ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’interesse a ricorrere dei comitati ambientalisti in relazione al criterio della vicinitas (commento a Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2024, n. 7033)
di Gabriele Torelli
Ai fini dell’ammissibilità del ricorso, il comitato ambientalista deve dimostrare di vantare un interesse ad agire, dipendente dalla concreta ed attuale lesione della propria posizione soggettiva. Tale interesse, che deve sussistere dal momento della proposizione della domanda giudiziale e permanere fino al momento della decisione, si configura nell’accertamento della rappresentatività del territorio di riferimento e nella effettiva lesività dei provvedimenti impugnati per l’area nella quale vivono gli associati.
Sommario: 1. Il fatto. – 2. I comitati quali soggetti titolari di autonome posizioni giuridiche soggettive. – 3. La legittimazione processuale dei comitati per vicende ambientali tra interesse a ricorrere e vicinitas. – 4. Interesse a ricorrere, profili di carattere soggettivo della giurisdizione e un (possibile) pericoloso arbitrio.
1. Il fatto.
Il comitato ambientalista “Lasciateci respirare” (d’ora in avanti “il comitato) impugnava innanzi al TAR Veneto alcuni decreti adottati dalla direzione ambiente della Regione, con cui venivano rilasciati i provvedimenti di VIA ed AIA a favore della Società GEA per il progetto di ampliamento di una discarica di rifiuti misti non pericolosi.
Il TAR dichiarava inammissibile il ricorso proposto dal comitato, stante la mancata dimostrazione della titolarità di una posizione differenziata e qualificata nonché di un concreto interesse a ricorrere, peraltro già denegato in capo al ricorrente da alcuni precedenti pronunce dello stesso giudice su vicende analoghe.
Il comitato impugnava la sentenza innanzi al Consiglio di Stato riproponendo gli stessi motivi di doglianza già dedotti in primo grado. Si costituiva in giudizio il comune in cui è localizzata la discarica (già parte resistente in primo grado), eccependo in via preliminare l’inammissibilità dell’appello per erronea notificazione alla Regione Veneto, che non risultava costituita in giudizio. Ancora, il comune contestava ulteriori profili di inammissibilità del ricorso – che in questa sede non sono riproposti per motivi di brevità – oltre alla violazione del dovere di sinteticità con riguardo alla formulazione dei motivi aggiunti.
Chiamato a pronunciarsi sui profili sommariamente richiamati, il Consiglio di Stato in via preliminare condivide le eccezioni di inammissibilità di parte appellata per l’erronea notificazione dell’appello nei confronti della Regione Veneto (in particolare, l’errore riguardava il domicilio digitale utilizzato) che hanno impedito una rituale notifica dell’atto di appello.
Tuttavia, anche a volersi ammettere la possibilità di rinnovazione della notifica stessa per scusabilità dell’errore – e questo è il rilievo del Collegio che in questa sede desta maggiore interesse – l’appello risulta in ogni caso carente delle condizioni dell’azione in capo al comitato, come correttamente rilevato dal TAR Veneto. Ciò in quanto, ai fini della configurabilità dell’interesse ad agire in giudizio, il comitato avrebbe dovuto dimostrare, da un lato, il rapporto di prossimità tra le proprie attività statutarie, l’opera oggetto del provvedimento impugnato e la relativa rappresentatività del territorio che si assume di rappresentare; dall’altro, avrebbe dovuto dedurre un danno ambientale per la zona, sia pure potenziale, che può derivare da tale provvedimento e dall’opera in questione.
In breve, ai fini dell’ammissibilità della domanda giudiziale, i gruppi associativi informali che non sono iscritti nell’elenco di cui all’art. 18, comma 5, l. n. 349 del 1986, devono dimostrare la concreta ed attuale lesione della propria posizione soggettiva, che deve sussistere dal momento della proposizione del ricorso e permanere fino al momento della decisione. Nel caso di specie, il comitato non ha superato lo scrutinio concernente l’accertamento della rappresentatività del territorio di riferimento e della effettiva lesività dei provvedimenti impugnati per l’area in cui vivono gli associati, sostanzialmente perché la sede legale dista oltre dieci km dalla discarica. Il che ne ha appunto determinato la carenza di interesse a ricorrere.
2. I comitati quali soggetti titolari di autonome posizioni giuridiche soggettive.
Un commento alla sentenza, che tenga in debita considerazione la capacità di agire dei comitati in sede processuale, non può prescindere da un preliminare inquadramento del loro regime giuridico all’interno del nostro ordinamento.
Guardando alla disciplina del codice civile, si può notare che i comitati sono qualificati alla stregua di gruppi associativi informali composti da individui che vantano un comune interesse da preservare e/o promuovere; essi, inoltre, costituiscono un soggetto concettualmente distinto dalle associazioni non riconosciute, come confermato dal fatto che, mentre queste ultime trovano il proprio riferimento normativo nell’art. 36 c.c., per i primi la disposizione è l’art. 39 c.c.
In base al dato di diritto positivo, e sebbene siano innegabili delle analogie tra i due gruppi associativi dovute al carattere informale della loro struttura rispetto all’associazione riconosciuta[1], non sarebbe dunque errato desumerne la diversità sul piano ontologico, come in effetti sembra emergere in primis dalla disciplina del patrimonio delle une e degli altri. Se le associazioni non riconosciute vantano un fondo comune sostanzialmente configurante un patrimonio autonomo rispetto a quello dei singoli associati (art. 37 c.c.)[2], per i comitati la situazione è in parte diversa: essi non dispongono di un fondo comune, bensì di un patrimonio composto dai beni conferiti tramite le oblazioni dei sottoscrittori. Di conseguenza, mentre i componenti del comitato rispondono in modo immediato, personale e solidale delle obbligazioni assunte dall’ente indipendentemente dalla persona fisica che ha concretamente posto in essere l’attività giuridica (art. 41 c.c.), i creditori dell’associazione non riconosciuta non possono fare altrettanto proprio per la presenza del fondo comune[3].
In ragione di quanto appena osservato, in passato è stato sostenuto che i comitati sono soggetti privi di una effettiva personalità giuridica[4]. Considerazione, questa, che però non è univoca o che perlomeno merita qualche precisazione, essendo rilevabili altre letture in senso difforme secondo cui tale mancanza non escluderebbe la legittimazione dei comitati a concludere un negozio giuridico (come sarebbe desumibile anche dall’art. 41 c.c.)[5]; senza dimenticare alcuni orientamenti della giurisprudenza che giungono a sostenerne una effettiva soggettività giuridica e le letture dottrinali che ne riconoscono la caratteristica di autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive oltre alla possibilità di disporre sostanzialmente di un proprio patrimonio[6].
Non pare dunque errato concluderne che il regime giuridico dei comitati è stato crescentemente assimilato a quello delle associazioni non riconosciute, perlomeno con riguardo alla loro soggettività giuridica[7], con evidenti riflessi anche sulla loro legittimazione processuale.
3. La legittimazione processuale dei comitati per vicende ambientali tra interesse a ricorrere e vicinitas.
Il tema della legittimazione a ricorrere da parte di gruppi associativi, anche a tutela di interessi diffusi, non è di per sé certamente nuovo[8], considerando che l’art. 18, comma 5, l. 8 luglio 1986, n. 349, in combinato disposto con l’art. 13 della medesima legge, consente alle associazioni riconosciute dal Ministero di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi[9].
La questione è stata in passato ritenuta meno pacifica se riferita ai gruppi associativi dotati di maggiore informalità proprio a causa delle considerazioni sopra richiamate, che ne hanno messo in rilievo il difetto di un effettivo “schermo giuridico” rispetto alle persone fisiche che li compongono.
Nondimeno, l’avvenuto riconoscimento per via giurisprudenziale dei comitati quali enti sostanzialmente dotati di autonoma soggettività giuridica, unitamente alla previsione di cui all’art. 41, comma 2, c.c.[10], ha determinato importanti conseguenze anche sul versante della legittimazione processuale e, per quanto in questa sede maggiormente interessa, della legittimazione e dell’interesse a ricorrere nel processo amministrativo, con particolare riguardo ai profili ambientali[11].
Per averne conferma, è possibile richiamare un orientamento piuttosto consolidato del giudice amministrativo che ha riconosciuto la capacità di stare in giudizio dei comitati (e delle associazioni non riconosciute) in un’eventuale controversia con le amministrazioni[12], purché siano rispettate determinate condizioni: lo svolgimento di un’attività di interesse pubblico in modo organizzato; l’operatività in forma stabile, ossia reiterata nel tempo; un’azione apprezzabile e con un visibile radicamento sul territorio[13]. È bene poi specificare che il requisito della stabilità è stato in parte rivisto, perché il giudice amministrativo ha osservato come la legittimazione (e l’interesse) a ricorrere nel settore ambientale debbano riconoscersi anche ai c.d. “meri comitati”, ovvero a quei soggetti di ordine collettivo sorti spontaneamente, senza pretese di stabilità, ma operanti all’interno di un territorio circoscritto, e dunque sulla base del noto criterio della vicinitas[14].
Proprio il richiamo alla vicinitas incoraggia ulteriori riflessioni sulla vicenda dell’interesse a ricorrere.
Tale criterio, ammettendo al ricorso anche quei comitati non stabili ma comunque visibilmente attivi in un certo contesto geografico, sottintende un’evidente attenzione e sensibilità per le vicende del territorio, perché le attività impattanti sull’ambiente ivi compiute potrebbero arrecare un nocumento – anche di carattere non patrimoniale – ai residenti, che decidono appunto di associarsi.
In breve, l’orientamento giurisprudenziale basato sulla vicinitas è sì indicativo della legittimazione a ricorrere, ma in particolare dell’interesse a ricorrere, perché congiunge la pretesa alla tutela di interessi diffusi e la loro localizzazione su un dato territorio, contribuendo così alla creazione di una posizione differenziata in capo al gruppo associativo[15].
Del resto, l’apertura alla vicinitas nel settore ambientale sembra un corollario di quelle “spinte” della sussidiarietà orizzontale già studiate in dottrina, che vanno a rafforzare posizioni legittimanti diffuse maggiormente consolidate[16].
4. Interesse a ricorrere, profili di carattere soggettivo della giurisdizione e un (possibile) pericoloso arbitrio.
Quella appena sopra descritta è la prospettiva abbracciata anche dalla sentenza in commento.
Il Consiglio di Stato, infatti, lega la verifica sulla sussistenza dell’interesse a ricorrere (e, invero, in linea più generale, anche della legittimazione) in materia ambientale alla necessaria dimostrazione, da un lato, del rapporto di prossimità tra chi agisce, l’opera oggetto del provvedimento impugnato e la relativa rappresentatività del territorio che si assume di rappresentare; dall’altro, della deduzione di un danno ambientale, anche solo potenziale, che può derivare da tale provvedimento e dall’opera in questione[17].
Anzi, il fatto che queste dimostrazioni siano necessarie differenzia la massima estensione della partecipazione nel settore ambientale che – come è noto – è garantita a chiunque[18] dalle restrizioni esistenti sul versante giurisdizionale, dove si continua a pretendere quel minimum di giurisdizione soggettiva per accedere alle tutele processuali[19]. In altre parole, sebbene l’ambiente possa considerarsi un “bene comune”, non tanto nel senso in cui veniva inteso dalla commissione Rodotà[20] quanto piuttosto come “bene senza confini”[21], i profili di soggettività, inevitabilmente costruiti attorno ad un interesse inerente all’individuo o ad un gruppo determinato di individui, permangono ancora centrali nelle considerazioni della giurisprudenza, pure a fronte di spinte in senso contrario riscontrabili in letteratura[22].
Altro profilo da sottolineare, poi, riguarda il fatto che l’interesse a ricorrere di cui il comitato deve dare concreta dimostrazione configura il punto di discrimine tra i gruppi associativi informali e quelli riconosciuti dal Ministero dell’ambiente ai sensi dell’art. 13, l. n. 349/1986: questi ultimi, a seguito del riconoscimento, vantano una legittimazione (ed un interesse) a ricorrere ex lege ai sensi dell’art. 18 della medesima legge che non richiede una particolare valutazione da parte del giudice per l’ammissione al giudizio sulla richiesta di annullamento di provvedimenti ritenuti illegittimi.
Questa lettura è condivisa dalla sentenza in commento che, evidenziando il differente regime delle associazioni riconosciute ex art. 18, l. n. 349/1986, intende rimarcare la distinta disciplina per tutte le altre associazioni, ivi compresi i comitati, appunto chiamati ad evidenziare una lesione della propria posizione giuridica soggettiva, il cui carattere diffuso è stato “canalizzato” nell’ente associativo[23]. Tuttavia, con riguardo alla necessaria soggettività giuridica, il Collegio si spinge oltre affermando che il carattere corporativo caratterizzante l’ente esponenziale deve essere direttamente vagliato dal giudice nel caso concreto in quanto condizione imprescindibile per ammettere il ricorso, il quale non può in alcun modo riflettere questioni che riguardino esclusivamente i singoli associati[24].
Se questa osservazione non pare in sé illogica, perché in mancanza del riconoscimento per via ministeriale l’interesse a ricorrere non può presumersi e deve giocoforza essere verificato caso per caso in base ad una effettiva lesione[25], desta qualche incertezza il ragionamento del Consiglio di Stato quando sostiene che il comitato «non ha superato, effettivamente, lo scrutinio concernente l’accertamento della rappresentatività del territorio di riferimento e della effettiva lesività dei provvedimenti impugnati per il territorio nel quale vivono gli associati»[26]. Più specificamente, è la motivazione che non convince appieno, perché il difetto di rappresentatività delle esigenze territoriali e la discontinuità geografico-ambientale sono giustificati in ragione della distanza di dieci km tra il comune in cui il comitato ha sede legale e quello di realizzazione della discarica[27].
Non si nega che tale distanza potrebbe essere sufficiente per escludere una relazione di prossimità tra il sito e le azioni del comitato; piuttosto, si vuole evidenziare la genericità del concetto di vicinitas ambientale basato su uno spazio calcolato in chilometri perché, in mancanza di univoche indicazioni normative, si scorge il pericolo di decisioni giurisdizionali del tutto disomogenee ed incoerenti che potrebbero derivarne. Se dieci km sono troppi per giustificare il collegamento con il territorio e dunque l’interesse a ricorrere, non è chiaro quale potrebbe essere la distanza “giusta” per fare emergere la continuità geografico-ambientale.
Sebbene chi scrive ritenga evidente le difficoltà di individuare per via normativa dei criteri oggettivi e/o numerici basati sulla mera distanza chilometrica – motivo per cui neppure questa strada pare efficacemente perseguibile – l’impressione è che la soluzione scelta dal Consiglio di Stato in assenza di ulteriori specificazioni conduca, se applicata in un’ottica “di sistema”, ad un terreno piuttosto “scivoloso”, potendo portare a pronunce tra loro contraddittorie e finanche arbitrarie, con il rischio di una concreta lesione al principio di certezza del diritto.
[1] Analogia che, del resto, pare confermata dall’inclusione dell’art. 36 c.c. e dell’art. 39 c.c. nel medesimo Capo III del codice, Titolo II, Libro I del codice, appunto rubricato «Delle associazioni non riconosciute e dei comitati».
[2] Seppure le associazioni non riconosciute difettino dello “schermo associativo”, che invece sussiste per quelle riconosciute e che impedisce a terzi creditori di rifarsi sul patrimonio dei singoli associati. Pertanto, in relazione ai rapporti obbligatori, gli associati rispondono nei limiti dei conferimenti al fondo associativo, salvo che poi questo risulti insufficiente per rifondere i creditori, i quali a quel punto potranno aggredire il patrimonio personale degli associati.
[3] Con l’ulteriore specificazione che, nell’associazione non riconosciuta, sono responsabili personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto della stessa. Per maggiori dettagli sul confronto tra associazioni non riconosciute e comitati, R. Breda, L. Bugatti, V. Montani e G. Ponzanelli, Art. 36, in Le associazioni non riconosciute, Artt. 36-42, a cura di G. Ponzanelli, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da D. Busnelli e fondato da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 2016, pp. 50 ss. e ivi pp. 303-304; G. Iorio, Art. 39 – I comitati, in Delle persone artt. 11-73, a cura di A. Barba e S. Pagliantini, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, Utet, 2014, pp. 401 ss., spec. pp. 403-404, rileva come l’ulteriore differenza tra associazioni e comitati stia nella diversa struttura negoziale dei due istituti: mentre le prime perseguono gli interessi (non patrimoniali) dei propri componenti, i secondi gestiscono un interesse (sempre non patrimoniale) altrui, ovvero degli oblatori, offrendo al pubblico la propria opera.
[4] Così Corte cass., sez. III, 8 maggio 2003, n. 6985; TAR Lazio, Roma, sez. III, 20 ottobre 1997, n. 2483, in cui appunto si legge che i comitati di cui agli art. 39 ss. c.c. sono privi della personalità giuridica.
[5] In dottrina, tramite il richiamo proprio all’art. 41 c.c., è stata anche sostenuta la possibilità per il comitato di ottenere il riconoscimento della personalità giuridica: cfr. R. Breda, L. Bugatti, V. Montani e G. Ponzanelli, Art. 39, in Le associazioni non riconosciute, Artt. 36-42, cit., p. 278, affermano: «non vi è dubbio che il comitato sia suscettibile di acquisire personalità giuridica». Così anche F. Galgano, Per una ipotesi sulla natura giuridica dei comitati, in Jus, 1958, pp. 69 ss.; Id., Diritto privato, Padova, Cedam, 2010, pp. 674-675. M. Bianca, La norma giuridica-I soggetti. Diritto civile, I, 2002, Milano, Giuffré, p. 403, afferma che pur se non riconosciuti come persone giuridiche, i comitati sono egualmente soggetti di diritto, che godono di capacità giuridica generale e possono assolvere le loro funzioni senza preclusioni.
[6] La soggettività giuridica dei comitati è stata già in passato riconosciuta anche da Corte cass., 23 giugno 1994, n. 6032; Corte cass., 29 novembre 1999, n. 13338; Corte cass., 8 maggio 2003, n. 6985; Corte cass., 22 giugno 2006, n. 14453; Corte cass, 26 luglio 2007, n. 16600. Più di recente, sulla soggettività giuridica dei comitati, Cons. Stato, sez. III, 18 maggio 2022, n. 3921; TAR Lombardia, Milano, sez. sez. III, 18 luglio 2019, n. 1661; seppure in via incidentale, TAR Lazio, Roma, sez. III, 3 giugno 2019, n. 7114.
Ed in effetti, la stessa Corte cass. n. 6985/2003 sopra citata alla nota 4, pur rilevando il difetto della personalità giuridica dei comitati, non ne esclude il carattere di autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, potendo ad essi attribuirsi la titolarità di diritti sia obbligatori che reali. Nello stesso senso anche il sopra citato TAR Lazio, Roma, n. 2483/1997, che giunge appunto a riconoscere la possibilità per i comitati di disporre di un proprio patrimonio. In dottrina, riconosce l’autonoma imputazione di situazioni giuridiche soggettive ai comitati, nonché l’equiparazione alle associazioni non riconosciute, anche M. Bianca, La norma giuridica-I soggetti, cit., pp. 401-402; A. Zoppini, Le fondazioni: dalla tipicità alle tipologie, Napoli, Jovene, 1995, p. 295, attribuisce al comitato «un’autonoma forma giuridica»; F. Galgano, Art. 39, in Commentario compatto al codice civile, Piacenza, Celt, pp. 275-276.
[7] Per motivare quest’ultima affermazione, sia consentito il rinvio a G. Torelli, Deroghe alla concorrenza per attività di rilevanza sociale: l’affidamento degli immobili pubblici ai comitati, in Riv. giur. edil., 2020, n. 3, pp. 191 ss., pp. 195 ss.
