riprese al fine di sostenere l’appellabilità dei decreti cautelari[11].
Nella pronuncia del 1978, nel dettaglio, si rilevava come la situazione normativa, non sembrasse sufficiente ad escludere la proponibilità dell'appello contro le ordinanze in materia di sospensione, considerato che, tanto la legge n. 1034/1971 quanto il sistema della giustizia amministrativa in cui era inserita non stabilivano una tipologia degli atti processuali del giudice, dalla quale fosse possibile desumere la precisa individuazione dei mezzi giuridici per la rimozione e la sostituzione degli atti stessi; le stesse disposizioni normative, a giudizio della Adunanza plenaria, non sancivano neppure, in alcun modo, il principio della tassatività delle impugnazioni.
Ne conseguiva l’affermazione per cui il regime di impugnabilità degli atti giurisdizionale pareva dovesse essere ricavato non dal modello formale e, dunque, dalla natura dell’atto, bensì dal suo effettivo contenuto: si riteneva cioè che la questione dell'appellabilità delle ordinanze dei T.A.R. sulle domande di sospensione dipendesse in definitiva dalla sussistenza o meno in tali pronunce del contenuto di vera e propria decisione di una controversia cosi come riscontrato in una sentenza.
In altri termini, a giudizio del collegio, il provvedimento che in forma di ordinanza definiva una domanda di sospensione aveva, certamente, natura decisoria poiché risolveva, in contraddittorio tra le parti, una specifica controversia, ossia un conflitto di pretese, dettando il regolamento giuridico di esso e attribuendo ad uno dei soggetti in contesa un concreto vantaggio garantito dalla legge, cosicché l’idoneità di tale pronuncia a pregiudicare in un senso o nell'altro gli interessi fatti valere nel processo conservativo avrebbe impedito d'includere la pronuncia stessa nel novero dei provvedimenti sforniti di efficacia decisoria. In quanto tale la pronuncia, produttiva di fatto di effetti equiparabili agli effetti della sentenza, veniva ritenuta suscettibile d’appello, ai sensi dell’art. 28, comma 2 l. n. 1034/1971.
Tale conclusione, peraltro, si riteneva corrispondente ad una interpretazione logico-sistematica degli art. 125, 2° comma, 3, 1° comma, 100, 1° comma, e 103, 1° comma, Cost.[12]
La stessa Adunanza plenaria, di lì a poco, si è poi nuovamente pronunciata sull’aspetto in esame, confermando la tesi dell’applicabilità del doppio grado di giudizio “senza eccezioni” anche nell’ambito del processo cautelare[13].
Tale statuizione si ritenga discenda altresì dalle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale di poco antecedente, la quale si è pronunciata sulla illegittimità costituzionale dell’art. 5 l. n. 1/1978[14]. La previsione della legge summenzionata – che aveva dettato previsioni in senso contrario rispetto alla pronuncia poc’anzi presa in esame (Con. St., Ad. plen. n. 1/1978) – infatti, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 125, comma 2 Cost., nella parte in cui escludeva l'appellabilità al Consiglio di Stato delle ordinanze dei tribunali amministrativi regionali pronunciate sulla domanda di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo impugnato nei giudizi concernenti opere pubbliche e impianti industriali.
Nella pronuncia in questione, in particolare, il Giudice costituzionale ha esplicitato come il principio del doppio grado di giurisdizione, dunque, la possibilità di un riesame del provvedimento decisorio del giudice di primo grado da parte del Consiglio di Stato, trovasse applicazione anche nei riguardi del processo cautelare; non si è neppure ravvisata nell’ambito dell’art. 125 Cost. alcuna limitazione dalla quale potesse dedursi che esso si riferisse esclusivamente alle pronunce di merito.
Nella sentenza si poneva in luce, inoltre, come l'art. 28 1. n. 1034 del 1971, trattando dell'appello, menzionasse esplicitamente solo le sentenze dei T.A.R., tuttavia, da un lato esso si porrebbe in contrasto con la citata norma costituzionale ove fosse da interpretare restrittivamente e d’altro canto, la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto tale disposizione come relativa a tutti i provvedimenti di carattere decisorio del giudice di primo grado, perciò anche all'ordinanza che pone termine al procedimento cautelare.
Appare evidente, pertanto, come le suddette pronunce abbiano assunto una rilevanza particolare in relazione all’evoluzione della tutela cautelare nel giudizio amministrativo, sancendone la rilevanza costituzionale e l’essenzialità ai fini della garanzia di una tutela adeguata degli interessi giuridicamente protetti, anche, ai fini della trattazione, in termini di doppio grado di giudizio[15].
3. L’orientamento del Consiglio di Stato favorevole all’appellabilità del decreto cautelare monocratico
Sulla scia delle pronunce che nei decenni precedenti hanno affermato l’ammissibilità dell’appello avverso le ordinanze cautelari, si è assistito, di seguito, alla formazione di un orientamento giurisprudenziale favorevole all’appellabilità dei decreti cautelari monocratici.
Peraltro, occorre registrare come le pronunce rientranti nell’ambito di tale filone giurisprudenziale non siano estremamente numerose, sebbene gli argomenti impiegati a sostegno siano stati diversi.
In quest’ottica può essere letto, in particolare, il decreto presidenziale n. 4628/2009 della sez. V del Consiglio di Stato di accoglimento dell’istanza di misure cautelari provvisorie e di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato in primo grado fino all’esito dell’esame collegiale dell’istanza cautelare[16].
Nell’ambito della suddetta pronuncia – emessa nella vigenza della legge n. 205/2000 – rammentato anzitutto come l’art. 3 della stessa legge non avesse formalmente previsto l’impugnazione in sede di appello avverso il decreto cautelare presidenziale di T.A.R. – nella fattispecie di diniego di misure cautelari provvisorie – si è esplicitato, in primo luogo, come l’inammissibilità dell’appello “si porrebbe in contrasto con i principi ispiratori dell’ordinamento che sono orientati a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, anche cautelare, delle posizioni soggettive fatte valere dagli interessati”.
In aggiunta, nel decreto in parola si è rilevata la presenza di motivi di estrema gravità ed urgenza, considerato che la camera di consiglio per l’esame collegiale dell’istanza cautelare risultava fissata in data successiva rispetto al periodo di efficacia del provvedimento impugnato in primo grado (nel caso di specie un decreto della Provincia autonoma di Bolzano concernente l’autorizzazione all’abbattimento delle marmotte ed avente una durata circoscritta nel tempo).
Ebbene, come acutamente osservato dalla dottrina a commento della pronuncia in esame, sebbene il rimedio del doppio grado di giudizio non fosse previsto sul piano normativo, tuttavia, non si può non registrare come il Consiglio di Stato sia frequentemente intervenuto in relazione al caso di specie ed altresì in precedenza, laddove necessario, pur in assenza di espresse disposizioni di legge[17].
Lo stesso strumento cautelare è stato plasmato dalla giurisprudenza amministrativa, in svariate occasioni, al di là del dato normativo, così come avvenuto in precedenza con l’affermazione dell’ammissibilità dell’appello avverso l’ordinanza cautelare di primo grado, alla luce del decisum di cui all’Adunanza plenaria n. 1/1978 menzionata, di seguito avallato dalla Corte costituzionale mediante la sentenza n. 8/1982 e, pur a fronte del dettato legislativo contrario di cui alla l. n. 1/1978.
L’apporto della giurisprudenza del Consiglio di Stato in questo senso può essere letto quale intervento di costruzione del provvedimento cautelare in risposta alle esigenze della società, al fine di fornire una risposta favorevole mediante un intervento urgente, nel quadro generale del ruolo attribuito alla tutela giurisdizionale[18].
Ed è secondo tale chiave di lettura che potrebbe essere interpretato, del pari, l’orientamento di talune sezioni del Consiglio di Stato, affermatosi negli ultimi mesi in corrispondenza della emergenza sanitaria, volto ad affermare l’ammissibilità dell’appello avverso il decreto cautelare monocratico, laddove sia configurabile una perdita definitiva ed irreversibile di un bene della vita corrispondente ad un diritto costituzionalmente tutelato del soggetto interessato.
Tale opzione interpretativa risulterebbe suffragata dall’argomentazione facente capo agli artt. 24 e 111 Cost. e, dunque, in senso generale, al principio costituzionale della tutela giurisdizionale.
In tal senso – stando alle pronunce in questione ed a quanto sostenuto dalla dottrina favorevole all’appellabilità delle decisioni cautelari di primo grado – sostanziandosi tale tutela in un diritto fondamentale dell’individuo, dovrebbe essere riconosciuta in maniera incondizionata, anche al di là del dato normativo testuale, sposando in taluni casi un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, oltre che delle previsioni ostative del legislatore, da ritenersi, in quanto tali, costituzionalmente illegittime.
Nell’ambito di tale cornice, di conseguenza, occorrerebbe impiegare qualsiasi rimedio astrattamente esperibile, anche nell’ambito cautelare, riconoscendo in sostanza l’atipicità della tutela cautelare nel processo civile, bensì anche in quello amministrativo[19].
Taluna dottrina si è pertanto pronunciata in senso favorevole rispetto all’appellabilità del provvedimento presidenziale, ritenendo corretta la stessa soluzione interpretativa adottata dal Consiglio di Stato nel decreto n. 4628/2009 ed evidenziando come non vi siano ragioni per escludere l’appello avverso il provvedimento in questione, così come riconosciuto in relazione alle ordinanze cautelari collegiali.
In dettaglio, nel caso dei decreti presidenziali potrebbe porsi unicamente un problema di ordine pratico legato all’esigenza di evitare una sovrapposizione tra provvedimento cautelare in appello e decisione collegiale in primo grado; tuttavia, i presupposti per la decisione in sede cautelare presidenziale sarebbero differenti da quelli ai fini della in sede cautelare collegiale, posto che il provvedimento presidenziale troverebbe la propria logica unicamente nella necessità di evitare danni irreparabili nelle more dell’esame della questione nella sede collegiale, con tutte le necessarie implicazioni in termini di rispetto del contraddittorio[20].
Altra pronuncia di rilievo sull’aspetto specifico in esame appare il decreto presidenziale della sezione III del Consiglio di Stato, 11 dicembre 2014, n. 5650, nell’ambito della quale si è esplicitato come, pur nel silenzio del Codice del processo amministrativo sullo specifico strumento impugnatorio, vada ad ogni modo considerato appellabile un decreto monocratico del T.A.R.
In dettaglio, il giudice avrebbe esplicitato in tale provvedimento, in ordine all’ammissibilità del dell’impugnabilità del decreto monocratico, come manchi di fatto una clausola preclusiva nei riguardi di tale gravame nel dettato dell’art. 56 c.p.a., con la conseguenza per cui quest’ultimo andrebbe interpretato “secondo ragionevolezza”, nel senso, cioè, che prevarrebbe la funzione cautelare anticipatoria laddove l’esigenza cautelare rappresentata sarebbe “per la natura degli interessi coinvolti o per la specificità della statuizione della P.A., di natura tale da dover esser protetta senza neppure attenderne la trattazione collegiale in camera di consiglio, anche in sede d’appello”[21].
Ancora, un’ulteriore argomentazione a sostegno dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico di primo grado è stata esposta nel recente decreto n. 5971/2018 reso dal Presidente della IV sezione del Consiglio di Stato, nell’ambito del quale, predicata l’appellabilità del decreto cautelare di primo grado, si è ritenuta la tutela monocratica del Consiglio di Stato quale unico strumento impiegabile al fine di garantire una effettiva tutela alla situazione di urgenza posta dal ricorrente[22].
In tale pronuncia, il Presidente, ha anzitutto richiamato i princìpi sulla indefettibilità della tutela cautelare nel corso di qualsiasi fase e grado del processo, rilevanti ai fini del processo amministrativo e ritenuti desumibili dall'art. 24 Cost., così come dagli art. 6 e 13 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo[23].
Inoltre, ha richiamato le pronunce già emesse sul punto, a conferma di tale interpretazione e così il menzionato decreto del Consiglio di Stato 11 dicembre 2014, n. 5650, oltre che le precisazioni e le statuizioni dell'Adunanza plenaria sull'ambito di applicazione dell'art. 125 Cost. rispetto alle fasi del giudizio cautelare nel processo amministrativo (cfr. Cons. St., Ad. plen., ord. n. 1 del 1978), definite nel provvedimento “ancora attuali”.
Di conseguenza, nel caso in questione, il giudice ha ritenuto ammissibile l’appellabilità del decreto monocratico del presidente del T.A.R. esclusivamente in presenza di eccezionali ragioni d’urgenza, tali da rendere irreversibile la situazione di fatto in conseguenza del tempo intercorrente tra la data di emanazione del decreto appellato e la data fissata per la camera di consiglio volta all’esame della domanda cautelare, ad opera del T.A.R. in sede collegiale; a tale statuizione si è aggiunta la precisazione per cui “il presidente della sezione del Consiglio di Stato, se ritiene di accogliere l'appello e di riformare il decreto impugnato, emette una misura che ha unicamente la finalità di evitare che una situazione di fatto diventi irreversibile e che comunque perde effetti quando il Tar esamina la domanda cautelare nell'ordinaria sede collegiale: il Tar, ove ritenga di non condividere il decreto reso in sede d'appello (pur se «confermato» dall'ordinanza del Consiglio di Stato in sede collegiale nella relativa peculiare fase incidentale), decide la domanda cautelare posta al suo esame, con la pienezza dei propri poteri”.
A giudizio del presidente, ad ogni modo, “il decreto cautelare monocratico del presidente della sezione del Consiglio di Stato va comunque sottoposto all'esame del collegio e, nel caso di accoglimento dell'appello rivolto contro il decreto del Tar, egli deve fissare senza indugio la camera di consiglio collegiale del Consiglio di Stato, affinché il collegio valuti (qualora il Tar non si sia già pronunciato in sede collegiale) se ribadire o meno le statuizioni del presidente, fermo restando in ogni caso il potere del Tar di decidere anche successivamente la fase cautelare, con le conseguenze sopra indicate”.
Tra le argomentazioni impiegate nell’ambito dell’orientamento in esame, certamente, rientra anche quella per cui l’appellabilità dovrebbe essere consentita laddove le censure proposte siano direttamente fondate sull’asserita violazione di principi di rango costituzionale[24].
Taluna dottrina, in commento a tale pronuncia, tuttavia, avrebbe rilevato come il profilo cruciale del decreto in questione non sia rappresentato dal “riconoscimento di un'ipotesi «eccezionale e limitata» rispetto a una regola generale di inammissibilità dell'appello”, ma “dalla affermazione di una eccezione, seppur circoscritta nella sua portata, in contrasto con il chiaro disposto della legge: la legge cioè detta una regola, quella della non impugnabilità del decreto cautelare, in termini generali e incondizionati, senza contemplare alcuna eccezione”[25].
4. I risvolti pratici della pandemia da Covid-19 sulla tutela cautelare nel processo amministrativo
Come accennato, con tutta evidenza, la tutela cautelare si pone quale strumento processuale di fondamentale importanza nell’ambito di contesti ed eventi emergenziali, caratterizzati da un’urgenza sul piano decisorio, poichè in grado di approntare una tutela rapida ed effettiva, ad ogni modo in senso strumentale e servente rispetto alla fase di analisi del merito della controversia[26].
L’emergenza pandemica, che ancora ci vede coinvolti, pare l’esempio lampante di quanto poc’anzi esposto ritenuto che, al fine di fronteggiare ed arginare la situazione di enorme difficoltà, le autorità nazionali sono state chiamate ad assumere provvedimenti a tutela dell’interesse pubblico e della salute dei cittadini, sovente fortemente limitativi dei diritti e delle libertà dei singoli[27].
In tale contesto, l’utilizzo in sequenza di provvedimenti ed atti peculiari, nell’ambito del sistema delle fonti di regolazione dell’emergenza, quali d.p.c.m. a livello statale ed ordinanze regionali, ha messo a dura prova la stessa effettività della tutela giurisdizionale valorizzando, tuttavia, la fase cautelare del processo[28].
Gli stessi decreti legge emanati con frequenza nei primi mesi del 2020, oltre che i numerosi e successivi d.p.c.m. adottati a livello centrale, hanno consegnato ai presidenti di regione ed agli amministratori locali una possibilità di azione ulteriore: ecco che, in svariati casi – come si avrà modo di esplicitare – avverso le predette misure regionali e locali è stata pertanto invocata la tutela cautelare del giudice amministrativo, chiamato a pronunciarsi circa la sospensione dell’atto in questione[29].
È innegabile, dunque, che nella gestione dell’emergenza sanitaria generatasi a partire dai primi mesi del 2020, con l’esplosione della pandemia da Covid-19, la tutela cautelare nell’ambito del procedimento amministrativo abbia assunto un ruolo centrale e sostanzialmente irrinunciabile[30].
In questo senso, in primo luogo – come si dirà a breve – lo stesso legislatore ha ritenuto di approntare una specifica disciplina volta a regolare la situazione emergenziale, dettando precise norme sulle istanze cautelari, con efficacia limitata al periodo 8 marzo-15 aprile 2020.
Come si è accennato, inoltre, a fronte della predicata centralità dello strumento della tutelare cautelare, in senso generale, ma perlopiù con specifico riferimento alla tutelare cautelare monocratica di primo grado, nel contesto globale di emergenza, si è assistito altresì all’emersione di una corrente giurisprudenziale nell’ambito del Consiglio di Stato, mostratasi favorevole rispetto alla questione dell’appellabilità del decreto cautelare in parola.
5. Esigenze contingenti e art. 84 d.l. n. 18/2020
Nel periodo di maggiore emergenza sul piano sanitario, in conseguenza della pandemia da Covid-19, il legislatore, mediante l'art. 84, 1° comma, d.l. 17 marzo 2020 n. 18, convertito, con modificazioni, nella l. 24 aprile 2020 n. 27, ha dettato una disciplina ad hoc rispetto al processo amministrativo disponendo che nel periodo compreso fra l'8 marzo e il 15 aprile 2020 sulle istanze cautelari provvedesse il presidente, con decreto, ai sensi dell'art. 56 c.p.a., in attesa della trattazione collegiale da tenersi dopo il 15 aprile 2020[31].
Nel dettaglio, il suddetto art. 84 d.l. 18/2020 – il quale ha abrogato l’art. 3 del d.l. 11/2020 – ha introdotto misure innovative a proposito del processo amministrativo, applicabili al limitato periodo temporale rammentato[32].
Per quel che rileva nella presente sede, in particolare, la norma ha disposto la sostanziale tramutazione della domanda cautelare collegiale in domanda al presidente, con conseguente applicazione del rito previsto dall’art. 56, comma 1 c.p.a., ovvero in presenza dei seguenti presupposti: presentazione della istanza di fissazione d’udienza; sussistenza della competenza del T.A.R. adito; applicazione della disciplina delle notificazioni ex art. 56, comma 2 c.p.a. e fissazione della camera di consiglio collegiale. La disciplina ha altresì previsto la possibile previa audizione delle parti senza formalità, in forma orale da remoto, ovvero per iscritto, oltre che la possibile subordinazione a cauzione[33].
Ebbene, ai fini della presente trattazione, occorre registrare come, pur a fronte della peculiare disciplina introdotta, neppure in tale occasione speciale e legata ad esigenze contingenti di tutela, sia stata prevista espressamente sul piano normativo l'impugnabilità del decreto cautelare presidenziale, restando invece espressamente confermata la revocabilità o modificabilità del medesimo su istanza di parte, alla luce della espressa statuizione «fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto art. 56, 4° comma».
Quantomeno a testimonianza della volontà del legislatore sul punto, pertanto, si ritiene degna di menzione la circostanza per cui la previsione circa l’appellabilità dei decreti monocratici di cui trattasi ex art. 84, dapprima inserita nello schema di decreto, è stata di seguito espunta dalla versione definitiva del medesimo provvedimento legislativo e non è stata prevista in sede di conversione del decreto legge[34].
A conferma di tale aspetto si porrebbe altresì una pronuncia del giudice amministrativo di appello, emessa nel periodo di vigenza della suddetta norma speciale, nell’ambito della quale si è confermata l’inammissibilità dell’impugnazione del decreto presidenziale, posto che pur in presenza di un’emergenza sanitaria, in assenza di espresse previsioni derogatorie, non si è ritenuto possibile disattendere il dato normativo in materia processuale[35].
In altri termini nel decreto in questione si è posto in luce come, a seguito dell’introduzione della normativa “speciale”, il processo amministrativo in sede cautelare continui a pendere in primo grado, con la conseguenza per cui – al fine di evitare una sovrapposizione di giudizi – sia il giudice di primo quello ad ogni modo chiamato a confermare, revocare o modificare il decreto presidenziale.
In relazione al decreto monocratico “speciale” in oggetto si è osservato che “proprio per l’eccezionalità della tutela cautelare derogatoria speciale e per la sua finalità specifica (di essere cioè una misura diretta a garantire il funzionamento della giustizia amministrativa cautelare nella situazione di emergenza sanitaria) l’apprezzamento da parte del giudice monocratico dei presupposti legittimanti e la relativa motivazione sugli stessi deve essere tale che gli effetti del decreto monocratico non siano assolutamente “irreversibili” tali da compromettere o pregiudicare cioè l’esercizio del potere cautelare da parte del collegio nell’udienza camerale appositamente indicata per la trattazione”[36].
6. Emergenza sanitaria e recenti pronunce a favore dell’appellabilità del decreto monocratico
Come esposto (cfr., in particolare, il § 3), nella giurisprudenza amministrativa si è progressivamente fatto strada un orientamento che, sulla base delle indicate argomentazioni facenti capo perlopiù a principi di rango costituzionale ed alla necessità di garantire l’effettività della tutela nell’ambito del processo amministrativo anche in relazione alla fase cautelare, ha ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto cautelare monocratico.
Ebbene, recentemente il Supremo consesso della giurisdizione amministrativa ha avuto modo di esprimersi in numerose occasioni in merito alla questione dell’appellabilità del decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a.
A partire dal 2020, in particolare, e nel corso della perdurante emergenza sanitaria diffusasi a livello globale, come accennato, stante la rilevanza che ha assunto la fase cautelare nell’ambito del processo amministrativo, si è fatto strada in seno alla giurisprudenza amministrativa un orientamento, perlopiù in capo alla sezione III del Consiglio di Stato, nel senso dell’ammissibilità di tale gravame.
In altri termini, i precedenti pronunciamenti del giudice amministrativo nel senso dell’ammissibilità dell’impugnazione del decreto presidenziale cautelare (in particolare Cons. St., sez. III, decr. n. 5650/2014 e sez. IV n. 5971/2018) sono stati riconsiderati e ripresi nel periodo emergenziale laddove in misura crescente si è avvertita l’esigenza di assicurare l’effettività della tutela giurisprudenziale a fronte della possibile compromissione in via irreversibile, nei tempi tecnici del procedimento cautelare previsti sul piano normativo, del bene della vita avente una rilevanza costituzionale[37].
In particolare, già nel marzo dello scorso anno, all’esordio dell’emergenza epidemiologica, il presidente della sezione III del Consiglio di Stato si è pronunciato con decreto sul tema rilevando in ordine all’ammissibilità dell’appello come il medesimo giudice avesse in precedenza ritenuto l’ammissibilità del gravame in questione “nei soli, limitatissimi, casi in cui l’effetto del decreto presidenziale del T.A.R. produrrebbe la definitiva e irreversibile perdita del preteso bene della vita, e che tale “bene della vita” corrisponda ad un diritto costituzionalmente tutelato dell’interessato”[38].
In buona sostanza, pertanto, in tale pronuncia il Presidente si è espresso favorevolmente rispetto all’ammissibilità dell’appello, rifacendosi in larga misura alla rilevanza costituzionale del diritto invocato dal ricorrente nel caso di specie e mostrando di avallare l’orientamento che ha attribuito priorità ai principi, perlopiù costituzionali, nell’erogazione della tutela, anche laddove ciò si esaurisca in una mancata adesione al dettato normativo processuale in senso letterale.
In altra occasione, sempre il presidente della sezione terza del Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile l’appello unicamente poiché, nel caso di specie, è stato escluso “ogni pericolo di perdita definitiva di un bene della vita direttamente tutelato dalla Costituzione”, discutendosi nella fattispecie di un temporaneo pregiudizio economico a fronte di una ordinanza comunale. Nella medesima pronuncia, tuttavia, si è fatto riferimento ai quei “casi eccezionali in cui, con interpretazione costituzionalmente orientata praeter legem, il Consiglio di Stato ha ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto cautelare del Presidente di T.A.R.” ritenendo dunque di convalidare tale ipotesi interpretativa richiamata[39].
Di seguito e più recentemente, sempre la stessa sezione terza del Consiglio di Stato si è pronunciata nel senso della ammissibilità dell’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal presidente del T.A.R. nei soli casi, ritenuti eccezionali, di provvedimento avente veste esclusivamente formale di decreto e, di contro, contenuto di fatto decisorio.
Tale decreto, nel dettaglio, viene anche denominato dal medesimo giudice quale “decreto meramente apparente” ed identificato in una decisione monocratica resa in primo grado di giudizio, non avente carattere interinale e provvisorio, bensì essenzialmente volto a definire – ovvero, quantomeno, avente caratteristiche tali per cui si pone sostanzialmente quale provvedimento che rischia di definire – in via irreversibile la materia del contendere[40].
In altra pronuncia di poco antecedente si è del pari operato un riferimento ai c.d. “decreti meramente apparenti”, evidenziando come solo in tali casi si ritiene debba intervenire il giudice di appello, al precipuo fine di “restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado”[41].
In tempi ancor più recenti, negli ultimi mesi, si di fatto è assistito alla proliferazione di pronunce – essenzialmente una serie di decisioni fotocopia – rese dalla terza sezione del giudice amministrativo d’appello, a fronte dell’impugnazione dei decreti cautelari monocratici emessi da diversi tribunali amministrativi regionali chiamati a pronunciarsi a proposito delle misure urgenti adottate perlopiù dai diversi presidenti di regione, al fine della prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19[42].
In taluni provvedimenti, in particolare, i giudici hanno indirettamente chiarito la ratio dell’appello avverso il decreto cautelare monocratico, precisando come in taluni casi concreti non sia ipotizzabile una sospensione di un qualsivoglia diritto costituzionalmente tutelato sino alla decisione cautelare nell’ambito della camera di consiglio innanzi al T.A.R[43].
Lo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana si è recentemente espresso mediante una pronuncia che si colloca nel solco delle suddette statuizioni sull’argomento, rese dalla sezione terza del Consiglio di Stato[44].
Nel dettaglio, nella summenzionata pronunciata si è rilevato, in primo luogo, come l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal presidente del T.A.R. debba ritenersi di norma inammissibile, per ragioni testuali, oltre che per ragioni sistematiche, posto che l’appello di cui trattasi non risulta né previsto e neppure configurabile, in via distinta ed autonoma ai sensi dell’art. 56 c.p.a. ed, inoltre, gli artt. 62 e 100 c.p.a. si pongano quali previsioni normative che consentono l’appello unicamente in relazione a sentenze ed ordinanze, dunque, non anche ai provvedimenti in forma di decreto.
Ne conseguirebbe, secondo quanto statuito dal Giudice in questione, che la revisione o riforma del decreto andrebbe trattata in termini generali nel medesimo grado della misura stessa, con lo stesso mezzo, ovvero in occasione della conseguente camera di consiglio, la cui ordinanza cautelare – come noto – può dare luogo ad appello cautelare, stando al dettato di cui all’art. 62 c.p.a.
Menzionando tale regola generale, tuttavia, anche nell’ambito della statuizione in esame si opera un espresso riferimento ai casi eccezionali in cui il provvedimento in forma di decreto cautelare monocratico abbia un contenuto sostanzialmente decisorio, non presentando cioè un carattere provvisorio e interinale, ma collocandosi quale provvedimento che rischia di definire in via irreversibile la materia del contendere: così nel caso di decreto cui non segua una camera di consiglio, ovvero laddove la fissazione di quest’ultima avvenga con una tempistica talmente irragionevole da privare di qualsivoglia utilità la successiva pronuncia collegiale con incidenza sul merito del giudizio, determinando un pregiudizio irreversibile (residuando al limite esclusivamente questioni risarcitorie).
In altri termini, tale predicata definizione irreversibile della controversia mediante decreto monocratico si ritiene debba determinare un danno irreparabile in relazione a diritti fondamentali della persona umana, non derivante ex se dal solo dato per cui il provvedimento impugnato esplica i suoi effetti prima della camera di consiglio collegiale in primo grado e determinante l’impossibilità di disporre una tutela in forma specifica, con sostanziale rimozione del provvedimento contestato, in sede collegiale.
