ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti. 9) Il muro che vorrei per uomo e donna
di Maria Cristina Amoroso
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
Vi voglio insieme.
È arrivato il momento di invitare uomini e donne ad attivarsi in maniera più determinata nello spendersi in maniera unita per la parità e contro la violenza di genere, perché questa campagna culturale, non fatta propriamente all’unisono, non è stata in grado di scalfire i numeri surreali con i quali ancora oggi facciamo i conti nonostante gli sforzi profusi.
Ci vuole altro rispetto ai comunque irrinunciabili messaggi, abbiamo urgenza di un passo più veloce: un sentire comune che abbia quale precipitato comportamenti e non solo slogan poiché, come drammaticamente evidente, i femminicidi che coinvolgono tutti i ceti e tutte le fasce d’età non si fermano.
Sicuramente è necessario e adeguato continuare a mettere in discussione le innumerevoli sollecitazioni al vivere violento cui sembriamo esserci totalmente assuefatti, ma ancor di più vi è l’esigenza che uomini e donne, insieme, si facciano carico di superare dinamiche di coppia non più sostenibili.
Violenza di genere e relazioni distorte sono questioni intimamente collegate.
L’esercizio della violenza fisica o psicologica è una modalità insana di azione che si attiva a fronte di un qualsiasi fattore scatenante, una miriade fantasiosa di eventi, le c.d. “provocazioni”, che non sono mai realmente giustificative della messa a repentaglio dell’incolumità fisica altrui.
Il “violento” nella maggioranza dei casi non è tale esclusivamente nel rapporto con l’altro sesso o per il ruolo che gli attribuisce, lo è perché vive esercitando sempre e in tutti i contesti una palese o occulta manipolazione e prevaricazione.
E’ evidente, pertanto, che se non si lotta insieme per rendere non ordinaria la violenza nel linguaggio, nel fare comune, nei messaggi dei media e dei social, purtroppo, con facilità sempre maggiore, l’aggressività caratterizzerà anche e soprattutto la relazione tra generi, in particolar modo nei casi in cui uno degli esponenti si trovi in una situazione oggettiva di inferiorità o venga erroneamente considerato tale.
Se il discorso sembra, e forse lo è, banale laddove riferito alla violenza palese e percepibile, a mio avviso è meno scontato, ma ancor più imprescindibile che, insieme, si combatta la violenza occulta costituita dai modelli disfunzionali imposti continuamente all’uomo ed alla donna dall’attuale società, che li riducono a simulacri di persone.
L’uomo deve essere forte, di successo, con potere, soldi, influente con relazioni sociali importanti, competitivo sul lavoro, curato e seducente, perché “cacciatore”, sempre giovane e mai perdente in nessun campo. La donna deve essere infaticabile, infallibile, dedita esclusivamente al marito, o al compagno, e ai figli (quando esistenti), ma anche in carriera e soprattutto sempre sexy, categoria che oggi ha sostituito la bellezza (sic.).
Gabbie identitarie a ben vedere surreali, oltre che irrealizzabili, che, nei fatti, assecondiamo e tolleriamo non contrastandole, in parte perchè certamente collegate alle spinte più ancestrali, e meno spirituali, dell’essere uomo o donna e, in parte poiché in fondo, con una certa superficialità, le consideriamo, nella migliore delle ipotesi, innocue, nella peggiore addirittura positive e necessarie per la conduzione di una vita, sempre più pubblica che privata, appagante e divertente.
Limitazioni che, ignorate nel mondo “adulto”, si presentano in tutta la loro nocività nella dimensione dei più giovani, quando si insinuano nelle menti e nei gesti delle nuove generazioni attanagliandoli in ulteriori catene che prendono il nome di bullismo, anoressia, difficoltà di comunicazione, vuoto esistenziale, dipendenza dai social e pedofilia.
Che interazione può esserci tra esponenti di una umanità ai quali viene chiesto, in nome di una felicità esclusivamente materiale, di essere oggetto di desiderio, potere, successo, conquista, e non soggetti?
A queste condizioni lo spazio tra l’uno e l’altro viene riempito dalla sopraffazione, dall’utilizzazione per i propri scopi, dalla esibizione, dal controllo e dal dominio, generando rapporti che in quanto non nutriti dal rispetto diventano fonti di insoddisfazioni, conflitti e sofferenze a prescindere dal se sia l’uomo o la donna a rivestire il ruolo di “res” nella relazione.