[8] Tra gli studi più significativi in ordine alla legittimazione a ricorrere a tutela di interessi diffusi, A. Romano, Il giudice amministrativo di fronte al problema della tutela degli interessi diffusi, in Il Foro it., 1978, n. 1, pp. 8 ss.; R. Ferrara, Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. pubbl., vol. VIII, Torino, Utet, 1993; F.G. Scoca, La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, in Aa.Vv., Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, Cedam, 1976, pp. 78 ss.; G. Santaniello, La tutela degli interessi diffusi dinanzi al giudice amministrativo, in Riv. amm. Rep. it., 1980, n. 12, pp. 821 ss.; B. Caravita, Elaborazione giurisprudenziale e intervento legislativo nella tutela degli interessi diffusi, in Riv., giur. amb., 1986, n. 1, pp. 132 ss.; M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 138 ss., G. Berti, Il giudizio amministrativo e l’interesse diffuso, in Jus, 1982, pp. 68-81; R. Rota, Gli interessi diffusi nell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 1998; G. Alpa, Interessi diffusi, in Dig. civ., vol. IX, Torino, Utet, 1993, pp. 611 ss.; R. Donzelli, La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, Jovene, 2008.
[9] Sul tema della legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, per tutti, S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, Franco Angeli, 2018.
[10] Norma per cui, si ricorda, «Il comitato può stare in giudizio nella persona del presidente».
[11] Sul tema, in ultimo, G. Mannucci, Legittimazione e interesse a ricorrere delle associazioni ambientaliste, in federalismi.it, 2023, n. 13, spec. par. 3 nota 28 con riguardo ai comitati.
[12] Tra le tante, di recente, TAR Lazio, Roma, sez. III, 5 gennaio 2024, n. 264; in precedenza, Cons. Stato, 5 settembre 2016, n. 3805, afferma che sussiste la legittimazione e l’interesse ad agire anche delle associazioni di protezione ambientale non riconosciute, laddove esse siano costituite in forza di valido statuto e svolgano attività di protezione ambientale, in modo non occasionale in un determinato territorio. Con specifico riferimento alla legittimazione attiva dei comitati, si v. Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2011 n. 3662, il quale ha riconosciuto tale legittimazione anche in favore di «comitati spontanei che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente, la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti» su un territorio circoscritto, oppure di «sodalizi che, pur se articolati, o non possiedono strutture locali, o s’incentrino in forma non occasionale su dati settori di mercato o per argomenti o esigenze consumistiche stabili, e via di seguito». Nello stesso senso, si richiamano anche Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2010 n. 6554 e 23 maggio 2011 n. 3107; sez. III, 8 agosto 2012 n. 4532; Cons. Stato, sez. IV, 9 gennaio 2014 n. 36; Cons. Stato., sez. IV, 23 giugno 2015 n. 3162. Sul tema, in dottrina, si segnalano i contributi di G. Calabrò, La legittimazione ad agire a tutela delle risorse ambientali: la prospettiva dei beni comuni, in Dir. e soc., 2016, n. 4, pp. 807 ss.; cfr. anche R. Leonardi, La legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste: alcune questioni ancora giurisprudenziali, in Riv. giur. edil., 2011, 1, pt. II, pp. 3 ss.; L’esclusione della legittimazione ad agire degli enti locali nell’azione risarcitoria in tema di danno ambientale: la negazione del «federalismo ambientale», in Foro amm. TAR, 2013, pp. 2925 ss.; F. Romano, La legittimazione ad agire a tutela dell’ambiente: verso una rivisitazione del sistema processuale amministrativo, in Riv. giur. edil., 2014, n. 3, pt. I, pp. 552 ss.; F. Giglioni, La legittimazione processuale attiva per la tutela dell’ambiente alla luce del principio di sussidiarietà orizzontale, in Dir. proc. amm., 2015, n. 1, pp. 413 ss. Si veda inoltre anche il lavoro monografico di W. Giulietti, Danno ambientale e azione amministrativa, Napoli, Editoriale scientifica, 2012, in particolare pp. 141 ss. Nell’ambito civilistico, in merito al riconoscimento della capacità processuale dei comitati, anche non riconosciuti, si veda M. Bianca, La norma giuridica-I soggetti, cit., p. 408; G. Iorio, Art. 38 – I comitati, cit., p. 432, ricorda che nella relazione al Re n. 46 del c.c., veniva precisato che il comitato debba intendersi come una unità organizzata dotata di capacità processuale.
[13] Sulla stabilità dei comitati, di recente: Cons. Stato, sez. IV, 2 maggio 2023, n. 4445; Cons. Stato, sez. IV, 18 maggio 2022, n. 3921; TAR Lazio, Latina, sez. I, 20 aprile 2021, n. 250; TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 31 dicembre 2020, n. 554; Cons. St., sez. IV, 22 marzo 2018, n. 1838, che insistono in particolare sulla necessità della condizione del carattere “non occasionale” del comitato. Per una panoramica più generale sulle tre condizioni sopra descritte, TAR Lazio, Roma, sez. III, 5 gennaio 2023, n. 264; TAR Toscana, 30 gennaio 2018, n. 156, secondo cui il comitato (costituito nella specie genericamente da cittadini), ai fini della legittimazione a proporre ricorso giurisdizionale, deve provare: a) il proprio collegamento stabile col territorio di riferimento; b) l’apprezzabile consistenza della propria azione tenuto anche conto del numero e della qualità degli associati; c) la protrazione nel tempo della propria attività. Ed ancora, in termini sostanzialmente identici, Analoga lettura si rinviene anche in TAR Lombardia, Milano, sez. III, 26 agosto 2016, n. 1607, in cui le condizioni per la legittimazione ad agire di comitati stabili ed associazioni non riconosciute sono pressoché identiche; negli stessi termini anche TAR Liguria, sez. II, 10 febbraio 2017, n. 95. Nella giurisprudenza civile, si segnalano Corte cass., 23 giugno 1994, n. 6032, con commento di V. Lenoci, Comitati duraturi ed accertamento della titolarità degli acquisti immobiliari dei loro componenti, in Foro it., 1995, IV, pp. 1268 ss.; e, seppur più risalente nel tempo, Corte cass., 12 novembre 1977, n. 4902. In dottrina, R. Breda, L. Bugatti, V. Montani, G. Ponzanelli, Art. 39, cit., pp. 268-271, evidenziano come, di regola, i comitati abbiano carattere transitorio, il che tuttavia non esclude affatto la loro configurabilità a struttura stabile e permanente, non occasionale né temporanea; così anche P. Forchielli, Saggio sulla natura giuridica dei comitati, cit., p. 108; G. Tamburrino, Persone giuridiche. Associazioni non riconosciute. Comitati, Torino, Utet, 1997, pp. 537 ss, spec. p. 541; G. Iorio, Art. 39 – I comitati, cit., p. 402; F. Galgano, Art. 39, in Commentario compatto al codice civile, cit., p. 274; Id., Delle associazioni non riconosciute e dei comitati: artt. 36-42 c.c., in Commentario del codice civile. Delle persone-della famiglia, I, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 1967, pp. 261 ss., spec. p. 262; E. Ferraris, La nozione di comitato, in Nuova giur. civ. comm., 1996, II, pp. 289 ss.
[14] Sul rilievo della vicinitas, TAR Lazio, Roma, sez. V, 5 ottobre 2022, n. 12639; TAR Lazio, Latina, sez. I, 13 novembre 2018, n. 584; Cons. Stato, sez. IV, 21 agosto 2013 n. 4233; TAR Sardegna, sez. I, 11 luglio 2014, n. 599; Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2011, n. 5986, secondo cui la legittimazione ad impugnare i provvedimenti lesivi di interessi ambientali deve essere riconosciuta non soltanto alle associazioni e ai comitati stabili, cui tale facoltà è stata conferita dall’art. 13, l. 8 luglio 1986, n. 349, ma anche ai soggetti, da questi ultimi diversi, siano essi singoli o collettivi, e in quest’ultimo caso, sia che si tratti di meri comitati sorti spontaneamente al precipuo scopo di proteggere l’ambiente, la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti su un circoscritto territorio, sia che si tratti di singole persone fisiche in posizione differenziata sulla base del criterio della vicinitas quale elemento qualificante dell’interesse a ricorrere. Più di recente, ammettono la legittimazione e l’interesse a ricorrere dei “meri comitati” sorti spontaneamente anche TAR Sardegna, 11 luglio 2014, n. 599, secondo cui la legittimazione ad impugnare è riconosciuta anche ai comitati spontanei che svolgano un’attività con un significativo impatto su un territorio circoscritto, rivolti a proteggere la qualità della vita delle popolazioni ivi residenti, ed alle ulteriori condizioni che vantino un adeguato grado di rappresentatività e stabilità in un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva per cui ricorrono. Così anche TAR Campania, Salerno, sez. III, 20 novembre 2023, n. 2661; più risalente nel tempo, TAR Umbria, 23 maggio 2013, n. 303. TAR Toscana, sez. II, 13 luglio 2015, n. 1071; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 2 ottobre 2013, n. 2384. In letteratura, G. Mannucci, Legittimazione e interesse a ricorrere delle associazioni ambientaliste, in federalismi.it, 2023, n. 13, nota 28.
[15] M. Delsignore, La legittimazione delle associazioni ambientali nel giudizio amministrativo: spunti dalla comparazione con lo standing a tutela di enviromental interests nella judicial review statunitense, in Dir. proc. amm., 2013, pp. 734 ss., spec. p. 781.
[16] Cfr. F. Giglioni, La legittimazione processuale attiva per la tutela dell’ambiente alla luce del principio di sussidiarietà orizzontale, cit., pp. 432 ss.
[17] Cons. Stato n. 7033/2024, par. 10.1. delle considerazioni in fatto e diritto, dove si possono rinvenire anche alcuni precedenti dello stesso giudice.
[18] La bibliografia sul tema della partecipazione ambientale è estesissima. Per tutti, in una lettura manualistica che tende a conferire oggettività alla materia, G. Rossi, Funzioni e procedimenti, in Diritto dell’ambiente, a cura di G. Rossi, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 63 ss.
[19] Non è certamente questa la sede per riaprire l’annoso dibattito tra legittimazione soggettiva e oggettiva ampiamente indagato dalla dottrina. Sia qui sufficiente richiamare, per tutti, il lavoro di V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, 2014, 341 ss., che pur evidenziando l’esistenza di alcune “contaminazioni” di giurisdizione oggettiva nel nostro ordinamento, riconosce come regola la persistenza di una giurisdizione a carattere soggettivo; nonché gli studi di Aa.Vv., Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, a cura di F. Francario e M.A. Sandulli, Napoli, Editoriale scientifica, 2017.
[20] Per un’analisi dettagliata del tema, M. Renna, Le prospettive di riforma delle norme del codice civile sui beni pubblici, in Aa.Vv., I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali. Profili di diritto interno e internazionale, a cura di G. Colombini, Napoli, Jovene, 2009, pp. 29 ss.
[21] Ossia un danno che si produce su un territorio può ragionevolmente causare effetti in un altro, persino in uno Stato differente da quello di origine (c.d. principio del no transboundary harm).
[22] F. Giglioni, La legittimazione processuale attiva per la tutela dell’ambiente alla luce del principio di sussidiarietà orizzontale, cit., 432, sostiene una lettura per cui il processo dovrebbe muoversi verso la direzione di garantire un accertamento effettivo sulla legalità, intesa non solo come mera legittimità dell’azione ma anche come giustizia sostanziale, soprattutto in relazione a beni che implicano interessi diffusi, su tutti l’ambiente.
[23] Cons. Stato, n. 7033/2024, par. 10.1.
[24] Cons. Stato, n. 7033/2024, par. 10.1.
[25] Come ribadito, di recente, anche da TAR Lazio, Roma, sez. I, 5 ottobre 2022, n. 12639; TAR Liguria, sez. I, 15 dicembre 2022, n. 1087; TAR Aosta, sez. I, 20 aprile 2022, n. 23.
[26] Anche se, per completezza, va rilevato che il Collegio esclude l’interesse a ricorrere del comitato anche per un secondo motivo: la mancata impugnazione della valutazione di impatto ambientale, che aveva individuato quale ulteriore comune interessato agli effetti della discarica uno diverso da quello in cui il comitato ha la propria sede legale.
[27] Per di più il Consiglio di Stato ritiene che detta distanza sia amplificata dalla presenza del fiume Adige «la cui presenta “taglia” il territorio».
I magistrati italiani, riuniti nell’assemblea straordinaria della ANM in data 15 dicembre 2024:
1) sono sdegnati per il ripetersi degli attacchi, anche da parte di importanti esponenti politici, verso i colleghi che, nell’esercizio delle funzioni, adottano decisioni sgradite; si deve ribadire che la critica ai provvedimenti giudiziari è sempre consentita ma non si può, senza averne documentato motivo, contestare la professionalità e l’onestà di chi li adotta e soprattutto non se ne può indagare la vita privata al fine di delegittimarne la funzione giudiziaria;
2) affermano la netta contrarietà alle riforme promosse dall’attuale maggioranza parlamentare che incidono sul ruolo e sull’assetto costituzionale della magistratura;
3) ribadiscono che non si tratta di una riforma della giustizia, che non sarà né più veloce, né più giusta ma di una riforma della magistratura, anzi contro la magistratura;
4) ricordano che è sbagliato parlare di separazione delle carriere perché, a Costituzione invariata, la carriera in magistratura non esiste;
5) rifiutano il luogo comune del “conflitto fra giustizia e politica” perché i magistrati si limitano a fare il loro lavoro ed ad applicare le leggi, nel rispetto del sistema delle fonti;
6) annunciano l’impegno nella campagna referendaria contro le riforme anche con la costituzione di comitati referendari che coinvolgano magistrati, avvocati, professori universitari, esponenti della cultura e dello spettacolo e promuovano modelli di comunicazione capillari ed efficaci;
7) denunciano la mancanza di risorse umane e materiali, nonostante le quali continua ad essere esercitata la giurisdizione, le enormi difficoltà della promessa rivoluzione digitale, la irrazionalità della geografia giudiziaria e ricordano che la Costituzione attribuisce al Ministro della Giustizia il compito di garantire il funzionamento dei servizi mentre ogni responsabilità delle politiche ministeriali ricade su magistrati, avvocati e cancellieri che ogni giorno mettono la loro faccia nei tribunali italiani.
Pertanto
Auspicano l’azione unitaria della Anm a tutela dell’assetto costituzionale della giurisdizione e della dignità della funzione giudiziaria.
Chiedono fin d’ora che la Anm si impegni nella costruzione di comitati referendari qualora le proposte di riforme superino il vaglio parlamentare.
Assemblea straordinaria ANM
15 dicembre 2024
Riforme e assetto costituzionale della magistratura
Care colleghe e cari colleghi,
l’essere qui, riuniti nella quarta assemblea straordinaria indetta in poco più di due anni e mezzo, è di per sé indice di quanto grande sia la preoccupazione della magistratura per il contesto in cui si trova ad operare e in cui progrediscono, nell’iter parlamentare, i disegni di revisione costituzionale.
Una preoccupazione che ci accomuna tutti, che tocca la magistratura in tutte le sue fasce generazionali.
1. Sono molti, e lo dico con grande soddisfazione, i neo-magistrati che si sono iscritti alla nostra associazione a distanza soltanto di qualche settimana dal giorno in cui hanno prestato il giuramento di assunzione.
Trovo in questa scelta dei nuovi colleghi, a ciascuno dei quali rivolgo un caloroso benvenuto, una indicazione preziosa.
Non è un caso che protagonisti di questa confortante e inaspettata, almeno per i tempi, decisione siano i più giovani, coloro che non portano il peso del disincanto e delle frustrazioni indotte dalle continue spinte di infelici riforme di ordinamento giudiziario ad una insulsa burocratizzazione della funzione.
Le difficoltà e il disagio che si avvertono quotidianamente nei nostri luoghi di lavoro sono alcune delle ragioni della disaffezione alla vita associativa, che pure storicamente ha funzionato da antidoto ai guasti di una visione impiegatizia della professione.
Di quella storia e di quel passato dobbiamo fare risorsa preziosa e in questa direzione l’immissione di nuove energie è occasione da non perdere.
Traggo allora, dal loro tempestivo desiderio di partecipazione al dibattito associativo, una prima lezione.
La magistratura è pesantemente attaccata sotto il fuoco di parte, di buona parte, della stampa e dei media, che la feriscono con ogni genere di accuse, per poi addebitarle di aver perso la fiducia dei cittadini, fiducia esposta in larga misura all’azione corrosiva delle loro intemerate sulla politicizzazione, sulla ostilità al Governo, sul collateralismo partitico, sulla pratica giudiziaria costellata di errori.
Tutto ciò è reso possibile dall’insofferenza che settori importanti della politica ostentano nei confronti della giurisdizione.
Dai test psico-attitudinali al serissimo, e da noi non sottovalutato, capitolo dell’errore giudiziario, nulla è affidato alla riflessione e al costruttivo approfondimento e ogni tema è usato per l’incessante opera di sfaldamento della credibilità dell’ordine giudiziario.
Di fronte a questo progressivo deterioramento del quadro, la magistratura potrà continuare ad aver fiducia e coltivare speranza soltanto se saprà mantenere, anzi rafforzare, la presenza e la vitalità dell’associazionismo.
La dimensione associativa, del dialogo e del confronto che favoriscono una sempre maggiore consapevolezza del ruolo e della sua fisionomia valoriale, è il luogo in cui ricercare le motivazioni per non assuefarsi alla tristezza del tempo presente, per non adattarsi ai cambiamenti prima che accadano, e che si muovono vero l’arretramento delle garanzie, dei diritti e delle libertà.
Può in tal modo concretizzarsi la speranza di far giungere nei luoghi della decisione e nello spazio pubblico, in cui quelle decisioni misurano il loro grado di accettazione sociale, le ragioni che ci inducono a guardare alla incipiente riforma coma ad uno strappo e non ad una nuova trama del tessuto costituzionale.
2. Sono alla fine del mio mandato come presidente, quattro anni e più di impegno appassionante e gratificante, reso possibile dalla fiducia che mi avete accordato e di cui vi sono grato.
Durante questi anni, costellati da non pochi momenti difficili, mi sono confermato nella convinzione, la stessa con cui mi ero accostato all’incarico, e che ora vi consegno, con umiltà non di maniera.
Confido che possa essere accolta e possa anzi costituire la premessa del lavoro che da qui a breve i nuovi organi associativi affronteranno, raccogliendo il testimone dal Comitato direttivo in naturale scadenza.
L’Associazione deve praticare una unità reale, per essere all’altezza di tempi in cui si rischia di dare avvio alla stagione del declino.
Condivido solo per questa parte il giudizio del Ministro della giustizia sulla riforma costituzionale da lui definita epocale: si chiude, appunto, un’epoca e se ne apre un’altra, ma in senso decisamente regressivo.
Solo così può autorevolmente e credibilmente replicare alla massiccia campagna di sfiancamento della cornice costituzionale, condotta ora sbandierando, con una bizzarra inversione concettuale, la necessità dell’allineamento della Costituzione alla legge, al codice di rito penale; ora, addirittura, tacciando l’attuale assetto ordinamentale di produrre un deficit di terzietà del giudice.
Non v’è alternativa all’essere uniti per far valere, con rispetto profondo per il Parlamento che dovrà decidere ma con altrettanta profonda convinzione della bontà dei nostri argomenti, una contrarietà alla riforma che non ha nulla di corporativo, che non esprime sentimenti di gretta conservazione o autoconservazione, che non mira a mantener chissà quali privilegi.
3. Lo abbiamo detto più le sedi possibili, e continueremo a farlo, rafforzati e confortati, da ultimo, dalle riflessioni di un illustre studioso del processo penale, il prof. Paolo Ferrua, pubblicate qualche giorno fa sulla stampa.
Il processo accusatorio, che fa parte del nostro sistema da oltre trent’anni, non implica e non esige una separazione delle magistrature, ma chiede una separazione delle funzioni, aggiungo io ora … anche meno rigida ed esasperata di quella che ci ha consegnato la riforma Cartabia.
È dunque un fiacco argomento retorico, speso più e più volte anche dal Ministro della giustizia, quello per il quale la riforma s’ha da fare per adattare la Costituzione al codice di rito accusatorio.
Né è più saldo l’altro pilastro della costruzione eretta a giustificazione della riforma, quello della mancanza di effettiva terzietà del giudice.