Ecco che, stando a quanto sostenuto nell’ambito di tale ennesima recente pronuncia sul punto, solo in tale ultimo caso, in presenza degli eccezionali presupposti declinati, sarebbe consentita l’appellabilità del decreto monocratico[45].
Peraltro, il suesposto filone giurisprudenziale – collocabile nei primi mesi del 2021 – si è verosimilmente originato in conseguenza della pandemia in atto, oltre che delle rilevanti e palesi conseguenze della medesima, a livello globale, sul piano economico e sociale. Si pensi in questo senso, quantomeno sul piano nazionale, alle problematiche occorse in termini di chiusure degli istituti scolastici di ogni ordine e grado con conseguente attivazione di sistemi di didattica a distanza, ovvero in termini di sospensione di attività e introduzione di stringenti limiti alla circolazione delle persone; provvedimenti questi ultimi che hanno inevitabilmente condotto alla impugnazione in sede giurisdizionale avanti al Giudice amministrativo di provvedimenti adottati dalle autorità a livello locale, regionale, ovvero statale ed alla richiesta di disporre misure urgenti, con ampio ricorso allo strumento della tutela cautelare, anche monocratica[46].
7. Una visione diametralmente opposta: l’orientamento contrario all’appellabilità
Del resto, a fronte della tesi suesposta, anche nell’ambito della giurisprudenza più recente espressasi sul punto, si sono registrate pronunce del giudice amministrativo di segno opposto, le quali hanno ritenuto di attenersi alle previsioni legislative vigenti[47].
Nell’ambito di tale orientamento si inseriscono le pronunce del giudice amministrativo che hanno inteso il decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a. quale eccezionale misura cautelare monocratica presidenziale “che deroga – per la dominanza della somma urgenza – ai principi generali di collegialità e di contraddittorio” ed in quanto tale avente una “funzione strettamente interinale ed impiegabile «prima della trattazione della domanda cautelare da parte del collegio, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio»”, cosicchè il relativo «decreto» sarebbe “per legge «efficace sino a detta camera di consiglio», che costituisce la giusta sede per l’esame della domanda cautelare”[48].
Rispetto a tale misura cautelare monocratica presidenziale “la legge non prevede, né per il sistema processuale appare configurabile, la via di un distinto e autonomo appello, sicché ogni questione di revisione al riguardo va trattata nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione delle conseguente collegiale camera di consiglio (la cui «ordinanza cautelare» potrà semmai, a letterale tenore dell’art. 62, formare oggetto di appello cautelare)”[49].
Più recentemente, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, a fronte dell’appello proposto avverso decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell'art. 56 c.p.a., in base all'asserito inequivoco tenore letterale dell'art. 56, 2° comma, c.p.a., si è espresso, mediante inusuale pronunciamento, nel senso del non luogo a provvedere sull'istanza[50].
Secondo quanto statuito, in particolare, non vi sarebbe luogo a provvedere sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti, “perché non vi è luogo a incardinare una fase o grado di giudizio, esulando dalle competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge, sia nel senso che non è possibile provvedere sul merito della richiesta, sia nel senso che non è possibile rimettere l'affare all'esame del collegio”[51].
In senso conforme si è espresso sempre il C.g.a. mediante il decreto 22 maggio 2020, n. 455 (richiamando il condiviso orientamento di cui a Cons. Stato, sez. V, dec. n. 3015/2017 richiamato in precedenza) evidenziando come per la misura cautelare monocratica presidenziale ex art. 56 c.p.a. la legge non preveda e neppure risulti configurabile per il sistema processuale “la via di un distinto e autonomo appello, sicché ogni questione di revisione al riguardo va trattata nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione delle conseguente collegiale camera di consiglio (la cui «ordinanza cautelare» potrà semmai, a letterale tenore dell’art. 62, formare oggetto di appello cautelare)”. Tale sistema, come evidenziato, non risulterebbe nemmeno in contrasto con il principio costituzionale della pienezza ed effettività della tutela ex art. 24, Cost., ciò soprattutto in ragione della prevista revocabilità e modificabilità del decreto cautelare di cui trattasi (ai sensi dell’art. 56, comma 5 c.p.a.)[52].
Attenta dottrina pronunciatasi a proposito delle pronunce del Consiglio di Stato che hanno ritenuto ammissibile l’appello del decreto presidenziale (tra le altre, in particolare Consiglio di Stato, sezione IV, decreto n. 5971/2018,) haposto in evidenza come l’art. 56, comma 4 del Codice del processo amministrativo preveda che i decreti presidenziali siano «sempre» revocabili o modificabili su istanza di parte, con l’espressione «sempre» che non farebbe riferimento alla possibilità di proposizione in qualsiasi momento, sino alla pronuncia cautelare del collegio, ma alla facoltà di essere richiesta per qualsiasi motivo, anche al verificarsi delle situazioni sopravvenute richiamate di cui all’art. 58 cod. proc. amm.[53].
A conferma dell’inappellabilità del decreto cautelare del presidente del T.A.R. si porrebbe l’ulteriore argomentazione per cui tale dovrebbe essere considerata una regola generale che emerge dall’impianto del Codice del processo amministrativo, laddove anche un recente intervento di riforma del medesimo Codice ai sensi dell’art. 1 d.l. n. 115 del 5 ottobre 2018 (di seguito non convertito in legge e dunque privato di efficacia ex tunc) ha previsto la diretta appellabilità del decreto presidenziale monocratico, prima della trattazione collegiale, anche se reso ante causam e finché perduri la sua efficacia; ciò, tuttavia, nelle sole ipotesi di «accoglimento» della misura cautelare e «nei soli casi in cui l'esecuzione del decreto sia idonea a produrre pregiudizi gravissimi ovvero danni irreversibili prima della trattazione collegiale della domanda cautelare». Tale norma evidentemente eccezionale, in altri termini, avrebbe confermato la regola generale della inappellabilità dei decreti presidenziali cautelari.
Da ultimo, circa le ragioni di effettività e pienezza della tutela, richiamate nelle pronunce a sostegno dell’appellabilità dei provvedimenti cautelari in questione, si è sostenuto che la stessa Corte costituzionale, chiamata in passato pronunciarsi sull'assetto della tutela cautelare nel processo amministrativo, prima ancora dell’introduzione della tutela ante causam, aveva posto in evidenza la necessità di riferirsi alle scelte del legislatore, escludendo la configurazione di una violazione di principi costituzionali[54].
Sempre rispetto al profilo della presunta violazione di principi di rango costituzionale, si è rilevato come “il valore costituzionale degli interessi in gioco nella vertenza non attribuisce al giudice la capacità di disporre in contrasto con la legge processuale”[55].
In altri termini, la rilevanza di principi costituzionali rileverebbe in termini di valutazione del periculum in mora, dunque ai fini della pronuncia cautelare, ma non consentirebbe al giudice di individuare una disciplina in contrasto con il dettato legislativo; quest’ultimo, in quanto sempre soggetto alla legge, potrebbe al limite sottoporre alla Corte costituzionale questione di legittimità, laddove non ritenesse condivisibile quanto disposto dalla legge. Ciò, a maggior ragione, alla luce del disposto di cui all’art. 111, 1° comma Cost. e nella vigenza di una precisa riserva di legge in materia processuale nel nostro ordinamento avente valore per tutte le parti del processo.
8. Considerazioni conclusive
In conclusione, si deve constatare che, pur a fronte della inequivocabilità del dettato normativo, quello dell’appellabilità del decreto monocratico cautelare è un problema aperto in seno alla giurisprudenza amministrativa.
Le divergenze interpretative derivano con tutta evidenza dalla lettura data ai principi costituzionali ed eurounitari concernenti il diritto di difesa, l’effettiva della tutela ed il doppio grado di giudizio[56], (artt. 24, 113 e 125 Cost. e 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), con riferimento alla possibilità del giudice amministrativo di ricercare la sentenza “giusta” nel caso concreto anche a prescindere dalla disciplina processuale esistente[57].
In termini generali, non può essere certamente negata la necessità di assicurare il principio di effettività della tutela, utilizzando tutti gli strumenti individuabili nell’ambito dell’ordinamento interno e ciò, a maggior ragione in presenza di un’esigenza di una tutela pronta ed effettiva, così come si è ravvisato in particolare nel corso dell’emergenza sanitaria e della possibile compromissione in senso irreversibile del bene della vita preteso[58].
Imprescindibile, del pari, il dettato dell’art. 113 Cost. ove si trova precisato a chiare lettere come la tutela giurisdizionale non possa essere esclusa o limitata a particolari mezzi d’impugnazione o per determinate categorie di atti.
In tale quadro, certamente, si collocano pertanto le pronunce del giudice amministrativo mostratesi favorevoli rispetto all’ammissibilità dell’appello avverso il decreto cautelare monocratico, rimedio ritenuto ad ogni modo esperibile, nei provvedimenti in questione, laddove sia configurabile una perdita definitiva ed irreversibile di un bene della vita corrispondente ad un diritto costituzionalmente tutelato del soggetto interessato.
Anche nell’attuale momento storico, non si può tuttavia ignorare il fatto che il dato normativo vigente, in ragione della chiara previsione di cui all’art. 56, comma 2 c.p.a, in realtà non consente una tale interpretazione, neppure in un’ottica logico-sistematica, ovvero adottando un approccio ermeneutico costituzionalmente orientato.
Pur comprendendo le ragioni alla base del suddetto orientamento, sviluppatosi soprattutto per la necessità di commisurare l’intervento del giudice amministrativo alle peculiari esigenze di tutela dettate dall’emergenza sanitaria, rimane il fatto che la previsione puntuale ed inequivoca circa la non impugnabilità del decreto cautelare presidenziale rende la suddetta interpretazione non praeter, ma contra legem[59].
Ciò rende il discorso attuale diverso da quello che si è posto in passato in relazione alla possibilità di proporre appello avverso le ordinanze cautelari, in quanto all’epoca non c’era nell’ordinamento una precisa norma di legge che ne negasse esplicitamente la impugnabilità.
Sarebbe ovviamente risolutivo ed auspicabile un intervento del legislatore sul punto[60] che, a fronte di una inevitabile compressione del contraddittorio[61], desse comunque una univoca regola processuale o che in merito, a fronte dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali occasionati dalla esigenza di fornire adeguata risposta all’emergenza sanitaria, intervenisse quantomeno una pronuncia dell’Adunanza plenaria.
[1] La novella legislativa del 2000, in questo senso, ha ripreso le statuizioni di cui al parere del Consiglio di Stato, Adunanza generale, 8 febbraio 1990, n. 16.
[2] A proposito dello strumento in questione si v. P. Divizia, Considerazioni sulla tutela ante causam nel processo amministrativo, in Foro amm. TAR, 10, 2002, 3435 ss. L’A. ha delineato il decreto monocratico presidenziale quale provvedimento giudiziale “anomalo e di non chiara compatibilità costituzionale, atteso che in relazione ad esso il legislatore non ha previsto alcuna forma di controllo, reclamo o impugnazione”.
[3] Tra i primi commenti a proposito della legge n. 205/2000, con specifico riferimento alla tutela cautelare, si v. C.E. Gallo, Presidente e Collegio nella tutela cautelare: novità e prospettive nella disciplina della legge n. 205 del 2000, in www.giustizia-amministrativa.it., 2001.
[4] In dottrina si v., tra gli altri, A. Travi, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A Romano, Padova, 2001; U. Di Benedetto, Il provvedimento cautelare: forme ed effetti, in www.diritto2000.it; C. Mignone, Diritto amministrativo, II, a cura di AA. VV., Bologna, 2001, 2006 ss.; P. Divizia, Considerazioni sulla tutela ante causam nel processo amministrativo, cit.; F. Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2005, 1079.
Cfr., in tal senso, altresì Cons. St., sez. IV, 7 novembre 2000, n. 5602, inedita.
In termini generali sul provvedimento cautelare in esame cfr. G. Guidarelli, I provvedimenti cautelari monocratici nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 727 ss. e T. Nicolazzi, I provvedimenti presidenziali d’urgenza nel processo amministrativo, in Foro amm., 6, 2001, 1817 ss.
[5] V. sul punto Cons. St., parere 6 febbraio 2006, n. 355, in Foro amm. – Cds, 2006, 637, oltre che, in dottrina, M.A. Sandulli, Diritto europeo e processo amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, I, 37 e R. Garofoli, La tutela cautelare ante causam, in Trattato sui contratti pubblicidiretto da M. A. Sandulli-R. De Nictolis-R. Garofoli, vol. VI Il contenzioso, Milano, 2008, 4057.
[6] In proposito si v. V. Fanti, L’appellabilità del decreto monocratico nel processo amministrativo, in www.giustamm.it, 2, 2021.
[7] In questo senso, v. specialmente, Cons. st., sez. IV, 22 aprile 1977, n. 29, in Foro it, 1977, III, 233, con nota di F. Satta.
[8] V., tra le altre, Cons. St. sez. VI, 11 luglio 1977, n. 34, in Foro it., 1977, III, 545 e Cons. St., sez. IV, 14 giugno 1077, n. 41, inedita.
[9] Tale legge è entrata in vigore esattamente cinque giorni prima della lettura del dispositivo di cui alla pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 20 gennaio 1978, n.1.
[10] Cons. St., Ad plen., 20 gennaio 1978, n. 1, in Foro it., 1978, III, 1, con nota di F. Satta, e commentata anche da M. A. Sandulli, in Giur. it., 1978, III, 1, 145; Gasparini Casari, in Cons. Stato, 1978, I, 689; B. Moretti, in Foro amm., 1978, I, 19.
[11] Sulla questione si v. E. Follieri, Il giudizio cautelare amministrativo. Codice delle fonti giurisprudenziali, Rimini, 1992.
[12] Così Cons. St., Ad plen., 20 gennaio 1978, n. 1, cit.
[13] Cfr. Cons. St., Ad. plen., 8 ottobre 1982, n. 17, in Foro it., 1982, 106, II, 41.
[14] Corte cost., 1° febbraio 1982, n. 8, in Foro it., 1982, 105, I, 329.
[15] Si v. sul punto F. Satta, Giustizia cautelare, in Enc. dir., agg., I, 1997, I, Milano, 595 ss. Di recente, sul tema, v., inoltre, A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, in www.federalismi.it, 2020.
[16] Cons. St., sez. V, dec., 18 settembre 2009, n. 4628, in Foro amm – Cds, 2009, 2614, con nota di C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale.
[17] Cfr. C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, nota a Cons. St., sez. V, dec., 18 settembre 2009, n. 4628, in Foro amm – Cds, 2009, 2615 ss.
[18] Cfr. C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, cit., 2616.
[19] Nell’ambito della disciplina sulle impugnazioni di cui al codice di procedura civile, peraltro, si rinviene la possibilità di esperire appello avverso l’ordinanza monocratica cautelare, seppure in forma di reclamo proposto ad un giudice diverso.
[20] C.E. Gallo, L’appellabilità del decreto cautelare presidenziale, cit., 2619. L’A., nell’ambito del commento in questione richiama altresì, a sostegno della tesi dell’appellabilità, il caso precedentemente affrontato dal giudice amministrativo dell’appellabilità delle ordinanze collegiali chiamate a decidere sul ricorso in materia di accesso proposto in corso di causa, del pari risolto con l’affermazione della possibile appellabilità ammessa laddove la ragione della pronuncia fosse la sussistenza o meno dei presupposti dell’accesso agli atti amministrativi.
[21] Così Cons. St., sez. III, 11 dicembre 2014, n. 5650, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Cons. St., sez. IV, dec., 7 dicembre 2018, n. 5971, in Foro it., 2019, III, 117.
Nel caso di specie la questione riguardava l’ammissibilità del ricorso in appello avverso decreto cautelare del Presidente del T.A.R. Emilia Romagna di rigetto della domanda di sospensione del provvedimento di mancata ammissione alle prove scritte per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense in assenza della documentazione indispensabile da allegare alla domanda e alla luce della fissazione della camera di consiglio in data successiva rispetto a quella stabilita per lo svolgimento delle prove scritte.
Nello stesso senso si è pronunciato in precedenza sempre il Consiglio di Stato, nell’ambito dell’analizzato decreto della sez. III, 11 dicembre 2014, n. 5650.
[23] Nella pronuncia in esame, sul punto, si richiamano peraltro i precedenti decreti del Consiglio di Stato, sez. VI, 1° settembre 2017, n. 3538 e n. 3539; 30 agosto 2017, n. 3418 e n. 3419; 25 agosto 2017, n. 3408.
[24] Così, in particolare, Cons. St., sez. III, 26 novembre 2020, n. 6795, in www.giustizia-amministrativa.it.
[25] Così A. Travi, Considerazioni minime sull'appello contro i decreti cautelari dei tribunali amministrativi regionali, nota a Cons. St., sez. III, 26 novembre 2020, n. 6795, in Foro it., 2021, III, 7.
[26] La letteratura sul ruolo della tutela cautelare in senso generale è, come noto, sterminata. Ad ogni modo, tra gli altri contributi si v. P. Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936; E. Follieri, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981; A. Romano, Tutela cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, in Foro it., 1987, III, 2491; A. Travi, La tutela cautelare nei confronti dei dinieghi di provvedimenti e delle omissioni della P.A., in Dir. proc. amm., 1990, 329 ss.; M. Andreis, Tutela sommaria e tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 1996; R. Garofoli – M. Protto, Tutela cautelare, monitoria e sommaria nel nuovo processo amministrativo, Milano, 2002; S. Raimondi, Profili processuali ed effetti sostanziali della tutela cautelare tra giudizio di merito e giudizio di ottemperanza, in Dir. proc. amm., 2007. 609 ss.; M.A. Sandulli, La tutelare cautelare nel processo amministrativo, in www.federalismi.it, 2009; R. Cavallo Perin, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2010, 4, 1165.; A. Police, La tutela cautelare di primo grado, in il nuovo diritto processuale amministrativo, a cura di G.P. Cirillo, Padova, 2017; M. Lipari, La nuova tutela cautelare degli interessi legittimi: il 'rito appalti' e le esigenze imperative di interesse generale, in www.federalismi.it, 2017; Id., "Fase 2". I giudizi camerali nel processo amministrativo, oltre la legislazione dell'emergenza: Riti speciali, "camere di consiglio" atipiche e funzione "preparatoria" della decisione di merito. Relazione al Convegno "Dal processo al procedimento: ruolo e prospettive della tutela cautelare e del rito camerale nel rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione", Venezia, 2 dicembre 2019, in www.federalismi.it, 2020.
[27] Sul tema si v. in senso generale: R. Cavallo Perin, Il diritto amministrativo dell'emergenza per fattori esterni all'amministrazione pubblica, in Dir. amm., 2005, 4, 777-841; M. Chiti, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006; A. Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzia, Bologna, 2008; L. Giani-M. D’Orsogna-A. Police, Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018.
[28] Cfr. sul punto R. Dagostino, Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica), in questa rivista, 2020. L’A. evidenzia in particolare come la risposta del giudice interrogato in sede cautelare al fine di garantire una tutela giurisdizionale, sospesa tra effettività della tutela e rispetto della legalità, rischi in taluni casi di concretizzarsi in “manifestazioni estremistiche, non giustificabili, quali sono quelle del creazionismo giudiziario o, all’opposto, un eccessivo e ingiustificato self-restraint dell’organo giudicante”.
[29] Sull’argomento si v. M. Midiri, Emergenza, diritti fondamentali, bisogno di tutela: le decisioni cautelari del giudice amministrativo, in www.dirittifondamentali.it, 2020, 2, 61-71.
[30] Si v. sul tema il Webinar di Modanella, Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, sul tema “L’emergenza Covid-19 e i suoi riflessi sul processo amministrativo. Principi processuali e tecniche di tutela tra passato e futuro”, 30 giugno-1° luglio 2020, pubblicati in questa rivista il 6 luglio 2020.
[31] L’art. 84, comma 1 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif. dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, ha testualmente disposto la decisione dei procedimenti cautelari promossi o pendenti tra l’8 marzo e il 15 aprile 2020 con decreto monocratico del presidente o di un magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo. Con le precisazioni per cui “il decreto è tuttavia emanato nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo, salvo che ricorra il caso di cui all’articolo 56, comma 1, primo periodo, dello stesso codice. I decreti monocratici che, per effetto del presente comma, non sono stati trattati dal collegio nella camera di consiglio di cui all'articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo restano efficaci, in deroga all'articolo 56, comma 4, dello stesso codice, fino alla trattazione collegiale, fermo restando quanto previsto dagli ultimi due periodi di detto articolo 56, comma 4”.
[32] Tra i commenti a proposito della disciplina in questione si v.: P. D’angiolillo, Prime osservazioni sulle misure derogatorie definite dall’art. 84 del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. “Cura Italia”) in tema di processo amministrativo “condizionato” dall’emergenza “Covid-19”, in www.lexitalia.it, 2020; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in www.lexitalia.it, 2020; C. Cataldi, La giustizia amministrativa ai tempi del Covid 19, in www.giustamm.it, 3, 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza : sempre più speciale, in www.giustamm.it; C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art. 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, in www.giustamm.it, 3, 2020; F. Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in www.federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 23 marzo 2020; M.A. Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid-19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in www.lamministrativista.it; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in www.federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 6 aprile 2020.
[33] Sull’applicazione della disciplina in questione si è peraltro espresso il presidente del Consiglio di Stato, mediante nota esplicativa del 19 marzo 2020, n. 1454, consultabile in www.giustizia-amministrativa.it.
[34] Sul punto si v. F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in www.federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 15 aprile, 2020. L’A., pone in luce in senso generale come le norme dettate per contrastare la situazione di emergenza che interessano il processo amministrativo “differentemente da quelle dettate per la generalità degli altri processi, non rispondono ad alcun principio e si disperdono in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento”.
[35] Si fa riferimento a Cons. St., sez. VI, dec., 23 marzo 2020, n. 1343, che richiama la menzionata nota di chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato, n. 1454/2020.
Sull’argomento si v., inoltre, in dottrina M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione dell’art. 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in www.federalismi.it, 2020. L’A. ivi evidenzia come il divieto di impugnazione dei decreti monocratici sia testualmente sancito all’art. 56, comma 2 c.p.a., norma dal “chiaro e inequivocabile tenore”, mentre nell’ambito del d.l. 18/2020 non siano ravvisabili previsioni derogatorie rispetto alla suddetta norma.
[36] Cfr. C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art. 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, cit.
[37] M. Midiri, Emergenza, diritti fondamentali, bisogno di tutela: le decisioni cautelari del giudice amministrativo, cit.
[38] Cons. St., sez. III, dec., 30 marzo 2020, n. 1553, in www.giustizia-amministrativa.it. Nel caso di specie, concernente la richiesta di sospensione cautelare dell’ordine di quarantena obbligatoria con sorveglianza sanitaria e isolamento presso la propria residenza avanzata da un bracciante agricolo che si era allontanato dalla propria abitazione per andare a lavorare nei campi, tuttavia, non sono state ritenute sussistenti le condizioni per un accoglimento dell’appello cautelare proposto, considerato che la gravità del danno individuale si è ritenuto non potesse condurre a derogare, limitare, comprimere la primaria esigenza di cautela avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell’Italia oggi non superabile in alcun modo.
In senso analogo v. altresì Cons. St., sez. III, dec., 31 marzo 2020, n. 1611 e Cons. St., sez. III, dec., 23 aprile 2020, n. 2129, ove si è esplicitato chel’appello avverso il decreto presidenziale del T.A.R. è ammesso soltanto allorché sia dimostrato il pericolo concreto di irreversibile perdita di un “bene della vita” tutelato da norme costituzionali, presupposto non ravvisato nel caso di specie.
[39] Cons. St., sez. III, dec., 27 aprile 2020, n. 2294, in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Cfr., in questo senso, tra le altre, Cons. St., sez. III, 10 marzo 2021, n. 1224. Nel caso di specie, in particolare, il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare, confermando quanto rilevato nell’ambito del decreto presidenziale, di seguito appellato dal ricorrente, circa la mancanza nel caso in questione di irreparabilità e di gravità del danno lamentato e la coerenza della misura regionale contestata con gli obiettivi primari di precauzione, nell’ambito di un giudizio promosso a fronte della presunta invasività e pericolosità di misure precauzionali, quali il tampone molecolare, adottate dall’autorità regionale per fronteggiare la pandemia da Covid-19.
[41] Così Cons. St., sez. III, 3 marzo 2021, n. 1034, decisione resa in appello a proposito della questione di stretta attualità della generalizzata sospensione dell’attività didattica in presenza per la scuola dell’infanzia e primaria, nell’ambito della quale si è sostanzialmente posto in luce come il giudice amministrativo non possa sostituirsi all’autorità, nella specie il presidente della regione, nell’effettuare una scelta applicando il principio di massima precauzione sanitaria a scapito della compressione temporanea del diritto alla frequenza scolastica in presenza.
[42] Si v., in questo senso, Cons. St., sez. III, 3 marzo 2021, n. 1031; Cons. St., sez. III, 11 gennaio 2021, n. 18, oltre che Cons. St., sez. III, 15 febbraio 2021, n. 749, decreto quest’ultimo che, rammentata la categoria dei “decreti meramente apparenti” ha provveduto ad accogliere l’istanza cautelare proposta dalla Regione Umbria concernente il ripristino dell’efficacia dell’ordinanza di chiusura temporanea degli istituti per infanzia e nidi della Regione.
[43] Così, in particolare, Cons. St., sez. III, 26 gennaio 2021, n. 304, laddove si è accolta l’istanza cautelare, sospendendo nei confronti degli appellanti l’esecutività del d.p.c.m. impugnato per la parte relativa all’obbligo per un minore infradodicenne di indossare la mascherina, quale d.p.i., a scuola durante l’orario scolastico.
[44] Si v. in questo senso C.g.a., dec., 25 gennaio 2021, n. 61, in www.giustizia-amministrativa.it.
[45] Lo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, si è assai recentemente espresso sempre sulla specifica questione della impugnazione delle misure cautelari monocratiche rilevando, nel caso di specie, come nessuna previsione del Codice del processo amministrativo preveda ovvero consenta la richiesta in via autonoma di misure cautelari monocratiche in corso di causa, in assenza cioè della contestuale domanda principale di misure cautelari collegiali (cfr. C.g.a., 20 marzo 2021, n. 199).
[46] Sulla questione si v. R. Dagostino, Emergenza pandemica e tutela cautelare (monocratica), cit.
[47] Evidentemente, come rilevato in dottrina, tale giurisprudenza ha fatto proprio un approccio al dato normativo assai differente rispetto a quello di cui alla menzionata Ad. plen. 1/1978, cui si sono invece uniformate le pronunce dimostratesi in favore dell’appellabilità dei decreti cautelari, le quali hanno assegnato un valore “relativo” alla prescrizioni processuali, leggendole le stesse alla luce del principio di effettività della tutela, che si concretizza nel caso in esame nel principio del doppio grado di giudizio, al fine di rafforzare in senso effettivo la giustiziabilità del potere amministrativo. In questo senso A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, cit.
[48] Cfr., in questo senso, Cons. St., sez. V, 19 luglio 2017, n. 3015, in www.giustizia-amministrativa.it.
Si v., inoltre, sul punto le argomentazioni di cui a C.g.a., dec., 5 dicembre 2019, n. 780, laddove si è precisato che il potere cautelare monocratico è esercitabile solo “prima della trattazione della domanda cautelare da parte del Collegio” (art. 56, comma 1, c.p.a.), sicché, dopo che sia già intervenuta la pronuncia collegiale, un riesame della stessa può essere pronunciato solo dal Collegio (art. 58, comma 1, c.p.a.). In questo senso, si è chiarito come il combinato disposto dell’art. 56, comma 1 e dell’art. 58 comma 1 c.p.a. debba essere interpretato nel senso che il potere cautelare monocratico sia esercitabile solo prima che il Collegio non si sia mai pronunciato, e non anche dopo il primo esercizio del potere cautelare collegiale, quando vengano presentate istanze di riesame o modifica dei provvedimenti collegiali. Un’opposta esegesi, infatti, che consentisse di intervenire monocraticamente dopo e su decisioni cautelari collegiali, vanificherebbe il principio di collegialità della misura cautelare e quello di eccezionalità del potere monocratico cautelare, che può solo anticipare quello collegiale, ma mai seguirlo e tradursi in un riesame del medesimo.
