Il lavoro precario, tra sinonimi e contrari. Recensione a F.M. Giorgi, F. Aiello (a cura di), Il lavoro precario, Giappichelli, Torino, 2024, 350 pp.
I giuslavoristi e le giuslavoriste prestano ormai da tempo la loro attenzione a categorie che, pur non assurgendo al rango dei concetti normativi, sono entrate nel linguaggio comune e nel dibattito allargato. Si pensi, in particolare, ai casi del lavoro atipico, non-standard o flessibile, accomunati dal richiedere, ai fini della relativa perimetrazione, una preliminare, e tutt’altro che scontata, identificazione del proprio contrario, ossia delle caratteristiche, rispettivamente, del lavoro tipico, standard e rigido.
Tale operazione risente inevitabilmente del momento storico, tanto è vero che ciò che ieri, nel contesto dell’unità spaziale, temporale e di comando entro la quale si collocava la prestazione di lavoro, poteva non essere ricondotto nell’alveo dello standard (si pensi, su tutti, al lavoro da remoto), potrebbe oggi, nel diritto del lavoro post-pandemico, assai più agevolmente rientrarvi.
Quel che è difficilmente dubitabile è che, sotteso all’utilizzo di tali categorie, vi sia un preciso afflato valoriale, se non proprio una tensione assiologica che appare quanto mai marcata laddove si decida di confrontarsi, come nello stimolante volume a cura di Filippo Maria Giorgi e di Filippo Aiello, con la tematica del lavoro precario.
Più che opportunamente, perciò, i due curatori, nella prefazione a loro firma, chiariscono che il lavoro precario “non è una formula giuridica”, ma che si tratta, piuttosto, di un’espressione connotata da una “indiscussa [e, verrebbe da aggiungere, immediatamente percepibile] polarizzazione negativa”.
Palesata così, con un’apprezzabile opzione di metodo, la matrice ultima dell’opera, si comprende che quest’ultima miri ad offrire alle lettrici e ai lettori un’indagine critica sul “fenomeno transtipico” de quo (così, efficacemente, Francesca Chietera a p. 185).
Al centro dell’analisi vengono, quali lenti privilegiate di osservazione, alcuni istituti del diritto del lavoro, i quali erano già in precedenza giunti, nelle parole dei due curatori, “nel mirino dell’esperienza professionale degli autori”, nel cui novero figurano autorevoli magistrate/i e avvocate/i del lavoro.
La tesi che si sostiene trasversalmente è che sia proprio l’ordinamento giuridico (attraverso le novelle alla disciplina lavoristica, tanto sostanziale, quanto processuale) ad avere da ultimo accettato, se non addirittura promosso, la mancanza di stabilità del lavoro, la quale ridonda nel senso di precarietà anche esistenziale che affligge una larga parte della forza lavoro.
L’argomento viene sviluppato lungo tre direttrici principali, cui corrispondono altrettante sezioni del volume: i diritti fondamentali (I), il lavoro privato (II) e il lavoro pubblico (III).
All’interno di ciascuna sezione, vengono ulteriormente declinate le questioni che involgono la precarietà del lavoro, intesa, nella specola dei curatori del volume, alla stregua de “la mancanza di continuità nel rapporto di lavoro o anche solo l’incertezza nella sua prosecuzione per un tempo sufficiente a garantire scelte di vita libera e dignitosa, ovvero la carenza di condizioni di lavoro, di sicurezza, di protezione o di reddito, tali da assicurare una pianificazione esistenziale”.
Tale concezione della precarietà del lavoro viene ripresa nei diversi contributi del volume, per quanto non vi sia sempre una concordanza di opinioni tra le autrici e gli autori in ordine ai rapporti o, forse più propriamente, ai confini con altre categorie prossime, come quella del lavoro povero, che viene talora tenuto distinto (v. Antonino Sgroi a p. 42) e talora assimilato al lavoro precario (v. Tiziana Orrù a p. 55).
Mette al contempo conto sottolineare che le diverse voci si guardano bene dal ricondurre de plano al lavoro precario ogni forma di lavoro flessibile, andando piuttosto alla ricerca dei singoli frammenti normativi che, in riferimento a ciascun istituto preso in esame, ostano al raggiungimento di quel grado di stabilità che costituisce la precondizione di un’esistenza libera e dignitosa.
Pur nella tendenziale impronta “pro labour”, l’opera merita un convinto apprezzamento, sul piano del metodo, per lo spirito pluralista che emerge dalla politica, prima ancora che dall’articolazione, delle citazioni, per quanto variamente declinate nei diversi contributi. Ciò costituisce il segno indefettibile di un’apertura al confronto con punti di vista differenti, la quale risulta particolarmente lodevole in considerazione della natura intrinsecamente valoriale del tema prescelto.
Nel merito, l’articolato volume, dal taglio e dai contenuti prettamente giuridici (limitate e generalmente sorvegliate risultano le incursioni nella sociologia), si rivela di notevole rilevanza tanto teorica, quanto pratica. L’opera racchiude, infatti, sia meditate riflessioni sulle tecniche protettive di un diritto del lavoro in rapido mutamento, sia ausili interpretativi utili a risolvere alcune delle questioni attualmente più dibattute tra gli operatori del settore, le quali spaziano dalla sussistenza del requisito della temporaneità nella somministrazione di lavoro alla definizione del salario adeguato ex art. 36 Cost., sino all’inquadramento della codatorialità nelle reti di imprese e all’individuazione dei requisiti delle procedure di selezione del personale da parte delle “partecipate”.