Nessuno tra i sostenitori della riforma spiega:
- perché, in questi oltre vent’anni dalla novella dell’art. 111 Cost. con il riferimento al giudice, oltre che imparziale, anche terzo, non sia mai stata denunciata alla Corte costituzionale l’illegittimità dell’assetto ordinamentale e perché la Corte, che in tante occasioni ha utilizzato nei suoi scrutini il parametro della terzietà, non ha mai indicato al legislatore la necessità di una separazione delle magistrature;
- perché l’equidistanza dalle parti potrà dirsi realizzata se il giudice avrà di fronte un magistrato, sì di una magistratura separata ma dello stesso suo ordine giudiziario (perché la riforma non tocca l’unicità dell’ordine), e che in ogni caso sarà sempre a lui più vicino, siccome magistrato e magistrato dello stesso ordine, di quanto potrà mai essere un avvocato del libero foro;
E nessuno, soprattutto, spiega per quale ragione la separazione delle magistrature, pure ritenuta ineludibile, si dissolverà nel nuovo luogo della responsabilità disciplinare, l’Alta Corte di giustizia, in cui la prevalenza numerica della componente togata sulla laica si reggerà su una ritrovata commistione delle due magistrature.
Cos’altro occorre per accorgersi, proprio attraverso le incoerenze e le lacune di un testo affrettato, che il fine della riforma non può che essere colto tra le sue righe?
Il fine, al di là di quanto si dichiara, è la frammentazione come strategia di indebolimento sia del Csm che della magistratura e della sua esperienza associativa; non certo il rafforzamento del giudice, secondo le formule enfatiche del “giudice gigante”, del “potenziare notevolissimamente” il suo ruolo e la sua figura, con cui il rappresentante del Governo ha magnificato qualche giorno fa la riforma dinnanzi all’assemblea della Camera dei deputati.
Se l’obiettivo fosse realmente il rafforzamento della figura e del ruolo del giudice, allora mi permetterei di suggerire alla politica altra e più agevole strada, quella del rispetto della funzione pur quando i giudici adottano provvedimenti sgraditi.
Senza divenir “giganti”, non è questo che si vuole, i giudici potrebbero già oggi rafforzarsi di una maggiore considerazione per il loro lavoro e di un ben diverso atteggiamento di autorevoli esponenti della politica, non più intriso di diffidenza e non più sostenuto dal pregiudizio odioso che i giudici agiscano per faziosità e partigianeria partitica.
Quando poi il programma separatista avrà ridimensionato il giudiziario, in linea con quanto vagheggiato nelle relazioni illustrative delle proposte di legge di iniziativa parlamentare, allora si porrà prepotentemente il tema del pubblico ministero che, certo, non potrà restare isolato e rafforzato in una autoreferenzialità fuori misura.
Io do credito, non foss’altro che per rispetto della persona, alla buona fede del Ministro che dice che non avverrà mai la sottoposizione del pubblico ministero alla politica.
Ma, come dice il prof. Ferrua, il cui pensiero in gran parte corre lungo gli stessi binari che con ostinazione percorriamo da tempo inascoltati, il Ministro non ha il potere di ipotecare il futuro e, aggiungo ora come considerazione generale, il futuro non assume obblighi di lealtà se alla buona fede non si accompagnano, nel prepararlo, avvedutezza e prudenza.
Come accade in molti ordinamenti, a cui del resto guardano i sostenitori della riforma, un pubblico ministero separato, isolato dalla giurisdizione, è assai vicino, collegato all’Esecutivo.
Le nostre paure non sono fantasie, sono previsioni del tutto giustificate dalla constatazione della realtà.
La direzione intrapresa è del resto coerente con l’idea, proclamata molte volte, che ogni potere debba spettare a chi è eletto dal popolo.
Se la premessa è che l’autentica espressione della sovranità spetta all’eletto, non può stupire che si lavori per ricondurre l’azione penale nei programmi della politica; e che appaia come una intollerabile deviazione da un modello di unificazione della sovranità che dei vincitori di concorso, non legittimati elettoralmente, possano gestire l’azione penale privi di responsabilità politica.
4. Il compito che ci spetta è arduo e va adempiuto sapendo guardare, al contempo, alle involuzioni normative, il che già è cosa di assoluto rilievo, e al processo culturale di indebolimento, ed è qui il dato di maggiore preoccupazione, del modello di giurisdizione elaborato nei lunghi anni del disgelo costituzionale e che successivamente, spesso minacciato, ha comunque resistito.
Al di là di qualche rassicurazione di facciata, si registra quanto sia meno avvertita, nei concreti comportamenti, la centralità degli organi di garanzia.
Il racconto dominante ruota intorno al preteso bisogno di accrescere il ruolo degli organi di governo e bolla come anticaglia di un passato lontano e pretestuoso argomento dialettico il richiamo a non sottovalutare l’esigenza di porre i primi al riparo dal pericolo, quello sì reale e storicamente sperimentato, di una compressione dei loro vitali spazi di indipendenza e di autonomia.
Proprio in questo tempo, attraversato da tendenze che inquietano, la riaffermazione della omogeneità culturale della magistratura tutta, figlia, pur con i suoi difetti, i suoi errori, di una promessa costituzionale a cui resta convintamente fedele, rincuora e fa sperare che il declino non sia destino ineluttabile.
E non v’è sforzo comunicativo più efficace, argomento più incisivo, in tutto ciò, del far testimonianza di come la diversità di mestieri, e sono tanti nel nostro mondo, la diversità di funzioni, l’assunzione di incarichi direttivi e semidirettivi, la diversità di collocazione nei plurimi gradi del giudizio non agiscano nella realtà degli uffici e delle aule come germe della frantumazione di un unitario modello di magistrato.
Occorre saper dimostrare che la strada imboccata non condurrà a nulla di buono, che su quella strada si rischia di lasciare insoddisfatte le istanze di giustizia anche e soprattutto di chi non ha voce o non ha pari forza di altri nell’esprimerla.
In attuazione del deliberato assembleare del novembre dello scorso anno abbiamo rafforzato i mezzi della nostra comunicazione, ci siamo dotati di un attrezzato ufficio stampa e abbiamo cercato di utilizzare ogni occasione per rappresentare e illustrare il punto di vista della magistratura.
Oggi dovremo valutare se e come approfondire l’impegno su questo versante, sforzandoci di dare all’esterno una immagine corretta e fedele al nostro sentire, di una magistratura che non si arrocca nella protesta ma che si mette a disposizione, con infaticabile adesione al modello di democrazia partecipata, per arricchire di contenuti il confronto e per agevolare, quanto meno, le prossime probabili scelte referendarie.
5. Nel dibattito pubblico prevale sempre più di frequente la tendenza a svilire come populista ogni tentativo di imporre all’attenzione collettiva l’istanza di uguaglianza.
Si fa spazio in tal modo un garantismo penale a connotazione settoriale, che sta rilegittimando, nel silenzio di molti, la moltiplicazione dell’impiego del cd. doppio binario, e che rischia di far recedere la dimensione del fatto a beneficio del profilo dell’autore.
Nell’osservare la traiettoria delle riforme varate e dei progetti in divenire, si coglie il senso anche delle decisioni non prese.
Mi riferisco specificamente all’assenza di interventi adeguati ad affrontare il grave tema del disagio carcerario, nonostante il tragico numero di suicidi in carcere, 82-83, da inizio anno, a tacere delle pessime condizioni in cui, in relazione di ovvia specularità, opera il personale di polizia penitenziaria.
Io ho apprezzato molto la generosità con cui l’Avvocatura penale si è spesa per sollecitare dalla politica risposte assai più efficaci di quelle infine prodotte.
Lo abbiamo fatto anche noi, anche noi abbiamo chiesto al Ministro misure strutturali e misure urgenti per affrontare il grande problema carcerario.
Lo abbiamo fatto forse con tono minore ma non certo per minore sensibilità quanto per maggiore consapevolezza.
A differenza dell’Unione delle Camere penali cogliamo su quel versante i segni di un complessivo modo di intendere la giustizia, a cominciare proprio dal disegno di riforma costituzionale.
Questa consapevolezza ci porta a credere che le pur doverose pressioni affinché il carcere sia restituito a condizioni di accettabile vivibilità possano poco se non si misurano, se non hanno disponibilità a misurarsi con il quadro di insieme, per cogliere le assonanze ideali tra le scelte di politica penitenziaria, gli attacchi sul fronte della giurisprudenza in materia di immigrazione, gli interventi di protezione (depenalizzazione selettiva e scudi erariali) dei detentori di poteri pubblici e, soprattutto, la riforma costituzionale che, se ben studiata al riparo dai bias cognitivi che intrappolano chi è guidato dalle sue aspettative storico-identitarie, rivela, per quanto ho già detto, un’idea di giustizia e di giurisdizione in cui le istanze liberali non avranno la meglio.
6. Gli argomenti di critica che abbiamo finora speso, anzitutto in occasione delle audizioni informali in Parlamento, a proposito di molte iniziative di riforma della legislazione penale e ovviamente della riforma costituzionale hanno un comune denominatore nell’esigenza di riaffermazione piena del principio di uguaglianza e nell’accentuazione della dimensione di “servizio” della giustizia e della sua amministrazione.
Quando il criterio di uguaglianza costituzionalmente declinato non governa le dinamiche sociali, il conflitto impedisce la composizione ordinata degli interessi e non deve stupire, per gettare lo sguardo ad un’altra tragica emergenza, che il profitto metta in ombra il valore del lavoro, innescando la spirale dell’aumento incontrollato di infortuni, mortali e non, a cui ci si sta drammaticamente abituando.
Le morti in carcere e le morti sui luoghi di lavoro dovrebbero scandire l’urgenza di riforme e impegni di risorse, su quel piano dovrebbero essere incalzati tutti gli operatori di giustizia.
Su quel piano sì che risalterebbero le carenze del sistema giudiziario come servizio e sarebbe cogente e ineludibile uno sforzo collettivo, dei magistrati come e al pari degli altri, per restituire centralità, nella gestione dei fascicoli e nel computo dei numeri di statistiche e obiettivi, a costituzione invariata e integralmente praticata, alla persona e al senso di umanità che deve fare della giustizia, con una quotidiana tensione ideale da coltivare in ogni modo, il volto anche severo ma rassicurante di una comunità che non discrimina e non abbandona.
Buona assemblea!
Legge vs. clausole di parità UE: obbligatorio rivolgersi alla Consulta?
Clausole di parità di trattamento dotate di efficacia diretta, norma di legge incompatibile, discriminazione collettiva pro futuro: disapplicazione o (obbligo di) rimessione alla Consulta? Nota all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, 26 ottobre 2024, IV sez. civile del Tribunale di Firenze.
di Davide Strazzari
Sommario: 1. Una breve premessa sui fatti di causa - 2. Alcuni dati di contesto: il giudizio antidiscriminatorio… - 2.1. e il precedente della sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale - 3. Qualche considerazione critica - 3.1. La disapplicazione della legge: soluzione impraticabile? - 3.2. Le ragioni dell’incompatibilità del requisito di residenza regionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti - 4. Osservazioni conclusive
1. Una breve premessa sui fatti di causa
Il bando 2022 relativo alla assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica del comune di Arezzo contiene una clausola che, nel definire i criteri per l’attribuzione del punteggio utili per la graduatoria, valorizza la “storicità della presenza” nel comune. A tale scopo individua, come indicatori utili, o la residenza anagrafica continuativa nel territorio comunale o lo svolgimento di attività lavorativa, sempre nel territorio comunale, da almeno tre fino a vent’anni, secondo una logica che valorizza in modo incrementale il collegamento previo coll’ente territoriale.
La clausola è, però, meramente riproduttiva di una disposizione contenuta in una legge regionale. Le ricorrenti – due associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 del d.lgs. 215/2003 – agiscono in giudizio iure proprio per far valere una discriminazione a carattere collettivo, in assenza di “vittime” concretamente escluse da un provvedimento della PA.
Secondo parte attorea, la valorizzazione della previa residenza continuativa e/o dello svolgimento pregresso di attività lavorativa nel territorio comunale determinerebbe una discriminazione indiretta a danno dei cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti e di quelli titolari di permesso unico lavoro, incompatibile con gli articoli, rispettivamente, 11 della direttiva 2003/109/CE e 12 della direttiva 2011/98/UE. Queste disposizioni sanciscono un obbligo per gli Stati membri di garantire la parità di trattamento tra i cittadini nazionali e quelli di paesi terzi, titolari del permesso di soggiorno o dello status disciplinato dalle direttive, in una serie di ambiti materiali che includono anche l’accesso alle procedure per l’ottenimento di un alloggio.
Su questa premessa, le ricorrenti chiedono al giudice, adito ex art. 28 d.lgs. 150/2011, di sollevare, in via preliminare, la questione di costituzionalità della disposizione della legge regionale per violazione sia dell’art. 3 Cost. sia dell’art 117, c. 1 Cost., atteso, in relazione a quest’ultimo parametro, il contrasto con gli artt. 11 e 12 delle direttive richiamate, nonché con gli artt. 21 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Successivamente, anche all’esito del relativo giudizio, chiedono di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta; di ordinare al Comune di Arezzo di modificare il bando ERP, eliminando le clausole censurate; di annullare e riformulare la graduatoria già emessa senza considerare l’applicazione della clausola di “storicità della presenza”; di condannare al risarcimento del danno non patrimoniale in loro favore e di disporre delle astraintes per ogni giorno di ritardo nell’adempimento della decisione.
Il giudice di Firenze, in accoglimento della richiesta delle ricorrenti ed esplicitamente richiamandosi nelle sue argomentazioni alla sentenza n. 15/2024 della Corte costituzionale – di cui riporta ampi stralci -, rimette alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della disposizione della legge regionale per violazione dell’art. 3 e dell’art. 117, c. 1 Cost., individuando, però, in relazione a quest’ultimo, quale parametro interposto, il solo art. 11 della dir. 2003/109/CE[1].
Questi, in sintesi, i fatti da cui è scaturita l’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino. I motivi di interesse di questa risiedono soprattutto nel fatto che con essa si dia applicazione, tra le prime volte, al modello di rimedio delineato dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 15/2024[2]. Una soluzione, quella indicata dalla Corte, che impone al giudice comune la strada della rimessione costituzionale, ogniqualvolta gli venga chiesto, con il giudizio antidiscriminatorio, non già di dare rimedio al singolo leso da un provvedimento individualizzato, ma di rimuovere anche pro futuro la condotta discriminatoria della PA, laddove questa sia conseguenza di atti regolamentari (o, aggiungiamo noi, atti amministrativi generali, come nel caso dell’ordinanza di Firenze) che riproducano, però, una norma primaria. In questi casi, anche laddove il contrasto fosse con una clausola di parità contenuta in una norma di diritto UE dotata di efficacia diretta, il giudice, al fine di ottenere un rimedio per rimuovere definitivamente la discriminazione pro futuro, dovrebbe appunto sollevare la questione alla Corte costituzionale e non potrebbe, invece, operare attraverso la disapplicazione della norma contenuta nella fonte primaria.
2. Alcuni dati di contesto: il giudizio antidiscriminatorio…
Prima di entrare nello specifico della ordinanza, si ritiene opportuno dare preliminarmente alcune indicazioni di contesto vuoi in relazione al diritto antidiscriminatorio, vuoi in relazione alla sentenza 15/2024 della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, senza alcuna pretesa di esaustività ma al solo intento di illustrare aspetti rilevanti per la migliore comprensione del caso, conviene qui ricordare che il diritto antidiscriminatorio – per lungo tempo limitato al solo ambito lavorativo – ha conosciuto un sensibile incremento rispetto al suo tradizionale ambito materiale di applicazione come conseguenza sia di interventi normativi nazionali sia di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea[3]. Inoltre, in ragione del carattere strutturalmente “debole” delle vittime di discriminazione, si sono spesso previste soluzioni processuali derogatorie rispetto alle regole comuni che hanno attribuito al giudice rimedi speciali al fine di garantire l’effettività della tutela della vittima.
È l’art. 44 del D.L.vo n. 286/1998, T.U. Immigrazione, a introdurre nell’ordinamento italiano un’azione civile contro la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi attivabile, secondo il disposto dell’art. 43, c. 1 TUI, ogniqualvolta il comportamento, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L’azione si esperisce davanti al g.o. anche laddove la condotta discriminatoria sia determinata non già da un privato, ma da un comportamento della PA.
La misura in questione, introdotta dal legislatore italiano autonomamente, senza ottemperare a obblighi dell’UE, si è andata successivamente integrando con ulteriori apporti, questi sì di matrice dell’UE. Grazie all’approvazione di una nuova base giuridica – l’allora art. 13 TCE, oggi 19 TFUE - l’UE ha, infatti, adottato la direttiva 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nonché la direttiva quadro 2000/78/CE che, in relazione al solo ambito lavorativo, dà tutela in relazione a disabilità, età religione o credo e orientamento sessuale.
La direttiva “razza”, più rilevante ai fini di questo scritto, pur rimettendo ai legislatori nazionali la scelta relativa agli strumenti processuali più adatti per darvi attuazione, stabilisce, tuttavia, alcuni importanti criteri che devono essere tenuti presenti dagli Stati[4].
Il legislatore nazionale ha dato attuazione a questa direttiva con il d.lgs. n. 215 del 2003, prevedendo, sotto il profilo della legittimazione ad agire, un elemento di tutela non previsto effettivamente dalla legislazione europea. Il legislatore italiano ha infatti attribuito agli enti che risultano iscritti nell’apposito albo costituito presso il Ministero non solo la possibilità di agire in giudizio a sostegno o in sostituzione di una persona concretamente lesa dalla discriminazione, ma ha anche attribuito una legittimazione in nome proprio, nei casi almeno di discriminazione collettiva in cui non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione (art. 5, d.lgs. 215/03). È appunto in applicazione di questa disposizione che le ricorrenti si sono rivolte al giudice fiorentino.
È da osservare, però, che la direttiva 2000/43/CE, all’art. 3, par. 2, esclude esplicitamente dal suo campo d’applicazione la nazionalità e la Corte di giustizia si è rifiutata di estendere la protezione rispetto a tale fattore in via interpretativa[5].
Ciononostante, nel diritto dell’UE, la tutela avverso la discriminazione per la nazionalità di cittadini di paesi terzi ha trovato altri canali. Essa, infatti, non si estrinseca attraverso una protezione generalizzata, nei confronti della semplice condizione di straniero, quanto, piuttosto, nella garanzia della parità di trattamento in favore di specifiche categorie di cittadino di paese terzo, individuate e disciplinate da puntuali direttive. Ogni direttiva prevede un diverso ambito materiale cui si applica la parità di trattamento, differenziato a seconda della specifica categoria di straniero presa in considerazione. Inoltre, in occasione del recepimento delle direttive, a ciascuno Stato è lasciata la possibilità di ulteriormente circoscrivere la portata materiale delle clausole di parità, sia pure entro i limiti tratteggiati dalle direttive stesse[6].
Per quanto riguarda il rimedio processuale attivabile per garantire le clausole di parità, le diverse direttive non hanno previsto alcunché, lasciando dunque agli stati piena autonomia quanto alla scelta dei relativi strumenti di protezione, sebbene nel rispetto dei limiti, da tempo sanciti dalla Corte di giustizia, dei principi di equivalenza e effettività[7].
Il legislatore italiano ha dato trasposizione alle diverse direttive e segnatamente, per venire ai fatti di causa, ha adottato in relazione ai lungo soggiornanti il d.lgs. n. 3 dell’8 gennaio 2007 e, circa la direttiva permesso unico lavoro, il d.lgs. 40 del 4 marzo 2014. Esso, però, non ha disciplinato un rimedio giudiziale specifico per quanto riguarda la violazione delle clausole di parità, né ha fatto uso delle possibilità di deroga del campo di applicazione materiale di dette clausole.
Nel frattempo, con l’art. 28 del d.lgs. 150/2011, si è dettata una disciplina processuale unitaria per le azioni in materia antidiscriminatoria, prevedendo che tanto alle azioni civili azionate ex art 44 del TUI quanto a quelle per far valere una discriminazione contro la razza e l’origine etnica, ai sensi del d.lgs. n. 215 del 2003, fosse applicabili uno schema processuale comune e comuni poteri al giudice. L’art. 28, c. 5 del d.lgs. n. 50 del 2011 stabilisce, infatti: «Con la sentenza che definisce il giudizio, il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato dal provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente».