[49] Cons. St., sez. V, 19 luglio 2017, n. 3015, in www.giustizia-amministrativa.it.
[50] C.g.a., sez. giurisd., dec., 25 agosto 2020, n. 624, in Foro it., 2020, III, 567.
Nello stesso senso, ha dichiarato in termini generali il «non luogo a procedere» sull'appello proposto contro un decreto cautelare, Cons. Stato, sez. IV, ord. caut. 11 gennaio 2019, n. 39, in Foro it., 2019, III, 117, rilevando come nel processo amministrativo, il Consiglio di Stato sia incompetente a confermare o revocare la misura cautelare concessa con decreto del presidente del T.A.R., in quanto, ai sensi dell'art. 62 cod. proc. amm., la pronuncia cautelare collegiale del Consiglio di Stato non può precedere quella del T.A.R., essendo configurata esclusivamente quale decisione avente ad oggetto una decisione cautelare assunta in primo grado nella sede collegiale.
Si v., inoltre, in senso conforme Cons. St., sez. VI, 4 ottobre 2018, n. 4875, e sez. V, dec., 19 luglio 2017, n. 3015, entrambi in www.giustizia-amministrativa.it.
[51] C.g.a., sez. giurisd., dec., 25 agosto 2020, n. 624.
[52] Così C.g.a., dec. 22 maggio 2020, n. 455, in www.giustizia-amministrativa.it, pronunciatosi a proposito dell’appello proposto avverso il decreto monocratico cautelare del giudice di primo grado che ha respinto l’istanza di sospensione dell’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Regione siciliana n. 21 del 17 maggio 2020, recante "misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19”.
[53] Così A. Travi, In tema di impugnabilità del provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo di primo grado, nota a Cons. St., sez. IV; ord., 11 gennaio 2019, n. 39; Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 2019, n. 5971, in Foro it., 2019, III, 119-121. Sul punto si v. altresì F. Aperio Bella, Il procedimento cautelare, in Il nuovo processo amministrativo a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2013, 181. Nel senso della necessità di contestare la «ingiustizia» o l'invalidità del decreto presidenziale mediante richiesta di revoca di tale decreto, come asserito dall’A., si v. inoltre i richiamati contributi di A. Police, La tutela cautelare di primo grado, in Il nuovo diritto processuale amministrativo a cura di Cirillo, Padova, 2014, 509 e M.A. Sandulli, Commento all'art. 56 e Commento all'art. 61, in Il processo amministrativo, a cura di Quaranta e Lopilato, Milano, 2011, 513 e 529.
[54] V. A. Travi, In tema di impugnabilità del provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo di primo grado, cit. Ivi l’A. fa riferimento, in particolare, a Corte cost., ord. 10 maggio 2002, n. 179.
[55] A. Travi, Considerazioni minime sull'appello contro i decreti cautelari dei tribunali amministrativi regionali, cit.
[56] In questo senso si v. in particolare le argomentazioni di cui a Cons. St., Ad. plen., 8 ottobre 1982, n. 17, cit.
[57] Cfr. in argomento F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018 e Id. (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018.
[58] In dottrina, tuttavia, prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, si era posto in evidenza come la tutela in sede giurisdizionale, per il fatto di corrispondere ad un diritto fondamentale dell’individuo, “deve essere riconosciuta sempre, ove necessario, con l’utilizzazione di tutti i rimedi che, astrattamente, l’ordinamento ammette siano esperiti, anche al di là delle previsioni ostative del legislatore che, in questo caso devono considerarsi costituzionalmente illegittime”. Così C.E. Gallo, L’appellabilità del provvedimento cautelare presidenziale, cit., 2618.
Del medesimo avviso, più di recente, A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giudizio, cit.
[59] Non è del tutto chiaro se secondo V. Fanti, L'appellabilità del decreto cautelare monocratico nel processo amministrativo, cit., sarebbe comunque soltanto un problema di “lacune” normative.
[60] Si rammenta come in passato il legislatore sia intervenuto introducendo l’appello avverso il decreto presidenziale adottato ai sensi dell’art. 56 c.p.a. purchè positivo: in tal senso disponeva, infatti, l’art. 1, comma 1, lett. d) del d.l. 5 ottobre 2018, n. 115. Tale intervento, tuttavia, non è stato di seguito convertito in legge e appariva inoltre limitato alle sole controversie sportive. Sull’argomento si v. I. Tranquilli, L’appello contro il decreto cautelare: il Governo entra “a gamba tesa” sul processo amministrativo, in www.giustamm.it, 10, 2018.
[61] Sul principio del contradditorio rispetto al giudizio cautelare si v. F. Francario, Processo amministrativo e definitività dei provvedimenti cautelari, in Giorn. dir. amm., 8, 1996, 743 ss.
Il concordato “in bianco” e le cause di esclusione nell’art. 80, d.lgs. n. 50/2016 (nota a Consiglio di Stato, Sez. V, ord.za 8 gennaio 2021 n. 309)
di Tania Linardi
Sommario: 1. Fatto. 2. Deferimento all’Adunanza Plenaria. 3. Le cause di esclusione di cui all’art. 80 del Codice dei contratti pubblici: considerazioni generali. 4. Concordato preventivo in continuità aziendale e concordato in bianco. 5. Posizione della giurisprudenza in relazione agli effetti del concordato in bianco sulle procedure di gara pubbliche. 5.1 La tesi restrittiva. 5.2 La tesi estensiva. 6. La posizione dell’Ordinanza di rimessione sulla quaestio iuris sorta nella vicenda. 7. Considerazioni conclusive: effetti sostanziali e formali della tesi restrittiva ed estensiva.
1. Fatto.
L’Ordinanza n. 309 del 2021 di rimessione all’Adunanza Plenaria affronta la delicata questione relativa alle ripercussioni sulla procedura di gara derivanti dalla presentazione, da parte di un operatore economico quale mandante di un RTI, di un’istanza di concordato preventivo in bianco.
Nel caso di specie, dapprima l’aggiudicazione veniva disposta nei confronti di uno degli operatori concorrenti, per poi essere successivamente annullata dal Tribunale amministrativo (e confermata anche in sede di appello) a causa di taluni vizi riscontrati in sede di ricorso promosso dalla società seconda classificata.
Nelle more di tale giudizio di annullamento, tuttavia, la società mandante di un raggruppamento presentava, di fronte al giudice ordinario competente, Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, un ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo di cui all’art. 161, comma 6, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare), ottenendo un termine di centoventi giorni per produrre la relativa proposta concordataria.
All’esito delle rinnovate operazioni di gara, l’aggiudicazione dell’appalto di lavori veniva disposta proprio in favore del RTI coinvolto nella procedura concordataria.
Di talché, la società seconda classificata interponeva ricorso al T.a.r. dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, avverso tale aggiudicazione, ritenuta illegittima in quanto disposta nei confronti di impresa in procedura concordataria ex art. 161, comma sesto, della Legge fallimentare e non ammessa alla continuità aziendale.
Di contro, la società mandataria del RTI primo classificato presentava ricorso incidentale al fine di impugnare, in via condizionata, la proposta di aggiudicazione disposta nei confronti del proprio raggruppamento e di ottenere la modifica della mandante, sostituendola con altra società indicata nel corso della procedura, ai sensi dell’art. 48, commi 18 e 19- ter, d.lgs. n. 50 del 2016.
Ma a seguito della prioritaria disamina del ricorso incidentale, il Tribunale amministrativo concludeva con il suo rigetto, ritenendo invece di dover accogliere il ricorso principale e, per l’effetto, annullare l’aggiudicazione precedentemente disposta.
Nel delineato contesto, il RTI soccombente in primo grado proponeva appello[1] al fine di contestare gli approdi cui era giunto il giudice di prime cure. In primo luogo, si evidenziava come le informazioni relative alla procedura per l’ammissione al concordato non fossero mai state sottaciute. Si aggiungeva, peraltro, che non era stata effettuata alcuna modifica soggettiva dell’operatore risultato aggiudicatario, in quanto l’indicazione dell’ATI alternativa era condizionata all’esito negativo della procedura concordataria. Infine, le appellanti lamentavano il fatto che nella sentenza impugnata non era stata debitamente presa in considerazione l’autorizzazione giudiziale intercorsa in pendenza della procedura concordataria, con la quale si consentiva, tra gli altri, la stipula del contratto di appalto.
Ebbene, il nodo problematico di maggior rilievo riguarda la questione degli effetti della proposizione di una domanda di concordato preventivo “in bianco” nell’ambito della procedura di una gara pubblica, in quanto occorre chiarire se essa debba qualificarsi quale motivo di esclusione automatica o meno. Per tal ragione, nell’Ordinanza in commento si richiede il deferimento del dubbio interpretativo all’Adunanza Plenaria.
Mentre le società appellanti escludevano l’ipotesi dell’automatica esclusione, le appellate evidenziavano la correttezza dell’intercorso annullamento dell’aggiudicazione, stante la pendenza di una procedura di concordato preventivo “in bianco” privo della richiesta per l’ammissione alla continuità aziendale. Si condivideva, inoltre, la conclusione cui era giunta la sentenza di primo grado, nella parte in cui escludeva la possibilità di sostituire la mandante con altra impresa esterna al raggruppamento. Del pari, si ribadiva che il mancato possesso dei requisiti della mandante con soluzione di continuità non avrebbe potuto esser sanato da un successivo ricorso finalizzato ad ottenere l’ammissione al concordato con continuità aziendale. Analogamente, l’intervenuta autorizzazione da parte del Tribunale competente non avrebbe potuto sanare retroattivamente il vizio legittimante l’esclusione.
2. Deferimento all’Adunanza Plenaria.
Alla luce delle ragioni sopra esposte, la Sezione Quinta del Consiglio di Stato ritiene opportuno deferire tali questioni giuridiche all’Adunanza Plenaria, ripercorrendo il quadro normativo di riferimento ed i contrapposti orientamenti giurisprudenziali delineatisi in materia.
La necessità dell’intervento risolutore del Supremo Consesso amministrativo muove, infatti, dalla difficoltà di pervenire ad univoche interpretazioni dell’art. 80, comma 5, lett. b), d. lgs. n. 50 del 2016, laddove si richiama la fattispecie del concordato preventivo quale ipotesi di esclusione dalle procedure di evidenza pubblica, tuttavia predisponendo specifiche condizioni in presenza delle quali poter derogare a tale principio. Ed è proprio la portata applicativa di tale regime di esclusione a rappresentare il presupposto su cui si fonda il quesito dei Giudici remittenti, specie a seguito dei numerosi interventi normativi che ne hanno modificato sensibilmente i presupposti e gli elementi di raccordo con la disciplina del diritto fallimentare.
Basti pensare che l’attuale formulazione della disposizione è stata introdotta a seguito del d.l. n. 32 del 2019, c.d. Decreto Sblocca cantieri, convertito in legge n. 55 del 2019, ove non appare riprodotto il previgente riferimento al concordato preventivo con continuità aziendale, quale ipotesi derogatoria del principio di esclusione, ma si rinviene invece l’inserimento dell’operatività della disciplina di cui all’art. 186 - bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 relativamente alle procedure di concordato preventivo tout court.
È, quindi, del tutto evidente come l’intera fattispecie in esame risulti connotata da complessi elementi di interdisciplinarità, dovendosi preliminarmente soffermare sulla portata applicativa ed i risvolti processuali che interessano, da un lato, la domanda di concordato preventivo con riserva, ovvero “in bianco”, disciplinata dall’art. 161, comma sesto, l. fall.; dall’altro, la fattispecie del concordato con continuità aziendale, nell’ottica delle ripercussioni di tali procedure sulla conservazione, o meno, dei requisiti degli operatori economici che partecipano alle gare pubbliche.
All’uopo, appare necessario richiamare, in chiave sistematica, sia i principi regolatori della disciplina sulle gare per l’aggiudicazione di appalti pubblici, di cui al D. Lgs. n. 50 del 2016 ed in particolare l’art. 80; sia quelli relativi alle procedure concorsuali nell’ambito del diritto fallimentare, al fine di rintracciare un ragionevole punto di equilibrio tra le differenti aree tematiche del diritto.
3. Le cause di esclusione di cui all’art. 80 del Codice dei contratti pubblici: considerazioni generali.
L’istituto delle cause di esclusione, disciplinato dall’art. 80 d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50, contiene un elenco di situazioni soggettive nelle quali l’operatore economico non deve incorrere al fine di poter partecipare correttamente alle procedure di affidamento degli appalti pubblici.
Tali condizioni si inseriscono nell’alveo della categoria dei requisiti di ordine generale[2] e di natura soggettiva, taluni positivi, talaltri negativi, che fungono da criteri guida per l’individuazione delle imprese da ritenersi idonee alla partecipazione alle gare.
Trattasi, in particolare, di requisiti di idoneità morale e professionale, che operano a prescindere dalle caratteristiche oggettive dell’appalto[3] e si sostanziano in una serie di condizioni dell’impresa concorrente in grado di precluderne la partecipazione, ove sussistenti[4]. Diversamente, altro ordine di condizioni si collega alla capacità economico – finanziaria e tecnico – professionale degli operatori economici, che variano in funzione delle specifiche caratteristiche della prestazione oggetto dell’appalto.
Nel processo evolutivo di tale sistema normativo, si è affermata la necessità di distinguere due tipologie di requisiti, la cui operatività viene in rilievo in momenti differenti della procedura di selezione per l’aggiudicazione: i criteri di selezione ed i criteri di scelta. I primi attengono a quel complesso di caratteri, quali la professionalità e la solidità economica, che consentono di valutare l’idoneità di un operatore concorrente all’esecuzione della prestazione oggetto della gara. I secondi, invece, sono finalizzati alla scelta in concreto dell’aggiudicatario in base all’offerta formulata, a seguito della comparazione con le altre imprese concorrenti precedentemente ammesse alla gara[5].
Per quanto tali criteri appaiano, almeno in astratto, di chiara percezione, deve darsi atto delle numerose ipotesi di sovrapposizione fra di essi riscontrate nell’applicazione pratica, soprattutto in relazione al settore degli appalti di servizi. Difficoltà che, come sostenuto dalla dottrina, sembra essersi affievolita grazie agli approdi raggiunti con la nuova codificazione delle norme sui contratti pubblici, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ove si distingue a livello terminologico la dizione dei “criteri di selezione”, contenuta nella rubrica dell’art. art. 83, da quella dei “criteri di aggiudicazione”, di cui all’art. 95[6].
Tornando all’analisi delle caratteristiche distintive dei motivi di esclusione di cui all’art. 80, Codice dei contratti pubblici, tra di esse viene certamente in rilievo l’elemento della tassatività, quale principio che vieta alla stazione appaltante di indicare autonomamente e discrezionalmente cause di esclusione ulteriori rispetto a quelle normativamente elencate, ai sensi dell’art. 83, comma 8, codice dei contratti pubblici. Ciò si giustifica in ragione del fatto che le stesse ipotesi di esclusione limitano, anzitutto, la capacità contrattuale dell’operatore economico, costituzionalmente garantita nella forma della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.; nonché il principio del favor partecipationis, rilevante nel diritto europeo in quanto ritenuto necessario al fine del perseguimento della concorrenza nel mercato. Quale corollario del principio di tassatività delle cause di esclusione si pone, conseguentemente, il divieto di interpretazione estensiva o analogica di esse[7].
La ratio ispiratrice della previsione di tali requisiti si rinviene senz’altro nell’esigenza di garantire l’individuazione di un operatore economico aggiudicatario che risulti affidabile, sia dal punto di vista economico, che professionale. Il tutto, al fine di consentire un efficiente funzionamento non solo delle singole procedure di gara per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, ma anche del più ampio comparto economico di riferimento.
L’intero impianto codicistico si colloca, infatti, nel solco di una progressiva valorizzazione dei principi dell’Unione europea della concorrenza e della trasparenza che, nell’ottica del perseguimento delle quattro libertà fondamentali e del mercato unico, necessitano della vigenza di regole obiettive e criteri di partecipazione alle gare pubbliche predeterminati ex ante, per consentire alla PA di individuare la migliore offerta, connotata dai requisiti della completezza e serietà[8]. In passato, invece, la legislazione in vigore[9] non consentiva di ritenersi pienamente soddisfatti tali obiettivi, in quanto la stessa pubblica amministrazione molto spesso godeva di un più ampio margine di discrezionalità in ordine alla scelta, ovvero alla esclusione, del proprio interlocutore[10].
A riprova delle difficoltà di interpretazione sorte in relazione alla disciplina in commento, basti pensare alle stratificazioni normative che hanno interessato l’attuale formulazione della disposizione di cui all’art. 80, d. lgs. n. 50 del 2016, attuativo degli artt. 38 della direttiva 2014/23/UE e 57 della direttiva 2014/24/UE, e modificato dal “correttivo” di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, che nel tempo hanno modificato il previgente art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, attuativo degli artt. 45 della direttiva 2004/18/CE e 54 della direttiva 2004/17/CE.
Ed anche sotto la vigenza della precedente formulazione, non sono mancati dubbi circa l’esatta perimetrazione dell’ambito di operatività del meccanismo della suddetta esclusione, posto che alcuni autori la ritenevano riconducibile alle ipotesi di effettiva mancanza dei requisiti generali; altri, invece, invocavano l’esclusione anche nei casi di omessa dichiarazione del possesso di requisisti da parte dell’operatore concorrente. Nel primo caso, come noto, si attribuirebbe valore al dato sostanziale, mentre nella seconda ipotesi si accoglierebbe una opzione interpretativa più formalistica[11].
A dirimere, almeno in parte, alcuni nodi problematici in materia è intervenuta la successiva formulazione della norma di cui all’art. 80[12], codice contratti pubblici, che appare finalizzata a consentire una più ampia partecipazione degli operatori economici alle gare, mediante la valorizzazione del principio del favor partecipationis e la riduzione di taluni oneri amministrativi, come sancito dal considerando 84 della direttiva 2014/24/UE. Ulteriore modifica è stata da ultimo apportata, all’art. 80 Codice dei contratti pubblici, mediante il d.l. 14 dicembre 2018, 135, convertito con modificazioni nella l. 11 febbraio 2019, n. 12, nonché il d.l. 18 aprile 2019, n. 32, come si evince dalla legge di conversione 14 giugno 2019, n. 55.
Ciò posto, nell’ampia categoria della cause di esclusione, si colloca certamente l’intero comparto delle procedure concorsuali, come testimonia la locuzione contenuta nell’art. art. 80, comma 5, lett. b) Codice dei contratti pubblici, ai sensi della quale è sancito che la stazione appaltante debba escludere dalla procedura di gara un soggetto qualora “l’operatore economico sia stato sottoposto a fallimento o si trovi in stato di liquidazione coatta o di concordato preventivo o sia in corso nei suoi confronti un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni, fermo restando quanto previsto dall’art. 110 del presente codice e dall’art. 186- bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.” [13]
In tali casi, l’attenzione del legislatore si giustifica in quanto la generale condizione di solvibilità dell’impresa potrebbe risultare minata, ciò compromettendo la capacità di adempiere le prestazioni eventualmente assunte in sede di aggiudicazione.
Autorevole dottrina[14] osserva come tale impianto normativo risulti in concreto finalizzato ad individuare un punto di equilibrio tra due ordini di esigenze: da un lato, quella di evitare che le amministrazioni appaltanti abbiano come controparte contrattuale un soggetto in stato di difficoltà economica tale da compromettere il regolare adempimento delle obbligazioni; dall’altro lato, l’esigenza di consentire, al ricorrere delle condizioni previste per legge, gli obiettivi del risanamento delle imprese in stato di crisi[15].
Ma in letteratura si è posta anche un’ulteriore questione da dirimere, relativa al significato da attribuire all’inciso “procedimento in corso” contenuto nella dizione letterale dell’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, anch’esso rilevante ai fini della esclusione dell’operatore dalle procedure di gara. Secondo un’interpretazione letterale, dovrebbe attribuirsi rilievo ai casi in cui sia stata presentata una mera istanza di dichiarazione di fallimento, liquidazione coatta, concordato preventivo. Ciò si verificherebbe, secondo taluni autori, a far data dal deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, qualificandosi tale condotta come confessoria della consapevolezza dello stato di dissesto dell’operatore economico[16]. Diversamente, altra dottrina critica tale impostazione, in quanto eccessivamente penalizzante per le imprese[17].
4. Concordato preventivo in continuità aziendale e concordato in bianco.
Nel decalogo dei motivi di esclusione, si attribuisce particolare rilevanza alle ipotesi in cui l’operatore si trovi coinvolto in una procedura di concordato preventivo, fattispecie che viene in rilievo nell’Ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria.
L’istituto de quo[18] si colloca nella categoria delle procedure concorsuali ed è stato oggetto di molteplici interventi del legislatore, che ne hanno modificato sensibilmente la portata applicativa[19]. Sin dalla legislazione del 1942, la problematica relativa alla qualificazione della natura giuridica ha diviso la dottrina: vi era chi aderiva alla tesi contrattualistica del concordato e chi, diversamente, propugnava la natura pubblicistica di detto istituto[20].
In via generale, la domanda di concordato è disciplinata dall’art. 161 del r.d. 16 marzo del 1942, n. 267 e prevede l’istaurazione di una procedura concorsuale che, al ricorrere dei presupposti analiticamente enucleati dalla norma, consente all’imprenditore che versi in una situazione di crisi di tentare il risanamento evitando di incorrere nel fallimento. Il tutto regolando i propri rapporti con i creditori mediante un concordato preventivo, ai sensi degli artt. 160 ss. legge fallimentare[21].
In tale quadro normativo, lo stato di crisi dell’imprenditore rappresenta uno dei presupposti per l’instaurazione di detta procedura e, secondo l’interpretazione autentica fornita dal legislatore, è sancito che per “crisi” debba intendersi anche lo stato di insolvenza, secondo un rapporto di genus ad species [22].
Ad ogni modo, la nozione di “crisi” assume una portata semantica maggiormente autonoma, rispetto al concetto di insolvenza, nell’ambito del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza del 2019, ove l’art. 2, lett. a) prevede che essa debba esser individuata nella probabilità dell’insolvenza, definita in termini di “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni pianificate”.
È stato, poi, da taluni osservato come tale concetto non si identifichi tanto nella temporanea difficoltà ad adempiere dell’imprenditore, dovendosi invece rintracciare l’esistenza di ipotesi specifiche, quali il concreto rischio di insolvenza, la presenza di uno sbilancio patrimoniale connotato dalla grave prevalenza del passivo sull’attivo ovvero ulteriori precisi elementi sintomatici della imminente crisi[
D’altra parte, lo stato di insolvenza, di cui alla lett. b) dell’articolo sopra richiamato, è connotato da una generale incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. In ogni caso, l’art. 85 cod. prevede che l’imprenditore possa proporre una domanda di concordato preventivo qualora si trovi in una delle situazioni sopra evidenziate, ponendosi in termini di alternatività la sussistenza di uno stato di crisi ovvero di insolvenza.
Ciò detto in termini generali, occorre analizzare la fattispecie del concordato in continuità aziendale, quale ipotesi innovativa connotata dal maggior grado di deroghe rispetto all’operatività della disciplina dei motivi di esclusione nelle procedure di appalto.
Ed invero, la fattispecie de qua è stata introdotta con l’art. 186-bis, a seguito dell’intervento della L. n. 134/2012, ai sensi del quale è sancito che il debitore deve dare atto, nel piano concordatario, della prosecuzione dell’attività di impresa ovvero, in alternativa, deve prevedere la cessione o il conferimento dell’azienda.
A livello sistematico, certamente la continuità aziendale rappresenta uno dei nodi fondamentali su cui si articola l’intero impianto della novella legislativa, come è possibile desumere da una serie di disposizioni: l’art. 182 - quinquies, che concede la prededuzione ai finanziamenti contratti a tal fine; nonché l’art. 169-bis, che sancisce la possibilità di recesso del debitore dai contratti pendenti, ove la prosecuzione di essi si frapponga o aggravi la realizzazione del piano.
Di talché, autorevoli autori hanno messo in luce tale obiettivo, che ha rappresentato un profondo mutamento dell’angolo prospettico attraverso il quale affrontare i concetti del diritto concorsuale[24], passandosi da un sistema costruito sulla figura dell’imprenditore insolvente e “su una visione statica dei rapporti (i debiti e la loro garanzia patrimoniale)” ad un differente sistema che vede al centro della propria disciplina l’attività d’impresa, nell’ottica della dinamicità che connota le fasi del ciclo economico e produttivo[25]. In altri termini, attualmente sembrerebbe assumere un rilievo preminente il dato oggettivo dell’attività di impresa, intesa nella sua estrinsecazione dinamica e funzionale, piuttosto che l’aspetto “soggettivo” dell’imprenditore insolvente ed i debiti ad esso riconducibili.
Quanto alla facoltà di partecipare alle gare d’appalto, viene in rilievo il comma terzo dell’art. 186 bis della legge fallimentare sui contratti in corso di esecuzione, nonché i commi 4 e 5, regolanti le modalità di partecipazione alle procedure di assegnazione di contratti pubblici. Ciò al fine di consentire all’impresa, seppure al ricorrere di specifici presupposti, di preservare le posizioni di mercato che abbia nel tempo conseguito, nell’ottica della valorizzazione del risanamento aziendale[26].
In tal senso, anche l’adozione del nuovo Codice della crisi d’impresa del 2019 rappresenta, una volta entrato in vigore, una valida linea di continuità rispetto ai principi espressi già in sede di riforma con la novella del 2012[27].
Accanto al concordato in continuità aziendale, si pone poi l’ulteriore fattispecie del concordato con riserva o “in bianco”, disciplinato dall’art. 161, comma 6, l. fall. ed oggetto di numerosi dubbi interpretativi circa la disciplina applicabile alle imprese coinvolte nella partecipazione alle procedure di gara.
In particolare, la peculiarità dell’istituto in esame consiste nel permettere al debitore di depositare il ricorso contenente la domanda di concordato sulla base della semplice allegazione dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, l’elenco nominativo dei creditori e dei rispettivi crediti[28], posticipando la presentazione della proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo entro il termine fissato dal giudice, compreso tra sessanta e centoventi giorni, salva la possibilità di proroga come previsto dalla norma in commento.
La norma risulta connotata da un duplice obiettivo: determinare una temporanea paralisi delle azioni esecutive e cautelari dei creditori, nonché consentire la decorrenza del termine a quo per attribuire ai “crediti di terzi eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore”[29] la qualifica della prededucibilità, di cui all’art. 111 l. fall. [30].
Conseguentemente, la dottrina si è interrogata sulla qualificazione della natura giuridica del concordato preventivo “in bianco”, talvolta inquadrandola nella struttura di un procedimento atipico, in grado di assumere le vesti di una vera e propria procedura concorsuale soltanto in sede di decreto di ammissione al concordato preventivo[31]; talaltra definendola alla stregua di una vera e propria procedura concorsuale[32].
Come anticipato, qualora l’impresa richiedente l’ammissione al concordato partecipi anche ad una gara pubblica, il sopra citato art. 186 – bis, comma 4, l.fall., nell’attuale formulazione, dispone che “Successivamente al deposito della domanda di cui all’art. 161, la partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici deve essere autorizzata dal tribunale e, dopo il decreto di apertura, dal giudice delegato, acquisito il parere del commissario giudiziale ove già nominato”.
Il successivo comma sesto della medesima norma prevede, poi, che l’operatore economico coinvolto nella procedura concorsuale de qua possa partecipare alle gare anche unitamente ad altri soggetti, nella forma del raggruppamento temporaneo di imprese, sempreché non rivesta la qualifica di mandataria.
Appare evidente, pertanto, come tale disposizione rivesta un ruolo primario sia nella valorizzazione del principio del favor partecipationis, sia nella realizzazione degli obiettivi di implementazione della redditività dell’impresa. Dovendosi, in quest’ultimo caso, raggiungere un punto di ragionevole bilanciamento anche rispetto ad altri valori: la certezza del diritto, la competitività del sistema economico, nonché l’esigenza di garantire l’affidabilità degli operatori economici partecipanti alle procedure di evidenza pubblica, tutelando le pubbliche amministrazioni da eventuali rischi scaturenti dalle imprese in una situazione di irreversibile crisi[33].
5. Posizione della giurisprudenza in relazione agli effetti del concordato in bianco sulle procedure di gara pubbliche.
Le preliminari considerazioni affrontate rivestono un ruolo centrale nell’analisi degli effetti derivanti dalla proposizione di un’istanza di concordato preventivo “in bianco” sulle pendenti procedure di evidenza pubblica. La stessa Sezione remittente, infatti, analizza la questione relativa alla valutazione della compatibilità tra la domanda c.d. in bianco ed una proposta di concordato preventivo in continuità aziendale, di cui all’art. 186 – bis, l. fall., chiedendosi se gli effetti di quest’ultimo istituto possano configurarsi anche laddove vi sia una mera domanda di preconcordato.