Forse dovemmo iniziare a mettere via qualcosa e a colmare di nuovi contenuti l’essere uomo e l’essere donna, per poter beneficiare dei conseguenti legami e far brillare i ponti che, collegando modelli che sovrastano l’individualità, avvicinano fantasmi e non persone.
Meglio un muro.
Un muro da trasformare in un foglio bianco su cui scrivere non chi (o cosa) deve essere l’uomo o la donna nella società, e cosa sia doveroso che l’uno o l’altra faccia in base a copioni desueti, ma su cui appuntare chi è e quali sono le meraviglie racchiuse nell’essere umano incontrato, per redigere insieme le condizioni di una crescita comune paritaria e riguardosa di entrambe le identità, perché solo a queste condizioni possiamo sperare di ottenere un concreto miglioramento nella società.
Riscoprire la nostra unicità, e ritrovarsi in essa. Creare equilibri inediti, originali, con posizioni mutevoli a seconda delle necessità operative e della felicità di entrambi.
Così sarebbe più facile spostare un po’ di cose proprie per accogliere quelle di cui l’altro è portatore, recuperando l’essenziale dello stare insieme come quando, da bambini, non ci interessava chi doveva fare cosa, ma solo sapere
Chi sei?
Cosa ti piace?
Come ti posso fare felice?
Cosa posso fare per te?
Mi amerai per sempre?
Mangeresti una rana viva per salvarmi?
Un muro che da separazione diventa spazio vuoto sul quale uomini e donne possono disegnare a quattro mani nuovi e mobili confini.
Un’impresa epica, necessaria e da compiere in fretta, perché oltre a rovinare e a falciare molte vite la limitatezza degli schemi in cui ci siamo fatti congelare sta uccidendo anche l’amore.
Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20) di Clara Napolitano
Sommario: 1. Le ordinanze di rimessione e il caso sottoposto alla Plenaria. – 2. Sulla questione di giurisdizione: lineamenti di un contrasto giurisprudenziale. – 2.1. La rilevanza del potere amministrativo nell’elezione del plesso giurisdizionale competente. – 3. Nel merito dell’affidamento: l’apporto del privato al provvedimento, la riconoscibilità della sua illegittimità, la consapevolezza dell’impugnazione giurisdizionale. – 4. La rimproverabilità soggettiva dell’Amministrazione: margini sfocati e ricorso a principi generali di correttezza. – 5. Affidamento legittimo o incolpevole? Qualche considerazione conclusiva su un tema destinato a far discutere ancora.
1. Le ordinanze di rimessione e il caso sottoposto alla Plenaria.
Il Consiglio di Stato si pronuncia finalmente – in via, parrebbe, definitiva – sulla questione concernente il risarcimento del danno da lesione del legittimo affidamento derivante da annullamento di atto amministrativo ampliativo illegittimo.
Due i profili oggetto dell’esegesi del Giudice: quello relativo al plesso giurisdizionale competente a pronunciarsi sulla detta domanda risarcitoria; quello attinente al merito della questione, ovvero alle condizioni nelle quali – concretamente – possa ammettersi un affidamento la cui lesione merita d’esser risarcita dalla p.A. che abbia assunto, per converso, un atteggiamento “rimproverabile” ai sensi dell’art. 2043 c.c. per responsabilità aquiliana.
V’è da dirsi che l’Adunanza plenaria del Supremo consesso amministrativo è stata adìta da plurime ordinanze di rimessione[1], tutte accomunate da una prospettiva pubblicistica del problema: da più parti, dunque, si sollecitava un intervento ordinatore del Giudice amministrativo per dirimere la quaestio circa la giurisdizione competente a pronunciarsi sulle domande risarcitorie da lesione dell’affidamento, preferibilmente nel senso di attribuirle alla giurisdizione amministrativa; e si sono altresì cercati aspetti condivisi sulla reale consistenza dell’affidamento del privato beneficiario di un provvedimento amministrativo illegittimo.
Due in particolare tra queste ordinanze, in materia edilizia, concernevano l’affidamento del privato beneficiario di un titolo abilitativo annullato in sede giurisdizionale. Venivano, dunque, in rilievo, diversi profili: anzitutto quello del Giudice competente a pronunciarsi sulla richiesta risarcitoria di quel beneficiario (che nel giudizio di annullamento aveva assunto il ruolo di controinteressato, peraltro soccombente), stante la giurisdizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a., sulle «controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia»; in secondo luogo, quello relativo alle condizioni d’esistenza dell’affidamento del (già) beneficiario e della risarcibilità della relativa lesione.