Rispetto al tratteggiato quadro normativo, conviene inoltre ricordare almeno tre ulteriori profili che si sono andati radicando nella prassi giurisprudenziale e che appaiono tutti direttamente pertinenti per la comprensione dei fatti di causa.
Il primo è la pacifica giurisdizione del giudice ordinario anche laddove il convenuto sia rappresentato dalla pubblica amministrazione contro cui si fa valere non già una semplice condotta discriminatoria, ma l’assunzione di un atto discriminatorio[8], nonché il potere del giudice di ordinare la condanna al risarcimento del danno e alla rimozione dell’atto.
In secondo luogo, sotto il profilo della legittimazione ad agire, solo il d.lgs. 215 del 2003 – dunque nell’ambito della discriminazione per la razza e l’origine etnica – contempla in capo alle associazioni iscritte presso il Ministero una legittimazione ad agire in proprio in caso di discriminazione collettiva in cui non siano individuabili le persone lese. Tuttavia, la giurisprudenza della Cassazione ha ritenuto che, per ragioni di sistematicità e di raccordo col principio costituzionale di uguaglianza, la disciplina testualmente prevista in relazione alle discriminazioni per la razza e l’origine etnica andasse ad applicarsi anche alle condotte discriminatorie per la nazionalità, ai sensi dell’art. 44 del TUI[9].
Infine, nel silenzio del legislatore italiano che, come detto, in sede di trasposizione delle diverse direttive nulla ha previsto a riguardo, alle controversie in cui si invochi il rispetto delle clausole di parità di cui alle direttive europee si è ritenuto di applicare lo schema processuale di cui all’art. 28 del d. lgs. n. 150 del 2011, considerando che in tali situazioni venga comunque in gioco una discriminazione per la nazionalità ex artt. 43 e 44 TUI.
Come si vede, dunque, ai profili di per sé complessi del diritto antidiscriminatorio di matrice interna, che attengono sia alla posizione di diritto soggettivo fatta valere in giudizio e ai connessi poteri del giudice laddove il convenuto sia la PA, sia agli aspetti legati alla legittimazione ad agire di enti esponenziali dell’interesse alla parità di trattamento, si devono aggiungere quelli determinati dalla possibile incidenza esercitata dal diritto Ue e dunque l’operatività dei tradizionali meccanismi che ne garantiscono il pieno rispetto: rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, efficacia diretta, primato, interpretazione conforme [10].
E sotto quest’ultimo profilo è da osservare che proprio il diritto antidiscriminatorio ha costituito e continua a costituire un difficile banco di prova per testare i rapporti tra ordinamento interno e quello europeo, come comprovato dal fatto che il relativo contenzioso ha impegnato tutte le giurisdizioni, incluse la Corte di Cassazione e la Corte costituzionale, con il coinvolgimento diretto della Corte di giustizia[11].
La sentenza 15/2024 della Corte costituzionale rappresenta, da questo punto di vista, un’ulteriore evidenza. Ad essa, dunque, è necessario dedicare qualche cenno, anche in ragione del richiamo ad essa svolto dal giudice fiorentino.
2.1. e il precedente della sentenza n. 15/2024 della Corte Costituzionale
La sentenza 15/2024 della Corte costituzionale ha definito due distinti ricorsi: il primo è originato da un conflitto di attribuzioni tra la Regione Friuli Venezia-Giulia e lo Stato; il secondo ha riguardato una questione di costituzionalità avente ad oggetto una disposizione di legge regionale. I fatti da cui sono scaturiti i due ricorsi hanno, però, una medesima origine. La Regione aveva disciplinato, con fonte legislativa, un contributo regionale per l’acquisto di alloggio da destinare a prima casa di abitazione, escludendo quanti risultassero proprietari di altro immobile. La legge regionale prevedeva una clausola, poi riprodotta in una fonte regolamentare, che distingueva tra cittadini dell’UE e quelli di paesi terzi quanto alle modalità relative alla dimostrazione di impossidenza di immobili. Mentre per i primi era sufficiente un’autodichiarazione, per i secondi, invece, la dimostrazione di non essere proprietari di altri alloggi nei rispettivi paesi d’origine era molto più onerosa.
La disciplina regionale aveva determinato un vasto e aspro contenzioso con soluzioni diverse, nella giurisprudenza di merito, quanto alla possibilità per il giudice di ordinare alla PA la modifica – e dunque anche l’abrogazione – della norma regolamentare, ma riproduttiva della legge, laddove in violazione delle clausole di parità previste dalle summenzionate direttive europee, norme dotate di efficacia diretta.
Secondo una prima ricostruzione, applicata da parte del Tribunale di Udine[12] e che era alla base del conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione, il giudice, adito ex art. 28 d.lgs. 150/2011, ben potrebbe, ai sensi del c. 5 ultimo periodo di tale articolo, disporre nel senso sopra indicato e dunque ottenere, per tale via, la rimozione definitiva della norma e dunque un rimedio che consenta di soddisfare anche le potenziali future persone lese dall’atto discriminatorio.
Secondo, invece, una seconda ricostruzione, fatta propria dallo stesso Tribunale di Udine ma in diversa composizione, laddove la norma regolamentare riproduca una norma di legge, al giudice ordinario sarebbe precluso ordinare la modifica della norma, dovendosi necessariamente sollevare questione di costituzionalità della disposizione di legge regionale, anche se in conflitto con una norma UE dotata di efficacia diretta. Allo stesso tempo, però, in relazione ai soli ricorrenti che hanno lamentato in giudizio la loro concreta esclusione dal beneficio, in ragione di provvedimenti di diniego adottati dalla PA sulla base del disposto normativo illustrato in precedenza, il giudice dovrebbe applicare subito la normativa dell’UE e ordinare all’amministrazione la cessazione della condotta discriminatoria e la rimozione degli effetti di questa, attraverso l’emissione di un provvedimento di ammissione al beneficio.
Il giudice, dunque, opererebbe, cumulativamente, secondo due distinti rimedi e due diverse soluzioni processuali: la disapplicazione della norma interna e l’applicazione della norma UE dotata di efficacia diretta (rectius, l’ordine all’amministrazione di applicare la norma UE direttamente applicabile), al fine di rimediare a situazioni di avvenuta discriminazione, individuate in ragione dei soggetti ricorrenti; la rimessione alla Corte costituzionale laddove il giudice intenda rimuovere con effetti generalizzati e anche pro futuro la condotta discriminatoria della PA determinata dalla legge regionale.
È questa seconda soluzione a ricevere l’avallo da parte della Corte costituzionale.
La Corte, infatti, riconosce la specificità del diritto antidiscriminatorio e dei rimedi previsti ex art. 28 del d.lgs. 150/2011, cui si sommano le particolari garanzie del diritto dell’UE, laddove, appunto, il relativo principio di parità di trattamento trovi una copertura eurounitaria. Essa ammette, infatti, che il giudice possa ordinare alla PA anche la modifica di una norma regolamentare (o di un atto amministrativo generale, come il bando), laddove sia questa a contenere la norma discriminatoria, e non la legge. Laddove, invece, il regolamento riproduca una norma contenuta in una legge, allora è necessario distinguere.
La Corte rileva, infatti, che il giudizio antidiscriminatorio offre un «concorso di rimedi che possono svolgersi anche in momenti successivi» (punto 6.2 del considerato in diritto). In un primo momento, al fine di dare tutela a una lesione attuale e immediata, il giudice è chiamato ad accertare il carattere discriminatorio dell’atto o comportamento; a condannare al risarcimento del danno non patrimoniale; a ordinare la cessazione della discriminazione e l’adozione di provvedimenti tesi a rimuoverne gli effetti. In un secondo momento, invece, al fine di «impedire in futuro il ripetersi e il rinnovarsi di quelle stesse discriminazioni non solo nei confronti dei soggetti che hanno agito in giudizio, ma anche di qualsiasi altro soggetto che potrebbe potenzialmente essere vittima» (punto 6.2 considerato in diritto), il giudice può ordinare l’adozione di un piano di rimozione della discriminazione espressamente accertata e in tale contesto ordinare la modifica di una norma regolamentare.
Ebbene, questa seconda soluzione non sarebbe disponibile al giudice qualora la norma secondaria riproduca una norma di legge. A impedire questa soluzione vi sarebbe il principio di legalità, non potendo il giudice ordinare all’amministrazione di adottare regolamenti confliggenti con la legge anche se illegittima. In tali situazioni, il giudice deve sollevare questione di costituzionalità della legge e ciò anche se la disposizione legislativa contrastasse con una norma UE dotata di effetti diretti.
Infatti, il giudice adito garantirebbe il primato del diritto UE dando soddisfazione ai ricorrenti individualmente lesi dalla condotta discriminatoria della PA, ordinando pertanto all’amministrazione di attribuire il bene della vita negato. Ma, al fine di evitare la discriminazione de futuro, e, quindi, quando si tratti di attivare un rimedio dal carattere proattivo quale l’ordine della modifica del regolamento, «non viene più in rilievo l’esigenza che il diritto dell’Unione europea dotato di efficacia diretta trovi immediata applicazione perché tale esigenza è stata, appunto, già pienamente soddisfatta». Piuttosto, secondo la Corte, in tali casi «viene in gioco, invece, una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione […]» (punto 7.3.3 considerato in diritto).
La soluzione individuata dalla Corte costituzionale, applicabile solo laddove si intenda eliminare con efficacia generalizzata una norma di legge in conflitto con clausole antidiscriminatorie, si accosta per certi versi e per altri si discosta[13] da quella elaborata, sempre dalla Corte costituzionale, a partire dall’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269/2017, poi ulteriormente precisata e “temperata”[14] nelle successive sentenze 20, 63, 112 del 2019. Secondo questa giurisprudenza, quando il giudice abbia il dubbio che una disposizione di legge confligga tanto con disposizioni della Carta, dotate di efficacia diretta, quanto con la Costituzione, egli può decidere se rivolgersi alla Corte di giustizia, col rinvio pregiudiziale, assumendo come parametro le disposizioni della Carta, oppure alla Corte costituzionale, invocando profili costituzionali o anche dell’UE (in via mediata ex art. 11 e 117, c. 1 Cost.)[15].
Se ne accosta, perché, al pari di quella, il relativo accentramento in capo alla Corte costituzionale viene giustificato dalla necessità di garantire la certezza del diritto e una soluzione, quale appunto la rimozione della legge previa sua dichiarazione di incostituzionalità, che produca effetti generalizzati, dunque uniformi, per l’intero ordinamento nazionale.
Se ne discosta, perché, mentre nel modello della 269 vi è una facoltà di rimessione alla Corte costituzionale, qui, invece, si tratterebbe di un vero obbligo di promuovere la relativa questione incidentale[16].
In secondo luogo, nel sistema delineato dalla sentenza 269/2017, questa alternatività dei rimedi opererebbe in relazione a controversie in presenza di un sospetto contrasto della legge interna con un diritto fondamentale tutelato sia dalla Costituzione nazionale sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[17]. Nell’ipotesi, invece, delineata dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, il necessario incidente di costituzionalità opererebbe in ragione del fatto che il giudice intende garantire, con un rimedio specifico del diritto antidiscriminatorio – il piano di rimozione della discriminazione –, la espunzione definitiva della norma di legge che determina la violazione della parità di trattamento. La rimessione alla Corte, dunque, si dà a prescindere dal fatto che il giudice comune abbia fatto esplicito e formale riferimento, nell’ordinanza di rimessione, alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[18].
Vero è che tale distinzione può forse avere un senso appunto nei casi di formale omissione di ogni riferimento ai diritti della Carta nell’ordinanza di rimessione. In termini, invece, sostanziali, si deve concordare con quella dottrina che sottolinea criticamente come la Corte costituzionale e i giudici comuni sembrino attrarre nel “modello 269 temperato” situazioni in cui il parametro della Carta dei diritti fondamentali dell’UE sia semplicemente evocato, senza che venga davvero in gioco un problema di effettiva compatibilità con un diritto ivi sancito. E da questo punto di vista, anche sulla base delle argomentazioni da ultimo formulate nella sentenza 181/2024, è difficile non ravvedere sempre nelle controversie antidiscriminatorie un “tono costituzionale”, stante il nesso con interessi e principi costituzionali e della Carta[19].
Infine, mentre nel contesto delineato dalla sentenza 269/2017 la concorrenza tra rimedi riguarda il rinvio pregiudiziale rispetto alla questione di costituzionalità, ciò che presuppone un dubbio sulla compatibilità della norma, nell’ipotesi di cui alla sentenza 15/2024 l’alternativa è, come osservato in dottrina, tra disapplicazione e dichiarazione di incostituzionalità[20] e, dunque, aggiungiamo noi, il dubbio ben potrebbe non esserci[21]. Anche qualora il giudice fosse convinto del contrasto con la normativa UE dotata di efficacia diretta, nei casi almeno in cui venisse adito solo attraverso un’azione di carattere collettivo, come appunto avvenuto nella controversia dinnanzi al Tribunale di Firenze, egli non potrebbe che rimettere alla Corte costituzionale, non essendoci una vittima identificata cui sia possibile garantire, separatamente, il bene della vita attraverso la disapplicazione della legge e l’applicazione puntuale e circoscritta della norma UE dotata di efficacia diretta.
3. Qualche considerazione critica
Date le opportune indicazioni di contesto, è necessario ora muovere all’analisi dell’ordinanza del giudice fiorentino. Le riflessioni si articoleranno secondo due prospettive. La prima considererà la scelta dell’organo giudicante di effettuare la rimessione di costituzionalità della disposizione di legge regionale, facendo così applicazione del percorso procedurale che la Corte costituzionale ha appunto definito nella sentenza 15/2024. Si tratta di una soluzione, quella prescelta dal giudice fiorentino, comprensibile, quasi “obbligata”, in ragione appunto del più volte richiamato arresto. Ciononostante, ci si interrogherà, se questa strada – che, in effetti, era stata chiesta dalle stesse ricorrenti – fosse l’unica percorribile e comunque quella più adatta a garantire l’effettività del rimedio nella prospettiva del diritto dell’UE. Si ritiene, infatti, che esistano ragioni per ritenere che l’applicazione immediata della norma di parità, contenuta nella direttiva, possa continuare ad essere almeno una via percorribile, a nostro parere anche preferibile, rispetto alla questione incidentale alla Corte costituzionale.
La seconda prospettiva di analisi guarderà, invece, alle ragioni che militano a favore della incompatibilità tra la disposizione della legge regionale e la clausola di parità contenuta nella direttiva 2003/109/CE.
3.1. La disapplicazione della legge: soluzione impraticabile?
Venendo dunque al primo profilo, il giudice fonda la decisione di sollevare la questione di costituzionalità della legge regionale su due distinte argomentazioni.
Quanto alla prima, il giudice sembra dubitare dell’efficacia diretta dell’art 11, par. 1 lett. f) della dir. 2003/109 in relazione ai fatti di causa. Sarebbe, infatti, la stessa direttiva, all’art. 11, par. 4, a consentire agli Stati membri di limitare la parità di trattamento ai casi in cui il cittadino lungo soggiornante abbia eletto dimora o risieda abitualmente nel territorio statale. Detta possibilità sarebbe idonea a far venir meno l’efficacia diretta della disposizione. Senonché, è lo stesso giudice a non ritenere questa argomentazione pienamente convincente. Egli ricorda, infatti, come la Corte di giustizia abbia sottolineato in più occasioni che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista dalla direttiva unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato, per l’attuazione di tale direttiva, abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta. E come il giudice rileva, allo stato degli atti non risulta che la Repubblica italiana abbia manifestato tale intenzione.
È, dunque, sulla base di una seconda argomentazione che il giudice decide per la rimessione alla Corte costituzionale e questa è, appunto, rappresentata dalla ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, cui il giudice mostra di aderire, riportando nel testo ampi stralci.
È una prospettiva, quella delineata dalla Consulta e appunto fatta propria dal Tribunale di Firenze, cui riteniamo si possano muovere alcuni rilievi critici, anche sul presupposto che, diversamente dal caso deciso dalla Corte costituzionale, il Tribunale di Firenze è chiamato a pronunciarsi unicamente su di un’ipotesi di discriminazione a carattere collettivo in cui, dunque, non ci sono “vittime” individuate che agiscano in nome proprio, ma solo enti esponenziali che chiedono, in via principale, la modifica dell’atto suppostamente discriminatorio. In questo caso, quindi, la cumulabilità dei rimedi (disapplicazione e questione di costituzionalità), applicabile alla controversia decisa dalla Corte costituzionale, non potrebbe operare e si darebbe solo la via della questione di costituzionalità.
Conviene, in primo luogo, muovere dai principi che fondano i rapporti tra norme dell’ordinamento dell’UE e quelle dell’ordinamento nazionale. Come noto, infatti, il primato del diritto dell’UE richiede che il giudice nazionale, quando ritenga, anche eventualmente all’esito di un rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia, che la normativa interna sia incompatibile con quella del diritto UE, dotata di efficacia diretta, non applichi (secondo la ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale nel caso Granital che postula, richiamandosi al criterio di competenza, che la norma interna sia valida ed efficace, ma appunto non sia quella competente) – o disapplichi (secondo la ricostruzione offerta dalla Corte di giustizia, a partire dal caso Costa e poi Simmenthal, per cui la disapplicazione sarebbe la conseguenza del fatto che la norma interna non si sia formata validamente) – la norma interna. Entrambe le prospettive, però, convergono sul fatto che il giudice debba applicare la norma del diritto dell’Ue dotata di efficacia diretta, che, per definizione, è incondizionata e dunque non subordinata all’emanazione di ulteriori atti normativi.
Quale sarebbe la norma di diritto dell’UE dotata di efficacia diretta applicabile al caso di specie?
Ci sembra che la norma applicabile sia la clausola, contenuta nell’art. 11 della dir. 2003/109/CE (ma anche nell’art. 12 dir. 2011/98/UE) che impone la parità di trattamento tra cittadini nazionali e quelli lungo soggiornanti, norma sulla cui efficacia diretta la Corte di giustizia si è più volte pronunciata, anche in relazione a controversie sorte in relazione all’accesso all’edilizia residenziale pubblica[22].
Ne deriva che, al fine di rimuovere la discriminazione anche pro futuro, il giudice non abbia affatto bisogno di ordinare all’amministrazione la modifica dell’atto regolamentare o, come nel caso di specie, dell’atto ammnistrativo generale, riproduttivo di norma di legge[23]. Al fine di far cessare la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti, come prevede la prima parte dell’art. 28, c. 5 d. lgs. 150/2011, è sufficiente, una volta accertata la discriminazione, che egli condanni l’amministrazione ad applicare la … legge alla generalità dei casi. Questa non è evidentemente la legge regionale, ma la norma di diritto dell’UE, che è quella correttamente applicabile, tanto ai casi individuali, di persone concretamente lese, qui non presenti, quanto pro futuro per (asserite) vittime ipotetiche.
Non pare che a questa ricostruzione faccia ostacolo l’argomento tratto dal principio di legalità. In effetti, questo profilo sembra usato in modo un po’ contraddittorio dalla Corte costituzionale. Laddove, infatti, si tratti di dare soddisfazione alla singola vittima, concretamente lesa dall’attività dell’amministrazione, il giudice ben potrebbe soddisfare la pretesa di quest’ultima, ordinando all’amministrazione l’applicazione della norma UE, che, dunque, sarebbe in questi casi il fondamento legislativo dell’agire della PA. Al contrario, laddove si trattasse di soddisfare non una vittima concreta, ma solo futuribile (almeno nella prospettiva fatta propria dalla Corte), la norma UE dotata di efficacia diretta – la clausola di parità della direttiva – non dispiegherebbe più alcun effetto sull’ordinamento nazionale e l’agire della PA tornerebbe ad essere retto solo dalla prospettiva delle norme interne. A noi pare che la norma UE non possa essere ritenuta a efficacia intermittente. Essa deve ritenersi applicabile in entrambe le situazioni e soddisfare così in tutti e due i casi i vincoli derivanti dal principio di legalità.