D’altro canto, persino la cornice normativa entro cui si snodano tali rilievi non appare dirimente sul punto. Mentre la dizione letterale dell’art. 182 - quinquies, comma 1, l. fall., sembrerebbe alludere alla possibilità di presentare una domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, anche mediante un preconcordato di cui all’art. 161, comma 6[34], del medesimo avviso non appare, invece, l’art. 186 - bis, comma 1, laddove enuclea i caratteri del primo istituto, a detta di alcuni inconciliabili con la struttura del concordato in bianco[35].
Occorre, poi, tener conto anche delle modifiche apportate dal d.l. n. 32/2019 al testo dell’art. 110, Codice dei contratti pubblici, rilevante in quanto richiamato dall’art. 80, comma 5, lett. b). Tanto più se si considera che la previgente disciplina, all’art. 110, comma 4, secondo periodo, si limitava a riconoscere, nell’ambito del concordato in bianco, la facoltà di proseguire l’esecuzione dei contratti di appalto precedentemente stipulati, previa autorizzazione del giudice delegato.
È evidente che lo stato dell’arte in materia è frutto di continue oscillazioni interpretative, tanto che i Giudici remittenti, ai fini dell’analisi delle questioni giuridiche sottese alla pronuncia, ripercorrono in chiave ricostruttiva i principali approdi ermeneutici susseguitisi nel panorama giurisprudenziale.
5.1 La tesi restrittiva.
Secondo una corrente di pensiero, che può esser definita restrittiva[36], la formulazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, precluderebbe la partecipazione alle gare agli operatori che abbiano presentato istanza di concordato in bianco[37].
Si sostiene, infatti, che anche a voler invocare l’art. 186 – bis l. fall.[38], nella parte in cui consente ad un’impresa coinvolta nella procedura concordataria di ottenere l’autorizzazione dal Tribunale fallimentare a partecipare ad una gara di appalto, tale disciplina deve coordinarsi armonicamente con gli obiettivi stabiliti, a livello sistematico, dalle regole sulle procedure ad evidenza pubblica.
A titolo esemplificativo, tra di essi si può citare l’esigenza di celerità e definitività nell’assunzione degli impegni contrattuali nella fase dell’aggiudicazione, in antitesi rispetto all’ampiezza dei tempi di definizione della procedura di concordato in bianco, il cui esito è peraltro naturalmente incerto.[39]
La stipulazione del contratto di appalto, infatti, deve aver luogo entro sessanta giorni dal momento in cui è divenuta efficace l’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 32, comma 8, Codice dei contratti pubblici, momento entro il quale l’aggiudicatario dovrebbe esser in grado di produrre la documentazione all’uopo richiesta dall’art. 186 – bis, l. fall.
Conseguentemente, parte della giurisprudenza ha qualificato la fattispecie del concordato in bianco quale atto di straordinaria amministrazione, autorizzabile dal Tribunale solo ove esso risulti “urgente”, ai sensi dell’art. 161, comma 7, l. fall[40], consentendo in tal modo di riequilibrare i numerosi benefici in favore del debitore con un incisivo potere di controllo giudiziale, al fine di scongiurare condotte abusive in danno dei creditori.
Anche nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, vi era chi richiamava, a sostegno dell’orientamento restrittivo in parola, il principio della continuità del possesso dei requisiti di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica, da ritenersi violato nei casi di presentazione di una domanda di concordato in bianco da parte di un’impresa concorrente.
Ciò in quanto si verificherebbe il difetto dei requisiti di ordine generale previsti dall’art. 80, comma 5, lett. b), che invece riconosce l’operatività dell’eccezione, alla regola generale dell’esclusione, esclusivamente nei casi in cui l’operatore “si trovi” in continuità aziendale a seguito della intervenuta ammissione alla procedura. Diversamente, si ritiene che tali conclusioni non possano estendersi anche alle ipotesi in cui vi siano “procedimenti in corso” per l’ammissione al concordato, come accade in sede di presentazione di domanda di concordato in bianco. All’uopo, nemmeno un’eventuale ammissione giudiziale al concordato con continuità aziendale potrebbe sanare retroattivamente tale difetto di requisiti.
Aderiscono all’interpretazione restrittiva in commento anche alcune pronunce[41] successive alla novella legislativa apportata all’art. 110, comma 4, Codice dei contratti pubblici, dal d.l. n. 32 del 2019.
In termini, anche a fronte di quanto statuito dal sopra citato art. 110, comma 4, prima parte, ove è previsto che le imprese che abbiano presentato domanda di concordato, anche in bianco, sono assoggettate alla disciplina di cui all’art. 186 – bis, l. fall, la giurisprudenza ha sottolineato la necessità di tenere in considerazione la seconda parte della medesima disposizione, che richiede l’avvalimento dei requisiti di un altro soggetto, quale ulteriore elemento necessario per partecipazione.
Ed invero, si sostiene che la nuova formulazione dell’art. 110, comma 4, nonché dell’art. 186 – bis, comma 4, l. fall., laddove disciplina “la partecipazione alle procedure di affidamento”, intenda richiamare esclusivamente le ipotesi successive e non coeve alla presentazione della domanda di concordato in bianco. Queste ultime risulterebbero escluse dalla citata previsione, comportando la perdita sopravvenuta del requisito richiesto dall’art. 80, comma 5, lett. b).
A sostegno di tali rilievi, si suole invocare l’art. 80, comma 6, Codice dei contratti pubblici, che impone alle stazioni appaltanti di escludere gli operatori non solo per mancanza dei requisiti di partecipazione al momento della presentazione della domanda e dell’offerta, ma anche per la sopravvenuta mancanza di essi in corso di gara, alla luce del principio della par condicio dei partecipanti.
I fautori della tesi restrittiva, inoltre, utilizzano anche i rilievi effettuati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla questione relativa all’eventuale contrarietà alla normativa europea della legislazione nazionale che preveda un diverso trattamento a seconda che gli operatori economici concorrenti abbiano, o meno, presentato un ricorso di concordato contenente un piano per la continuità aziendale.
Sul punto, la Corte di Giustizia UE ha precisato che l’art. 45, par. 2, c. 1, lett. b), direttiva 2004/18/CE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che preveda la possibilità di escludere dalla procedura di appalto pubblico quell’operatore che abbia presentato un ricorso per l’ammissione al concordato preventivo, qualora si riservi di presentare il piano per la prosecuzione dell’attività in un momento successivo[42].
Di talché, il differente trattamento previsto dalla legislazione nazionale italiana non violerebbe il principio di eguaglianza ma si giustificherebbe sulla base delle differenze sostanziale che connotano i due istituti: l’affidabilità economica di un operatore che abbia incluso nel proprio piano per il concordato la prosecuzione dell’attività aziendale risulterebbe maggiore rispetto a chi si riservi di integrarlo.
Di conseguenza, gli Stati membri potrebbero applicare le cause di esclusione previste dalla direttiva inserendole nella legislazione nazionale con criteri più o meno rigorosi, ovvero escluderne l’applicazione in specifici casi.
Da ultimo, ma non per importanza, l’orientamento in analisi ha preso posizione anche in ordine all’ultima delle questioni giuridiche deferite all’Adunanza Plenaria[43], ritenendo esclusa la possibilità di operare modifiche nell’ambito della compagine del RTI aggiudicatario, all’interno del quale la società mandante aveva presentato domanda di concordato in bianco. In questo caso, quindi, enfatizzandosi un’interpretazione restrittiva delle ipotesi derogatorie di cui all’art. 48, commi 18 e 19 ter del d.lgs. n. 50 del 2016.
5.2 La tesi estensiva.
Sin dalla previgente formulazione della disciplina di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 163 del 2006, le conclusioni testé citate sono state avversate dai sostenitori della tesi estensiva.
Essi ritengono che la facoltà di partecipare alle gare pubbliche non dovrebbe esser preclusa alle imprese che hanno proposto un’istanza di concordato preventivo “in bianco”[44], in virtù del principio che ne consente la partecipazione nelle more tra la presentazione della domanda di concordato con continuità aziendale e la relativa ammissione[45].
La stessa corrente di pensiero, tuttavia, non sempre riconosce sic et simpliciter l’operatività di tali argomentazioni[46]: vi è, infatti, chi richiede ulteriormente la verifica della sussistenza, nella domanda di concordato, di elementi tali da far ragionevolmente presumere che l’intera procedura non si traduca in una mera ipotesi liquidatoria, bensì in una prosecuzione dell’attività aziendale[47].
In dottrina si è osservato[48] che i numerosi dubbi interpretativi sorti in materia, pur non essendo stati superati a livello legislativo né con l’adozione del nuovo Codice dei contratti pubblici, né con il decreto correttivo, sembrerebbero aver raggiunto una compiuta definizione mediante la novella introdotta con il d.l. n. 32 del 2019, convertito in legge n. 55/2019.
Ci si riferisce, in particolare, all’art. 110, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, che richiama espressamente la disciplina di cui all’art. 186-bis, l. fall., anche con riferimento alle ipotesi del concordato in bianco. Ciò testimonia, dunque, la voluntas legislatoris di estendere la disciplina ivi prevista all’intera categoria del concordato preventivo, da intendersi secondo una concezione più ampia, tale da ricomprendere al suo interno anche la fattispecie del concordato in bianco.
L’adesione a tali rilievi postulerebbe, quindi, la valorizzazione del principio del favor partecipationis, riconducibile anche agli obiettivi perseguiti dalla riforma fallimentare, finalizzata a superare quella concezione statica del concetto di crisi dell’impresa, per abbracciare una nozione di risanamento che tenga conto dell’attività dinamica posta alla base dell’intera vita operativa dell’azienda. Il tutto, fermo restando quanto previsto dall’art. 110, comma 4, ultimo periodo, del d.lgs. n. 50 del 2016, che richiede l’avvalimento dei requisiti di altro soggetto sino alla intervenuta ammissione al concordato.
Ciò posto, anche l’orientamento estensivo ha affrontato la problematica relativa alla qualificazione della natura giuridica della partecipazione delle imprese concorrenti alle procedure di evidenza pubblica, da intendersi in termini di ordinaria o straordinaria attività.
Come noto, infatti, l’inclusione nell’una ovvero nell’altra categoria risulta fondamentale ai fini della individuazione dei poteri di gestione riconosciuti in capo all’impresa stessa, come testimonia la differente disciplina prevista dall’art. 161, comma 7, l. fall.
In particolare, dopo la presentazione dell’istanza di ammissione e prima della decisione del tribunale di cui all’art. 163 della medesima legge, il debitore può compiere atti di ordinaria amministrazione, senza la previsione di particolari formalità. Nel caso degli atti di straordinaria amministrazione, invece, è necessario che essi risultino “urgenti” e che sia intervenuta apposita autorizzazione del tribunale.
Nel delineato contesto, la soluzione accolta dalla tesi estensiva propende per la qualificazione della partecipazione alle gare pubbliche quale ipotesi di ordinaria amministrazione, trattandosi di attività riconducibile alla normale gestione dell’impresa e delle sue finalità, in grado di migliorare il patrimonio dell’azienda laddove essa risulti aggiudicataria dell’appalto[49].
Tanto evidente appare, quindi, la differenza sostanziale che connota, invece, gli atti di straordinaria amministrazione: la capacità di incidere negativamente nei confronti del patrimonio societario, compromettendone la stabilità ed in danno della massa dei creditori
Come anticipato, a livello normativo il fulcro della disciplina applicabile è racchiusa nell’art. 161, comma 7, l. fall., che enuclea, in via esemplificativa, una serie di atti considerati espressione dell’attività di straordinaria amministrazione. Tuttavia, lo stesso carattere esemplificativo, e non esaustivo, di tale elencazione impone di ricorrere ai principi generali operanti in materia, al fine di individuare, più compiutamente, il discrimen tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione[50].
In linea teorica, tale distinzione potrebbe apparire chiara: mentre gli atti legati ad un’attività ordinaria dell’impresa attengono alla conservazione ovvero al miglioramento del patrimonio, quelli che ne comportano l’eventuale dispersione rientrano nell’alveo della categoria della straordinaria attività di gestione dell’impresa. Ma sul piano pratico, non sempre si ha un automatico riscontro di tali elementi.
La bussola da tenere in adeguata considerazione attiene, quindi, all’interesse dei creditori: talune situazioni, pur se astrattamente qualificabili come di ordinaria amministrazione, possono infatti rilevarsi foriere di un elevato indice di pericolosità o rischio di depauperamento patrimoniale per l’assetto economico-organizzativo della impresa nell’ambito della procedura di concordato[51].
Con riferimento alla natura ed agli effetti dell’autorizzazione giudiziale del Tribunale civile ai fini della partecipazione alle gare pubbliche, la tesi in commento ne propugna l’inquadramento in termini di condizione integrativa dell’efficacia dell’aggiudicazione. Tale accezione, si sostiene, ne legittima l’intervento anche nel corso del procedimento di evidenza pubblica, se non addirittura a seguito della aggiudicazione, senza pur tuttavia comprometterne la regolarità e l’efficacia.
Aderiva a tale ricostruzione anche parte della giurisprudenza civile, in epoca anteriore alle recenti riforme delle procedure concorsuali, quando si interrogava sulla quaestio iuris relativa alla compatibilità di una sanatoria degli atti di straordinaria amministrazione, privi della relativa autorizzazione giudiziale, rispetto alla sanzione di cui all’art. 173 della legge fallimentare.
Orbene, anche in tal caso, essendo qualificata quale condicio iuris di efficacia dei negozi giuridici rispetto ai creditori anteriori alla procedura, si stabiliva che non era necessaria l’anteriorità dell’autorizzazione, ben potendo intervenire anche in un momento successivo[52].
Ed infine, occorre dare atto della posizione assunta dall’orientamento estensivo in relazione alla portata applicativa dell’art. 48, commi 17, 18, 19 ter del d.lgs. n. 50/2016, che si è espresso in termini favorevoli alla possibilità di consentire la sostituzione della mandante coinvolta nella procedura concorsuale di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., con altro operatore economico estraneo alla procedura di gara.
6. La posizione dell’Ordinanza di rimessione sulla quaestio iuris sorta nella vicenda.
La Sezione remittente, nel ricostruire le questioni oggetto delle differenti interpretazioni offerte dalla giurisprudenza e dalle parti del giudizio, mette in luce le conseguenze giuridiche, nonché pratiche, che scaturiscono dall’adesione alla tesi restrittiva, ovvero a quella estensiva.
Premessi taluni rilievi di ordine sistematico delle relative discipline applicabili agli istituti del concordato in bianco e del concordato con continuità aziendale, nell’Ordinanza di rimessione si evidenzia una propensione per la tesi estensiva, ritenuta maggiormente in linea con le finalità del diritto fallimentare, alla luce delle recenti riforme.
Nel giungere a tale conclusione, essa muove dall’assunto che vede gli istituti del concordato con continuità aziendale ed il concordato in bianco legati dalla medesima ratio, finalisticamente orientata a consentire alle imprese in crisi di partecipare alle procedure di evidenza pubblica, in deroga al divieto di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), d. lgs. n. 50 del 2016.
E il contrappeso, in grado di bilanciare questi benefici per l’operatore economico concorrente, va rintracciato nell’autorizzazione di cui all’art. 186 – bis, l. fall. (consistente nella verifica della conformità agli interessi dei creditori di una eventuale acquisizione della commessa pubblica), in grado quindi di tutelare anche le ragioni della Pubblica Amministrazione appaltante quanto alla verifica in concreto dell’affidabilità del soggetto contraente.
La Sezione, come anticipato, non manca di evidenziare la natura di atto di accertamento di tale autorizzazione, ciò implicando “la sua retroazione al momento in cui la valutazione si riferisce, e non già a quella in cui essa è stata formalizzata nell’atto autorizzativo”.
Orbene, nel solco delle considerazioni sostenute dai fautori della tesi estensiva, i Giudici remittenti ritengono che lo schema autorizzativo di cui all’art. 186 - bis, comma 4[53], possa estendersi anche ai casi di presentazione di una domanda di concordato in bianco, di cui all’art. 161, comma 6, l. fall., valorizzandosi gli effetti prenotativi di tale atto, laddove volto alla prosecuzione dell’attività di impresa ed alla luce del carattere unitario dell’intera procedura.
Diversamente opinando, si osserva, potrebbero sorgere dei problemi di compatibilità dell’art. 80, comma 5, lett. b), d. lgs, n. 50 del 2016, con l’art. 57, par. 4, secondo periodo, della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, laddove dispone di effettuare una valutazione in concreto circa l’affidabilità dell’impresa, potendosi prevedere la deroga alla operatività delle ipotesi di esclusione nei casi di accertata capacità dell’impresa concorrente ad eseguire il contratto, nell’ottica della più ampia prosecuzione dell’attività aziendale.
Ulteriore ostacolo alla adesione alla tesi restrittiva è stato rinvenuto nella contrarietà ai precetti costituzionali di cui agli artt. 3, 41 e 117 Costituzione, in quanto l’opzione ermeneutica in parola si tradurrebbe in una ingiustificata disparità di trattamento riservata a situazioni analoghe, quali l’accesso immediato ovvero quello differito al concordato con continuità aziendale.
Sembra anche in tale inciso riecheggiare, a detta della Sezione remittente, la necessità di qualificare l’intera procedura concordataria alla stregua di un procedimento inteso nella sua dimensione unitaria, essendo le fattispecie del concordato in bianco ed in continuità aziendale entrambe connotate dalla medesima finalità, la stessa che ha spinto negli ultimi anni il legislatore a riformare più volte la materia fallimentare: quella di guidare l’impresa oltre la situazione di crisi, ciò nell’interesse sia dei creditori, sia del mercato, al ricorrere delle condizioni di legge.
7. Considerazioni conclusive: effetti sostanziali e formali della tesi restrittiva ed estensiva.
Sulla scorta dei rilievi ermeneutici effettuati dalla Sezione remittente ed in attesa che si pronunci definitivamente l’Adunanza Plenaria, occorre dare atto delle difficoltà interpretative che connotano le questioni oggetto dell’Ordinanza, essendo ciò comprovato anche dal continuo intervento del legislatore in subiecta materia, sia nella disciplina degli appalti, sia nel sistema delle procedure concorsuali.
Come ampiamente affrontato nel corso dei precedenti paragrafi, il carattere a tratti “ambivalente” delle disposizioni che vengono in rilievo ha dato la stura all’emersione di due differenti posizioni interpretative nella giurisprudenza amministrativa, dalle quali scaturiscono inconciliabili effetti sostanziali.
La tesi estensiva, ritenuta preferibile dalla Sezione remittente, propugna la valorizzazione del percorso storico evolutivo che ha, di recente, comportato la modifica, tra gli altri, della formulazione dell’art. 110, comma 4, Codice dei contratti pubblici, laddove estende l’operatività della disciplina derogatoria di cui all’art. 186 – bis l. fall. anche alle ipotesi di concordato in bianco. Conseguentemente, si è sostenuto che l’attivazione di una procedura concordataria di tal natura non possa esser qualificata alla stregua di una causa di automatica esclusione, ben potendo l’impresa concorrente richiedere la specifica autorizzazione del Tribunale fallimentare di cui all’art. 186 – bis l. fall. nel corso della procedura di gara.
Diversamente, la tesi restrittiva propende per una lettura di maggior rigore della normativa in commento, ai sensi della quale la formulazione dell’art. 80, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 dovrebbe intendersi nel senso di precludere la partecipazione alle gare agli operatori economici che abbiano presentato un’istanza di concordato in bianco. A detta di tale orientamento, anche la nuova formulazione dell’art. 110, comma 4, Codice dei contratti pubblici, militerebbe in tal senso, laddove il richiamo all’art. 186-bis l. fall. si ritiene riconducibile esclusivamente alle ipotesi di partecipazione alle gare successive alla presentazione della domanda di concordato in bianco, non potendo quindi applicarsi alle gare pendenti.
Più in particolare, la ratio della tesi estensiva appare ispirata alla valorizzazione del principio del favor partecipationis, secondo una logica maggiormente inclusiva, consentendo la partecipazione alle gare anche a quelle imprese coinvolte nelle procedute di concordato in bianco, grazie agli effetti “prenotativi” ed alla luce degli obiettivi di prosecuzione dell’attività di impresa, nell’ottica del superamento della crisi.
Ciò posto, le stesse premesse da cui prende le mosse la tesi estensiva potrebbero rappresentare un eventualeelemento di criticità rispetto al principio generale del divieto di offerte condizionate nell’ambito delle procedure di gara[54], la cui ratio è duplice: da un lato, essa persegue l’obiettivo di tutelare la par condicio dei partecipanti; dall’altro, consente di individuare con precisione e certezza il contenuto dell’offerta[55], alla luce delle scelte effettuate dall’impresa concorrente.
In effetti, un’interpretazione eccessivamente rigorosa del divieto di offerte condizionate determinerebbe l’esclusione degli operatori economici che, in pendenza della gara pubblica, abbiano presentato domanda di concordato in bianco. Ciò in quanto la necessaria autorizzazione giudiziale richiesta dall’art. 186- bis l. fall. dovrebbe qualificarsi, con tutti i temperamenti del caso, come una sorta di “condizione” apposta alla partecipazione stessa, in modo da condizionare anche l’offerta dell’operatore economico, secondo un rapporto di derivazione.
Tuttavia, sul piano pratico, la suesposta interpretazione potrebbe comportare problemi di compatibilità con l’attuale formulazione del dato positivo, traducendosi in una consistente limitazione della portata applicativa della disciplina di cui agli artt. 80, comma 5, lett. b) e 110, comma 4, d. lgs. n. 50 del 2016.
Del resto, sulla scorta di una lettura sistematica della normativa in rilievo, l’interrogativo in analisi potrebbe all’oggi trovare una propria composizione anche grazie a taluni temperamenti introdotti dagli interpreti nell’ambito delle argomentazioni poste alle basi della tesi estensiva. Ci si riferisce, in particolare, ai casi in cui si richiede che l’autorizzazione di cui all’art. 186 – bis l. fall. debba intervenire prima dell’aggiudicazione, essendo quest’ultimo il momento che segna la conclusione della fase di selezione del contraente privato, in occasione del quale l’operatore economico deve essere in possesso dei requisiti di partecipazione[56]. Il tutto, come è evidente, al precipuo fine di evitare un’eccessiva dilatazione dell’iter afferente alla domanda di concordato in bianco, a fronte della necessaria celerità che contraddistingue la procedura di gara.
Ancor più di recente, in giurisprudenza si è anche affermato che l’intervento dell’ammissione giudiziale al concordato con continuità aziendale prima dell’aggiudicazione non consente di qualificare come causa di esclusione, di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), Codice dei contratti pubblici, la proposizione di una domanda di concordato in bianco da parte dell’impresa concorrente[57].
Non da ultimo, la tesi estensiva impone di riflettere circa la sua portata applicativa rispetto al nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, laddove, senza pretesa di esaustività, la disciplina concordataria prevista all’art. 44, rubricato “Accesso al concordato preventivo e al giudizio per l’omologazione degli accordo di ristrutturazione”, consente al debitore di chiedere un termine, compreso tra trenta e sessanta giorni, per il deposito della proposta di concordato ed il piano, nonché l’ulteriore documentazione prevista per legge, ai sensi del comma 1, lett. a). Seppure non risulti espressamente stabilito dalla lettera della disposizione testé menzionata, la disciplina in essa contenuta sembrerebbe regolare proprio la fattispecie del concordato “in bianco”, o con riserva, attualmente cristallizzata nella disposizione di cui all’art. 161, comma 6, l. fall.
Sulla scorta di un raffronto tra la formulazione dello ius superveniens di cui all’art. 44, Codice della crisi d’impresa, e l’art. 161, comma 6, citato, appare evidente che i termini concessi al debitore sono dimidiati. Tale scelta legislativa sembra improntata alla necessità di imprimere maggiore celerità alla definizione della procedura concordataria con riserva. Elemento, quest’ultimo, utile per consentire de iure condendo una sorta di raccordo fra la procedura di concordato in bianco e le procedure di evidenza pubblica, nell’intricato contrasto sorto sia in dottrina sia in giurisprudenza che, da ultimo, ha imposto il deferimento delle sopra delineate questioni all’Adunanza Plenaria.
***
[1] In particolare, la società mandante e quella mandataria del RTI soccombente presentavano autonomi ricorsi in appello, riuniti in trattazione ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.a. essendo rivolti avverso la medesima sentenza.
[2] Per approfondimenti sui requisiti di ordine generale ex multis v. R. Greco, I requisiti di ordine generale, in Trattato sui contratti pubblici, a cura di M. A. Sandulli, R. De Nictolis, II, Milano, Giuffrè, 2019, p. 1267 ss; R. De Nictolis, Manuale dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, Roma, EPC, p. 397 ss.; D. Villa, La selezione degli offerenti, in Il nuovo diritto dei contratti pubblici. Commento organico al D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, diretto da F. Caringella, P. Mantini e M. Giustiniani, Roma, Dike, 2016, p. 273 ss.; R. Garofoli e G. Ferrari, La nuova disciplina dei contratti pubblici, II ed., Roma, Neldiritto, 2017, p. 445 ss.; F. Pignatiello, Le novità in tema di cause di esclusione, in Il correttivo al codice dei contratti pubblici. Guida alle modifiche introdotte dal d. lgs. 19 aprile 2017, n. 56, a cura di M. A. Sandulli, M. Lipari e F. Cardarelli, Milano, Giuffrè, 2017, p. 207 ss.; A. Cianfalone, G. Giovannini e F. Lopilato, L’appalto di opere pubbliche, XIII ed., I, Milano, Giuffrè, 2018, 599 ss.
[3] Sul commento dell’art. 80, Codice dei contratti pubblici, cfr. S. CACACE, La disciplina dei contratti pubblici dopo il d.lgs. n. 50 del 2016: motivi di esclusione e criteri di selezione, in www.giustizia-amministrativa.it., 8.11.2016.
[4] Cfr. S. Sticchi Damiani I requisiti di ordine generale, in I contratti di appalto pubblico, a cura di C. Franchini, Torino, Utet, 2010, p. 423-424.
[5] Cfr. P. Santoro, Manuale dei contratti pubblici, Rimini, Maggioli, 2005, p. 745.
[6] Sul punto, vedasi R. Greco, L’evoluzione normativa delle “cause di esclusione”, in Trattato sui contratti pubblici, vol. II, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, 2019, p. 759 ss.
[7] Per approfondimenti sul punto, vedasi Cons. St., sez. V, 21 luglio 2015 n. 3595, in Foro amm., 2015, n. 7-8, 1965; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 29 ottobre 2015 n. 12239, in dejure.it; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 13 gennaio 2014 n. 19, in Foro amm., 2014, n. 1, 235.
[8] Cfr. M. Antonucci, I nuovi criteri di partecipazione alle gare di appalto, su Il Cons. St., 2005, II, p. 557 ss.
[9] Ci si riferisce, in particolare, agli artt. 2 e 4 del capitolato generale delle opere pubbliche, decreto del Ministro dei lavori pubblici del 28 maggio 1895.
[10] Cfr. P. Santoro, Manuale dei contratti pubblici, Maggioli, 2005, p. 746.
[11] In tema, si veda, tra gli altri, S.S. Scoca, Contratti pubblici: l’effettività della tutela tra formalismo e sostanzialismo, in Giur. it, 2015, n. 3, 699 ss.; S. Foa’, Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici, in Urb. app., 2014, n. 11, p. 1147 ss.
[12] Cfr. S. Cacace, La disciplina dei contratti pubblici dopo il d.lgs. n. 50 del 2016: motivi di esclusione e criteri di selezione, in www.giustizia-amministrativa.it, 8 novembre 2016.
[13] La norma attualmente in vigore è frutto delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 20, lett. o), n. 3 del d.l. n. 32 del 2019, convertito nella l. n. 55 del 2019. Con particolare riguardo al nuovo art. 110, cfr. R. De Nictolis, Le novità sui contratti pubblici recate dal D.L. n. 32/2019 “sblocca cantieri”, in Urb. app., 2019, n. 4.
[14] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, p. 824 ss.