Le due ordinanze seguivano percorsi parzialmente sovrapponibili, giungendo all’affermazione della giurisdizione del G.a. sulla domanda risarcitoria – nonostante il radicato e contrario avviso del Giudice ordinario e di parte degli organi della Giustizia amministrativa – a cagione del fatto che l’affidamento non è un diritto soggettivo autonomo, bensì una situazione giuridica che “segue” quella principale e che, dunque, va alla cognizione del G.o. o del G.a. a seconda che quest’ultima sia – rispettivamente – di diritto soggettivo o d’interesse legittimo. Nel merito, entrambe le ordinanze approdavano – pur con argomentazioni differenti – ad affermare che il privato beneficiario di un provvedimento ampliativo illegittimo potrebbevantare un affidamento tutelabile ove questo sia «incolpevole», dunque privo di qualunque mala fede o colpa, e – al contempo – l’Amministrazione non sia incorsa in un comportamento sanzionabile per violazione della correttezza, rimproverabile a titolo di responsabilità aquiliana. Entrambe le ordinanze escludevano, altresì, in radice che l’affidamento del privato potesse sorgere e concretizzarsi ove il provvedimento fosse stato oggetto d’impugnazione e di annullamento giurisdizionale[2].
La vicenda che ha dato la stura alla Plenaria è presto ricordata nei suoi tratti essenziali: le questioni sono sorte in un contenzioso promosso dalla parte ricorrente per la condanna dell’A.c. al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’annullamento del permesso di costruire a favore di una porzione di un lotto di terreno che ella aveva acquistato, ottenendo la voltura del titolo a edificare. L’annullamento di quest’ultimo era stato pronunciato – in precedente giudizio – su ricorso della proprietaria confinante, promosso nei confronti del dante causa della ricorrente. Risultato vano il tentativo dell’Amministrazione di sanare ai sensi dell’art. 38, D.P.R. n. 380/2001, la situazione di abusività dell’edificazione venutasi a creare in conseguenza dell’annullamento del relativo titolo, la ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni subiti per avere confidato in buona fede nella legittimità degli atti di pianificazione urbanistica e del conseguente permesso di costruire a suo favore poi annullati in sede giurisdizionale. La domanda è stata accolta in primo grado[3].
L’Amministrazione comunale, non costituitasi innanzi al Tar, ha proposto appello contestando sia la giurisdizione amministrativa nella controversia risarcitoria, in cui risulterebbe leso l’«affidamento che il privato avrebbe riposto nella legittimità del provvedimento impugnato da altri», sia i presupposti su cui si fonda la condanna al risarcimento pronunciata nei suoi confronti.
La IV Sezione, avendo ravvisato contrasti di giurisprudenza sia presso la Corte di Cassazione che presso il Consiglio di Stato, ha dunque rimesso alla Plenaria la questione, formulando i seguenti quesiti:
1) se la domanda di risarcimento del danno «formulata dall’avente causa del destinatario di una variante urbanistica» annullata in sede giurisdizionale, e da cui sia derivato l’annullamento dei conseguenti permessi di costruire sia devoluta alla giurisdizione amministrativa, e «più in generale» se questa «sussista sempre» quando si debbano verificare le conseguenze risarcitorie dell’annullamento di un atto amministrativo, tanto su domanda del ricorrente vittorioso che del controinteressato soccombente;
2) nel merito, quando possa ravvisarsi «un affidamento ‘incolpevole’ che possa essere posto a base di una domanda risarcitoria, anche in relazione al fattore ‘tempo’»;
3) in caso positivo, e dunque che «si sia in presenza di un affidamento ‘incolpevole’», «quando si possa escludere la rimproverabilità dell’Amministrazione».
Ne è derivata la sentenza qui in commento, che segna una nuova linea di confine nella giurisdizione sulla lesione dell’affidamento del privato e profila una configurazione un po’ più precisa dei presupposti di sussistenza di quel medesimo affidamento.
2. Sulla questione di giurisdizione: lineamenti di un contrasto giurisprudenziale.
Le osservazioni che qui seguiranno riguardano anzitutto il profilo preliminare della giurisdizione alla cui cognizione bisogna affidare le controversie concernenti la lesione dell’affidamento per annullamento di un atto amministrativo favorevole.
Sia consentito un rinvio a quanto già osservato, in termini ricostruttivi, in un precedente contributo[4].