In secondo luogo e ad ulteriore sostegno di quanto si sta osservando, è da sottolineare che il primato non si applica solo ai giudici, ma alla stessa amministrazione[24]. È questo un principio che discende dall’obbligo di leale collaborazione tra Ue e Stati membri (art. 4, par. 3 TUE) e che si applica evidentemente a tutte le componenti dello Stato e dunque anche alle amministrazioni degli enti territoriali, quali la Regione e il Comune. L’amministrazione comunale sarebbe già tenuta, di suo, a non applicare la norma interna, sia questa regolamentare o legislativa, laddove essa fosse in contrasto con altra norma di diritto dell’UE dotata di efficacia diretta, in quanto, per la prospettiva della Corte di giustizia, non potrebbe ritenersi validamente prodotta. È la stessa Corte costituzionale, del resto, a ricordare questo aspetto (punto 8.2 considerato in diritto). Il fatto che l’amministrazione «per mancata contezza della predetta incompatibilità o in ragione di approdi ermeneutici che la ritengano insussistente» (sempre punto 8.2 del considerato in diritto) continui ad utilizzare le norme interne in contrasto col diritto UE, anziché quelle dell’UE, non fa venir meno l’illiceità della condotta.
Un ulteriore elemento di perplessità, poi, è rappresentato dalla qualificazione in termini solo meramente potenziali della condotta suppostamente discriminatoria, come se la norma della legge regionale non fosse idonea a determinare una discriminazione già attuale, ma solo appunto pro futuro.
L’assenza di una vittima “reale”, concreta, che reclami il bene della vita in giudizio, non rende meramente potenziale la discriminazione. La norma di legge e/o la clausola del bando che attua quella norma, infatti, hanno già scoraggiato, scoraggiano e continueranno a scoraggiare eventuali richiedenti dal presentare la domanda e ciò accadrà anche per tutto il periodo necessario per la relativa pronuncia di costituzionalità[25], rendendo attuale e immediata la lesione del bene della vita.
Il punto è stato affrontato dalla Corte di giustizia nelle sentenze Feryn[26], Asociația Accept[27] e Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford [28]. Organismi pubblici di parità o soggetti esponenziali della società civile – tutti legittimati ad agire dal rispettivo diritto nazionale[29] – ricorrevano in giudizio per far accertare la condotta discriminatoria di datori di lavoro che, con dichiarazioni pubbliche, avevano lasciato intendere di praticare, in relazione all’assunzione, pratiche discriminatorie. Anche qui, dunque, si verteva in un’ipotesi in cui non vi era in giudizio una persona concretamente e direttamente lesa dal comportamento discriminatorio. La Corte ha ciononostante stabilito: «Il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale configura una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 luglio 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in quanto siffatte dichiarazioni sono idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal presentare le proprie candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro»[30].
Come si vede, dunque, la discriminazione (diretta, in questo caso) è accertata anche se, all’evidenza, non vi era prova che la dichiarazione resa avesse, nei fatti, determinato una concreta lesione a un soggetto individuato.
È vero, peraltro, che nel caso fiorentino l’applicazione della cd. discriminazione da scoraggiamento sarebbe determinata non già da semplici dichiarazioni, ma da un atto normativo, espressione dunque di discrezionalità politica dei competenti organi.
Inoltre, è vero che la Corte di giustizia non si è mai pronunciata sulla possibilità di estendere tale anticipazione della tutela della discriminazione anche alle clausole di parità di cui alla direttiva lungo soggiornanti.
Non sembrano, tuttavia, esserci ragioni per negare tale possibile sviluppo. L’integrazione sociale dei cittadini di paesi terzi, dotati dello status di lungo soggiornante (cons. 12 del preambolo), è tra le finalità dichiarate della direttiva 2003/109/CE. E sarebbe agevole osservare che una norma, quale quella della Regione Toscana (e/o la clausola del bando comunale), è certamente idonea a ostacolare questo obiettivo. Inoltre, come si vedrà in relazione alla nozione di discriminazione indiretta, sebbene quest’ultima sia affermata testualmente solo nelle direttive antidiscriminatorie adottate ex art. 13 TCE (oggi 19 TFUE), ma non anche nella clausola di parità di cui alla direttiva lungo soggiornanti, la Corte di giustizia l’ha ugualmente applicata anche a queste ultime situazioni. Segno, dunque, che la nozione di discriminazione di cui alle direttive ex art. 13 TCE/19TFUE e la giurisprudenza che su di essa si è formata sono espressione di principi più generali, applicabili ogniqualvolta si controverta in materia di disparità di trattamento.
Il richiamo agli arresti giurisprudenziali della Corte di giustizia di cui sopra è, inoltre, importante per un altro profilo. La Consulta sembra suggerire che l’ordine da parte del giudice nazionale di adottare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, ai sensi dell’art. 28, c. 5 ultimo periodo del d.lgs. 150/2011 – categoria cui la Corte riconduce anche l’ordine all’amministrazione di modificare una norma regolamentare –, sarebbe «una forma rimediale peculiare e aggiuntiva», venendo in gioco «una logica interna all’ordinamento nazionale».
Ciò è senz’altro vero. Come detto, la direttiva 2003/109/CE non contiene indicazioni quanto ai profili della tutela giudiziale[31]. Tuttavia, ciò non toglie che, quando il giudice è adito per far valere la clausola di parità di cittadini di paesi terzi lungo soggiornanti, la situazione ricada pur sempre nell’ambito di applicazione del diritto UE. Ne consegue che l’autonomia processuale degli Stati deve sottostare al rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, quest’ultimo letto nel prisma dell’art. 47 della Carta[32].
Ed è dunque alla luce di tale principio che conviene interrogarsi se sia conforme al diritto dell’UE un meccanismo processuale che, una volta che riscontri la discriminatorietà dell’agire dell’amministrazione e la sua idoneità a produrre già in modo concreto e attuale discriminazioni a danno di una pluralità di soggetti, sia pure non immediatamente identificabili, non disponga di uno strumento per rimediarvi in via immediata.
Ci sembra che rimangano intatte – ed applicabili al caso di specie – le ragioni che, nella sentenza Simmenthal, hanno portato la Corte di giustizia a ribadire che i giudici di ogni grado debbano, all’occorrenza, disapplicare la norma interna confliggente con la norma Ue dotata di efficacia diretta: l’immediatezza della tutela per i singoli, da un lato; l’esigenza di dare uniforme applicazione al diritto UE in tutti gli stati membri (corsivo nostro)[33].
La certezza e l’uniforme applicazione non sono principi che vanno declinati avendo di mira la sola dimensione nazionale, ma devono essere predicabili all’insieme degli Stati membri e dunque tradursi in un rimedio che garantisca a tutti i giudici, di tutti gli Stati membri, la possibilità di dare piena e concreta soddisfazione ad una pretesa fondata sul diritto UE, nonché, eventualmente, di chiedere alla Corte di giustizia una sentenza con cui quest’ultima possa assolvere alla sua funzione nomofilattica sul territorio europeo. Del resto, è stato proprio il fatto che nei paesi dell’allora CEE vi fossero tradizioni giuridiche diverse quanto alle modalità di recepimento del diritto internazionale pattizio (e, dunque, del diritto comunitario) e delle modalità con cui risolvere le eventuali antinomie rispetto al diritto interno[34], a spingere la Corte di giustizia ad individuare un rimedio, come la disapplicazione dell’atto interno, che è sì nella disponibilità di tutti i giudici nazionali, ma che sconta, per sua stessa struttura, la possibilità di contrasti giurisprudenziali nella sua concreta applicazione. Non è poi superfluo ricordare la centralità che la Corte di giustizia attribuisce al giudice comune, anche in una prospettiva di equilibrio istituzionale e di indipendenza interna della magistratura, necessaria per garantire lo stato di diritto e l’effettività del diritto dell’Unione[35].
Vero è che nella sentenza Melki e Abdeli[36] e A[37] il giudice del Lussemburgo sembra considerare compatibile con il diritto dell’Ue una disciplina nazionale che preveda l’obbligo di avviare un procedimento incidentale di costituzionalità che impedirebbe al giudice nazionale di disapplicare immediatamente una disposizione legislativa nazionale che ritenga contraria al diritto UE, ma lo ha fatto precisando che il giudice deve essere libero in ogni momento, anche successivo all’intervenuta sentenza dell’organo di legittimità costituzionale, di rimettere la questione pregiudiziale alla Corte; di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione e di poter comunque disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, le norme interne se le ritengano contrastanti col diritto dell’Unione (corsivo nostro)[38].
E, tuttavia, in casi successivi alle sopraccitate sentenze, la Corte di giustizia ha ribadito la precedente dottrina Simmenthal per cui, laddove non vi siano dubbi quanto all’incompatibilità della norma interna con la norma Ue dotata di efficacia diretta, vi è la necessità di dare piena e immediata efficacia alle norme Ue, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi normativa o prassi nazionale, anche posteriore, che sia contraria a una disposizione del diritto dell’Unione dotata di efficacia diretta, senza dover chiedere o attendere la rimozione di tale normativa o prassi nazionale in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (corsivo nostro)[39].
Del resto, se, come osservato in precedenza, il primato impone già all’amministrazione di applicare il diritto dell’Ue, laddove dotato di efficacia diretta, e ciò evidentemente senza necessità che vi sia una previa pronuncia del giudice costituzionale, sembrerebbe contraddittorio ritenere che, nel caso del giudice comune, tale possibilità venga appunto condizionata dalla previa rimessione alla Corte costituzionale.
Inoltre, si creerebbe una diversità nel rimedio a seconda che vi sia o meno una vittima “concreta” o solo “potenziale” nella condotta discriminatoria della Pa: nel primo caso, questa, attivandosi in giudizio, otterrebbe, secondo lo schema delineato dalla Corte costituzionale nella sentenza 15/2024, la disapplicazione della legge e la soddisfazione immediata del bene della vita, mentre nel secondo caso, e nonostante, come si sia cercato di dimostrare prima, la lesione sia già in atto, si potrebbe ottenere solo un rimedio prospettico. È da considerare, a riguardo, che la vittima potrebbe essere assolutamente reale, nel senso di esistente, ma, anche in ragione della strutturale debolezza delle parti in questo tipo di giudizio, aver confidato nell’attivazione in giudizio da parte degli enti esponenziali secondo lo schema del ricorso collettivo. Si creerebbe, dunque, una diversità di tutela e, a monte, di trattamento che mette in discussione, in quest’ultimo caso, l’imparzialità dell’agire della PA, tenuta a rispettare sempre la medesima norma di legge.
In questo senso, potrebbe essere opportuno un chiarimento alla Corte di giustizia circa i limiti di tale obbligo di rimessione alla Corte costituzionale nel caso appunto descritto.
Alla luce di tutte queste osservazioni, ci si chiede se non ci possa essere spazio per una soluzione alternativa che, pur tenendo ferme le esigenze interne di certezza del diritto e dell’ordinato rapporto tra fonti, possa contemperare le ragioni dell’effettività del rimedio e del rispetto del diritto UE.
Il giudice, dunque, in una situazione quale quella descritta, laddove fosse convinto della incompatibilità della disposizione di legge con la clausola di parità di trattamento, potrebbe già, in applicazione della prima parte dell’art. 28 d.lgs. 150/2011, accertare la discriminazione da parte dell’amministrazione e condannarla al risarcimento del danno; ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio, intimando di non dare applicazione alla norma interna discriminatoria e confliggente con norma UE e, al fine di rimuovere gli effetti discriminatori, ordinare all’amministrazione di l’applicare alla generalità dei casi la norma di parità di cui alla direttiva. Tutto questo si baserebbe proprio sul presupposto che l’amministrazione opererebbe dando attuazione alla direttiva, rispettando, dunque, il principio di legalità.
In alternativa, e secondo una valutazione libera, laddove si ritenesse di dare precedenza ai valori della certezza del diritto sul piano interno, anziché a quelli di immediatezza della tutela, potrebbe effettuare la rimessione alla Corte costituzionale, ma, secondo l’insegnamento della Corte di giustizia in Melki, dovrebbe poter «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»[40], garantendo, dunque, in termini interinali la sospensione della legge. Questa ipotesi, dunque, rappresenterebbe un’applicazione della “269 temperata”, che si giustificherebbe stante il coinvolgimento di principi presenti tanto nella Carta quanto in Costituzione e in ragione dell’ “impatto sistemico”, di cui ragiona la Consulta nella recente sent. 181/2024.
3.2. Le ragioni dell’incompatibilità del requisito di residenza regionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti
Posto, dunque, che la norma di parità di cui alla direttiva 2003/109/CE è dotata di efficacia diretta, la clausola della storicità della presenza, prevista dalla legge regionale della Toscana, può dirsi in conflitto con essa? Detto in altri termini, la parità di trattamento di cui alla direttiva copre anche la discriminazione indiretta, quale, appunto, sarebbe quella determinata dall’uso della durata della residenza? E se sì, entro che limiti deve essere articolato il relativo giudizio di valutazione della giustificazione e proporzionalità della misura?
Gli interrogativi ci portano a valutare gli argomenti che il giudice ha posto in punto di non manifesta infondatezza relativamente al parametro di cui all’art. 117 , c. 1 Cost., cui vorremmo dedicare qui maggiore rilievo, anche per continuità tematica col discorso in precedenza sviluppato[41].
L’ordinanza di rimessione, in effetti, si rifà a una serie di pronunce in cui la Corte di giustizia ha valutato, in relazione al divieto di non discriminazione tra cittadini nazionali e quelli dell’UE, talune disposizioni nazionali che subordinavano l’accesso a prestazioni sociali a requisiti di residenza prolungata nello stato in questione.
Secondo il giudice fiorentino, da tale giurisprudenza si evincerebbe che la Corte di giustizia non avrebbe del tutto escluso l’ammissibilità di criteri volti a misurare il “nesso reale” tra il richiedente la prestazione e lo stato erogatore, come appunto un requisito di previa residenza continuativa, sempreché con essi si intenda perseguire uno scopo legittimo, siano idonei e proporzionati a raggiungere tale scopo e non siano troppo esclusivi[42].
Sulla base di tale giurisprudenza, il giudice di Firenze ritiene che l’elevata valorizzazione della residenza pregressa, di cui alla legge regionale, non offrendo una prognosi sulla stanzialità futura, non sia idonea a perseguire lo scopo di favorire chi probabilmente si radicherà in Regione. In ogni caso, il criterio finirebbe per tradursi in un mezzo di postergazione automatica di quanti, pur avendo un maggior bisogno soggettivo, sono presenti da minor tempo in regione.
Credo che il richiamo a queste sentenze, sebbene certamente utile per una messa a fuoco della natura sospetta del fattore “residenza” nei casi di discriminazione per la nazionalità e per considerazioni in punto di proporzionalità della misura, debba essere improntato a una certa cautela. In primo luogo, perché esse riguardano un parametro normativo diverso, quale appunto la libertà di circolazione dei cittadini UE e la parità di trattamento, che hanno rango di norma primaria (anche se poi meglio articolate e specificate nella dir. 2004/38/CE), mentre in relazione ai fatti di causa il diritto pertinente è la clausola di parità di cui alla dir. 2003/109/CE (nonché della dir. 2011/98/UE). In secondo luogo, perché la giurisprudenza della Corte di giustizia in merito al genuine link appare di particolare difficile sistematizzazione. Diversi sono, infatti, gli elementi che possono influire sull’esito delle sentenze della Corte, a partire, ad esempio, dal fatto che il requisito di previa residenza continuativa tocchi gli interessi di un cittadino UE che sia un lavoratore, ad esempio transfrontaliero, o un soggetto cd. non economicamente attivo.
Più utile, forse, per i fatti di causa sarebbe stato rifarsi alla sentenza con cui la Corte di giustizia ha ritenuto incompatibile, proprio in relazione alla clausola di parità di cui alla direttiva 2003/109/CE, il requisito di residenza decennale in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, prevista dal legislatore italiano per accedere al reddito di cittadinanza[43].
In effetti, un primo aspetto che questa sentenza ha chiarito è che la clausola di parità in questione dà tutela non solo alle disparità di trattamento direttamente fondate sulla cittadinanza, ma anche a quelle, di carattere indiretto, fondate sulla residenza e sulla durata della residenza.
Per la Corte, infatti, pur non motivando adeguatamente[44], «il principio di parità di trattamento sancito all’art. 11 della direttiva 2003/109 vieta non soltanto le discriminazioni palesi fondate sulla cittadinanza, ma anche tutte le forme dissimulate di discriminazione che, in applicazione di altri criteri distintivi, pervengono di fatto allo stesso risultato» (punto 48). E la residenza è tra questi.
La precisazione è importante. Mentre, infatti, la nozione di discriminazione indiretta è codificata in relazione ai diversi fattori discriminatori tutelati dal diritto UE (o è stata da tempo formulata dalla Corte di giustizia in relazione, ad esempio, al divieto di discriminazione per la nazionalità tra cittadini UE), non lo è in relazione alla clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva lungo-soggiornanti – come anche delle altre clausole di parità di trattamento previste nei diversi atti di diritto UE derivato, volti alla disciplina di specifici status immigratori – che si limita ad affermare il relativo principio, senza ulteriori specificazioni.
La Corte di giustizia chiarisce un ulteriore aspetto: una misura può ritenersi indirettamente discriminatoria senza che sia necessario che essa abbia l’effetto di favorire tutti i cittadini nazionali o di non sfavorire soltanto i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, ad esclusione dei cittadini nazionali (par. 51)[45].
È un chiarimento prezioso in relazione ai fatti su cui è chiamato a giudicare il giudice di Firenze. Sebbene il criterio della storicità della presenza favorisca una piccola porzione soltanto dei cittadini nazionali, quelli appunto storicamente residenti, e sfavorisca, al pari dei lungo-soggiornanti, quegli italiani trasferitisi da poco in loco da fuori regione o comune, ciò non toglie che, tra quelli esclusi a causa della durata della residenza, sia più probabile vi siano i cittadini stranieri lungo-soggiornanti.
Ma forse la parte più rilevante della sentenza – e di indubbia pertinenza per il caso fiorentino – è quanto la Corte dice in punto di possibile giustificazione della misura che determina l’impatto discriminatorio. Come noto, infatti, la nozione di discriminazione indiretta nel diritto antidiscriminatorio presuppone due passaggi: la dimostrazione da parte dell’attore che la misura determini un impatto maggiore per gli appartenenti al gruppo protetto; la prova da parte del convenuto che la misura, anche se causa un impatto più svantaggioso per il gruppo protetto, è ugualmente legittima perché persegue uno scopo legittimo ed è necessaria al raggiungimento di tale fine, sulla base di un test di proporzionalità,
Anche su questo aspetto la sentenza offre importanti spunti.
Il governo italiano, al fine di giustificare il requisito di residenza decennale e continuativa negli ultimi due anni, aveva sottolineato che il reddito di cittadinanza, poiché prevede un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, presuppone che i destinatari della misura siano soggiornanti in Italia in modo permanente e ben integrati.
La Corte respinge questo argomento sulla base di un dato testuale che si lega a uno di carattere più generale e sistematico. La direttiva consentirebbe già di prendere in considerazione la residenza come fattore derogatorio della parità di trattamento, ma lo farebbe in modo tassativo: l’art. 11, par. 4 abilita gli Stati, appunto, a limitare la parità di trattamento ai lungo soggiornanti (o ai loro familiari) che abbiano eletto dimora o risiedano abitualmente nel suo territorio. Al di fuori di tali ipotesi, uno Stato non potrebbe invocare una pretesa diversità di fatto tra cittadini lungo soggiornanti e cittadini nazionali quanto all’integrazione e al supposto legame con lo Stato di soggiorno. Infatti, l’acquisto dello status di lungo soggiornante presuppone un requisito di soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni nel Paese, che è un periodo di tempo considerato dallo stesso legislatore dell’UE sufficiente per ritenere maturato il radicamento del richiedente nel paese in questione e poter vantare, successivamente all’acquisizione di tale status, la parità di trattamento.
Ne deriva, dunque, che al di fuori dei casi di utilizzo formale della deroga, ai sensi dell’art. 11 dir. 2003/109/CE – e come visto il caso di Firenze non è tra questi -, una condizione di residenza o di durata della residenza sia sempre una misura non giustificabile e dunque discriminatoria verso i lungo soggiornanti.