[15] Sul punto, vedasi F. Aperio Bella, Requisiti di ordine generale, in Manuale di diritto amministrativo, IV, I contratti pubblici, a cura di F. Caringella e M. Giustiniani, Roma, Dike, 2014, par. 2 (Fallimento e procedure concorsuali), 507 ss.; S. Ambrosini, La sorte dei contratti in corso di esecuzione, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, a cura di F. Vassalli, F. P. Luiso e E. Gabrielli, IV, Le altre procedure concorsuali, Torino, Giappichelli, 2014, p. 123 ss.; R. Proietti, Commento all’art. 38. Requisiti di ordine generale, in Codice dell’appalto pubblico, a cura di S. Baccarini, G. Chine’ e R. Proietti, II ed., Giuffrè, 2015, p. 485 ss.
[16] Cfr. Cons. St., ad. plen., 15 aprile 2010 n. 2155, in Dir. proc. amm., 2010 n. 2, 617.
[17] Cfr. R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni dopo la legge “sblocca cantieri”, Zanichelli, 2020, p. 749.
[18] Per approfondimenti sull’istituto, cfr. C. Cecchella, Il diritto dell’impresa e dell’insolvenza, Cedam, 2020, p. 524 ss.
[19] Tra le riforme che hanno interessato l’istituto del concordato, si possono citare le modifiche apportate dal d.lgs. 5/2006, dalla L. n. 80/2005, ed i successivi interventi di cui al d.lgs. n. 169/2007, nonché la L. n. 134/2012, L. n. 98/2013 e il d.l. n. 38/2015, convertito nella L. n. 132/2015. In particolare, si segnala anche l’intervento del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, emanato con il D. Lgs. 14/2019.
[20] Per approfondimenti sulla ricostruzione del dibattito relativo alla natura giuridica del concordato preventivo, si veda G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffrè, 2017, p. 77 ss.
[21] G. F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. III, 2013, pag. 413 ss.
[22] Si veda l’art. 36 della legge 30 dicembre 2005 n. 273 (c.d. mille proroghe).
[23] Cfr. C. Cecchella, Il diritto dell’impresa e dell’insolvenza, cit., Cedam, 2020, p. 529.
[24] G. Terranova, Le procedure concorsuali, Giappichelli, 2019, p. 541 ss.
[25] Cfr. S. Pacchi, Dalla meritevolezza del debitore alla meritevolezza del complesso aziendale, Siena, 1988.
[26] G. Terranova, Le procedure concorsuali, cit., p. 604 ss.
[27] C. Cecchella, Il diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit. Cedam, 2020, p. 524 ss.
[28][28] Tale inciso è stato aggiunto con il “Decreto del fare”, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 98.
[29] Cfr. art. 161, comma 7, l. fall.
[30] Quanto alle analogie riscontrate rispetto alla disciplina già prevista per gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cfr. P. Valenzise, Commento all’art. 182-quater, in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. A. Sandulli e V. Santoro, vol. III, Giappichelli, Torino, 2010, p. 2254 ss.; M. Fabiani, L’ulteriore upgrade degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, in Fallimento, 2010, p. 902.
[31] A. Patti, Quale compensazione nella consecuzione del fallimento a proposta di concordato preventivo inammissibile?, in Il fallimento, n. 7, 2015, p. 821; F. Lamanna, Le norme transitorie della miniriforma di cui al d.l. n. 83/2015: il significato di “procedimenti introdotti” dopo la legge di conversione, in www.ilfallimentarista.it , 13 novembre 2015.
[32] In tal senso, cfr. L. D’Orazio, Il procedimento e la deliberazione del concordato preventivo, in Il nuovo concordato preventivo, a cura di A. Caiafa, A. Salvi, Pacini giuridica, 2016, p. 52 ss.; S. Ambrosini, Il diritto della crisi d’impresa alla luce della miniriforma del 2015, la nuova riforma del diritto concorsuale, in AA. VV., Torino, 2015, 24; A. Farolfi, Le novità in materia di esecuzioni forzate e procedure concorsuali, Fallimento e concordato preventivo: le novità di agosto, Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Formazione decentrata di Bologna, 2015, 16.
[33] Sul punto, cfr. G. Terranova, Le procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2019, p. 606 ss.
[34] In tal senso, l’ANAC, con la determinazione n. 5 dell’8.4.2015, ha ritenuto che ciò possa configurarsi laddove nell’istanza, anche se in bianco, siano presenti taluni elementi esemplificativi della portata prenotativa del concordato con continuità aziendale.
[35] Tali ultimi rilievi vengono utilizzati da quell’orientamento che sostiene l’inconciliabilità tra i due istituti, con la conseguente inapplicabilità della deroga ex art. 186 – bis alle ipotesi di concordato preventivo in bianco, da qualificarsi, a detta di tale opzione ermeneutica, quale condizione impeditiva alla partecipazione delle gare pubbliche. Cfr., tra gli altri, Cons. St., Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 5966.
[36] Cfr. Cons. St., VI, 13.6.2019 n. 3984; Tar Piemonte, Torino, sez. II, 7 marzo 2019, n. 260.
[37] Per approfondimenti in tema, cfr. R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni dopo la legge “sblocca cantieri”, Zanichelli, Bologna, 2020, p. 748 ss.; V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), p. 834 ss.
[38] Laddove esso, anche a seguito di ricorso per l’ammissione al concordato, consente ad una impresa di poter ottenere un’autorizzazione giudiziale per la partecipazione alle gare di appalto.
[39] Come noto, la procedura di concordato “in bianco” o con riserva può sfociare non solo nel concordato in continuità aziendale, ma anche nel concordato liquidatorio.
[40] In tal senso, cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3984; TAR Piemonte, Torino, sez. II, 7 marzo 2019, n. 260; TAR, Lazio, Roma, sez. II ter, 22 luglio 2019, n. 9782.
[41] Tar Lazio, Roma, sez. II- ter, 22.7.2019, n. 9782.
[42] C. giust. UE, X, 28.3.2019 C-101/18, Idi srl.
[43] “Se le disposizioni normative di cui all’art. 48, commi 17, 18, 19 ter del d.lgs. n. 50/2016 debbano essere interpretate nel senso di consentire la sostituzione della mandante che abbia presentato ricorso di concordato preventivo c.d. in bianco ex art. 161, comma 6, cit. con altro operatore economico subentrante anche in fase di gara, ovvero se sia possibile soltanto la mera estromissione della mandante e, in questo caso, se l’esclusione del r.t.i. dalla gara possa essere evitata unicamente qualora la mandataria e le restanti imprese partecipanti al raggruppamento soddisfino in proprio i requisiti di partecipazione”.
[44] Tra le pronunce che accolgono la tesi estensiva, si segnalano, tra le altre, Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328; Cons. St., Sez. III, 20 marzo 2018, n. 1772; TAR Lazio, Sez. III quater, 19 settembre 2019, n. 11143; TAR Lombardia, Milano, Sezione IV, 30 dicembre 2015, n. 2877; Cons. St., Sez. VI, 3 febbraio 2016 n. 426, in dejure.it.
[45] Cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), p. 835.
[46] Per approfondimenti sulla tesi estensiva, si consiglia la consultazione di S. Francario, Autorizzazione alla continuità aziendale sopravvenuta in corso di gara, in l’Amministrativista, 26 febbraio 2021.
[47] Cfr. determinazione ANAC, 8 aprile 2015, n. 5.
[48] In tal senso, cfr. V. Di Iorio, Procedure concorsuali, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, par. 6.5 (Il concordato in bianco o con riserva), p. 836; per ulteriori rilievi critici, cfr. anche R. De Nictolis, Appalti pubblici e concessioni dopo la legge “sblocca cantieri”, Zanichelli, 2020, p. 746 ss.
[49] Cfr. Cons. St., Sez. III, 8 maggio 2019, n. 2963.
[50] Cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffrè, 2017, p. 336 ss.
[51] Cfr. Cass. 11 agosto 2004 n. 15484, in Giust. civ. 2005, I, p. 2656 ed in Fallimento 2005, p. 92. Per approfondimenti sul tema, vedasi anche AA. VV. (M.M. Gaeta), Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di G. Fauceglia e L. Panzani, Torino Utet giuridica, 2009, p. 1645 ss. Sugli organi del concordato preventivo, cfr. A.A.V.V., (M. A. Perrino), Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, Wolters Kluwer 2015, sub art. 165, p. 1968; P. Pellegrinelli; Gli aspetti processuali degli atti autorizzabili dal tribunale nel concordato preventivo, in Dir. fall. 2014, I, p. 532 ss.
[52] Trib. Verona 6 marzo 1991, in Fallimento 1992, II, p.818, con nota di M. Lazzera, vendita di azienda e concordato preventivo. Per approfondimenti anche sulle differenti concezioni, cfr. G. Lo Cascio, Il concordato preventivo e le altre procedure di crisi, Giuffré, 2017, p. 339; A.A. V.V. (M.M. Gaeta), Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di G. Faucella e L. Panzani, cit., p. 1653.
[53] Nella versione applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dal decreto – legge n. 32 del 2019.
[54] Sulla portata del principio generale del divieto di offerte condizionate, cfr. art. 72, R.D. n. 827 del 23 maggio 1994, Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato.
[55] Per approfondimenti sulla fase della presentazione delle offerte, cfr. M. Lipari, Fasi delle procedure di affidamento, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli e R. De Nictolis, II, Giuffrè, 2019, p. 94.
[56] Cfr. Cons. St., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1328.
[57] Cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 22 febbraio 2021, n. 2150.
Deontologia ermeneutica e cenni sull’associazionismo giudiziario
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. Democrazia rappresentativa e ruolo della giurisdizione - 2. Principi e regole - 3. Formazione dei giuristi e ruolo dell'accademia - 4. Deontologia ermeneutica e art. 12 delle preleggi - 5. Dal 1965 a oggi. Microstoria dell'A.N.M. in poche righe.
1. Democrazia rappresentativa e ruolo della giurisdizione
Un recente articolo di Massimo Donini (Crisi della Giustizia e ruolo politico della magistratura penale. Quando si cerca il potere perché non si vuole fare diritto, in: Questione Giustizia, marzo 2021) concorre a stimolare riflessioni sul rapporto fra le condizioni della politica e la cultura giuridica.
La crisi della democrazia rappresentativa non ridimensiona soltanto il ruolo del potere legislativo ma influisce anche sulla legittimazione dei giudici a esercitare la loro funzione che nel nostro si fonda sull’essere interpreti della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà dei cittadini.
Non può non auspicarsi che in Italia e nell’Unione, si costruisca, con l’intermediazione di partiti politici organizzati «con metodo democratico» (art. 49 Cost.), una piena democrazia rappresentativa − in cui gli interessi si confrontino sanamente e apertamente trovando una efficace sintesi nella utilizzazione delle risorse pubbliche[1].
Tuttavia, nella Costituzione italiana il principio democratico, che si attua con le norme generali e astratte tratte dalla interpretazione delle disposizioni legislative, non ha una valenza assoluta perché sono previsti organi che agiscono in una posizione di imparzialità o, addirittura, di indipendenza, come nel caso della magistratura, e prendono decisioni che riguardano i casi singoli ma che dovrebbero avere come criteri di giudizio essenzialmente i principi normativi di origine legislativa.
Pare evidente che, se la legislazione non riesce a approntare quanto è necessario, per estensione e qualità, a regolare puntualmente i casi della vita sociale, allora si produce uno squilibrio che rende disarmonico il comporsi dei Poteri, sia che li si concepisca secondo la loro tripartizione tradizionale, sia che li si consideri adottando uno schema più articolato e realistico. Il problema si complica ulteriormente quando la legislazione è frutto di sortite volontaristiche non precedute da un maturo dibattito politico effettivamente rappresentativo delle posizioni esistenti nella società civile.
La crisi della norma generale e astratta – che deriva dalla complessità e dalla velocità dei fenomeni sociali – affievolisce la supremazia della legge e non tocca solo la giurisdizione ma tutte le categorie che hanno a che fare con l’interpretazione del diritto: la pubblica amministrazione, le varie professioni, lo stesso legislatore rispetto a fonti legislative superiori che lo vincolino (nei rapporti Parlamento-Governo, Ordinamento comunitario-Ordinamento nazionale, Ordinamento statale-leggi regionali).
In particolare, quando i contenuti della produzione legislativa derivano da mediazioni necessarie che combinano esigenze diverse e spesso confliggenti, l’autosufficienza logica della norme si riduce e si accresce il ruolo della giurisdizione[2].
Certamente esiste il rischio che la magistratura e anche la pubblica amministrazione − che pure dovrebbero contenersi in una posizione di non equipotenza rispetto alla legislazione − occasionalmente inseriscano nei loro procedimenti valori non veicolati da dati normativi o addirittura germinino centri di decisione ulteriori, di varia tipologia e non sempre manifesti e trasparenti nei loro meccanismi di funzionamento.
Questa situazione rende meno prevedibili le decisioni giudiziarie e richiede una formazione nuova per la magistratura (nonché per l’avvocatura) oberandola di ulteriori responsabilità e di un lavoro più complesso che consiste nel dare ordine ai dati legislativi affinando i loro significati mediante un confronto stretto con la realtà sociale[3].
Si tratta di un’attività importante. Allora è difficile capire perché alcuni (forse pochi, comunque troppi…) a volte preferiscano distrarsi dalla coltivazione del fertile latifondo del dovere per dedicarsi all’orticello, intercluso, di piccoli illusori poteri, abbandonandosi al soggettivismo nella attività giurisdizionale, all’oblio dell’ordinamento giudiziario in alcuni momenti di autogoverno (centrale e periferico) della magistratura e, all’esterno, a rappresentazioni personalistiche di sé indebitamente connesse al proprio ruolo istituzionale.
2. Principi e regole
2.1. Più che nel passato, oggi è evidente che non si può regolare tutto ex ante per la semplice ragione che non si può conoscere tutto ex ante: l’astrattezza delle norme non è sempre in grado di regolare appropriatamente ciò che accadrà e tanto meno di farlo tempestivamente. Pur nel rispetto della sovraordinazione della legge, l’interpretazione del diritto (e la preliminare ricostruzione storica degli eventi singoli ai quali applicarla) non costituiscono meri compiti da eseguire ma problemi (a volte semplici, altre volte complessi) da risolvere.
L’elasticità dei principi normativi (come anche delle clausole generali) può consentire una gamma di soluzioni diverse. Questa condizione comporta un lievitare del potere giurisdizionale rispetto a quello legislativo, che a volte reagisce producendo una normazione piuttosto dettagliata. Eppure, sappiamo (da alcuni secoli) che la moltiplicazione delle regole moltiplica soltanto le occasioni delle loro interpretazioni, sia per gli spazi che aprono a opzioni soggettivistiche sia perché oggettivamente le disposizioni troppo dettagliate possono finire per non attagliarsi a fattispecie diverse da quelle che il legislatore aveva previsto, per cui si generano lacune che impongono agli interpreti del diritto di ampliare i loro orizzonti ermeneutici.
La produzione legislativa è inevitabilmente incompleta sia estensivamente (perché il legislatore detta solo le disposizioni relative agli oggetti che ritiene rilevanti ai suoi fini nel momento storico in cui si esprime) sia intensivamente (perché non può esplicitare tutte le assunzioni di sfondo, tutti i presupposti e tantomeno tutte le implicazioni).
Se il linguaggio del legislatore e quelli dei suoi interpreti coincidono, i significati dei dati normativi si trasferiscono in modo ottimale dalla legislazione ai destinatari delle norme. Se vi sono discrasie culturali trai i significati veicolati dalle disposizioni e i contenuti recepibili dagli interpreti sorgono problemi: ma questo può anche consentire al sistema dei segni normativi (disposizioni e norme, principi e regole) di realizzare una seconda funzione, non essenziale ma neanche secondaria, perché non funziona più come un semplice meccanismo per veicolare prescrizioni ma è pure una base per elaborare nuove prospettive[4].
La produzione di nuovi significati normativi (che non si identifica con la creazione di nuove norme) è una risorsa per l’affinamento e l’evoluzione del diritto. L’idea di ordinamento come sistema richiama l’immagine di una rete le cui le maglie principali sono tessute dal legislatore fissando regole che veicolano principi. Evidentemente l’ordinamento non è una sistema chiuso e autosufficiente ma un discorso che non si riduce alle parole, alle frasi e ai testi isolati ma è costituito dall’intero contesto culturale nel quale si collocano i segni che lo compongono. Le sue componenti non hanno contenuti univoci e possono essere carenti di senso se considerate separatamente.
Nella aree di confine tra quel che è rilevante e quel che non è rilevante per il diritto si svolgono dinamiche che lo rinnovano: quanto più si sviluppa l'indagine critica tramite l’ars distinguendi tanto più possono emergere situazioni che producono eccezioni al quadro generale iniziale. In realtà, l'interpretazione accurata può aumentare l'incertezza del diritto perché solleva nuovi problemi rivelando complessità inattese [Quintiliano, Istituzione oratoria, II, XIII, 1]. L’interpretazione rigorosa dei fatti e delle norme può entrare in contrasto con l’aspirazione (psicologica e sociale) alla certezza del diritto.
Inoltre, le forme discorsive sono affidabili se riescono a rappresentare idoneamente ciò a cui si riferiscono, ma a volte, risultano fuorvianti rispetto all'oggetto delle loro intenzioni e chi ordinariamente lavora con le proposizioni rischia di scivolare inavvertitamente dal piano della realtà al piano delle mere formule linguistiche.
2.2. L’argomentazione giuridica ai livelli meno pedestri richiede un certo apporto delle capacità di immaginazione logica e di immaginazione etica. Tuttavia, anche in questa prospettiva, essa non deve oltrepassare il suo limite costitutivo: non deve produrre principi normativi diversi e nuovi rispetto a quelli offerti (esplicitamente o implicitamente) dalle fonti normative.
In altri termini, non deve porre obiettivi (principi, rationes) diversi da quelli mirati dal legislatore[5], non può svolgere una funzione diversa da quella che è la sua causa finale (dire e riprodurre ma non creare il diritto) scavalcando i suoi presupposti costitutivi e rendendosi una fonte (non un semplice fattore) del diritto, così divenendo altro da sé, almeno secondo il modo in cui è ancora intesa nella forma di cultura attuale[6].
Per ridurre il rischio che questo avvenga, è opportuno sviluppare tecniche legislative che indichino, in modi manifesti (così da chiarirli anche ai loro autori), i principi normativi (gli obiettivi, le rationes) che si vogliono implementare nel sistema delle norme per orientare l’interpretazione e l’applicazione delle leggi in un’ampia gamma di mutevoli situazioni. Questioni notevoli sorgono quando i principi fondamentali si presentano come fra loro incompatibili: in queste situazioni il loro bilanciamento non può compiersi in astratto ma calibrandolo in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto.
3. Formazione dei giuristi forensi e ruolo dell’accademia
In tutti i casi, non è ipotizzabile una giurisdizione con un generale ruolo di supplenza politica: il rapporto tra la legislazione e la giurisdizione non deve andare oltre la concretizzazione e di sviluppo degli obiettivi e dei contenuti che la seconda riceve dalla prima[7].
Forme di reclutamento elettivo dall’esterno o di selezione elettiva all’interno (secondo opzioni politiche o personalistiche) contrasterebbero con il principio per il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge e accrescerebbero la possibilità di linee di politica del diritto fra loro contrastanti (tali da impedire un controllo di legittimità), alimentando l’idea (errata, ma diffusa) che inscrive la magistratura tra le élite delle quali diffidare.
Anche per queste ragioni, la giurisdizione non può rinunciare alle elaborazioni scientifiche che soltanto la dottrina giuridica può fornirle, così sistemando e spersonalizzando (oggettivandole) le categorie adoperate nel decidere. Ma la dottrina può fornire l’apporto necessario solo se il sistema accademico riesce a trattenere nelle università un sufficiente numero di studiosi ben motivati e capaci di elaborazioni scientifiche idonee a orientare i pratici del diritto.
Invece, da qualche decennio la cultura della semplificazione è subentrata a quella tradizionale: nelle università si è affermata l’idea che l’essenziale sia l’apprendimento delle leggi così identificando il diritto con la legge.
Questa identificazione ha portato a ritenere che basti il fatto di essere investiti di una funzione attuativa qualificata (quella di magistrato) per giustificare i risultati della interpretazione della legge, legando l’autorità alla posizione e facendo della pratica giudiziaria la base per la formazione dei nuovi giuristi.
La stessa formazione universitaria si è orientata verso la legislazione di settore e la giurisprudenza, ha formato esperti di legislazione lasciando la ricerca di una formazione avanzata al post-laurea. Ma, in un tempo di trasformazioni continue, la formazione post-laurea può rivelarsi obsolescente e, se è mancata una formazione orientata a fornire abilità più che nozioni, persino evanescente. A un pensiero graduale nel maturare ma solido nei suoi fondamenti (utile per gli studiosi come per i pratici) si è contrapposta la ricerca della tempestività alla quale può essere di ostacolo la complessità dei ragionamenti: la tensione verso le conclusioni prevale sulle argomentazioni. Negli scritti giuridici la giurisprudenza viene citata più della dottrina e così i magistrati tendono a chiudersi in un orizzonte autoreferenziale (che in alcuni casi si riverbera anche negli atteggiamenti esteriori rispetto all’operato professionale).
Questi mutamenti sono il prodotto di un’epoca ma i corpi professionali interessati (l’accademia e la magistratura, come anche l’avvocatura) non sono ancora riusciti a sviluppare una capacità di elaborazione che consenta loro di comprendere e gestire in qualche modo il cambiamento e non soltanto di subirlo con l’illusione di esserne protagonisti[8].
4. Deontologia ermeneutica e art. 12 delle preleggi
4.1. Indipendenza e imparzialità sono due condizioni indispensabili affinché un soggetto possa essere giudice, perché attengono all’essenza della sua attività.
La prima richiede l’assenza di subordinazioni (le più pericolose sono quelle nascoste) e viene protetta dallo statuto della professione giudiziaria; ma si può essere indipendenti senza riuscire a essere imparziali
La seconda richiede l’assenza di ogni pregiudizio e finisce per risolversi in una virtù personale che consiste nel mantenersi aperti, all’inizio dei ragionamenti, a tutti i possibili punti di vista svincolandosi dai pregiudizi. Ovviamente non può trattarsi di una imparzialità assoluta perché le norme giuridiche muovono da dei presupposti e perseguono degli obiettivi, quindi nascono affette da parzialità perché mirano a costruire una particolare realtà: l’argomentazione giuridica non è libera ma condizionata dai contenuti normativi validamente posti dall’ordinamento giuridico (chi aspira a essere assolutamente imparziale deve dedicarsi alla filosofia o alle scienze non applicate, non al diritto). La radice della parzialità risiede proprio nel non (tendere a) valutare tutti gli aspetti, tutti i profili e tutte le circostanze: si accoglie un principio e se ne tralasciano mille altri. Per non restare ingabbiati nella parzialità delle posizioni serve sapere rovesciare le prospettive. Solo movendosi lungo i vari poli di interesse, seguendo le indicazioni che sorgono dalla specificità di ogni caso concreto si può concretizzare il giusto mezzo (nel senso di giusto strumento) della regolazione, che frequentemente coincide con la mediazione e la moderazione ma, ne resta intrinsecamente distinguibile, tanto che, in alcuni casi, può persino identificarsi con quella che, a prima vista, sembrerebbe una posizione estrema[9]. Al rischio del soggettivismo giudiziario si contrappongono: una adeguata formazione professionale e deontologica, la costante considerazione dei principi fondamentali dell’ordinamento (anzitutto di quelli costituzionali, che hanno contemporaneamente efficacia normativa e valenza ermeneutica), la consapevolezza che le decisioni devono inserirsi in un sistema che richiede orientamenti dotati di un certo grado di coerenza e stabilità, l’obbligo costituzionale di motivare i provvedimenti, la pluralità dei gradi di giudizio, la effettiva collegialità delle decisioni adottate nei gradi superiori, il rispetto degli apporti dell’avvocatura.
4.2. Avviene, però, che i criteri interpretativi adottati nelle motivazioni delle sentenze siano utilizzati senza gerarchie che diano loro un ordine: si va dal criterio letterale, a quello storico, dalle valutazioni di sistema a argomentazioni teleologiche ristrette alla singola norma, dall’interpretazione conforme (alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE) a opzioni di natura pragmatica. Sulla metodologia dei metodi prevale la metodologia del risultato[10].
Anche le difficoltà della Corte di cassazione a esprimere orientamenti uniformi e stabili non dipendono soltanto dall’eccessivo numero dei ricorsi e dai limiti della sua organizzazione interna ma dalle stesse ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito[11].
Sarebbe auspicabile che lo stesso legislatore definisse strumenti ermeneutici attenti alla dimensione dell’interpretazione sistematica non adeguatamente valorizzati nell’attuale articolo 12 delle preleggi al Codice civile. Da un punto di vista puramente logico, una riedizione dell’attuale articolo 12 delle preleggi dovrebbe stare nella Costituzione, o comunque in una fonte normativa rinforzata per fissare nuovi principi di generali di ermeneutica giudiziaria[12].
Inoltre, in particolare, rimane viva la questione del rapporto fra l’interpretazione letterale e l’interpretazione teleologica quale criterio di verifica della prima.
Certamente «When a law is clear and free from all ambiguity, the letter of it is not be disregarded, under the pretext of pursuing its spirit» (art. 13 Lousiana Civil Code, 1808). Ma, attualmente, le più complesse dimensioni della spesso ineludibile interpretazione sistematica hanno la necessità di appoggiarsi su qualche pietra angolare che non può essere costituita, se ci si vuole allontanare dalla sostanza degli intenti del legislatore, dallo scopo (ratio) delle norme. Allora, pur con tutte le cautele esegetiche necessarie, in varie situazioni, l’interpretazione teleologica può rivelarsi uno strumento chiarificatore più forte dell’interpretazione letterale di una singola disposizione[13] e la tecnica legislativa può agevolare il ricorso al metodo teleologico, come nel caso degli atti comunitari, che presentano un “preambolo” composto dai “considerando” che spiegano e indicano le ragioni delle disposizioni normative che vengono introdotte[14].
L’auspicio è, forse, illuministico.
5. Dal 1965 a oggi. Microstoria dell’A.N.M. in poche righe
Lo è meno sperare che l’associazionismo giudiziario − deviando dalla sua parabola discendente e recuperando istanze vitali in anni meno infelici − si riconcentri sull’uso degli strumenti del mestiere (che sono comuni all’avvocatura).
Non è un auspicio sorretto da molti conforti se si considera che per decenni questo associazionismo (che ha natura privata ma in pratica è il volano delle espressioni della autonomia attribuita dalla Costituzione) si è dimenticato, sino a tempi recenti, dei problemi della magistratura onoraria (cioè di una porzione considerevole dell’apparato che si occupa della giustizia ordinaria) e ancora tituba a concentrarsi sulle questioni relative al tipo di formazione e di selezione degli aspiranti magistrati (il che è come occuparsi della propria salute trascurando l’alimentazione).
Vivi fermenti, al contrario, mossero la magistratura italiana al Congresso di Gardone Riviera del 1965, con la piena adesione dell’A.N.M. ai principi costituzionali (oggi è un dato scontato, allora non lo era) e l’emersione delle correnti interne. Nessuno di quelli che si accingono a andare in pensione adesso era ancora entrato in un aula giudiziaria all’epoca.
Solo alcuni dei meno giovani in servizio hanno partecipato alla Conferenza nazionale per la Giustizia svoltasi a Bologna nel 1986, quando i temi della organizzazione giudiziaria e della sua efficienza e efficacia cominciarono a svilupparsi e a concretizzarsi sino alle forme attuali (con molti risultati utili e con alcuni fittizi).
Adesso − dopo oltre un ulteriore trentennio – ci si può chiedere se la dimensione associativa della magistratura italiana sia complessivamente di un livello migliore rispetto a quella 1965 e, poi, a quella del 1986.
Tuttavia, non conviene rispondere subito: la risposta si profila molto articolata e potrà risultare più chiara solo fra qualche anno.
Quando la situazione sarà cambiata e l’A.N.M. − nella forma attuale o in altre ancora da configurarsi – avrà recuperato una piena capacità propositiva di contenuti concretamente utili per il miglioramento dell’attività giudiziaria[15].
[1] La cultura, in generale, e l’educazione giuridica, in particolare, sono il fondamento dell’esercizio effettivo della cittadinanza. Soprattutto, una tensione collettiva verso la società della conoscenza serve a alimentare il potere − sotteso a tutti gli altri e strutturalmente in grado di accrescersi da sé − costituito dalla diffusione del sapere e degli strumenti critici necessari per farne usi utili. Fra i tanti: F. CONIGLIONE, «Quale conoscenza per la “Società della conoscenza”?», in Bollettino della Società Filosofica Italiana, 216, settembre-dicembre 2015, pp. 3-24.