In questo senso, dunque, il precedente della Corte di giustizia contiene diversi elementi che prospettano un’incompatibilità della clausola di “storicità della presenza”, di cui alla legge regionale della Toscana, rispetto alla direttiva lungo-soggiornanti. L’unico profilo su cui può residuare il dubbio – e che è lo stesso che fonda, la rimessione del giudice alla Corte costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza – è che qui la clausola che valorizza la residenza non è posta come condizione di accesso al bene, come avveniva nel contesto del reddito di cittadinanza, ma quale criterio concorrenziale, al pari di altri. E, tuttavia, a noi pare che esso sia pur sempre in contrasto con la clausola di parità della direttiva. Il fatto che il criterio discriminatorio non determini direttamente e univocamente l’esclusione dal beneficio, ma concorra assieme ad altri fattori legittimi, non fa venir meno la natura discriminatoria dello stesso.
4. Osservazioni conclusive
Le questioni trattate in questa nota trascendono, per certi profili, la dimensione dell’ordinanza di rimessione del giudice fiorentino. Esse toccano inevitabilmente la svolta indotta dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 269 del 2017, in tema di doppia pregiudiziale e ruolo del giudice in relazione all’applicazione del diritto dell’UE, di cui la sentenza 15/2024 rappresenta per certi aspetti uno sviluppo.
Si richiamano le ragioni che hanno indotto autorevole dottrina ad esprimere perplessità su questo approccio[46]. Qui ci si limita ad osservare che la promozione della certezza del diritto e della sua uniforme applicazione, che giustifica, secondo la Corte, la scelta da parte del giudice comune di sollevare la questione incidentale in alternativa ai consueti rimedi previsti dal diritto dell’Ue, non è senza conseguenze e avviene a discapito di altri interessi, egualmente rilevanti. Essa può comportare, infatti, non solo svantaggi in termini di immediatezza ed effettività della tutela del singolo, ma anche il rischio che il giudice nazionale sia indotto a preferire o comunque ad approfondire il linguaggio costituzionale, per certi versi più consueto, a quello del diritto dell’UE, come volta per volta chiarito dalla Corte di giustizia. Il diritto dell’antidiscriminazione, da questo punto di vista, rappresenta un esempio.
Ciò potrebbe comportare il rischio di un certo isterilimento nella giurisprudenza e il venir meno di un pluralismo nell’interpretazione del dato normativo che è un fattore di arricchimento complessivo del sistema. Anche perché non è detto che la Corte costituzionale, in sede di giudizio di costituzionalità, valorizzi il profilo eurounitario, limitandosi magari a fondare la decisione sul solo parametro interno, ritenendo assorbito così l’altro[47]. In questo modo, però, vi è il rischio di escludere la Corte di giustizia e di limitare la sua funzione nomofilattica, impedendo così di offrire chiarimenti nell’applicazione del diritto dell’UE valevoli per tutti gli ordinamenti nazionali, non solo per quello interno.
Se il modello della 269 rimette almeno al giudice la scelta di quale via percorrere (anche se nella sentenza 181/2024 la questione incidentale viene indicata come la “più proficua” e, dunque, in termini almeno sostanziali, come quella implicitamente preferenziale), la sentenza 15/2024 va oltre, imponendo la strada della rimessione costituzionale in un ambito certamente circoscritto ma che ha avuto applicazioni di notevole portata. Pensiamo che per la ragioni in precedenza esposte la compatibilità di questo sviluppo andrebbe quanto meno vagliata dalla Corte di giustizia.
[1] In effetti, sebbene il dispositivo si riferisca solo alla direttiva lungo-soggiornanti, nella parte motivazionale, sia pure di sfuggita, compaiono riferimenti anche alla dir. 2011/98/UE.
[2] Su questa pronuncia, in dottrina, vedi: C. Favilli, La possibile convivenza tra disapplicazione e questione di legittimità costituzionale dopo la sentenza n. 15 del 2024 del giudice delle leggi, in Rivista del Contenzioso europeo, 1, 2024, 26 ss.; L. Tomasi, Diretta applicazione del diritto UE e incidente di costituzionalità nel giudizio antidiscriminatorio: la sentenza n. 15 del 2024 della Corte costituzionale, in Lavoro Diritti Europa, 2, 2024; C. Amalfitano, La sentenza n. 15/2024 della Corte costituzionale: istruzioni per i giudici su come assicurare il primato del diritto Ue, in QC, 2, 2024, 420 ss.; O. Scarcello, Un altro passo nel processo di riaccentramento del sindacato di costituzionalità eurounitario. Nota a Corte cost., sentenza n. 15 del 2024, in Osservatorio AIC, 2, 2024; A. Ruggeri, Ancora in tema di tecniche di risoluzione delle antinomie tra norme interne e nome sovranazionali self-executing (a prima lettura di Corte cost. n. 15 del 2024), in Consulta online, 1, 2024, U. Villani, Il nuovo “cammino comunitario” della Corte costituzionale, in Eurojus, 1, 2024, 81 ss.
[3] Per una prospettiva d’insieme, vedi M. Barbera, A. Guariso, La tutela antidiscriminatoria – Fonti strumenti interpreti, Giappichelli, Torino, 2019.
[4] Tra questi: il riconoscimento, in capo ad associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche, che abbiano, secondo i criteri definiti dai legislatori nazionali, un interesse a garantire le disposizioni della direttiva, della legittimazione ad agire in nome e per conto della vittima, previo consenso di questa (art. 7); un meccanismo di alleggerimento dell’onere probatorio a favore della persona lesa dalla discriminazione (art. 8); la previsione di forme di tutela che proteggano la persona da ritorsioni in caso questa si attivi in giudizio (art. 9); l’istituzione di un organismo di parità indipendente in materia di lotta e promozione del divieto di discriminazione per la razza e l’origine etnica; la previsione che le sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive (art. 15).
[5] Corte giust., sent. 24 aprile 2012, Causa C-571/10, Kamberaj.
[6] Su questi profili, amplius W. Chiaromonte, A. Guariso, Le discriminazioni nell’accesso a beni, prestazioni e servizi pubblici, in M. Barbera, A. Guariso (cur.), op. cit., 363 ss.
[7] Sul punto, C. Favilli, op. cit., 30
[8] Cass. Sez. unite, n. 3670/2011.
[9] Cass. 11165/2017 e 11166/2017.
[10] Come osserva C. Favilli, op. cit., 29 ss.
[11] Per un evidente esempio in tal senso, la vicenda relativa all’assegno per il nucleo familiare e la sentenza della Corte cost. n. 67/2022.
[12] Vedi Trib. Udine, ordinanza 1 febbraio 2023, RG n. 38/2022, reperibile nel sito www.asgi.it. Sono state diverse, peraltro, le azioni intentate avverso tale disciplina regionale. Cfr. A Guariso, L’uguaglianza è razionale: breve storia di una discriminazione degli stranieri nella regione Friuli Venezia Giulia, in Italian Equality Network, 27 marzo 2023.
[13] Come notano L. Tomasi, op. cit., 8 e C. Favilli, op. cit., 37-38.
[14] Così C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 2, 2019.
[15] Su cui R. Mastroianni, Sui rapporti tra Carte e Corti: nuovi sviluppi nella ricerca di un sistema rapido ed efficace di tutela dei diritti fondamentali, in European papers, vol. 5, f. 1, 2020, 492 ss.; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 2, 2019, D. Gallo, Effetto diretto del diritto dell’Unione europea e disapplicazione, oggi, in Osservatorio sulle fonti, vol. 12, f. 3 2019; A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. sent. n. 20 del 2019), in Consulta Online, 1, 2019 113 ss.; R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in giustiziainsieme.it, 4 marzo 2019.
[16] Come sottolinea L. Tomasi, op. cit., p. 8.
[17] Su questa distinzione, C. Favilli, op. cit., 37
[18] In effetti, nell’ordinanza che ha portato alla sentenza 15/2024, la Carta di Nizza non compariva tra i parametri interposti richiamati dal giudice. Analogamente, in relazione ai fatti di cui alla presente nota, è da notare che le ricorrenti hanno in effetti richiamato l’art. 34 (diritto all’assistenza abitativa) e art. 21 (non discriminazione) della Carta, ma questi parametri non sono stati poi ripresi dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione.
È opportuno ricordare che in passato la Corte costituzionale è sembrata concludere nel senso dell’inammissibilità della questione, laddove il giudice omettesse il riferimento alla violazione della Carta e la controversia si potesse decidere facendo applicazione del diritto dell’UE dotato di efficacia diretta. Così almeno sembrerebbe ricavarsi dalla sentenza 67/2022 in relazione alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione circa la disciplina dell’assegno per il nucleo familiare. La questione incidentale alla Corte costituzionale viene sollevata dopo che la Cassazione aveva effettuato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e quest’ultima aveva rilevato l’incompatibilità della legge nazionale con la clausola di parità di trattamento di cui alla direttiva 2011/98/UE. La Corte costituzionale ritiene che il giudice debba procedere all’applicazione del primato, senza ulteriore coinvolgimento della Corte costituzionale. Tuttavia, al punto 1.2.1 del considerato in diritto, essa rileva che le ordinanze di rimessione non hanno evocato la violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e in particolare dell’art. 34, lasciando intendere che qualora ciò fosse stato fatto, la conclusione, in punto di inammissibilità, avrebbe potuto essere diversa.
[19] Vedi sent. 181/2024 la quale, pur riaffermando che spetta al giudice comune la scelta se intraprendere la via della questione incidentale rispetto ai rimedi del diritto euro-unitario, mostra di ritenere la prima opzione “particolarmente proficua” «qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale» (6.5 consid. in diritto). Su questa sentenza, cfr. A Ruggeri, La doppia pregiudizialità torna ancora una volta alla Consulta, in attesa di successive messe a punto (a prima lettura di Corte cost. 181 del 2024), in Giur. Cost., f. 3, 2024.
[20] Nota questo profilo, C. Favilli, op. cit., 37.
[21] In realtà, come si desume da ultimo dalla sent. 181/2024, anche nell’ipotesi del “modello 269”, l’alternativa può essere tra disapplicazione – quindi il giudice avrebbe già a disposizione una norma UE dotata di efficacia diretta – e giudizio di rimessione alla Corte finalizzato all’espunzione della norma.
[22] Corte giust., sent. 24 aprile 2012, Causa C-571710, Kamberaj.
[23] In modo conforme, in relazione alla vicenda di cui alla sen. 15/2024, mi pare argomenti, autorevolmente, A. Ruggeri, op. cit., p. 306, «Stando così le cose, non v’è, dunque, necessità di mettere in atto le procedure per la formale rimozione – in via legislativa come pure in sede di giudizio di costituzionalità – della norma antieurounitaria, dal momento che grava comunque su ogni operatore di diritto interno (non solo i giudici ma, appunto, anche amministratori e privati) l’obbligo di ignorarla, puramente e semplicemente, facendo valere al suo posto quella eurounitaria self-executing».
[24] A partire da Corte giust., sent. 22 giugno 1989, Causa C-103/88, F.lli Costanzo.
[25] Salvo ritenere che il giudice comune possa disporre la sospensione degli effetti della legge, in via cautelare, sulla base della giurisprudenza Melki, su cui infra nel testo. Del resto, la possibilità per la Corte costituzionale di provvedere in tal senso è normativamente contemplata solo per i ricorsi in via principale (vedi art. 35 della l. 87/1953, come modificato dall’art. 9 della L. 131/2003).
[26] Corte giust., sent. 10 luglio 2008, Causa C-54/07, Feryn.
[27] Corte giust., sent. 25 aprile 2013, Causa C.81/12, Asociația Accept.
[28] Corte giust., sent. 23 aprile 2020, Causa 507/18, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford.
[29] Come osservato, il diritto derivato UE non impone agli Stati membri tale soluzione, che si configura, dunque, come rimedio autonomamente previsto dal legislatore nazionale.
[30] Corte giust., sent. 10 luglio 2008, Causa C-54/07, Feryn
[31] E, per la verità, tranne i riferimenti in precedenza svolti in nota 4, nemmeno la direttiva 2000/43/CE e più in generale il sistema di tutela previsto dalle direttive fondate sull’art. 13 TCE/19 TFUE lo prevedono, pur stabilendo che gli Stati siano tenuti a prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive (art. 15 dir. 2000/43/CE).
[32] Del pari, nei casi in precedenza illustrati, la circostanza per cui la legittimazione attiva agli enti esponenziali derivasse da una norma interna e non fosse imposta dalle direttive non ha messo in discussione che le situazioni rientrassero nel campo di applicazione del diritto UE. Il punto è chiarito soprattutto dalle Conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston in Causa 507/18, Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford, mentre la Corte, entrando nel merito, lo ha implicitamente confermato.
[33] Corte giust., sent. 9 marzo 1978, Causa C-106/77, Simmenthal, cons. 14: «L’applicazione diretta va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri».
[34] Tali dunque da mettere in discussione tanto l’eguaglianza degli Stati membri dinnanzi ai Trattati (da ultimo, Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS, punto 55) quanto la parità di trattamento dei cittadini dell’UE (Corte giust, Causa C-6/64, Costa).
[35] Su questo, per il conflitto che vedeva contrapporsi giudice costituzionale rumeno e giudici comuni, si veda in particolare Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS; Corte giust., sent. 21 dicembre 2021, Causa C-357/19, C-379/19, C-547/19, C-811/19, C-840/19, Euro Box Promotion e a.
[36] Corte giust., sent. 22 giugno 2010, cause C-188/10 e C-189/10, Melki, Abdeli, su cui vedi almeno R. Mastroianni, La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità. Simmenthal revisited?, in Giur. Cost., 5, 2014, 4089 ss.; F. Donati, I principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione in un sistema di tutele concorrenti dei diritti fondamentali, in federalismi.it, 12, 2020.
[37] Corte giust. sent. 11 settembre 2014, Causa C-112/13, A c. B.
[38] Vedi punto 53, sent. Melki/Abdeli. Sul punto, C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, cit., p. 8-9, che osserva come l’approccio temperato della Corte costituzionale e la trasformazione da doverosità a semplice opportunità della rimessione alla Consulta non fossero richiesti dalla giurisprudenza Melki della Corte di giustizia.
[39] Da ultimo Corte giust., sent. 22 febbraio 2022, Causa C-430/21, RS, punto 53; Corte giust., 24 giugno 2019, Popławski, causa C-573717, punti 61 e 62. Sul punto, vedi C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, in Rivista AIC, 1, 2020, 314, che dà indicazioni ulteriori circa la giurisprudenza della Corte di giustizia. La stessa Autrice, La sentenza costituzionale n. 15/2024, cit., pur apprezzando la soluzione della Corte costituzionale 15/2024 che concilierebbe le esigenze di immediatezza ed effettività della tutela, care al diritto UE, e quelle della certezza del diritto, care alla Corte costituzionale, osserva: «Un’estensione generalizzata del sistema parallelo di tutela delineato dalla sentenza analizzata – ovvero al di là della specificità del caso in esame e di eventuali casi simili dove alla disapplicazione della norma regolamentare non potrebbe seguire una sua modifica pro futuro se non previa rimozione erga omnes della legge che dà sostanza al regolamento – non rischio di deviare definitivamente dal sistema Granital, con derive non necessariamente compatibili con la giurisprudenza di Lussemburgo», 423-424.
[40] Punto 53, Corte giust., sent. 22 giugno 2010, cause C-188/10 e C-189/10, Melki, Abdeli.
[41] Per quanto riguarda l’altro parametro costituzionale evocato – l’art. 3 Cost. e il principio di ragionevolezza – il giudice ricorda la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (dalla sentenza 44/2020 fino alle più recenti sentenze 67/2024 e 147/2024) in cui si sono ritenute irragionevoli disposizioni legislative regionali che subordinavano l’accesso all’ERP a un requisito di previa di residenza continuativa e ciò sul presupposto che l’edilizia residenziale pubblica miri a soddisfare un bisogno sociale rispetto cui la residenza prolungata non esprimerebbe alcuna ragionevole correlazione. Tuttavia, come ben chiarito nell’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza della Corte (viene in particolare richiamata la sentenza 9/2021) non sembra escludere del tutto la possibilità che il legislatore regionale possa dare rilievo a considerazioni legate alla “prospettiva della stabilità” non già quale condizione di accesso, ma come criterio di determinazione del punteggio. Ciò nonostante sia la stessa Corte a qualificare il criterio della residenza protratta come un indice debole a tal fine, sottolineando che la prospettiva di stabilità dovrebbe avere carattere recessivo rispetto alla centralità di altri fattori più strettamente correlati a misurare la situazione di bisogno.
[42] Vengono richiamate, tra le altre, Corte giust., sent. 21 luglio 2011, Causa C-503/09; Stewart; sent. 26 febbraio 2015, Causa C-359/13, B. Martens; sent. 15 marzo 2005, Causa C-209/03, Bidar, sent. 23 marzo 2004, Causa C-138/02, Collins.
[43] Corte giust., sent. 29 luglio 2024, Cause riunite C-112/22, C-223/22, CU/ND, con nota di A. Guariso, Incompatibile con il diritto UE il requisito di dieci anni di residenza per accedere al reddito di cittadinanza, in Diritto, Immigrazione cittadinanza, 3, 2024.
[44] Ma è agevole ipotizzare che il fondamento di tale soluzione ermeneutica riposi nel fatto che, per la Corte di giustizia, la nozione di discriminazione indiretta abbia assunto valenza generale e che rappresenti un modo, al pari della discriminazione diretta, per ritenere violata la parità di trattamento.
[45] Il giudice del rinvio si era interrogato se il requisito della residenza decennale potesse considerarsi ugualmente discriminatorio per i cittadini lungo-soggiornanti anche se, a ben vedere, tramite la sua applicazione, venivano lesi anche gli interessi dei cittadini italiani, almeno di quelli che ritornano in Italia dopo un periodo di residenza all’estero.
[46] In particolare da A. Ruggeri in numerosi suoi scritti, tra cui, oltre a quelli già citati in nota, I rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e l’oscillazione del pendolo, in Consulta on line, 1, 2019, ove si evidenzia che la Corte adotterebbe un approccio assiologico-sostanziale che porta a dare centralità alle norme costituzionali. Perplessità espresse anche da C. Pinelli, L’approccio generalista del modello di rapporti tra fonti: i Trattati sono tutti uguali?, in Osservatorio sulle fonti, 1/2018, 13, che lamenta il rischio di un “effetto slavina” per cui il modello della 269 finirebbe per divenire la regola, emarginando il sindacato diffuso e l’applicabilità diretta del diritto UE.
[47] In questo senso, ad esempio, la sentenza 44/2020 della Corte costituzionale.
Immagine: Vasily Kandinsky, Houses at Murnau, olio su cartone, 1909, Chicago Art Institute, Bequest of Katharine Kuh.
Quando il minore è vittima di tortura. Brevi note a Cass n. 37171/2024 e n. 39722/2024
di Claudia Terracina
Sommario: 1. Premessa -2. Due bruttissime storie - 3. La tortura privata - 4. Una norma di difficile applicazione? - 5. Non solo bullismo.
1. Premessa
Cinque anni dopo la pubblicazione, su Giustizia Insieme, della nota di Calogero Ferrara alla sentenza Sez. 5, n. 47079 8 luglio 2019, che contiene elementi fondamentali per la ricostruzione ermeneutica del reato di tortura commessa da privati[1], può avere un senso interessarsi nuovamente di questo delitto, contemplato dall’art. 613-bis cod. pen. e introdotto dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. L’occasione è fornita dalla pubblicazione di due sentenze della Corte di Cassazione[2], la n. 37171/2024 della prima Sezione e la n. 39722/2024 della quinta Sezione, in cui la Corte, partendo da vicende coinvolgenti minori che – come nella totalità dei casi – non è esagerato definire agghiaccianti, coglie l’occasione per soffermarsi sulla struttura e gli elementi essenziali del delitto e, in particolare, sull’oggetto giuridico tutelato.