[2] Ne derivano proposte di modificare lo statuto della magistratura per dotarla di una legittimazione che giustifichi l’inserimento della giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto con l’idea che, poiché l’interpretazione non è mai neutrale, sarebbe preferibile non occultare gli aspetti soggettivistici dietro lo schermo dell’argomentazione tecnico-giuridica. Sembra una razionalizzazione eccessiva perché nelle complesse società contemporanee non è realistico attendersi che ogni esercizio di potere si fondi su uno specifico mandato: quel che importa è che chi decide si attenga al modello assegnatogli dall’ordinamento e che vi siano strumenti atti a impedire gli abusi.
[3] Pare un errore prospettico mirare alla prevedibilità delle decisioni giudiziarie in sé e aspirare alla certezza del diritto ex ante (rispetto alla decisone) mentre la certezza del buon diritto si raggiunge soltanto ex post, cioè a conclusione di una compiuta e corretta dialettica processuale. La prevedibilità è davvero un valore (economico) per le decisioni che hanno a che fare con rilevanti flussi economici e finanziari.
[4] Sull’argomento: J.M.Lotman, La semiosfera, L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Marsilio, Venezia 1992, 5ss, 56ss, 85ss.
[5] Recentemente in questa Rivista (13/01/2021): Il giudice interprete o legislatore? Intervista di Matilde Brancaccio a Vittorio Manes e Luca Pistorelli.
[6] A. Costanzo, Logica dei dati normativi, Milano, Giuffrè, 2005, 228-232
[7] Su questi tempi: L. FERRAJOLI, Principia juris, Teoria del diritto e della democrazia, parte 3°, Lo Stato diritto, cap.XII, 12.8. La giurisdizione. Quattro connotati strutturali pp. 879-884, Bari, Laterza, 2007
[8] Su questi temi, recentemente: A. Corbino, La democrazia divenuta problema, Roma, Eurylink University Press, 2020
[9] F. JULLIEN, Un sage est sans idée, Paris, Èditions du Seuil, 1998. Trad.it. M.Porro, Il saggio è senza idee, Torino, Einaudi, 2002
[10] V.Speziale, Le regole interpretative nella giurisprudenza, in: Lavoro e diritto, 2014, 2-3, pp. 273 ss.; P.Chiassoni, L'interpretazione nella giurisprudenza: splendori e miserie del "metodo tradizionale"., in: Giornale di diritto del lavoro, 2008, 4, pp. 553.
[11] Le sentenze, (di qualsiasi livello) che si travestono forme dottrinarie o si ingolfano con excursus storici debordano dal ruolo e non assolvono la loro funzione. I dubbi e gli approfondimenti sono il sano alimento di ogni seria attività intellettuale. Ma devono rimanere sullo sfondo delle norme e delle loro concretizzazioni in sentenze e provvedimenti perché il diritto non è descrizione ma prescrizione e chi vede modificata autoritativamente la sua sfera giuridica mentre ha l’obbligo di adeguarsi a quanto gli si prescrive ha anche un ragionevole (giusto) interesse a ricevere un messaggio chiaro per capire le ragioni del suo trattamento.
[12] G.Gorla, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di dritto costituzionale?), in: Il Foro italiano, 1969, 5, pp.112-132; E.Spagnesi, Reminiscenze storiche di una formula legislativa, in: Foro italiano, 1971, 9, pp.99-118; A.Ciervo, Soltanto alla legge? Il problema dell'ermeneutica giuridica dall' articolo 12 delle preleggi all'interpretazione adeguatrice, in: Rivista critica di diritto privato, 4, 2010, pp.631-664.
[13] G.Tarello, L'interpretazione della legge, Milano, Giuffrè 1980, p. 370 e ss.: « chi usa l'argomento teleologico ricostruisce i fini della legge... a partire dal testo della legge o da una classificazione dei fini o interessi che il diritto protegge». Per considerazioni sul versante penale: M.TRAPANI, Creazione giudiziale della norma penale e suo controllo politico. Riflessioni su Cesare Beccaria e l’interpretazione della legge penale 250 anni dopo, in: Archivio penale, 2017, 1, on line. Per considerazioni sul versante civilistico: G.Terranova, I principi e il diritto commerciale. (Relazione al Convegno "I principi nell'esperienza", Roma, 14-15 novembre 2014), in: Rivista di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2015, 2, pp. 355-398, 363ss
[14] Sul tema: J.Joussen , L'interpretazione (teleologica) del diritto comunitario, in: Rivista critica di diritto privato, 2001, p. 491 e ss.;
[15] Analogamente, nell’ultima parte del suo intervento: N.Russo, “In nome del popolo mediatico” (se pure i magistrati smettono di affidarsi al processo), in: Questione Giustizia, 16,/04/2021.
Un comunicato tira l’altro. Non ci resta che…attendere
di Davide Galliani
Non facile commentare un comunicato. Viene da domandarsi se in camera di consiglio si voti anche sui comunicati. Ora, se nel comunicato si capisce bene che è trasposto il dispositivo, sul quale si vota, i problemi potrebbero essere anche messi da parte. Il punto è quando il comunicato assomiglia a una sorta di agenzia di stampa. In questi casi, forse, meglio lasciar perdere o essere didascalici: “si comunica che la Corte depositerà la decisione sulla questione X il giorno Y”. Punto. Invece no. E abbiamo due possibilità: stare zitti e aspettare la decisione, possibilità validissima; oppure scrivere due righe oggi, magari per non scriverle più domani.
Cosa significa, giuridicamente, che l’accoglimento immediato “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”? Soprattutto, la Corte si è dimenticata che la sorveglianza, caduta la presunzione assoluta sui permessi, è tornata a fare il proprio mestiere, e non solo quello di dichiarare inammissibile qualsiasi richiesta di beneficio senza utile collaborazione con la giustizia? Pensate a chi è in carcere da più di venti anni, la stragrande maggioranza dei 1.200 e passa ergastolani ostativi italiani: se fossi uno di loro, la prima domanda che mi porrei è come sia possibile lasciarmi nel limbo per un anno. La Corte accerta la violazione di eguaglianza, rieducazione, dignità umana, ma dice che per un anno possiamo convivere con la violazione.
Ancora. Richiamare nel comunicato l’art. 3 CEDU non è stata una genialata. Questo perché i diritti che garantisce sono inderogabili, da testo della CEDU e da giurisprudenza granitica di Strasburgo. Mai e poi mai si possono derogare. Nemmeno in tempo di guerra e nemmeno a fronte del più tremendo, grave e ripugnante dei reati. Figuriamoci per dare tempo al Parlamento di sistemare le cose. E anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa più sensibile al margine di apprezzamento potrebbe storcere il naso: dato che stiamo parlando di art. 3, una volta accertata la violazione, non dichiararla subito è una faccenda complicata.
Vi sarebbe altro. Se la Corte avesse deciso anche in riferimento alla semilibertà, usando la illegittimità consequenziale, nel comunicato lo avrebbe detto. Ma ha un qualche senso dichiarare incostituzionale il regime ostativo applicato al permesso premio, accertarlo incostituzionale ma non dichiararlo applicato alla liberazione condizionale, e non dire una parola sulla semilibertà? Certo, dopodomani arriverà una questione di costituzionalità sulla semilibertà. Ma dato che la Corte ha tra i suoi poteri, questo ben scritto, la illegittimità costituzionale consequenziale, non sarebbe stato male usarla. Si dirà: ma i requisiti della semilibertà sono diversi. Ovvio che sono diversi, ma la presunzione assoluta è identica: incostituzionale verso i permessi, incostituzionale accertata non dichiarata verso la liberazione condizionale, che facciamo la teniamo in piedi per la semilibertà?
Lo so bene. Cinque anni fa quanto accaduto sui permessi e oggi sulla liberazione condizionale era inimmaginabile. Il bicchiere è anche mezzo pieno. Va bene, ma resta una sensazione strana. Cosa dovrebbe fare il legislatore in questo anno e passa di tempo? Dice la Corte: “preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Si tratta di una affermazione carica di significato. Tanto è vero che dopo la 235/2019 la sorveglianza ha fatto di tutto proprio per “preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Sinceramente, alla Consulta non sembra se ne siano accorti: la sorveglianza sta cercando in molti modi di valorizzare comunque il mancato apporto collaborativo. Un cortocircuito: la 253/2019 dice che esiste la libertà di non collaborare, la sorveglianza post 253 sembra non voler considerare “neutro” il mancato apporto collaborativo, e ora il comunicato della Consulta dice “preservare il valore della collaborazione con la giustizia”. Sarebbe stato molto meglio se la Consulta avesse detto: la presunzione da assoluta diventa relativa, ovviamente ora al Parlamento compete il compito di “preservare il valore della collaborazione”. Se accerti la violazione, ma non la dichiari, ti tiri la zappa sui piedi: se è incostituzionale la presunzione assoluta, e se la presunzione assoluta è assoluta, che senso ha non dichiararlo ma solo accertarlo? Vale a dire: il Parlamento può fare solo meglio, non può peggiorare la situazione, visto che peggio della prova legale assoluta non esiste nulla, se non abolire la liberazione condizionale per gli ergastolani, che non mi pare sia possibile.
Infine, le buonissime ragioni di chi contesta la Consulta, quando accerta ma non dichiara una violazione costituzionale, nel caso dell’ergastolo ostativo si moltiplicano. Staremo a vedere l’ordinanza, la quale, a differenza del caso Cappato, non deve evitare che delle persone finiscano in carcere, ma che possano uscire dal carcere…anche se il “no” della sorveglianza all’uscita è incostituzionale.
Non si può scrivere un libro su un comunicato. Nemmeno un articolo. Al massimo poche righe. Che voglio concludere domandandomi se abbiano ancora un senso questi comunicati. Non tutti i comunicati, ma questi che assomigliano ad agenzie di stampa. Si rinvia a maggio 2022 per consentire al legislatore gli interventi “che tengano conto (…) della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata”. Ma il legislatore del 1992 ha introdotto l’ergastolo ostativo proprio per la peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata, e quelli successivi non lo hanno modificato nemmeno di una virgola. Non riesco a comprendere perché distinguere i compiti tra Corte e Parlamento debba significare anche non fare ciascuno i rispettivi compiti. Il Parlamento ha fatto il suo. Un attimo meno oggi la Corte, anzi ha detto a tutti: io sono la Corte, accerto la incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ma non la dichiaro perché voglio vedere cosa combina il Parlamento. Non è invadere le sfere del Parlamento? Saranno maggiorenni i nostri parlamentari, o no? Ognuno faccia il suo mestiere. La Corte dichiara incostituzionale l’ergastolo ostativo. Il Parlamento, se lo ritiene, interviene per preservare il valore della collaborazione con la giustizia e tenere conto della peculiare natura dei reati di criminalità organizzata. Perché in Italia per unire due puntini non si tira mai una linea retta?
Anche chi dice che questo passa il convento, altrimenti sarebbe andata peggio, non è granché persuasivo. Intanto, non era in camera di consiglio. Ma mettiamo sia andata così: alcuni erano per la infondatezza, altri per la incostituzionalità, ha vinto la incostituzionalità accertata ma non dichiarata. A me sembra che chi dice che sarebbe potuta andare peggio debba rivolgersi a chi sosteneva l’infondatezza della questione di costituzionalità. Come si possa sostenere che l’ergastolo ostativo sia compatibile con la Costituzione e la CEDU sinceramente non riesco a comprenderlo. E a conti fatti non è compatibile né con la prima né con la seconda…ma evidentemente per dichiararlo oltre che per accertarlo serve ancora un altro anno.
La Corte si è messa in testa di riscrivere la disciplina dell’ergastolo ostativo. Così ha fatto con il permesso, aggiungendo il pericolo di ripristino. Così farà con la liberazione condizionale, poiché lecito aspettarsi qualche paletto per il legislatore nella ordinanza che verrà pubblicata “nelle prossime settimane”. E vedremo la sorte della semilibertà, sulla quale per ora tutto tace. Non vi è niente di male in questo attivismo della Consulta. Che sia un legislatore non solo negativo ma anche positivo lo sanno pure i sassi. Solo una cosa non si deve dimenticare: che i destinatari delle sue pronunce sono persone che non sono in carcere da qualche giorno, nemmeno da qualche mese, e nemmeno da qualche anno. Parliamo di decenni di carcere. Non vorrei mai che finissimo col domandarci se le aggiunte fatte dalla Corte debbano avere valenza solo per il futuro. Del resto, il divieto di retroattività di pronunce che aggravano i requisiti per chiedere un beneficio o una misura è un tema che prima o poi esploderà…caduta la presunzione assoluta per i permessi non abbiamo più solo l’attualità dei collegamenti, che esisteva dal 1991, ma anche il pericolo di ripristino, che esiste dal 2019. Staremo a vedere sulla liberazione condizionale, ma caduta la presunzione assoluta non è che si possa mettere dentro di tutto per preservare il valore della collaborazione con la giustizia e per tenere conto della peculiare natura dei reati di criminalità organizzata.
Sembra una scena kafkiana: la Consulta tiene per il guinzaglio il Parlamento, al quale fornisce un assist per mettere il guinzaglio alla sorveglianza, la quale, se andiamo avanti così, non si muoverà più neppure di un millimetro…e non è che i permessi concessi dopo la 253 ad ergastolani siano centinaia: io ne ho contati come le Cime di Lavaredo…
Lo “stress test” dello statuto unico del magistrato onorario (d.lgs. 116/2017) tra progetti di controriforma, compatibilità con i principi costituzionali e tutela eurounitaria del lavoratore contro l’abuso della reiterazione dei contratti a termine
di Pasquale Serrao d’Aquino
[Sul medesimo tema si rinvia, in questa Rivista, al forum coordinato ed introdotto dal Prof. Bruno Capponi, La riforma della magistratura onoraria:forum - Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria di Federico Russo - Brevissime note sulle ultime proposte di riforma sulla normativa dei giudici onorari di Giuliano Scarselli - Verso quale riforma della magistratura onoraria? Di Giulio Nicola Nardo - Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia di Bruno Caruso e Giuseppe Minutoli.]
L'attuazione della Riforma Orlando si dimostra problematica sia in ragione del contenzioso insorto sulla tutela lavoristica dei magistrati onorari sia per la compatibilità dello statuto unico della magistratura onoraria rispetto ai principi costituzionali. Occorre fare i conti con le consolidate origini storiche di diverse figure di magistrato onorario e con lo stabile affidamento della giustizia, per superare l’arretrato, sul lavoro dei giudici onorari di tribunale e dei viceprocuratori onorari.
La pur opportuna introduzione del sistema disciplinare e delle norme sui trasferimenti nelle proposte di riforma non si conciliano pienamente con l’idea di un magistrato non legato da un rapporto professionale con lo Stato in quanto destinato a svolgere le funzioni a tempo parziale e per un periodo di tempo rigorosamente limitato, mentre gli incentivi economici proposti alla categoria non rappresentano la strada ortodossa per conformarsi alla regole eurounitarie contro l’abusiva reiterazione dei contratti a termine. Ancora più complesse sono le scelte per i magistrati onorari già in servizio.
Per un servizio giustizia efficace servirebbe assicurare agli uffici giudiziari un contributo stabile e competente dei magistrati onorari di difficile compatibilità con l’art. 106 Cost. Risultano necessarie, pertanto, delle scelte di fondo come semi-professionalizzare i magistrati onorari incidendo sulla norma costituzionale, limitarne il ricorso al minimo necessario ritornando ad una giurisdizione laica di prossimità o conservare il giudice di pace abrogando le nuove competenze introdotte dal d.lgs. 116/2017. In ogni caso vanno assicurati effettivi poteri decisori ai GOP anche nel settore penale, limitatamente a determinate materie. Non può essere perduta, comunque, l’occasione della erogazione delle risorse del PNRR.
The implementation of the Orlando Reform proves problematic for the dispute that has arisen over the labour protection of lay judges and for of the compatibility of the honorary magistracy statute to constitutional principles. It is necessary to reckon with the consolidated historical origins of various figures of honorary magistrates and with the stable reliance of justice on the work of honorary court judges and on honorary deputy prosecutors to overcome the backlog.
They timely introduction in the reform proposals of a disciplinary system and of rules on transfers do not fully reconcile with the idea of a magistrate not bound by a professional relationship with the State as he is destined to perform his duties on a part-time basis and for a strictly limited period of time, while the economic incentives offered to the category do not represent the orthodox way to comply with the European Union rules against the abusive reiteration of fixed-term contracts.
For an effective justice service, it would be necessary to ensure to the judicial offices a stable and competent contribution of honorary magistrates, which is difficult to reconcile with article 106 of the Constitution. Therefore, there are necessary basic choices to make such as semi-professionalizing the honorary magistrates by affecting the constitutional norm, or limiting their use to the minimum necessary by returning to a lay jurisdiction of proximity, or still preserving the existing honorary courts by repealing the new powers introduced by d.lgs. 116/2017. In any case, effective decision-making powers must be ensured to the GOP even in the criminal sector (limited only to certain offences). The opportunity of the PNRR funding resources cannot be lost.
Sommario: 1. La riforma organica della magistratura onoraria: la conformità ai principi costituzionali e alla normativa sovranazionale - 2. I tratti essenziali della Riforma Orlando e i nodi problematici: la ridotta autonomia dei magistrati onorari, le limitazioni funzionali e l’insufficienza delle tutele - 3. Il progetto di riforma del d.lgs. 116/2017 - 3.1. Il regime attuale delle incompatibilità e le modifiche proposte - 3.2. I trasferimenti - 3.3. La previsione di un vero e proprio sistema disciplinare - 3.4. La normativa dedicata ai giudici onorari di pace già in servizio - 3.5. La riduzione della pianta organica - 4. Il contenzioso alimentatosi con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione II, del 16 luglio 2020 nella causa C-658/18 (causa U.X. contro il Governo della Repubblica Italiana) - 5. Riflessioni conclusive.
1. La riforma organica della magistratura onoraria: la conformità ai principi costituzionali e alla normativa sovranazionale
Il contenzioso insorto da alcuni anni per il riconoscimento ai magistrati onorari delle tutele lavoristiche previste dalla normativa eurounitaria è solo uno dei molteplici fattori dello stress test a cui è sottoposta la riforma Orlando.
Spinte opposte rendono inadeguato l’attuale quadro ordinamentale.
Da un lato si pone il disegno del Costituente: l’art. 106 Cost., comma 2[1], per la quale la legge “può” ammettere la nomina “anche elettiva”, la loro presenza solo eventuale, l’impossibilità di creare una seconda categoria di magistrati pubblici-funzionari diversi da quelli ordinari per l’unità della giurisdizione e l’accesso necessariamente tramite concorso (art. 106, comma 1 Cost.), la dubbia legittimità del ricorso dell’assegnazione ai magistrati di funzioni collegiali (non in linea con il comma 2 sempre dell’art. 106 Cost.[2]), la necessità di garantire anche a questi ultimi indipendenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale (art. 101 Cost.).
Dall’altro lato si collocano, invece, le consolidate origini storiche di diverse figure di magistrato onorario (e, in particolare, il forte radicamento della giurisdizione del conciliatore)[3] l’abbandono del modello di giudice di prossimità destinato a decidere le cause di modico valore secondo equità - a cui si pensava con l’istituzione del giudice di pace nel 1991 - in favore di un giudice con competenze e professionalità maggiori, lo stabile affidamento ai giudici onorari di tribunale di ruoli autonomi in tribunale, la dipendenza dell’ufficio requirente dai VPO per la celebrazione di buona parte delle udienze monocratiche, il ricorso a diverse forme di magistrato onorario per ridurre il judicial backlog in corte d’appello e presso la sezione tributaria della cassazione (giudici aggregati e ausiliari), la suddivisione dei tribunali in moduli organizzativi costituiti dall’ufficio per il processo, dove il GOP viene a svolgere il ruolo di coadiutore del giudice, non del tutto indipendente.
La necessità di un adeguamento interno alla normative euronitaria, peraltro, non è un problema solo nazionale perché la diffusa assegnazione di affari a magistrati non professionali, ai quali non trovano applicazione i diritti previdenziali riconosciuti ai lavoratori dipendenti, costituisce una soluzione ricorrente negli altri ordinamenti europei (v. infra.)
Dando un breve sguardo agli altri Stati europei, il rapporto CEPEJ del 2018[4] evidenzia che quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale ricorrono e giudici non professionali (lay judges)[5], mentre diversi Stati dell’ex blocco sovietico (Russia, Lituania, Lettonia, Ucraina, Romania, Bulgaria, Albania) ma anche Grecia e Portogallo ne sono tendenzialmente privi.[6]
Tale rapporto consente di apprezzare che il numero di magistrati non professionali negli stati europei rispetto a quelli professionali è molto più alto che in Italia[7]. Quasi ovunque essi sono in linea generale volontari, di riconosciuta esperienza e onorabilità professionale e sono compensati per le spese da loro sostenute e, solo in alcuni casi, anche per il lavoro estemporaneamente reso; assumono, comunque, decisioni vincolanti nei Tribunali e possono giudicare sia all’interno delle Corti componendo i collegi formati dai giudici professionali, sia come giudici monocratici.
Una più meditata riflessione su questa costante europea della magistratura onoraria consentirebbe una linea di azione più definita a presidio della qualità della risposta di giustizia da parte di questo settore della giurisdizione.
Non solo, peraltro, si tratta di ragionare sulle garanzie lavoristiche dei magistrati onorario in una più ampia prospettiva europea, ma occorre anche tener conto della necessità di una loro indipendenza come sottolineata anche dalle fonti internazionali.
Il citato rapporto CEPEJ 2018, nel premettere che i lay judges rispondono a una «legittima domanda di prossimità e tempestività» segnala come non vi sono obiezioni al ricorso di magistrati non professionali fondate sull’art. 6, 1° par. secondo la giurisprudenza costante della Corte EDU (Le Compte, Van Leuven et De Meyere v. Belgique, app. n° 6878/75; 7238/75, 23/06/1981, §§ 57 et 58 and more recently Ibrahim Gürkan v. Turkey, app. n°10987/10, 3/07/2012) e che, tuttavia, la «garanzia di una giustizia di qualità conforme agli standards Europei», implica il rispetto di «all of the principles established on the basis of the fundamental requirement of impartiality apply to non professional judges in the same way as to professional judges (Langborger v. Suède, app. n° 11179/84, 22/06/1989, §§ 34-35 ; Cooper v. Royaume-Uni [GC], app. n° 48843/99, 16/12/2003, § 123)»(rapporto CEPEJ 2014).
2. I tratti essenziali della Riforma Orlando e i nodi problematici: la ridotta autonomia dei magistrati onorari, le limitazioni funzionali e l’insufficienza delle tutele
Ripercorrendo in sintesi le direttrici dell’introduzione dello “statuto unico della magistratura onoraria” applicabile indifferentemente ai giudici di pace, ai giudici onorari di tribunale ed ai viceprocuratori onorari” [8] e attuato con la legge n. 57 del 28 aprile 2016[9] e con il successivo decreto legislativo n. 116 del 2017, è possibile evidenziarne le criticità[10] e valutare l’adeguatezza delle nuove proposte di riforma a risolvere i problemi sopra evidenziati.
Il d.lgs. n. 116 2017 ha previsto una disciplina omogenea relativamente alle modalità di accesso al tirocinio, alla durata dell’incarico, alla conferma, all’attribuzione di compiti di supporto al magistrato ordinario, determinando, conseguentemente, la necessità di un ampio intervento di normazione secondaria da parte del Consiglio, avente ad oggetto tanto la fase transitoria, quanto la riorganizzazione, a regime, degli uffici del tribunale, della procura e del giudice di pace.
I giudici onorari di pace attualmente si distinguono, pertanto, solo per le funzioni (art. 9, comma 4), in giudici che esercitano presso l'ufficio del giudice di pace la giurisdizione in materia civile e penale e la funzione conciliativa in materia civile secondo le disposizioni dei codici di procedura civile e penale e delle leggi speciali; giudici assegnati all’«ufficio per il processo».
Caratteristiche principali della nuova figura di magistrato onorario sono la temporaneità e la non esclusività dell’incarico (rinnovabile per una sola volta e da espletare al massimo due giorni a settimana), previsti dall’art. 1, comma 3, del decreto legislativo.
Tale opzione di fondo sulla natura dell’incarico risulta coerente con le norme costituzionali, posto che l’inserimento dei magistrati onorari nella giurisdizione «non può e non deve incidere sullo “stato” del magistrato tanto da trasformare l’incarico temporaneo in un sostanziale incardinamento in un ufficio; con il rischio dell’emergere di una nuova categoria di magistrati» (Corte Cost., sent. n. 103 del 1998; v. Corte Cost. sent. n. 103 del 1998 e n. 99 del 1964).
Anche sul piano retributivo si perviene a una tendenziale unitarietà del trattamento per tutti i magistrati onorari. prevedendo una indennità fissa e una quota variabile la cui ridotta misura ha sollevato forti proteste delle associazioni di categoria .
All’unificazione statutaria dei magistrati onorari si accompagna una estrema diversità sia delle funzioni in concreto svolte sia del rapporto con la magistratura togata: la destinazione all’ufficio per il processo (istituito con il d.l. 24 giugno 2014, n. 90), obbligatoria per il primo biennio (art. 9, comma 4); l’assegnazione all’ufficio per il giudice di pace o come viceprocuratori onorari.
La prima di tali collocazioni risulta la più innovativa e delicata sul piano della compatibilità con i principi costituzionali. Il GOP idealmente ha il ruolo di coadiuvare il magistrato togato, più che di operare in proprio, svolgendo: a) attività di tipo preparatorio, priva di carattere giurisdizionale (organizzazione dell’udienza, studio, predisposizione di minute, etc.), sotto la direzione e il coordinamento del magistrato professionale, in modo non troppo dissimile da quello dei tirocinanti ex art. 73 o dei magistrati ordinari in tirocinio; b) attività giurisdizionale delegata dal magistrato togato, di tipo esclusivamente endoprocedimentale o, comunque non definitorio della controversia (qualsiasi attività di trattazione e istruttoria, oltre al tentativo di conciliazione, alla pronuncia delle ordinanze di pagamento di somme non contestate, ai provvedimenti di liquidazione dei compensi degli ausiliari e ai provvedimenti che risolvono questioni «semplici o ripetitive»); c) attività giurisdizionale definitoria secondo le direttive del giudice togato (la volontaria giurisdizione diversa dalla famiglia e alcune cause ritenute di minore difficoltà come cause previdenziali, opposizione a sanzioni amministrative, cause, entro determinate soglie, in materia di beni mobili o di pagamento, risarcimento del danno prodotto dalla circolazione stradale.).
Nell'esercizio della delega il g.o.p. deve attenersi alle direttive concordate con il giudice togato titolare del procedimento, anche alla luce dei criteri generali definiti all'esito delle riunioni sulla formazione dei magistrati (art. 10, 13° comma). Le direttive devono essere documentate e trasmesse al capo dell'ufficio secondo modalità che sono definite dal Csm. Oltre alla formulazione delle direttive, il giudice professionale deve esercitare la vigilanza sull'attività svolta dal g.o.p. delegato e in presenza di giustificati motivi può revocare la delega, dandone comunicazione al presidente del tribunale.
È evidente che il carattere coadiutorio di tale attività non appare, ad un primo esame, in piena sintonia con l’indipendenza interna del magistrato anche onorario prevista dall’art. 101 Cost.: il GOP svolge le funzioni sulla base di una delega del giudice togato; il giudice togato emana direttive concordate che, come tali, non possono essere unilateralmente disposte dal giudice delegante, ma devono essere frutto di una preventiva riunione o audizione del magistrato onorario; esse sono trasmesse al capo dell’Ufficio; il CSM non incide sul contenuto né delle delibere, né dei criteri, ma determina solo le modalità della loro documentazione e trasmissione.[11]
Si tratta di innovazioni che coinvolgono, in primo luogo, l’autonomia del giudice delegante titolare del processo nel formulare le direttive (cosa che porta ad escludere che posto che alla riunione di coordinamento questi possa ricevere indicazioni vincolanti sulla delega dal presidente di sezione). A sua volta, poi, il g.o.p. non è tenuto ad attuare pedissequamente le direttive del giudice togato, essendo previsto che, in sostanza, allorché ritenga di non poter provvedere in conformità alle direttive ricevute per la specificità del caso concreto,“ riferisce al giudice professionale, il quale compie le attività già oggetto di delega”. (art. 10, comma 14)
Occorre, tuttavia, riflettere sul fatto che il g.o.p. che svolge attività preparatoria non è un “giudice”, mentre qualora emette provvedimenti definitori o, addirittura, svolge in proprio un’attività giudiziaria sull’intera causa, invece, è investito pienamente di funzioni giurisdizionali, per cui occorre garantire piena indipendenza sia nelle scelte istruttorie sia nella decisione: è dubbio che la qualità sostanziale di sostituto possa inficiare tale autonomia decisionale. Il Consiglio Superiore dovrà attentamente monitorare il contenuto dei progetti organizzativi, osservando tanto il rispetto dei limiti di delega al magistrato onorario, quanto l’assenza di direttive vincolanti per lo stesso. Altrettanto problematico è l’inquadramento dell’attività istruttoria del magistrato onorario eseguita secondo le direttive del togato delegante.