In questi anni, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha provato a delineare maggiormente i confini della fattispecie, la cui maggiore criticità è rappresentata dalla mancanza di una sua specifica connotazione, rendendo problematica la distinzione rispetto ad altre fattispecie limitrofe, in particolare il maltrattamento, con cui condivide – malgrado la diversa collocazione nel codice – una serie di elementi, potenziale fonte di incertezze interpretative[3]. Queste due sentenze, proseguendo un cammino già percorso in sede di legittimità, contribuiscono a delineare lo scopo della norma, indicandone espressamente la funzione di tutela della dignità umana nel suo complesso, a fronte di una condotta specifica di reificazione della persona, crudelmente deprivata dagli affetti e bisogni essenziali e ridotta a strumento di crudeltà e vendetta.
2. Due bruttissime storie
Il dramma sotteso alla pronuncia della prima Sezione, che contiene anche osservazioni sul tema della premeditazione c.d. “condizionata”, nasce da un femminicidio: un uomo, sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento nei confronti della ex compagna che lo aveva denunciato per maltrattamenti, dopo che la donna si era rivolta alle forze dell’ordine per denunciare la violazione della misura e una aggressione ai suoi danni, la seguiva mentre si era rifugiata in un bar e, in presenza delle figlie minori della donna, la colpiva con un coltello riducendola in fin di vita. La portava via in macchina, agonizzante, insieme alle sue due bambine (l’età non è nota, ma si tratta di minori infraquattordicenni, di cui una affetta da grave disabilità) che erano costrette, dopo aver assistito all’aggressione, anche ad assistere alla agonia della madre. Caricava poi la donna sanguinante in auto con le due bambine, e, dopo essersi recato da un amico dove lasciava la donna morire, profittando dell’intervento di un medico, fuggiva con le due bambine (di cui una in preda a crisi convulsive) che restavano in auto con lui. L’uomo teneva le bambine “impietrite dalla paura” nella sua auto tutta la notte e, una volta rintracciato dalle Forze dell’ordine, trascinava le minori in una fuga pericolosa, fino alla cattura. Le bambine, di cui una veniva ridotta in fin di vita per le crisi distoniche e la desaturazione di ossigeno, riportavano lesioni e gravissimi traumi psichici.
Nei due giudizi di merito, l’uomo veniva condannato per i reati di omicidio aggravato, sequestro di persona ai danni della donna e delle minori, resistenza aggravata, porto di arma e per il reato di tortura di cui all’art. 613-bis, commi primo e quarto, cod. pen.
Sollecitata dal ricorso dell’imputato, che lamentava, sotto il profilo dell’erronea applicazione dell’art. 613-bis cod. pen., l’insussistenza dei presupposti del delitto di tortura in danno delle minori, in quanto “in alcun modo le stesse sono state oggetto della condotta” dell’imputato, “eventualmente rivolta nei soli confronti della donna”, La Corte rigettava il ricorso ricostruendo la fattispecie e i suoi elementi e confrontandola con le condotte accertate nel merito. La ricostruzione è dogmatica e – per quanto si possa dire di una fattispecie così recente – classica, proprio in quanto richiama nozioni giuridiche consolidate in anni di giurisprudenza sui reati contro la persona.
“Quanto alla struttura dell'incriminazione, il delitto di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen. è un reato comune (potendo essere realizzato da chiunque); è reato a forma vincolata (essendo richiesto, come è stato anticipato, un requisito modale della condotta e potendo il reato essere commesso solo mediante violenze o minacce gravi oppure agendo con crudeltà); è un reato di evento (dovendo essere cagionate acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico); è un reato eventualmente abituale improprio (soltanto per talune modalità della condotta -ossia per le violenze o le minacce gravi, che perciò costituiscono di per sé reato e che devono necessariamente estrinsecarsi in condotte plurime - è richiesta la reiterazione della condotta, requisito non previsto per altre modalità di realizzazione della fattispecie incriminatrice ovvero qualora si agisca con crudeltà); è un reato a dolo generico (non avendo il legislatore recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall'articolo l della Convenzione ONU del 1984), che ammette la forma del dolo eventuale (potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo, secondo il modello proprio del dolo eventuale); la limitazione della
libertà personale, la relazione di affidamento e la condizione di minorata difesa sono presupposti della condotta (comunque rientrando nel fuoco del dolo); il fatto di reato, infine, deve essere commesso mediante più condotte (nel senso che la reiterazione non deve esaurirsi in un ristretto ambito temporale, ma deve essere cronologicamente consistente) oppure, quando è richiesta per l'integrazione della fattispecie la commissione di un'unica condotta, deve conseguire da essa, oltre agli eventi tipici (acute sofferenze fisiche o verificabile trauma psichico), anche un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Si tratta di ulteriori elementi costitutivi del reato, e non condizioni obiettive di punibilità, i quali afferiscono, rispettivamente, alla condotta o all'evento”.
La sentenza della quinta Sezione ha per oggetto il maltrattamento, travalicato nella tortura, del figlio di due anni ad opera di un uomo. Il bambino, da sempre tenuto in condizioni di degrado e sottoposto con la madre ad atti di maltrattamento, nei suoi ultimi due giorni di vita era stato oggetto di una escalation di violenza gratuita che lo aveva condotto alla morte dopo acute sofferenze. Il bambino era stato sottoposto a bruciature, morsicature, con lacerazioni corporee, colpi al capo e al torace che lo avevano condotto alla morte. La sentenza della Corte di appello era stata annullata dalla Corte (Sez.1, n. 27321 del 13/01/2023) che aveva rilevato come alla condotta maltrattante ai danni del bambino fosse seguita una “escalation” che aveva condotto ad una fase caratterizzata da lesività estrema. La sentenza del giudice del rinvio, confermata dalla Corte, aveva invece valorizzato il passaggio ad un grado estremo di brutale violenza con trasformazione del piccolo in oggetto di sfogo di istinti bestiali.
3. La tortura privata
Il delitto contestato nei due casi è la tortura “tra privati” o “orizzontale”, in cui non viene in considerazione il rapporto con l’autorità pubblica. In entrambi, tuttavia, vi è il riferimento al rapporto di affidamento che il minore ha con l’adulto che lo prende in carico, nel caso del piccolo ucciso, il padre.
La sentenza della prima Sezione descrive espressamente il reato come “comune”[4]. La norma prevede d’altra parte al primo comma dell’art. 613-bis cod. pen. la condotta di “chiunque” tenga la condotta descritta, mentre al secondo comma è comminata una pena più grave quando il reato sia commesso da una pubblica autorità “con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”.
Il secondo comma contempla invece certamente un reato proprio, sia nel soggetto sia nelle modalità dell’azione.
Dai lavori preparatori della legge 110/2017 si evince la costruzione della tortura “pubblica” come fattispecie circostanziale. Si legge infatti che nella norma “la commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio costituisce, anziché un elemento costitutivo, una fattispecie aggravata del delitto di tortura”[5]. Già dai primi commenti al testo, anche nel corso dell’iter parlamentare di approvazione, emerge sul punto un certo dissenso[6].
Anche le prime pronunce di legittimità adottano questa linea interpretativa, talune in obiter dicta, come ad esempio Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, altre investite della correttezza dell’operazione di bilanciamento operata dal giudice di merito, come Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023[7].
Si discosta da questa soluzione ermeneutica invece la sentenza in commento che, sulla scorta di un precedente della terza Sezione[8], si pronuncia espressamente a favore della autonomia delle due fattispecie contenute nella norma, ritenendo la tortura ad opera della pubblica autorità un reato autonomo e non una forma circostanziata di quella “comune”. Afferma infatti che l’obbligo di incriminazione specifico che discende dalle fonti convenzionali “sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali”.
D’altra parte, a favore della natura autonoma del delitto di tortura “pubblica” si è espressa autorevolmente anche la Corte costituzionale – sulla scorta della sentenza della terza Sezione n. 32380/21 nella sentenza n. 192 del 2023 sul “caso Regeni”, forse ponendo un punto fermo alla questione.
La previsione di un caso di tortura “comune” oltre a quella “pubblica” di cui al secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. ha sin da subito dato adito a contrasti.
Com’è noto, infatti, il delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p. è stato introdotto per ottemperare ad obblighi internazionali, primo tra tutti quello derivante dalla Convenzione ONU contro la tortura, approvata nel 1984 e ratificata dall’Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 489 (UNCAT). Dall’art. 4 della Convenzione discende l’obbligo di specifica criminalizzazione della tortura, almeno nella sua “soglia minima”, costituita da condotte caratterizzate dalla specifica finalità alternativa di: 1) ottenere informazioni o confessioni, 2) punire, intimidire o fare pressioni e 3) discriminare) e in cui vi sia il coinvolgimento necessario di funzionari pubblici.
La nozione di tortura contenuta nella Convenzione, al primo comma dell’art.1, è focalizzata sul rapporto di autorità e sugli abusi da parte dei pubblici poteri, ma non esclude (art. 1, comma 2) l’estensione del divieto in forma più ampia.
Il legislatore, anche se con un certo ritardo, stigmatizzato in più occasioni[9], esercitando una facoltà, ma anche rispondendo agli obblighi derivanti dalla giurisprudenza della Corte EDU e da obblighi derivanti da altre convenzioni internazionali[10] ha costruito una norma con due fattispecie, la tortura “tra privati o “orizzontale”, reato sostanzialmente comune (anche se contempla il caso in cui la vittima sia legata al reo da un rapporto giuridico di affidamento qualificato)[11], contemplato al primo comma, e quella “pubblica”, reato proprio del pubblico ufficiale.
Il legislatore ha quindi scelto di estendere la nozione anche a condotte commesse da privati, particolarmente odiose in quanto attuative di una sorta di “signoria” sulla persona dell’altro, costruendo una fattispecie di reato comune e collocandolo tra i delitti contro la libertà. Certamente questa soluzione ha dei vantaggi, tra cui quello di ricomprendere le condotte di soggetti la cui qualifica pubblicistica è dubbia - come ad esempio, nel caso citato dalla dottrina[12], di una persona sequestrata e torturata da agenti degli apparati di sicurezza di Stati stranieri, ovvero “organizzati” in modo da costituire una informale struttura detentiva. È il caso contemplato dalla sentenza della prima Sezione n.26999/22 relativa alla organizzazione e gestione di un centro illegale di prigionia ubicato in una ex base militare della città libica di Zawya, ove centinaia di migranti, che tentavano di raggiungere le coste italiane, erano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche torture, per ottenere il pagamento dai loro familiari di somme di denaro quale prezzo per la liberazione e/o la loro partenza per l'Italia[13] e il parallelo caso della base di prigionia libica di Zuhaira in cui operava una associazione delinquere diretta da tal “Muhammad il libico”, oggetto della sentenza della Sezione quinta n. 20726/22.
La scelta legislativa ha destato qualche perplessità[14]. Anche parte della dottrina ha rilevato come la mancata focalizzazione sull’azione del potere pubblico rischiasse di “annacquare” la portata garantista della norma e la finalità di controllo contro gli abusi dell’autorità[15]. Altri – guardando soprattutto alla nozione di tortura contenuta nell’art. 3 della CEDU e alla copiosa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha stigmatizzato nei diversi casi la mancanza di adeguati strumenti normativi ovvero di protezione nei confronti di vittime oggetto di tortura commessa in ambito familiare o comunque al di fuori del rapporto con l’autorità - hanno invece guardato con favore alla scelta del legislatore di ampliare l’ambito della punibilità[16].
A distanza di oltre sette anni dalla entrata in vigore della norma può osservarsi che, da un lato, gli arresti giurisprudenziali su casi di tortura commessi da autorità pubbliche (nella quasi totalità in ambito penitenziario)[17] e, dall’altro i recenti tentativi di abrogazione[18], mostrano la vitalità della fattispecie della tortura “pubblica” nel nostro ordinamento.
4. Una norma di difficile applicazione?
Le maggiori criticità rilevate dalla dottrina[19], al momento dell’introduzione della fattispecie, si incentrano piuttosto nella strutturazione della norma, definita “farraginosa” e di difficile interpretazione in quanto, da un lato, contempla condotte diverse e connotate da diversa gravità, dall’altro – soprattutto nella descrizione dell’evento tipico - contiene indicazioni confuse sul piano della tassatività.
È il caso, sul piano della condotta, del “trattamento inumano e degradante” e, su quello dell’evento, del “verificabile” trauma psichico ed ancora, sul piano dei presupposti, della “minorata difesa” (usata altrove solo come aggravante).
Sotto il primo profilo, al di là della scelta del legislatore di richiedere, cumulativamente e non alternativamente che il trattamento sia tanto inumano quanto degradante, qualche indicazione può desumersi dalla giurisprudenza su reati “limitrofi” a quello in esame. Troviamo una utile descrizione in una recentissima sentenza della Sez. 1 in tema di immigrazione clandestina[20], definendo «inumano il trattamento che abbia inflitto alla persona trasportata una sofferenza fisica o psicologica, prolungata e di particolare intensità, capace di provocare nella vittima sentimenti di paura e angoscia», e «degradante il trattamento tale da cagionare una lesione particolarmente grave della dignità umana, umiliando o svilendo l'individuo e suscitando sentimenti di inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica».
Il profilo della “verificabilità” del trauma psichico è affrontato dalla sentenza Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019[21], che, nel fare riferimento alla “oggettiva verificabilità” del trauma, lo riporta al tema del libero accertamento giudiziale, forse richiedendo sul punto una attenzione motivazionale[22]. Precisa che il trauma non deve necessariamente «tradursi in una sindrome duratura da "trauma psichico strutturato" (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le sue caratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale e di tale condizione la norma richiede l'oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l'accertamento peritale, né l'inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell'agente e dalle concrete modalità di quest'ultima».
La sentenza della quinta Sezione n. 47079/19 si è occupata anche della “minorata difesa”, ritenendola sussistente «ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell'agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali».
Le ancora poche, interessanti, sentenze di legittimità, tra cui quella in commento, sono tutte tese nello sforzo di dare indicazioni pratiche all’interprete, soprattutto nei rapporti con fattispecie limitrofe violative della integrità personale e della libertà morale e sessuale, cercando di ovviare ai deficit di precisione. D’altra parte, come è accaduto anni fa dopo l’introduzione della fattispecie di “atti persecutori” la struttura composita della norma, anche se in quel caso descritti in modo molto specifico, si è rivelata in concreto in realtà un vantaggio, consentendo di configurare la fattispecie in ipotesi di diversa gravità e connotazione. Nel tempo questo potrebbe accadere anche per questa norma, grazie al ricorso a concetti giuridici già consolidati, frutto di elaborazione in relazione ad altre figure delittuose, concentrando lo sforzo interpretativo sull’evento tipico la cui descrizione, come accennato, resta ancora non del tutto delineato[23].
Secondo la giurisprudenza della Sezione quinta, che si occupa dei reati limitativi della libertà, il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019).
Per l’integrazione del reato nella sua forma abituale si ritiene, sulla scorta della giurisprudenza formatasi sulla nozione di “condotte reiterate” nel reato di atti persecutori, che, perché si abbiano “più condotte”, ne siano sufficienti due[24].
La sentenza Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019 ha peraltro precisato che «ai fini dell'integrazione del delitto di tortura di cui all'art. 613-bis, comma primo, cod. pen., la locuzione "mediante più condotte" va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico». In motivazione la Corte ha condiviso il ragionamento del giudice di merito che, confrontando la locuzione usata nel reato di atti persecutori “condotte reiterate” con quella di “più condotte” usata nella norma, conclude che le stesse possano essere tenute nel medesimo contesto. D’altra parte, “la lettura della disposizione che ne fa la parte impugnante determinerebbe il paradosso di impedire la riferibilità della norma a quanto verificatosi nella scuola Diaz, laddove non vi è stata la reiterazione, diluita nel tempo, delle condotte; ciò implicherebbe -aggiunge il Collegio- l'adozione di una prospettiva indubbiamente distonica rispetto a quella seguita dalla Corte EDU laddove ha ricondotto quei fatti alla nozione di tortura di cui all'art. 3 della CEDU, dando così luogo ad una lettura non convenzionalmente orientata della disposizione di nuovo conio”.
La medesima sentenza, sollecitata sul punto dal ricorso, si sofferma sulla nozione di “crudeltà” traendola dagli insegnamenti di Sez. U, n. 40516 del 23/06/2016, Del Vecchio. Crudele è la condotta che “eccede rispetto alla normalità causale”, cioè che costituisce un quid pluris rispetto all'attività necessaria ai fini della consumazione del reato, rendendo la condotta stessa particolarmente riprovevole per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima con un'azione efferata. Gratuità e superfluità che nasce dalla particolare “forma di soddisfazione” dell’agente legata alla capacità di generare le sofferenze altrui.
Le “acute sofferenze fisiche” provocate alla vittima non coincidono con la nozione di lesioni, come emerge dal dato testuale, che colloca la causazione di lesioni come circostanza aggravante (o come reato aggravato dall’evento, secondo quanto affermato dalla Sez. 5 nella sentenza 1243/2024) e dunque contemplano patimenti, come la fame, la sete, la sofferenza fisica derivante da deprivazione del sonno, la sottoposizione a fatiche, che non realizzano malattia ma, appunto, sofferenza.
Quanto ai rapporti con altri reati, il problema che ha maggiormente impegnato la Corte di cassazione (e che tuttora non pare risolto) riguarda il rapporto con il sequestro di persona. La seconda Sezione, nella sentenza 1729/2021 (dep. 2022) ha ritenuto il delitto di sequestro di persona assorbito in quello di tortura, “nella misura in cui la condotta di privazione della libertà personale della vittima connoti parte della condotta torturante, agevolando la realizzazione del fine ultimo, perseguito dall'agente, di inflizione alla medesima di un supplizio, mentre si configura il concorso tra i due reati nel caso in cui la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario al compimento degli atti di tortura”. Fondandosi sulla medesima nozione di specialità, quella tra fattispecie astratte indicata dalla sentenza a Sezioni Unite La Marca n. 41588/2017, la quinta Sezione ha affermato che le due fattispecie sono sempre in concorso materiale tra loro in quanto “La comparazione degli elementi costitutivi dei due reati dimostra l'assenza di un rapporto di continenza posto che il sequestro a scopo di estorsione non contiene
tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, né rispetto a quest'ultimo uno o più requisiti caratteristici in funzione specializzante. Affinché si consumi il sequestro a scopo di estorsione non è necessario che si consumi anche il delitto di tortura”.
È stato escluso il rapporto di continenza con la violenza sessuale di gruppo da Sez. 3, Sentenza n. 25617 del 16/03/2022: “Il delitto di tortura non è assorbito in quello, più grave, di violenza sessuale di gruppo, ostandovi sia la diversità del bene giuridico tutelato (la libertà fisica e psichica nell'uno e la libertà sessuale nell'altro), sia la non sovrapponibilità strutturale delle condotte incriminate, posto che la violenza perpetrata nei confronti di persona costretta a subire o a compiere atti sessuali acquista autonoma rilevanza nel caso in cui, oltre ad essere funzionale a tale coartazione, si estrinsechi, prima, durante o dopo il compimento dell'atto sessuale, in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico.” Nel caso di specie la ragazza era stata degradata e fatta oggetto di sevizie da una coppia “diabolica”. La sentenza, peraltro, in motivazione, si sofferma anche sull’assorbimento del reato di sequestro di persona, escludendolo in quanto l’attività di limitazione della libertà personale si sarebbe protratta per un tempo ulteriore ed antecedente rispetto a quello in cui l’attività vessatoria ha avuto corso.
Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Il primo, tuttavia, non assorbe il secondo, oltre che per la diversità di oggetto giuridico, anche per la mancanza di un rapporto di continenza tra le due fattispecie astratte: per l'integrazione dell'articolo 572 cod. pen. possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità dell'articolo 613-bis cod. pen. dovranno invece necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti. In questo senso, si è espressa Sez. 3, n. 32380 del 25/5/2021, in una sentenza che ha ad oggetto la condotta di un uomo violento e gravemente maltrattante che, per un periodo, ha tenuto chiusa la moglie nella loro villetta togliendole le chiavi del cancello ed impedendole di uscire[25]. Più di recente, Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024, in un caso di maltrattamento, con morte, di un minore ha precisato che i maltrattamenti perpetrati nei confronti di un familiare possono acquistare autonoma rilevanza come atti di tortura nel caso in cui la condotta si estrinsechi in un'ulteriore sopraffazione fisica e psicologica della vittima, provocandole acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, trasformandola in una res alla mercé dell’agente, su cui accanirsi a piacimento, spersonalizzandola e disumanizzandola.
Più sentenze si confrontano con l’assorbimento del reato di lesioni nell’ipotesi “aggravata” del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Sez. 5, n. 50208 dell’11/10/2019 e Sez. 6, n. 47672 del 04/10/2023 che, affrontando la nozione di “acute sofferenze fisiche”, ritengono che non richieda la produzione di lesioni, in quanto in tal caso soccorre l’aggravante del quarto comma dell’art. 613-bis cod. pen. Colloca espressamente l’ipotesi del quarto comma tra i “delitti aggravati dall’evento” Sez. 5, n. 1243 del 20/12/2023. All’esito di un complesso ragionamento sulla fattispecie, conclude che «In tema di reati contro la persona, è configurabile il delitto di tortura, aggravato ai sensi dell'art. 613-bis, comma quarto, cod. pen. nel solo caso in cui le lesioni personali conseguite alla condotta incriminata non siano state volute dall'agente, realizzandosi, in caso contrario, un concorso di reati.»[26]
5. Non solo bullismo
Le due sentenze in commento, come altre in precedenza che si erano occupate di un caso di bullismo nei confronti di una persona il cui disagio psichico ed esistenziale lo aveva condotto ad auto- emarginazione[27], compiono un ulteriore sforzo ermeneutico, concentrandosi sulla individuazione del “nucleo” di offesa della fattispecie. Entrambe la collocano nella reificazione della vittima e dunque nella negazione profonda della dignità umana dell’individuo, costretto o limitato dalla sua posizione di debolezza e trasformato dall’agente in un “mezzo” per soddisfare i propri scopi di crudeltà o sopraffazione.
D’altra parte, anche la Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 192 del 2023 sul ”caso Regeni” ha ritenuto che lo “status” peculiare del reato universale di tortura è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana.
Così la pronuncia della prima Sezione sul punto: «Consistendo la tortura nell'inflizione brutale di sofferenze corporali, essa determina un grave e prolungato patimento fisico e morale dell'essere umano che la patisce, cosicché la sua particolarità risiede nella conclamata e terribile attitudine che la stessa possiede e cioè quella di assoggettare completamente la persona la quale, in balia dell'arbitrio altrui, è trasformata da essere umano in cosa, ossia in una "res" oggetto di accanimento. La sofferenza corporale, fisica e/o psichica, inflitta a una persona umana è tuttavia solo una componente della fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell'offesa penalmente rilevante sta nella lesione della "dignità umana", che costituisce la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, e che si traduce nell'asservimento della persona umana e, di conseguenza, nell'arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.»
D’altra parte, anche nella condotta di tortura privata, è la signoria dell’agente sulla vittima che ne è in balia a caratterizzare in modo drammatico la condotta, oltre che l’intensità della violenza agita, signoria che disumanizza la vittima rendendola mero strumento per lo sfogo di istinti malvagi. Il caso oggetto della sentenza che rende particolarmente importante l’espressione del punto, è nel fatto – che costituisce occasione e fulcro del ricorso – che oggetto principale dell’accanimento dell’imputato non erano le bambine, ma la madre. Ciò nonostante – se si guarda ai motivi per i quali la condotta torturante è stata ritenuta dalla Suprema Corte effettivamente realizzata – nel caso in esame è valorizzata anche una sorta di spietata indifferenza nel far assistere le bambine alla agonia della madre nei confronti dei bisogni di cura e delle condizioni psichiche di esseri di per sé fragili e resi disperati dalla situazione, aprendo uno spiraglio sugli aspetti drammatici che la tortura può assumere quando ha per oggetto un bambino.
Parimenti, nella sentenza 39722/24 il passaggio da un “ordinario” maltrattamento fatto di violenza ed incuria ad un livello elevato di sevizie inferte al piccolo fino a condurlo alla morte segna la brutale disumanizzazione di cui è stato oggetto e dunque l’annientamento della sua essenza umana, oltre che della sua integrità fisica.
[1] C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, in Giustizia insieme 14 febbraio 2020. Sul delitto di tortura si è scritto moltissimo. Tra i primi interventi: F. Viganò, Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la camera dei deputati. Parere reso nel corso dell'audizione svoltasi presso la commissione giustizia della camera dei deputati il 24 settembre 2014, in www.penalecontemporaneo.it; A. Colella, La repressione penale della tortura: riflessioni de iure condendo, in Dir. pen. cont., 22 luglio 2014; P. Lobba, Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale, in Dir. Pen. Cont. n. 10/2017. I. Marchi, Il delitto di tortura: prime riflessioni a margine del nuovo art. 613-bis c.p., in Dir. Pen. Cont. n. 7-8/2017; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura (art. 613 bis c.p.), in Studium iuris, 2018. Vedi anche A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e persecuzione penale della tortura, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 2, 1° giugno 2019, pag. 811, A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1957-1960 e S. Tunesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in Giurisprudenza penale web, 2017, 11.
[2] Sez. 1, n. 37171 del 29/04/2024 (dep. 09/10/2024). Presidente: V. Di Nicola, Estensore: F. Casa; Sez. 5, n. 39722 del 09/07/2024 (dep. 29/10/2024). Presidente, A. Guagliano, est. M.T. Belmonte.
[3] Più delicati sono i rapporti tra il delitto di tortura e quello di maltrattamenti, rientrando entrambi nello schema dei reati di durata: eventualmente abituale, il reato di tortura; necessariamente abituale quello di maltrattamenti. Sul punto si sofferma proprio la sentenza Sez. 5 n. 39722 del 09/07/2024 in commento. Vedi anche cfr. Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021, pubblicata in Cass. pen., 31 agosto 2021, n. 32380, in Giur. It., 2022, 194 con nota di Leotta, Ammissibile il concorso materiale tra maltrattamenti in famiglia e tortura privata. Sulla sentenza 39722/24, vedi la nota di E. Consolo, Caso Hrustic: quando i maltrattamenti in famiglia divengono tortura, in Diritto & Giustizia, fasc.203, 2024, pag. 3 e di G. Faillaci La struttura e i presupposti del delitto di tortura (Nota a Corte di cassazione penale, sez. V, 29 ottobre 2024, ud. 9 luglio 2024, n. 39722), Njus, 29 ottobre 2024.
[4] Benché indichi il reato come “comune” dalla sentenza pare evincersi che non lo sia nel caso in cui l’agente profitti o agisca in costanza di una posizione giuridica di “affidamento”: “l’asse della lesività del delitto è, pertanto, calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento”
[5] Cfr. LL.PP., Dossier n. 149/3, Elementi per l'esame in Assemblea, 23 giugno 2017, p. 2.
[6] Uno dei primi a segnalare il tema, F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5; A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, cit., 12; A. Provera, Art. 613-bis, in Seminara, Forti, Zuccalà (a cura di), Commentario Breve al codice penale, Padova, 2017, 2115; Ritiene invece sia fattispecie circostanziale, E. Scaroina, Il delitto di tortura, cit., 266, criticando però la scelta del legislatore. Osservano molti autori (P. Lobba, in Punire la tortura in Italia, cit., p. 23, I. Marchi, Il delitto di tortura, cit., p. 160; F. Viganò, Sui progetti, cit., p. 5). che il comma quarto, che prevede aggravi di trattamento sanzionatorio qualora dai fatti di tortura scaturiscano delle lesioni personali di differente gravità, aumenti di pena calcolati prendendo come riferimento «le pene di cui ai commi precedenti» e pertanto, così facendo, considerando il secondo comma quale circostanza aggravante, si ricadrebbe nel paradosso di un aggravante operante, in maniera anomala, su di un’altra circostanza aggravante. Vedi anche S. Larizza La problematica configurazione del delitto di tortura: da delitto a circostanza aggravante? In Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dic. 2023, pag. 1377.
[7] D’altra parte, la tecnica normativa che richiama per relationem la struttura di un reato aggravando la pena per uno specifico soggetto è quella cui ha fatto riferimento la Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza n.4694 del 27/10/2011, Casani, per ritenere che «la fattispecie di accesso abusivo ad un sistema informatico protetto commesso dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico ufficio con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio costituisce una circostanza aggravante del delitto previsto dall'art. 615 ter, comma primo, cod. pen. e non un'ipotesi autonoma di reato».
[8] Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021.
[9] L’Italia è stata condannata dalla Corte EDU per la mancanza di strumenti normativi nella causa Cestaro c. Italia del 7 aprile 2014, concernente i fatti verificatisi durante il G8 di Genova del
2001 nella scuola Diaz. In seguito, la sentenza – sui medesimi fatti - Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla Corte EDU il 22 giugno 2017 nel vagliare il grado di tutela assicurato dal nostro ordinamento ai diritti delle vittime delle violenze e riconducendole alla nozione di tortura, ha stigmatizzato la mancanza, nel sistema penale italiano, di una fattispecie penale specifica.
[10] Ritengono che la previsione di un reato di tortura “privata” sia in linea con gli obblighi internazionali derivanti da altre convenzioni, come quella F. Lattanzi La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, in Riv. dir. int., fasc. 1, 2018, P. Lobba, punire la tortura, cit. p. 25; A. Colella, La repressione, cit., p. 32.
[11] Osserva la dottrina (cfr. A. Cisterna, Colmata una lacuna, ma molte nozioni restano poco precise, in Guida dir., 2017, n. 39, 18 ss.) come, nella parte in cui la persona offesa viene descritta come «persona affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza» del reo, effettuando un ragionamento analogo rispetto alle omologhe fattispecie di cui all’art. 570 e 591 c.p., si ritiene configurabile un reato proprio, dal momento che l’impiego del termine «affidamento» comporta la protezione dell’incolumità fisio-psichica di colui che è sottoposto ad una qualunque forma di auctoritas o potestas altrui, determinando un status giuridicamente formalizzato.
[12] P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27 cita il caso del sequestro di Abu Omar compiuto da agenti USA. Altre ipotesi citate dall’A. sono gruppi neofascisti, “ronde” organizzate da privati cittadini, associazioni criminali, gruppi terroristici, o organizzazioni private che pongono in essere violenze contro soggetti vulnerabili quali migranti o anziani loro affidati.
[13] Sez. 1, Sentenza n. 26999 del 02/02/2022 Sez. 5, Sentenza n. 20726 del 28/03/2024.
[14] In data 16 giugno 2017, alla vigilia dell'approvazione finale da parte della Camera, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, indirizzava una nota con cui rappresentava talune preoccupazioni su alcuni aspetti del testo approvato dal Senato e ritrasmesso alla Camera, in contrasto, a suo avviso, con la giurisprudenza della CEDU, con le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, introdotto dall’art. 1 della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a Strasburgo il 26 novembre 1987, e con la Convenzione CAT. Tra le varie preoccupazioni manifestate, quella che il testo approvato dal Senato, in parte divergente dalla definizione contenuta nella proposta di legge rispetto a quella di cui all'art. 1 della Convenzione ONU sulla tortura con il rischio che episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, adotta una definizione ampia di tortura, che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, con possibile indebolimento della tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali. In particolare, le preoccupazioni manifestate dal Commissario si riferiscono al fatto che, per la configurabilità del reato di tortura, siano necessarie "più condotte di violenza o minacce gravi ovvero crudeltà"; che la tortura si configuri anche in presenza di trattamenti inumani e degradanti (laddove l'articolo 3 della Convenzione EDU prevede la disgiuntiva "trattamenti inumani o degradanti"); inoltre, quanto alla tortura di tipo psicologico, che essa cagioni un trauma verificabile sotto tale profilo. La nota del Commissario europeo sottolinea ancora che vi sono altri aspetti di. Inoltre, la nota, considerato che il testo approvato dal Senato adotta una definizione ampia di tortura che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini, sottolinea l'importanza di garantire che questo non conduca a indebolire la tutela contro le torture inflitte per mano di pubblici ufficiali.
In conclusione, il Commissario rileva che le nuove disposizioni dovrebbero prevedere pene adeguate per i responsabili di atti di tortura o pene e trattamenti inumani o degradanti, avendo quindi un effetto deterrente e dovrebbero garantire che la punibilità per questo reato non sia soggetta a prescrizione, né sia possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, indulto o sospensione della sentenza.
[15] Vedi sul punto E. Scaroina, Il delitto di tortura. L’attualità di un crimine antico, Bari, 2018, p. 263- 266
[16] V. dottrina citata a nota 10 e da P. Lobba, punire la tortura, cit., a p. 27, in nota.
[17] Molte pronunce, rese in sede di impugnazione cautelare, riguardano le condotte di funzionari e agenti della Polizia Penitenziaria in occasione delle agitazioni dei detenuti verificatesi nei penitenziari italiani nella primavera del 2020, definita 'perquisizione straordinaria', posta in essere dal personale di Polizia Penitenziaria per soffocare, tramite 'violenti pestaggi' la protesta inscenata dai detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta delle sentenze di legittimità nn. 4929, 4931, 8971, 8973 del 2021 (dep. 2022) e 17111 del 2021 (dep. 2022). La sentenza Sez. 5, n. 1243 del 2022 riguarda condotte di tortura di appartenenti alla Polizia penitenziaria all’interno della Casa circondariale di Ferrara è stata commentata in Cassazione Penale, fasc.6, 2024, da C. Rossi.
La sentenza Sez. 6, n. 47672 del 2023 riguarda il pestaggio brutale di detenuti nella caserma Levante di Piacenza. Di recente il reato di tortura è contestato nelle misure cautelari emesse dal GIP di Trapani per episodi di violenza organizzata ai danni dei detenuti.
[18] Sono stati infatti presentati, e assegnati alla Commissione Giustizia del Senato, due disegni di legge finalizzati a introdurre modifiche alla disciplina penalistica della tortura: il ddl n. 341 («Modifiche al codice penale in materia di introduzione di una circostanza aggravante comune in materia di tortura») e il ddl n. 661 («Modifiche agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale, in materia di tortura e istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura»).
[19] Estremamente critico sulla struttura della norma è T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, inadempimento effettivamente persistente, in <discrimen.it>, 4 settembre 2018, 27-32. Vedi anche S. Amato e M. Passione, Il reato di tortura. Un’ombra ben presto sarai: come il nuovo reato di tortura rischia il binario morto, in Diritto penale contemporaneo web. 15 gennaio 2019.
[20] Si tratta di Sez.1, n. 30380 del 12/07/2024, che, in relazione alla aggravante del terzo comma dell’art. 12 Dlg. 286/98, trae la definizione dalla giurisprudenza della Corte EDU: « non è infrequente che la Corte - che in più occasioni ha definito il divieto (di trattamenti inumani o degradanti) in questione «un principio fondamentale delle società democratiche» (Corte Edu, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito) - utilizzi l'espressione «trattamento inumano e degradante» quasi si trattasse di un'endiadi, così facendo residuare zone d'ombra sulla linea di confine fra i trattamenti inumani e quelli degradanti; in altre occasioni, tuttavia, i giudici di 7 Strasburgo, chiamati a riempire di contenuti un precetto solennemente declamato ma non accuratamente definito, hanno chiarito che il trattamento inumano è quello che infligge una sofferenza fisica o psicologica, se non una vera e propria violenza sul corpo della persona, di particolare intensità, capace di suscitare nella vittima sentimenti di paura e angoscia (Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito)Corte Edu, 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito), premeditato e prolungato nel tempo (Corte Edu, 15 luglio 2002, Kalashnikov c. Russia), e che, invece, il trattamento degradante è quello che cagiona una lesione particolarmente grave della dignità umana (Corte Edu, 16 marzo 2010, Orsus c. Croazia), che umilia o svilisce l'individuo suscitando sentimenti di paura, angoscia o inferiorità capaci di infrangerne la resistenza morale e fisica (cfr. Corte Edu, 15 giugno 2010, Harutyunyan c. Armenia).»
[21] Si tratta della prima sentenza ad affrontare un caso di tortura attuata mediante atti di bullismo. Sulla pronuncia, v. la nota di C. Ferrara, Il nuovo delitto di tortura: la Cassazione amplia l’ambito applicativo della fattispecie? Un commento alla sentenza 8 luglio 2019 n. 47079, su questa Rivista e A. Merlo Primo intervento della Cassazione sul reato di tortura in un caso di bullismo, in Il Foro Italiano, 2020, fasc. 3, p.2. Per un altro caso di tortura di persona in condizioni di minorata difesa perché affetta di patologie psichiche, cfr. Sez. 5, n. 18075 del 23/03/2023, con nota di S. Rizzuto, V. Tigano, Tortura su una vittima in condizioni di minorata difesa e diniego delle circostanze attenuanti generiche, in Foro It. 12/23. Su questa ed altre sentenze, cfr. A. Colella, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di tortura (art. 613-bis c.p.) in Sist. Pen. 16 gennaio 2020.
[22] E. Scaroina, op. cit., 272 individua un’ulteriore fondamento dell’utilizzo del termine verificabile, ossia per rafforzare «l’esigenza che in sede di applicazione concreta siano valutati con estrema cautela gli effetti di natura psicologica prodotti dalla condotta: nella consapevolezza della difficoltà di prova dell’evento del reato e del rischio che l’onere del suo accertamento possa essere ritenuto assolto in virtù della mera verifica della sussistenza della condotta, si è voluto cioè richiamare l’interprete a un riscontro puntuale ed effettivo, al di là cioè di semplificazioni e presunzioni, anche di effetti sfuggenti quali le sofferenze da un lato e il trauma psichico dall’altro».
[23] In sede di discussione parlamentare (cfr. Dossier servizio studi, Dipartimento giustizia della Camera, seduta del 23 giugno 2017) Già dal dibattito in prima lettura al Senato (Assemblea, 5 marzo 2014) emerge dalle parole del relatore (sen. D'Ascola) come si sia ritenuto di qualificare le sofferenze cagionate dalla tortura "come acute, traendo questo termine dalla medicina, da quella generale ma anche dalla medicina legale, che ha elaborato il concetto di un'acuta sofferenza come un concetto ristretto e determinabile. Quindi, il legislatore penale ha guardato anche ad altri rami del nostro sistema e, in particolare, alla scienza medica e ai contenuti e ai significati elaborati dalla scienza medica, come si conviene fare allorquando il legislatore apre una finestra su settori diversi dall'ordinamento giuridico in generale e dall'ordinamento giuridico in particolare e sostanzialmente richiama, nel contesto di quella scienza, le elaborazioni che sono proprie di quel determinato settore scientifico". Tra le osservazioni presentate nel giugno 2017 dalla Commissione affari costituzionali vi era quella sulla opportunità di eliminare l’aggettivo “verificabile” in relazione al trauma psichico.
[24] Sotto quest’ultimo profilo, sin dal 2016, Tullio Padovani criticava in modo sferzante l’inserimento dell’aggettivo ‘‘verificabile’’, ritenendolo “assurdo”, giacché ‘‘ogni requisito della fattispecie tipica deve essere, oltre che ‘‘verificabile’’, soprattutto ‘‘verificato’’: altrimenti, su quali basi si pronuncerebbe una sentenza di condanna?’’. T. Padovani, Tortura: adempimento apparentemente tardivo, cit. pp. 31-32
[25] La sentenza è pubblicata in Foronews 27 settembre 2021. Con nota di V. Romano Gravi episodi di violenza domestica: secondo la Cassazione è configurabile il reato di tortura in concorso con quello di violenza sessuale e maltrattamenti. (Nota a Corte di cassazione penale, sez. III, 31/09/2021, n. 32380)
[26] Il tema è affrontato in una nota a sentenza di A. Merlo, Il reato di tortura in Italia: un personaggio in cerca di un autore (migliore). (Tortura – Lesioni personali), in Giur. It., 2024, fasc. 6, P. 1423 ss. Sulla natura di delitto aggravato dall’evento della fattispecie del quarto comma, cfr. A. Colella, op. cit., p. 9.
[27] Oltre che la sentenza n. 47079/19, che ha affrontato un caso di bullismo in sede di ricorso cautelare, la quinta Sezione si è occupata del medesimo caso di bullismo in altre sentenze, afferenti diverse posizioni cautelari nel medesimo procedimento: la n. 4755 del 15/10/2019 e la 50208 dell’11/12/2019.
Immagine: David Wilkie, Guess my name, 1921, Chicago Art Institute.
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