Anche per i vice procuratori onorari, collocati, invece, all’interno dell’ufficio della Procura della Repubblica, sono previste due diverse modalità di utilizzo, non paiono essere tra loro alternative: coadiuvare il magistrato professionale nel neo costituito “ufficio dei vice procuratori onorari”[12], “provvedendo allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale ed alla predisposizione delle minute dei provvedimenti”, ovvero svolgere attività delegate di diretto esercizio della giurisdizione. Anche per l’ufficio inquirente, pertanto, vi è una precisa dicotomia tra attività delegate ed attività autonome.
Al pari del giudice onorario di pace inserito nell’ufficio per il processo, il vice procuratore onorario gode di autonomia attenuata, in quanto deve attenersi alle direttive formulate dal Procuratore della Repubblica, il quale, anche con l’eventuale ausilio di uno o più magistrati professionali, esercita la vigilanza sui vice procuratori onorari e può revocare, “in presenza di giustificati motivi”, la delega loro conferita.
Per i giudici di pace, invece, le novità più significative consistono, oltre nell’abrogazione del cottimo e nell’assoggettamento ad un trattamento indennitario annuale omnicomprensivo, l’abrogazione della figura del Coordinatore del’Ufficio per il giudice di pace, sostituito dai poteri direttivi del presidente del tribunale, eventualmente coadiuvato da giudici togati, e l’incremento notevole della competenza per materia.
La riforma trasforma il lavoro dei magistrati onorari, soprattutto giudicanti (i GOP e i VPO perdono di autonomia e competenza e i giudici di pace, invece, vedono aumentare la seconda, a fronte di una minore “retribuzione”), e con essi, in modo diretto, ma decisivo, anche quello dei magistrati professionali.
La nuova convivenza “forzata” di magistrati togati e onorari nell’Ufficio per il processo è una sfida per entrambe le categorie. Come evidenziato dalla dottrina, per la nuova figura di giudici e viceprocuratori onorari è necessario “Garantire un giusto equilibrio tra ciò che l'onorario farà in quanto giudice e ciò che potrà essere chiamato a fare quale assistente del giudice (professionale)”[13]. Solo una efficace e non scontata sinergia potrà portare benefici agli Uffici o, quanto meno, eviterà di aggravarne il carico dell’arretrato.
Dal punto di vista organizzativo e della funzionalità degli uffici, con l’abbandono, almeno prospettico, del modello del ruolo autonomo assegnato al GOP, il drastico ridimensionamento delle sue competenze nel settore penale e il suo assorbimento nell’ufficio per il processo, la riforma risulta non idonea ad assicurare una pronta risposta di giustizia, come dimostrato dai primi rinvii della sua piena operatività al 2025.[14]
Resta sostanzialmente insoluta la tematica della sostanziale dedizione quasi a tempo pieno di numerosi magistrati onorari, le proroghe reiterate dei loro incarichi, la condizione di precariato per le persone e la dipendenza del sistema giustizia nell’affrontare i carichi di lavoro dalla magistratura.
Partendo da tali dati empirici, poco coerenti sono il part-time, le retribuzioni non adeguate con le responsabilità che restano affidate alla magistratura onoraria. Non scandagliato in termini previsionali è il probabile calo di produttività dovuto alla cancellazione del cottimo.
Viene a delinearsi un quadro ove aspetti di innovazione apprezzabili cercano di lasciare sullo sfondo le procedure di infrazione europea nei confronti dello Stato italiano per la mancata previsione pei magistrati onorari di garanzie previste per i lavoratori[15].
Si tratta di situazioni, come si è visto, comuni a diversi stati europei e che meriterebbero ulteriori approfondimenti, soprattutto con riguardo al rapporto numerico tra giudici professionali e lay judges, nonché alla creazione di una giustizia di prossimità maggiormente improntata a criteri equitativi.
3. Il progetto di riforma del d.lgs. 116/2017
La riforma dello statuto della magistratura onoraria, attualmente all’esame del Parlamento, apporta diverse modifiche utili al decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 ma non risolve alla radice i problemi ordinamentali e lavoristici attuali, in quanto mossa essenzialmente dalla preoccupazione di venire incontro alle istanze di tipo “sindacale” dei magistrati onorari già in servizio.
Il disegno di legge n. 1348 di iniziativa governativa aveva l’intento, dichiarato nella relazione di accompagnamento, di “migliorare le condizioni della magistratura onoraria” attraverso alcune modifiche al D.Lgs. n. 116 del 2017. Ad esso si sono aggiunti ulteriori disegni di legge (nn. 1516, 1555, 1582 e 1714), successivamente confluiti in un unico testo.[16]
La riforma recepita nel testo unificato, investe sia la disciplina prevista in via generale per la magistratura onoraria, sia la disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 116 del 2017.
Le linee di intervento che riguardano tutti i magistrati onorari, siano essi già nelle funzioni al momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 116/2017, sia designati successivamente, attengono a: la disciplina delle incompatibilità, novellata con una serie di disposizioni volte ad eliminare alcuni automatismi fondati sull’esistenza di presupposti astratti, consentendo in determinati casi, sul modello della disciplina delle incompatibilità dei magistrati togati, la loro valutazione in concreto, limitando la rilevanza delle incompatibilità di sede collegate a rapporti di parentela o coniugio; la possibilità di trasferimento del magistrato onorario sia per rimuovere situazioni di incompatibilità sia per assistere un familiare con disabilità ai sensi dalla legge n. 104/92; le competenze in materia civile del giudice di pace; il ruolo di ausilio del Presidente del tribunale nel coordinamento dell’ufficio del giudice di pace; la disciplina della revoca e delle sanzioni disciplinari, l’impegno settimanale massimo esigibile dal magistrato onorario; il dimensionamento delle piante organiche; il trattamento economico e previdenziale.[17]
Le misure che riguardano i soli magistrati onorari già in servizio, invece, consistono prevalentemente ne:
1) la possibilità per i giudici onorari di svolgere le funzioni giurisdizionali fino al raggiungimento dei settanta anni di età (in luogo degli attuali 68 anni), nonché la possibilità di continuare a trattare i procedimenti anche in alcune materie inibite ai nuovi G.O.P., quale la celebrazione dell’udienza penale, inclusa la delibazione della sentenza, nonché lo svolgimento, nell’Ufficio per il processo, di funzioni autonome per determinate materie;
2) l’innalzamento delle indennità di funzione e la possibilità, per i magistrati già in servizio, di conservare il trattamento retributivo previgente fino al termine definitivo dell’incarico, che coincide con il raggiungimento dell’età massima di settanta anni.
3) la possibilità di rimuovere le situazioni di incompatibilità venutesi a creare per effetto della riforma della magistratura onoraria mediante il trasferimento preferenziale ad altra sede.
Per l’attuazione di tali misure, nel rispetto della clausola di invarianza di spesa, infine, è disposta la riduzione della pianta organica della magistratura onoraria, in corso di approvazione, da n. 8.000 unità complessive a n. 5.000 unità.
3.1. Il regime attuale delle incompatibilità e le modifiche proposte
Occorre ricordare schematicamente quale sia il regime introdotto dalla riforma del 2016-2017 delle:(a) incompatibilità proprie del magistrato onorario, vale a dire quelle collegate all’esercizio contemporaneo da parte del medesimo delle funzioni giudiziarie onorarie e della professione forense o delle funzioni collegate ad altre cariche; (b) incompatibilità derivanti da vincoli professionali con altri soggetti; (c) incompatibilità parentali, ovvero quelle derivanti dalla professione svolta da coloro che sono legati da un vincolo familiare o di affinità o convivenza con il magistrato onorario.
L’obiettivo del disegno è quello di restringere la portata applicativa delle incompatibilità, sia quelle derivanti dall’esercizio della professione forense sia quelle collegate al contestuale esercizio delle funzioni giudiziarie onorarie di più persone, nei casi di rapporti di parentela, affinità e coniugio tra magistrato onorario e il “familiare” esercente la professione forense.
Viene ad essere modificata, infatti, la disciplina di due ipotesi di incompatibilità di tipo familiare.
La prima è quella dell’incompatibilità derivante dall’esercizio dell’attività forense di persone legate al magistrato onorario da vincoli familiari o da legami professionali. Il criterio territoriale “circondariale” viene ad essere sostituito con quello più circoscritto di “sede” ove è ubicato l’ufficio nel quale svolge le funzioni il magistrato onorario.
La seconda ipotesi è quella dell’incompatibilità “funzionale” scaturente dall’esercizio delle funzioni giudiziarie nel medesimo ufficio giudiziario da parte di un parente o affine. In pratica si estende l’incompatibilità tra magistrati onorari derivante da rapporti di parentela (affinità, coniugio e unione civile) anche ai medesimi rapporti tra magistrati onorari e magistrati ordinari che esercitano le funzioni giudiziarie negli uffici del circondario. La formulazione della norma proposta nel disegno di legge, peraltro, estende l’incompatibilità anche agli affini di secondo grado.
Inoltre, limitatamente alle sole incompatibilità derivanti da rapporti “familiari” collegate all’esercizio della professione forense (ipotesi sub I) o delle funzioni giudiziarie (onorarie o togate, ipotesi sub II) da parte del parente, affine, convivente o parte dell’unione di fatto - e non, quindi, dell’attività bancaria, di intermediazione finanziaria o assicurativa - viene ad essere sostituito il regime di incompatibilità in astratto attualmente previsto (vale a dire inderogabile), con una disciplina di incompatibilità in concreto, fondata sull’incidenza effettiva sull’indipendenza e imparzialità del magistrato delle funzioni o della professione esercitata, analogamente a quanto previsto dagli artt. 18 e 19 ord. giud. per i soli magistrati togati.
Partendo metodologicamente dall’esperienza consiliare e dalla Circolare applicativa[18] è possibile analizzare le ricadute delle diverse incompatibilità sulle diverse tipologie di funzioni che i magistrati onorari possono ricoprire.
Per esaminare l’istituendo criterio dell’incompatibilità in concreto va richiamato l’art. 7 della Circolare n. P-12940 del 25 maggio 2007 sulla incompatibilità ex art. 18 O.G. dei magistrati ordinari, distinguendo a seconda dell’ufficio cui è destinato il G.O.P. o il V.P.O.
Mentre per il magistrato togato il criterio della “sede” finisce con il sovrapporsi quasi integralmente con quello dell’Ufficio, avendo il Tribunale e la Procura tale competenza, per il magistrato onorario l’estensione territoriale di tale incompatibilità può essere estremamente più ridotta. Per i GOP, infatti, in ogni circondario vi possono essere più “sedi” del giudice di pace.
Negli Uffici del giudice di pace organizzati in un’unica sezione promiscua sussiste sempre la situazione di incompatibilità. Per quelli organizzati sulla distinzione tra attività nel settore del diritto civile e nel settore del diritto penale, invece, l’incompatibilità potrebbe essere esclusa se il professionista trattasse materia di settore diverso rispetto a quello nel quale opera, per organizzazione tabellare, il magistrato onorario, e sempre che non vi sia possibilità di interferenza tra le attività da entrambi svolte.[19]
Per l’Ufficio del giudice di pace che si trova nella medesima sede del Tribunale, scatta l’incompatibilità anche con l’esercizio della professione in Tribunale, per gli Uffici del giudice di pace che hanno “sede” in diverse località, salvo quelle relative al proprio ufficio, non potrebbe rilevarsi alcuna incompatibilità, né rispetto alla professione esercitata presso altri Uffici del giudice di pace del medesimo circondario né con quella esercitata in Tribunale.
Viene a delinearsi, pertanto, una situazione analoga a quella del magistrato che presta servizio “esclusivamente” in una sezione distaccata, per il quale è esclusa l’“incompatibilità di sede”[20].
Il giudice onorario di pace addetto all’Ufficio del processo, sebbene abbia il compito istituzionale di coadiuvare il giudice professionale in tutte le sue attività, anche in quella di redazione delle minute dei provvedimenti e, per alcuni aspetti, attraverso lo svolgimento anche di autonoma attività definitoria, coincidendo l’ambito “territoriale” della sua competenza con quella dei giudici togati, ha una incompatibilità sostanzialmente sovrapponibile a quelle previste per i togati dalla citata Circolare di Prima Commissione in virtù del richiamo all’art. 18 ord. giud.
I vice procuratori onorari hanno come unica possibile collocazione quella all’interno dell’ufficio della Procura della Repubblica, avente, ovviamente competenza circondariale. Per il V.P.O. è quindi imprescindibile che l’incompatibilità del familiare professionista sia comunque estesa al circondario, salvo il caso che il VPO sia esclusivamente addetto alla mera celebrazione di udienza innanzi ad un Ufficio del giudice di pace “minore” nel circondario.[21]
Con riguardo alle incompatibilità va messa in evidenza anche la disposizione in forza della quale gli avvocati non possono patrocinare cause nel medesimo ufficio giudiziario ove il magistrato onorario, al quale sono legati da rapporti di parentela, affinità, coniugio, convivenza o unione civile, svolge le funzioni, né possono assumere incarichi relativi a procedimenti trattati dal magistrato onorario, anche nei gradi successivi (nuovo comma 3 dell’art. 5). La norma risulta opportuna ma residuano dubbi gli effetti giuridici della violazione di tale divieto, apparendo discutibile la possibilità di fare derivare vizi processuali dalla violazione del divieto.
Di fondo, l’applicazione dell’art. 18 e dell’art. 19 O.G. ai magistrati onorari viene effettuata secondo il medesimo schema logico seguito per la magistratura ordinaria; occorrerebbe, tuttavia più opportunamente distinguere tra magistrati onorari che esercitano la professione forense e quelli che, invece, non sono iscritti all’Albo professionale, esplicitando nel testo normativo che sia la più ristretta incompatibilità dei familiari relativa alla “sede” e non al “circondario”, sia il criterio dell’accertamento dell’incompatibilità in concreto (prevista dal comma 5 bis) trovino applicazione solo nel caso in cui il magistrato onorario non sia iscritto all’Albo degli avvocati e non eserciti, pertanto, la professione forense. Solo in tal caso risulta possibile, infatti, assimilare la sua condizione reale a quella del magistrato togato. Laddove, invece, il primo eserciti la professione forense appare opportuno che resti inalterato il più rigido sistema delle incompatibilità circondariali “in astratto”.
3.2. I trasferimenti
La preoccupazione per le violazioni sistemiche della normativa eurounitaria è alla base di alcune scelte del Governo nell’attuazione della legge delega.
L’art. 33, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 116/2017 abroga espressamente, l’art. 10 ter della legge n. 374/91 istitutiva del giudice di pace, che consentiva il trasferimento dei giudici di pace tra distretti diversi su domanda dell’interessato e in presenza di vacanze di organico.
Il Governo, tuttavia, ha deciso di non dar corso alla delega legislativa relativamente al trasferimento, né a quella relativa al disciplinare dei magistrati onorari per <
Con delibera consiliare del 15 novembre 2017, il Consiglio ha escluso la possibilità di regolare con circolare il disciplinare e il trasferimento dei GOP e dei VPO praeter legem da parte del Consiglio superiore. Ha, invece, invece ritenuto ammissibile e opportuno introdurre transitoriamente la possibilità, per i magistrati onorari già in servizio alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 116/2017, di trasferirsi allo scopo di rimuovere una causa di incompatibilità e anche per comprovate ragioni di famiglia o per gravi ragioni di salute, personali o dei propri prossimi congiunti[22].
Inoltre, per garantire tempestivamente la copertura degli organici della magistratura onoraria, il Consiglio, nella seduta del 15 novembre 2017, ha individuato i posti vacanti di giudice onorario di pace e di vice procuratore onorario e ha determinato le modalità di formulazione, nonché i termini di scadenza del relativo bando.
Nella medesima direzione, il parere consiliare, approvato il 17 gennaio 2018, si è espresso favorevolmente riguardo allo schema del decreto ministeriale concernente la determinazione delle dotazioni organiche dei giudici onorari di pace e dei vice procuratori onorari.[23]
Il testo unificato detta nuove norme sullo statuto dei giudici onorari di pace, consentendo l’assegnazione ad altra sede del magistrato onorario che assiste un familiare con disabilità (art. 5). La proposta di riforma sul punto viene ad accogliere l’invito del Consiglio Superiore al Governo ad una modifica del testo normativo attualmente vigente.
L’art. 12 del testo unificato, inoltre, riconosce ai magistrati onorari in servizio che, per effetto delle disposizioni introdotte dal D.Lgs. n. 116/2017, siano divenuti incompatibili con la sede di appartenenza, di chiedere, in via straordinaria, l’assegnazione ad altre sedi che presentino vacanze in organico e in relazione alle quali non sussistano cause di incompatibilità.
La norma non può che essere accolta con favore. Deve, però, essere evidenziato come sarebbe opportuno che il legislatore prevedesse la possibilità di trasferimento in via transitoria anche per ragioni di salute o di famiglia, in linea con quanto previsto dall’art. 12 della Circolare consiliare in materia.
3.3. La previsione di un vero e proprio sistema disciplinare
La legge n. 57 del 2016 aveva espressamente delegato al Governo di (art. 1) “g) regolamentare il procedimento di trasferimento ad altro ufficio; (…) l) regolamentare la responsabilità disciplinare e quindi individuare le fattispecie di illecito”. Il Governo, tuttavia, in occasione della redazione del testo del D.Lgs. n. 116/2017 ha deciso di non dar corso alla delega legislativa relativamente al trasferimento d’ufficio e a domanda ed al regime disciplinare dei magistrati onorari.
L’assenza di uno statuto disciplinare, indipendentemente dalla sua razionalità, è ricollegata alla percezione delle funzioni di magistrato onorario come munus pubblicum, piuttosto che come un diritto a conservare un rapporto di durata con l’amministrazione pur in presenza di condizioni sopravvenute di carattere ostativo .
Dal mancato esercizio della delega, quanto all’esercizio dell’azione disciplinare, è conseguito un apparato rimediale, per le violazioni deontologiche e per l’inadeguatezza quantitativa e qualitativa del rendimento, irrazionale sia perché non risulta possibile graduare i rimedi (essendo posta al Consiglio esclusivamente l’alternativa tra revocare e confermare nelle funzioni il magistrato onorario), sia perché non risulta possibile adottare, in alcun caso, misure di carattere cautelare, se non in base ad una opinabile “sopravvivenza” del precedente giudizio disciplinare limitatamente alle misure interinali.
Ebbene, i disegni di legge unificati intervengono sulla disciplina della revoca e introducono specifiche sanzioni disciplinari, con l’art. 6, modificando l’art. 21 in tema di revoca dall’incarico.
Il Testo unificato intende introdurre una graduazione nelle sanzioni disciplinari applicabili al magistrato onorario. Vengono così introdotti i provvedimenti disciplinari del richiamo, della sospensione da tre a sei mesi e della revoca (già presente nel testo oggi vigente, ma ridefinita).
Aggiunge, inoltre, una disciplina della recidiva nelle sanzioni disciplinari. Essa comporta che per il magistrato onorario che sia stato già oggetto di richiamo o di sospensione e che commetta nuovamente un illecito disciplinare, trovi applicazione la sanzione prevista per la categoria di illeciti più grave.
Per la magistratura onoraria, in seguito alla novella proposta, resta ferma la revoca per le ipotesi previste dal comma 3 (inidoneità alle funzioni) e dal comma 4 (adozione di atti abnormi, grave violazione di legge o travisamento dei fatti determinati da negligenza o ignoranza, scarsa laboriosità, gravi ritardi, etc.). A tali fattispecie, però, il D.D.L. aggiunge l’ipotesi della revoca quale forma di sanzione aggravata per la recidiva disciplinare e, precisamente, di commissione di un nuovo illecito disciplinare dopo che il magistrato onorario è stato già sanzionato con la sospensione dalle funzioni.
Ebbene, il sistema disciplinare che viene delineato con l’intervento operato tramite il D.D.L. risulta certamente più articolato rispetto a quello precedente e contiene anche una apprezzabile graduazione delle sanzioni. Essa, tuttavia, si traduce in parte in un sistema poco chiaro e, per alcuni aspetti, irrazionale.
In primo luogo, la formula della idoneità, già presente nel testo attuale del D.Lgs. n. 116/2017 non risulta univocamente interpretabile. È disposta, infatti, “in ogni caso in cui risulta l'inidoneità ad esercitare le funzioni giudiziarie o i compiti dell'ufficio del processo”.
Quelle indicate dalla lettera c) (“in particolare il magistrato onorario è revocato quando, senza giustificato motivo, ha conseguito risultati che si discostano gravemente dagli obiettivi prestabiliti dal presidente del tribunale o dal procuratore della Repubblica a norma dell'articolo 23 ovvero, nel caso di assegnazione di procedimenti civili o penali a norma dell'articolo 11, non ha definito, nel termine di tre anni dall'assegnazione, un numero significativo di procedimenti, secondo le determinazioni del Consiglio superiore della magistratura”) riguardano la capacità, laboriosità e impegno del magistrato onorario, mentre quelle descritte dal comma 4 integrano, per i magistrati ordinari, illeciti disciplinari tipici.
Mancano, inoltre, tra le condotte indicative di inidoneità alle funzioni, quelle tipicamente dolose che siano espressione del difetto di indipendenza, imparzialità ed equilibrio, gli illeciti extrafunzionali (cfr. art. 3, D.Lgs. n. 109/2006) nonché i comportamenti penalmente rilevanti (cfr. art. 4, D.Lgs. n. 109/2006, che sanziona gli illeciti disciplinari conseguenti a reato).
Alcuni di tali comportamenti, peraltro, sono previsti dalle lettere a) e b) dell’art. 6 del Testo unificato come ipotesi che comportano la sanzione del richiamo o della revoca.
Ne consegue che non risulta univoca l’interpretazione dell’espressione della “Inidoneità alle funzioni”. L’interpretazione letterale e la necessità di sanzionare anche gravi comportamenti non esplicitati dalle norme indurrebbe a ritenere che in tale formula rientrino anche tali comportamenti; tuttavia, le ipotesi esemplificative indicate dalla lettera c) e al comma 4 riguardano comportamenti che denotano un difetto di capacità, laboriosità o impegno, e non vi è alcuna menzione né di illeciti extrafunzionali né di fatti-reato,né di comportamenti indicativi di difetto dei cd. prerequisiti (indipendenza, imparzialità, equilibrio). Inoltre, alcuni di tali comportamenti contrari a regole deontologiche connaturali alla funzione giudiziaria, sono previsti dalle lettere a) e b), che prevedono sanzioni meno gravi.
L’irrazionalità emerge, ad esempio, dal fatto che deve essere disposta la revoca per il mancato rispetto degli obiettivi fissati dal dirigente, mentre può essere disposto il solo richiamo, ad esempio, per la violazione del segreto di ufficio o la sospensione in caso, ad esempio, di uso della qualità di magistrato al fine di conseguire vantaggi ingiusti; comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell'ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori.
Inoltre, elementari esigenze di garanzia inducono a rendere sindacabile il provvedimento del dirigente: ove appaia non adeguato alla condizione dell’ufficio o implicante una produttività eccessiva; per cui il mancato rispetto degli obiettivi dovrà essere ritenuto per “giustificato motivo”[24].
Il D.Lgs. n. 116/2017 non regola specificamente la possibilità di adottare misure cautelari disciplinari, quali l’indispensabile sospensione cautelare, obbligatoria e facoltativa, dalle funzioni.
Attualmente essa sembrerebbe essere prevista dall’art. 18 e dall’art. art. 19 del D.P.R. 10 giugno 2000, n. 198, “Regolamento recante norme di coordinamento e di attuazione del capo I della legge 24 novembre 1999, n. 468, concernente il giudice di pace” che il Consiglio e la giurisprudenza amministrativa hanno ritenuto estensibili anche alle altre figure di magistrato onorario, in quanto espressione di principi generali a presidio dell’integrità della funzione giudiziaria.
Il D.Lgs. n. 116/2017 ha disposto l’abrogazione tanto dell’art. 9 quanto dell’art. 10 della legge n. 374/1991, ma non è stato formalmente abrogato il D.P.R. n. 198/2000. È evidente che in seguito alla mancata attuazione della delega sul disciplinare, e al nuovo intervento che intende operare il D.D.L., piuttosto che ritenere ancora vigente il solo D.P.R. n. 198/2000, parrebbe certamente opportuno che le misure disciplinari cautelari vengano regolate dallo stesso D.Lgs. n. 116/2017 prevedendo, peraltro, anche la sospensione obbligatoria in caso di adozione di misure cautelari personali da parte dell’autorità giudiziaria.
In sintesi, l’introduzione, oltre che di alcune forme di trasferimento, di un sistema disciplinare appare opportuna in quanto assicura il rispetto del principio eurounitario di proporzionalità delle sanzioni e quello costituzionale di ragionevolezza, ma sconta una certa ambiguità e imperfezione sistematica, oltre a non essere del tutto coerente rispetto all’idea di fondo della riforma Orlando di una attività da parte del magistrato onorario di tipo quasi volontaristico, rispetto alla quale non è necessario garantire aspettative di conservazione delle funzioni.
3.4. La normativa dedicata ai giudici onorari di pace già in servizio
Il d.d.l. incide sulla disciplina transitoria dettata dal capo XI per i magistrati onorari già in servizio. Attualmente il D.Lgs. cit. limita la permanenza dei magistrati onorari già in servizio a quattro quadrienni decorrenti dall’entrata in vigore del medesimo decreto; resta peraltro fermo il meccanismo della conferma quadriennale.
Modificando le disposizioni vigenti, l’art. 9 del D.D.L. dispone che il limite di età sia portato a 70 anni e che fino al raggiungimento di tale età sia sempre possibile, indipendentemente dal numero di quadrienni già svolti, portare a compimento l’incarico. “1. I magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere confermati, alla scadenza del primo quadriennio di cui al decreto legislativo 31 maggio 2016, n. 92, o di cui all'articolo 32, comma 8, e nei successivi quadrienni, a domanda e a norma dell'articolo 18, commi da 4 a 14, sino al raggiungimento del limite di età di cui al comma 2. 2. In ogni caso, l'incarico cessa al compimento del settantesimo anno di età”.
L’art. 10 del D.D.L. modifica la disciplina relativa alle funzioni e ai compiti dei magistrati onorari già in servizio alla data di entrata in vigore della riforma, prevedendo che le norme transitorie previste dall’art. 30, comma 1, trovino applicazione non per il solo quadriennio successivo all’entrata in vigore della riforma (ovvero secondo il testo del d.lgs. 116 del 2017 fino alla metà del 2021), ma per tutta la durata del loro incarico, destinato a cessare, ai sensi dell’art. 29 (come riformulato dal D.D.L. stesso con l’art. 9), con il compimento del 70° anno di età (e non già del 68° come attualmente previsto).
Coerentemente con la proroga delle funzioni dei G.O.P. in servizio fino alla cessazione per motivi di età, vengono eliminati i commi 9, 10 e 11 dell’art. 30, i quali prevedono limiti all’utilizzo dei giudici di pace e dei vice procuratori nel corso del quarto e ultimo mandato.
Scompare anche, venendo abrogato il comma 9 dell’art. 30, l’obbligo di assegnazione dei magistrati onorari all’Ufficio nel processo nell’ultimo mandato.
3.5. La riduzione della pianta organica
La legge n. 374 del 1991 individuava in n. 4.700 la dotazione organica dell’Ufficio del giudice di pace, rimettendo la determinazione delle piante organiche dei singoli uffici a specifici provvedimenti attuativi da emanarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica. È mancata, invece, fino a poco fa una previsione legislativa delle dotazioni e delle piante organiche dei giudici onorari di tribunale e dei viceprocuratori onorari. Essi, pertanto, venivano determinati dal C.S.M., nella consistenza complessiva ed in quella specifica dei singoli uffici, «secondo criteri di tendenziale proporzionalità con gli organici dei magistrati togati» (cfr. Relazione tecnica allo schema di decreto), con specifici provvedimenti attuativi emanati nella forma del decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della giustizia, sentito il Consiglio Superiore della Magistratura.[25]
Il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, con decreto del 22 febbraio 2018 ha determinato, in conformità al parere espresso al riguardo dal Consiglio superiore della magistratura, reso con delibera del 17 gennaio 2018, in n. 8.000 unità complessive la dotazione organica della magistratura onoraria. Inoltre, secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 116 del 13 luglio 2017, ha fissato in n. 6.000 unità il contingente dei giudici onorari di pace (di cui n. 3.200 giudici addetti all’Ufficio per il Giudice di pace e n. 2.800 all’Ufficio per il processo) e in n. 2.000 unità quello dei vice procuratori onorari (V.P.O.). Con lo schema di decreto ministeriale pervenuto al Consiglio il 27 aprile 2018, vengono determinate, invece, ai sensi del citato art. 3, commi 1, secondo periodo, 3 e 7, le piante organiche dei menzionati G.O.P. e dei V.P.O, distribuendo tra i singoli uffici la dotazione organica indicata.
Va evidenziato come l’incremento della pianta organica costituisca misura assolutamente necessaria per temperare l’effetto del passaggio ad un profilo di magistrato onorario a tempo parziale e definito.
Per rispettare l’invarianza finanziaria della misura legislativa, l’art. 15 del testo unificato, in considerazione dell’incremento delle indennità previste per la magistratura onoraria, dispone la riduzione della relativa pianta organica. Essa viene ridotta a. 3.500 unità commplessive per i G.O.P. e n. 1.500 per i V.P.O., con una riduzione di 2.500 unità per gli uffici giudicanti e n. 500 per quelli requirenti. In tal modo, pur tenendo conto della possibilità di una maggiore impegno degli stessi, viene comunque a vanificarsi il piano di riparto disposto (che in pratica considerava le unità necessarie moltiplicando le piante organiche esistenti per l’impegno richiedibile sul parametro dell’impegno Full time equivalent - FTE) e rendendo palese l’incongruenza delle piante organiche rispetto ai fabbisogni effettivi degli uffici.
Solo in parte questa misura viene bilanciata dall’incremento dell’impegno lavorativo esigibile dai magistrati onorari da due a tre giorni a settimana (art. 1). [26]
4. Il contenzioso alimentatosi con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione II, del 16 luglio 2020 nella causa C-658/18 (causa U.X. contro il Governo della Repubblica Italiana)
La sentenza della sezione II della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 16 luglio 2020, C-658/18, nella causa U.X. contro il Governo della Repubblica italiana, avente ad oggetto il pagamento delle ferie non retribuite in favore di un giudice di pace, ha statuito che il giudice di pace, a determinate condizioni, deve essere inteso quale “lavoratore” a tempo determinato secondo le rilevanti norme del diritto UE. Dalla qualificazione del giudice di pace quale “lavoratore” ai sensi della direttiva 2003/88 e, in particolare, quale lavoratore a tempo determinato, la Corte fa discendere l’applicabilità, in astratto, del divieto di discriminazione tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato basato solo su tale diversa qualifica.
La Corte afferma che spetta al giudice nazionale stabilire se, alla luce di tali circostanze concrete, l’attività lavorativa dei magistrati onorari sia comparabile a quella dei professionali, aggiungendo che pur essendo le posizioni dei magistrati onorari e professionali comparabili, occorre valutare se eventualmente sussista una ragione oggettiva che giustifichi un diverso trattamento giuridico e precisando che la disparità di trattamento potrebbe essere giustificata dalle diverse qualifiche e dalla diversa natura delle mansioni svolte dai giudici onorari.
Numerosi provvedimenti delle autorità giudiziarie nazionali sono intervenute sullo stesso tema.
Con ordinanza n. 363 dell’1 giugno 2020 il T.A.R. Emilia Romagna ha proposto rinvio pregiudiziale dinanzi Corte di giustizia dell’Unione europea. Il Collegio emiliano ha ritenuto dubbia la conformità al diritto dell’Unione di siffatta disciplina in base alla nozione di “lavoratore” di tipo senz’altro sostanziale invalsa nell’ambito del diritto dell’UE e ciò in quanto i giudici di pace svolgono funzioni giurisdizionali “del tutto assimilabili a quelle dei giudici c.d. togati e/o comunque a quelle di un prestatore di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione”.
La Corte costituzionale ha emanato la sentenza n. 267/20, ha riconosciuto il diritto alla tutela legale del giudice di pace convenuto in giudizio per ragioni del suo ufficio (come previsto per i togati), senza, tuttavia, equiparare lo stato giuridico del magistrato professionale e quello onorario; ha piuttosto riaffermato l’eterogeneità delle due figure, in ragione delle differenti modalità di nomina, radicate nella previsione dell’art. 106, secondo comma, Cost., del carattere non esclusivo dell’attività giurisdizionale svolta dal giudice onorario e del diverso livello di complessità degli affari, ritenendo tali elementi idonei a giustificare la qualifica “onoraria” del rapporto di servizio, affermata dal legislatore fin dall’istituzione della figura e ribadita in occasione della riforma del 2017.[27]
Il Consiglio di Stato, con le sentenza del 9 dicembre 2020 (e ulteriori sentenze gemelle) ha ritenuto che, alla luce del diritto nazionale, il giudice di pace sia un magistrato onorario. La sentenza esclude l’applicabilità delle norme euronitarie alla magistratura onoraria, affermando che il rapporto di servizio del magistrato professionale, caratterizzato da una carriera speciale di diritto pubblico e dall’esercizio di una funzione espressiva di sovranità, non può essere assimilato ad un comune rapporto di lavoro (in termini, tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 21 febbraio 2018, n. 1096). Il giudice amministrativo, inoltre, pone esplicitamente il problema dei controlimiti, indicando che l’applicazione alla magistratura onoraria dei principi comunitari in tema di tutela del lavoro sarebbe in contrasto con l’art. 106 Cost., secondo cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso, in guisa da separare lo status del magistrato professionale da quello del magistrato onorario .
Un diverso atteggiamento hanno tenuto le sezioni lavoro di alcuni tribunali.
Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 16 dicembre 2020, ha ritenuto che i magistrati onorari svolgessero mansioni comparabili a quelle dei magistrati professionali e che non sussistessero ragioni oggettive per trattare distintamente situazioni assimilabile. ha, inoltre, dichiarata la illegittima reiterazione di contratti a termine in quanto in contrasto con il disposto della clausola 5 dell’accordo quadro annesso alla direttiva 1999/70/CE, ove si prevede che “per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti (…)”.
Il giudice vicentino ha ricordato come il diritto dell’Unione non preveda sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano accertati abusi nel ricorso al contratto a termine e, altresì spetti alle autorità nazionali adottare misure proporzionate, energiche e dissuasive, in modo tale che, ove si verifichi un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, venga applicata una misura che presenti garanzie effettive al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (cfr. sent. C. Cost. n. 187/2016 cd. “Mascolo”). Ritenendo non giustificato, ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che hanno un carattere non già provvisorio, bensì permanente e durevole (nel caso esaminato, la prosecuzione per oltre 14 anni del rapporto con la ricorrente), il giudice ha riconosciuto al magistrato onorario le differenze retributive commisurate allo stipendio del magistrato con la prima valutazione di professionalità. Sentenze analoghe del Tribunale di Napoli hanno riconosciuto il diritto alle differenze retributive rispetto a posizioni di tipo amministrativo del Ministero della Giustizia.
Altri giudici, invece, es. Tribunale di Oristano (16 dicembre 2020), invece, hanno ritenuto privo di fondamento il richiamo ai principi comunitari in materia di divieto di reiterazione di contratti a tempo determinato, oggetto di numerose decisioni della Corte di giustizia, tra le quali è opportuno ricordare quella in materia di precariato scolastico (Corte di giustizia, terza sezione, sentenza del 26 novembre 2014 nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13).
In particolare, le ragioni oggettive di discriminazione sarebbero nella specie sussistenti e rappresentate, nella fattispecie, dalla natura onoraria e temporanea dell’incarico svolto dal giudice di pace e dalle considerazioni precedentemente illustrate in merito alle differenze di professionalità e funzioni rispetto alla magistratura togata. Ragioni oggettive che, ad avviso del giudice del lavoro, non renderebbero contraria all’ordinamento comunitario la facoltà del giudice di pace di ottenere, nell’ambito della normativa temporanea che le consente, alcune proroghe dell’incarico.
Il giudice del lavoro, pertanto, ha ritenuto sussistenti nel caso di specie ragioni oggettive che escluderebbero, come già visto a proposito di altri istituti, la violazione del divieto di discriminazione.
5. Riflessioni conclusive
La magistratura onoraria nel “modello italiano” ha una consistenza numerica, rispetto alla componente togata, inferiore rispetto a quella di altri Stati europei; ciò nonostante è utilizzata in modo stabile per affrontare i carichi di lavoro, ed è richiesta di notevoli competenze tecniche, che la distinguono rispetto alla figura del giudice di prossimità e alla giurisdizione equitativa.
La riforma Orlando cerca di porre un argine al sistema delle proroghe con la temporaneità e la parzialità delle funzioni e omettendo di regolare istituti tipicamente lavoristici come il disciplinare e i trasferimenti; al contempo conferma in gran parte compiti e riti che devono osservare i magistrati onorari .
L’estensione, prevista dal D.D.L., al magistrato onorario di alcuni degli istituti tipici del rapporto di pubblico impiego quali, appunto, un sistema graduato e completo di sanzioni disciplinari irrogabili ed altresì la possibilità di ottenere un trasferimento per la cura di un familiare in condizioni precarie, appaiono anch’essi elementi in grado di renderne lo status in alcuni punti analogo a quello del magistrato ordinario. Anche l’istituto del riavvicinamento per l’assistenza di un familiare affetto da disabilità, attraverso il richiamo alla disciplina contenuta al comma 5 dell’art. 33 della legge n. 104 del 5 febbraio 1992 milita in tal senso.
In particolare appare difficilmente superabile la qualifica quali lavoratori a tempo determinato dei magistrati onorari che sono stati continuativamente impegnati per un ventennio con conseguente applicazione, in astratto, del divieto di discriminazione tra i lavoratori a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato basato solo su tale diversa qualifica.
Prescindendo dal fatto che tale divieto non comporta una meccanicistica parificazione retributiva, ma il dover assumere il trattamento economico normativo del lavoratore stabile come parametro di riferimento per determinare lo standard economico normativo del lavoratore a termine[28], è nella cd. “comparabilità” delle prestazioni che viene ad emergere come l’attività svolta dai magistrati onorari non sia assimilabile a quella svolta dai magistrati togati sia per il diverso livello di qualifica richiesta per l’assolvimento delle stesse mansioni sia per lo spettro ben più ampio di compiti che gravano su questi ultimi. Inoltre, ad ulteriormente differenziare le due condizioni di magistrati onorari e togati milita la sussistenza di ragioni obiettive giustificatrici della diversità di trattamento, consistenti nella rilevanza assegnata dall’art. 106 della Costituzione alla designazione concorsuale dei magistrati ordinari.
L’impatto della sentenza della Corte di Giustizia del luglio 2020 rende, tuttavia, oggettivamente problematiche le decisioni del legislatore nazionale.
L’ampio ricorso alla magistratura onoraria, la creazione dell’Ufficio del giudice di pace, il ruolo considerevole svolto dai giudici onorari di tribunale e dai viceprocuratori onorari, le prospettive dell’Ufficio per il processo, nel quale i G.O.P. sono integrati, non si conciliano pieamente con l’idea di una figura destinata a lavorare a tempo parziale e per un periodo di tempo rigorosamente limitato, risultando necessari investimenti di formazione professionale non congruenti con un apporto temporalmente e funzionalmente circoscritto che può essere garantito dai GOP e VPO.
Ciò indurrebbe ad assicurare agli uffici giudiziari un contributo stabile e competente dei magistrati onorari, selezionati e assegnati alle loro funzioni solo dopo un adeguato periodo formativo; tali esigenze, all’evidenza, sono scarsamente compatibili con una figura di magistrato designato dalla riforma del 2016-2017.
Al tempo stesso non è possibile prevedere una figura di magistrato che non sia nominato per pubblico concorso, ex 106 Cost., né è possibile scindere radicalmente i percorsi dei magistrati ordinari, in considerazione della costituzionalizzazione dell’unità della giurisdizione e dell’impossibilità di creare una seconda categoria professionale di magistrati.
Ancora più complesse sono le scelte per i magistrati onorari già in servizio, che hanno assicurato la continuità del loro contributo per numerosi anni, in misura e con modalità diverse e che devono trovare una indennizzazione del loro precariato.
Risultano necessarie, pertanto, delle scelte di fondo, ferma restando quella costituzionalmente vincolata di escludere l’attribuzione a tali magistrati di funzioni collegiali: a) “semi-professionalizzare” i magistrati onorari, adottando ben più incisive riforme ordinamentali, sostanzialmente incidendo dell’art. 106 Cost. (ma toccare la Costituzione è cosa molto pericolosa); b) limitarne il ricorso, per il futuro, al minimo necessario facendo ritornare il giudice di pace ad un compito di giurisdizione di prossimità e più marcatamente equitativa o, almeno, semplificata (e, tuttavia, correlativamente, ampliando l’organico della magistratura ordinaria e dotando i magistrati di veri a propri assistenti a tempo pieno); c) ancora, ipotesi a mio avviso più realistica, conservare il giudice di pace abrogando le nuove competenze introdotte dalla Riforma Orlando e, nei casi di criticità degli indici di smaltimento o di arretrato, assicurare effettivi poteri decisori ai GOP anche nel settore penale, delimitando rigorosamente le materie da loro trattabili e prevedendo, al tempo stesso, forme di tutela previdenziale realmente incisive. Comunque, deve escludersi la perpetuazione dei meccanismi di proroga per poter uscire dalla difficile spirale nella quale il legislatore italiano è venuto a trovarsi.
L’occasione della erogazione delle risorse del PNRR per colmare le croniche vacanze delle piante organiche, assicurare indennnità adeguate ai GOP e dare effettività all’Ufficio per il processo sull’intero territorio nazionale, non può essere perduta.
[1] S. Senese, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Digesto discipline pubblicistiche, 1991, in leggiditalia.it.
[2] Sent. C. Costituzionale n. 41 del 2021 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto dell’art. 106, comma 2 Cost. degli artt. 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71 e 72 del decreto-legge 21 giugno 2013 n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui non prevedono che essi si applichino fino a quando non sarà completato il riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria nei tempi stabiliti dall’art. 32 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116.
[3] Si rinvia sul punto a D. Freda, Il mito ricorrente del giudice di pace: dal Justice of the Peace inglese al conciliatore post-unitario, in Riv. dir. civ., 2016, 1292 ss. V. anche P. Serrao d’Aquino, L’evoluzione ordinamentale della magistratura onoraria. Il ruolo del CSM, in Il governo autonomo della magistratura a sessant'anni dalla legge istitutiva del Consiglio superiore della magistratura (l. 24 marzo 1958 n. 195) (parte seconda), in Foro it., II, p. 104-111.
[4] Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia costituita dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel settembre del 2002.
[5] Chiarendo che i cittadini che compongono le giurie sono (in 19 Stati), dovrebbero, in linea di principio essere esclusi da tali categorie.
[6]Cfr. A. Di Florio, Introduzione: il rilievo della magistratura onoraria in Italia ed in Europa. Relazione tenuta al corso “Magistratura onoraria e processo civile”. Scuola superiore della magistratura, 2016 corso. n. 16037.
[7] In Italia n. 6.395 giudici professionali e n. 3.522 onorari. Ed esempio in Germania a fronte di n. 19.867 giudici professionali vi sono ben 91.717 lay judges, mentre nel Regno Unito vi sono n. 1.760 giudici professionali, n. 6.479 giudici a tempo parziale e n. 16.296 giudici non professionali, in Francia n. 6.995 giudici professionali e n. 24.925 lay judges.
[8] Lo statuto unico, in considerazione della sua coerenza con l’interpretazione dell’art. 106 Cost. offerta dalla Corte costituzionale (C.Cost., sent. n. 103 del 1998), era stato auspicato dal Consiglio nel parere adottato nella seduta plenaria del 16 dicembre 2015, relativamente al disegno di legge AS 1738, poi concretizzatosi nella citata legge delega n. 57/2016.
[9] Così la delibera plenaria del 15 giugno 2017 con cui il CSM ha emanato il parere previsto dall’art. 3 di tale legge.
[10] Per rilievi critici alla riforma, v. G. Scarselli, La riforma della magistratura onoraria, un ddl che mira ad altri obiettivi e va interamente ripensato, in www.questionegiustizia.it, 13.7.2015.
[11] Vedi già prima del d.lgs. 116/2017, F. Dal Canto, La magistratura onoraria, in Foro it., V , 2016, 242 s.
[12] Il modello dell’ufficio per il processo, di cui all’art. 50 del D.L. n. 90 del 2014, e secondo quanto previsto dallo specifico criterio di delega dettato dall’art. 2, comma 2, della legge n. 57 del 2016, viene sposato anche per la Procura della Repubblica.
[13] B. Capponi, Il giudice di pace dopo l l. 28 aprile 2016, n. 57, in Corriere giur., 2017, p. 105.
[14] In questo senso si è pronunciato anche il parere del CSM ex art. 10 l. 195/1958 del 24 febbraio 2016 sul d.d.l. Orlando: “Appare incongrua la previsione della assegnazione di coloro che attualmente siano investiti delle funzioni di Magistrato onorario all’ufficio del processo, atteso che tale disposizione non appare compatibile con la, invero correttamente ipotizzata, prospettiva di una progressiva formazione e della acquisizione graduale di esperienza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, determinata dal passaggio dalla posizione di diretta collaborazione col giudice professionale alla assunzione di autonome funzioni giurisdizionali, seppur onorarie”.
Ne è dimostrazione l’appello sottoscritto da numerosi presidenti di Tribunale nel gennaio 2020, con il quale si rappresenta che esso “rischia di integrare una struttura organizzativa inefficace, peraltro inutile nel settore penale, determinando uno “spreco” di professionalità già qualificate, formate e sperimentate, che la Giustizia non può permettersi: infatti i giudici onorari attualmente in servizio (salvo casi eccezionali indicati nell’art. 11 e salva la possibilità di delegare specifiche attività, come l’assunzione di prove testimoniali) non eserciterebbero più le attuali funzioni giudiziarie in sede civile, anche con gestione di ruoli autonomi, e non sarebbero più utilizzati in sede penale (funzioni indispensabili, come detto prima, per l’efficienza della giurisdizione), ma svolgerebbero meri compiti per così dire ancillari al giudice ordinario (studio dei fascicoli, approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, predisposizione delle minute dei provvedimenti): attività di supporto del giudice togato che ben più utilmente vengono oggi demandate agli stagisti o ai tirocinanti, cioè a profili professionali in formazione”.
[15] v. A. PROTO PISANI, La magistratura onoraria tra commissione europea e (tentata) furbizia italiana, in Foro It., 2018, p. V, c. 42
[16] V. a riguardo: B. Capponi, Brevissime note sulle ultime proposte di riforma della normativa sui giudici onorari, F. Russo, Brevi osservazioni sul testo unificato dei Disegni di legge. S. 1438, S. 1516, S. 1555, S. 1582, S. 1714 in discussione al Senato di “riforma della riforma” della magistratura onoraria; G.N. Nardo, Verso quale riforma della magistratura onoraria?; B. Caruso-G.Minutoli, Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia, tutti pubblicati su giustiziainsieme.it, 5 novembre 2020.
[17] La riforma della magistratura onoraria, oltre a sopprimere la figura del giudice di pace, attribuendo il potere direttivo e organizzativo al Presidente del tribunale, ha disposto che questi può avvalersi, per tali compiti, di uno o più magistrati professionali (art. 8).
Il testo unificato modifica l’art. 8 confermando tale potere di coordinamento, ma dispone che il Presidente debba avvalersi di un istituendo vice coordinatore dell’ufficio scelto tra i giudici onorari di pace.
L’articolo 27 del D.Lgs. n. 116 del 2017 ha apportato una serie di modificazioni al codice di procedura civile volte ad ampliare ratione materiae e ratione valoris la competenza del giudice di pace, e destinate attualmente ad entrare in vigore nell’ottobre 2025 allontanando molto tale figura rispetto all’idea, sulla cui base fu introdotto, di un giudice di prossimità (non più tale a seguito della soppressione di numerosissimi uffici), competente per le cause di modesta entità secondo criteri prevalentemente equitativi. Il d.d.l. unificato sceglie, invece, di non incrementare le competenze del giudice di pace, ritornandosi, pertanto, al quadro ante 2016., meno lontano dall’idea della previsione di u giudice non professionale, munito di competenze circoscritte.
[18] Circolare n. P-12940 del 25 maggio 2007, modificata con delibere del 1° aprile 2009 e 9 aprile 2014.
[19] Negli Uffici del giudice di pace di grandi dimensioni, ove organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività, civile e penale e quindi, specie nel settore civile, con sezioni deputate alla trattazione esclusiva di materia specialistica, non sussisterebbe incompatibilità nel caso in cui il magistrato onorario operi, seppure all’interno del medesimo settore, in sezione specialistica ed il professionista congiunto, affine, coniuge o convivente, non tratti detta materia oppure nel caso in cui quest’ultimo tratti la materia specialistica, affidata per organizzazione tabellare ad una sezione, ed il magistrato onorario, invece, operi in una sezione a cui sono affidate materie diverse, seppure all’interno del medesimo settore. Si tratta, tuttavia, di un discorso di modesto impatto pratico in quanto i giudici di pace non vengono assegnati in via esclusiva alle funzioni penali e non risultano approvati progetti tabellari che prevedono sezioni specialistiche neppure negli Uffici di grandi dimensioni.
[20] “Art. 15. (Il magistrato in sezione distaccata). Non si ha incompatibilità di sede se il magistrato opera in via esclusiva in sezione distaccata ed il parente, l’affine, il coniuge o il convivente, non svolge presso la predetta sezione alcuna attività, oppure se è quest’ultimo ad operare in via esclusiva presso la sezione distaccata ed il magistrato esercita esclusivamente presso la sede centrale.
Nel caso in cui il magistrato assegnato alla sezione distaccata svolga attività anche presso la sede centrale, occorre fare riferimento, per accertare la sussistenza di eventuali situazioni di incompatibilità, ai criteri generali di cui all’art. 7 ed, in particolare, alla natura della materia trattata dal magistrato, alla rilevanza della professione forense svolta dal professionista ed alle dimensioni della sede centrale del Tribunale o della sezione distaccata.”
[21] Potendo il VPO compiere attività di ausilio al magistrato professionale nel neo costituito ufficio dei vice procuratori onorari, attività delegate, quali la partecipazione alle udienze dibattimentali del giudice di pace e del giudice monocratico e, per gli stessi procedimenti, la formulazione delle richieste di decreti penali di condanna e di archiviazione, risultano compatibili le disposizioni previste dall’art. 17 della Circolare citata. Pertanto la situazione di incompatibilità del magistrato addetto alla Procura della Repubblica presso un Tribunale ordinario può derivare dal fatto che il parente, affine, coniuge o convivente eserciti la professione avanti al predetto Ufficio e/o avanti al corrispondente ufficio giudicante nel settore penale. È evidente, infatti, che l’esercizio della professione forense presso un determinato Tribunale, allorché sia estesa al settore penale, interessa tanto l’ufficio requirente quanto quello giudicante, essendo entrambi investiti da ogni procedimento penale.
Inoltre, tale problematica, per i vice procuratori onorari, è estesa anche al rapporto tra la Procura della Repubblica e i diversi uffici del giudice di pace. In tal caso, infatti, l’incompatibilità del V.P.O. non può che riguardare la professione forense esercitata nel settore penale in ciascuno degli uffici giudiziari, salvo che lo stesso non sia addetto, all’interno dell’Ufficio di collaborazione, esclusivamente alla trattazione di procedimenti di competenza del Tribunale.
[22] V. G. REALI, Il giudice onorario di pace e l'ufficio per il processo, in Foro It., 2018, p. V, c 12 s.
[23] L’integrazione del quadro organizzativo della novellata magistratura onoraria e dei conseguenti problemi è stato assicurato, peraltro, dalla “Prima risoluzione sulla nuova disciplina relativa alla magistratura onoraria” (prot. CSM n. 4097/2018 del 7 marzo 2018).
Nella Relazione di fine consiliatura 2014-2018, il CSM ha ribadito che l’orizzonte culturale che ha ispirato l’agire dell’Ottava Commissione è quello piena consapevolezza della centralità della figura del magistrato onorario nell’erogazione della cd. giustizia di prossimità, determinante per la complessiva credibilità dell’intero servizio giustizia.
[24] Deve ricordarsi che ai sensi dell’art. 23, tanto il Presidente del tribunale per i G.O.P., siano essi assegnati all’Ufficio per il processo o al giudice di pace, in base alle tabelle di organizzazione, ai programmi di gestione ex art. 37, comma 6), quanto il Procuratore per i VPO, in base alla media di produttività dell’ufficio, comma 7, fissano gli obiettivi per l’anno solare e li comunicano alla Sezione autonoma del Consiglio giudiziario.
Al riguardo, ai sensi del comma 8 dell’art. 23, il Consiglio Superiore della Magistratura individua i criteri e le procedure per la valutazione della realizzazione degli obiettivi. Tra i criteri di valutazione rientrano la puntualità nel deposito dei provvedimenti, le modalità di gestione dell'udienza e di rapporto con gli altri magistrati onorari, con i magistrati professionali, con gli avvocati ed il personale amministrativo, la partecipazione all'attività di formazione, la percentuale di impugnazioni rispetto alla media dell'ufficio.
[25] I dati statistici del C.S.M. all’atto dell’istituzione del giudice unico nel 1998 evidenziavano l’apporto significativo della magistratura onoraria nelle Preture circondariali: a fronte di n. 1.699 Pretori e n. 577 requirenti togati addetti agli uffici del p.m., operavano rispettivamente n. 2.325 vice pretori e n. 1.442 vice procuratori onorari, tanto che si osservava che «la clausola di riserva secondo cui di regola i giudici onorari devono limitarsi a sostituire i magistrati togati, assenti o impediti, conferma che gli stessi vengono utilizzati, in realtà, per sopperire ai ben noti vuoti di organico» Con l’istituzione del giudice unico, essi divennero giudici onorari del tribunale (G.O.T.) e viceprocuratori onorari di tribunale (V.P.O.), pur trattandosi in gran parte delle medesime persone precedentemente impiegate, per effetto della proroga generalizzata di coloro che erano nelle funzioni (art. 245 d.lgs. n. 51 del 1998).
[26] La previsione di tale maggiore impegno, riguarda innanzitutto i magistrati onorari assunti successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 116/2017. Per i magistrati già in servizio l’art. 31 già consente al magistrato onorario di esercitare l’opzione per un impegno di tre giorni la settimana, in luogo di due.
[27] La sentenza n. 267/20 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (Disposizioni urgenti per favorire l'occupazione), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 1997, n. 135, nella parte in cui non prevede che il Ministero della Giustizia rimborsi le spese di patrocinio legale al Giudice di Pace nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla norma stessa. Il Giudice delle leggi ha preliminarmente rilevato che, “Questa Corte ha più volte affermato che la posizione giuridico-economica dei magistrati professionali non si presta a un'estensione automatica nei confronti dei magistrati onorari tramite evocazione del principio di eguaglianza, in quanto gli uni esercitano le funzioni giurisdizionali in via esclusiva e gli altri solo in via concorrente. Enunciata a proposito del trattamento economico dei componenti delle commissioni tributarie (ordinanza n. 272 del 1999) e per quello dei vice pretori onorari (ordinanza n. 479 del 2000), l'affermazione è stata ripetuta anche per i giudici di pace, sia in tema di cause di incompatibilità professionale (sentenza n. 60 del 2006), sia in ordine alla competenza per il contenzioso sulle spettanze economiche (ordinanza n. 174 del 2012).
[28] B. Caruso-G.Minutoli, Cui prodest? La riforma della magistratura onoraria tra tutela di diritti negati ed efficienza della Giustizia", cit.
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