Il conflitto sulla giurisdizione è stato ampiamente esplorato dalla dottrina[5], specie dopo le note ordinanze “gemelle” della Suprema Corte, nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, nelle quali quel Giudice ha decretato la sussistenza della giurisdizione ordinaria sulle controversie aventi per oggetto il risarcimento del danno da lesione dell’affidamento subìto dal beneficiario di un provvedimento amministrativo illegittimo annullato. Ciò in quanto, secondo la Cassazione, veniva in rilievo non un pubblico potere, bensì un “comportamento” a questo non connesso, complessivamente lesivo dell’affidamento, qualificato alla stregua di un «diritto soggettivo all’integrità patrimoniale»[6] e, come tale, rilevante ai fini della responsabilità per violazione dei principi di buona fede e correttezza[7] e rientrante nella giurisdizione ordinaria.
In altre parole, per la Corte di Cassazione, l’annullamento – in via di autotutela o giurisdizionale – del provvedimento favorevole priva i soggetti, che ne erano stati beneficiari, del diritto conseguito illegittimamente: il ripristino della legalità violata impedirebbe a costoro di accedere alla tutela demolitoria innanzi al G.a. e, dunque, anche alla tutela risarcitoria consequenziale e aggiuntiva alla prima.
A quel punto, l’avvenuto annullamento del provvedimento favorevole non rileverebbe quale esercizio di potere amministrativo (o giurisdizionale), e dunque non sarebbe idoneo a collocare dinanzi al G.a. la controversia che ne nasce: al contrario, esso rileverebbe solo quale “mero comportamento” assunto dall’Amministrazione che aveva rilasciato quel provvedimento illegittimo.
In altre parole, ove la p.A. abbia adottato un provvedimento favorevole ampliativo illegittimo e poi il Giudice amministrativo (su ricorso del controinteressato) o la p.A. medesima (in via di autotutela) lo abbiano poi annullato – ripristinando la situazione jure – l’intera sequenza comportamentale rileverebbe – per il solo beneficiario – quale atto illecito per violazione del principio neminem laedere, sussistendo i presupposti dell’art. 2043 c.c.. L’unica tutela invocabile per il (già) beneficiario (soccombente nel giudizio impugnatorio intrapreso dal suo controinteressato) sarebbe così quella risarcitoria fondata sull’affidamento, relativa a un danno «che oggettivamente prescinde da valutazioni sull’esercizio del potere pubblico», fondandosi su doveri di comportamento in buona fede richiesti dall’ordinamento anche all’Amministrazione. Questa tutela, però – stante la mancanza di connessione tra il danno e il potere pubblico, e la consistenza di diritto soggettivo della situazione (affidamento) fatta valere – non sarebbe riconducibile alla giurisdizione del G.a., con conseguente riserva della relativa cognizione al Giudice ordinario[8].
Le critiche a questa lettura ne hanno evidenziato da subito d’incoerenza col sistema di tutela ordinato dalla Costituzione e dal codice del processo amministrativo sotto vari profili.
Anzitutto, quello della concentrazione delle tutele: non v’è ragione alcuna per separare le azioni da intraprendere (e i plessi giurisdizionali da adire) per ottenere ristoro dell’asserita lesione del proprio affidamento. A ben vedere, il vulnus al destinatario del provvedimento (prima) adottato e (poi) rimosso è stato causato non da un mero comportamento dell’Amministrazione che abbia violato i canoni di buona fede e correttezza come qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento; bensì dall’esercizio di un potere amministrativo illegittimamente ampliativo. Il pregiudizio è insomma causato anzitutto dall’adozione del provvedimento favorevole: ne consegue che l’azione caducatoria e quella risarcitoria – anche nel caso di annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole illegittimo – ricadono nella giurisdizione amministrativa, essendo comunque inerenti al cattivo esercizio del potere.
Il principio della concentrazione delle tutele è violato anche laddove ci si soffermi sull’orientamento della Cassazione, che consegna a due destini differenti la tutela del controinteressato danneggiato dal provvedimento ampliativo del quale ha chiesto l’annullamento; e la tutela del beneficiario (soccombente nel giudizio di annullamento) di quel medesimo provvedimento.
La Suprema Corte radica la giurisdizione in base al criterio della causa petendi, in ossequio al quadro costituzionale, ma lo fa intestando al controinteressato al provvedimento (ricorrente vittorioso nel giudizio di annullamento) un interesse legittimo oppositivo, la cui mancata soddisfazione nell’ambito procedimentale può essere anche risarcita dal G.a. nel giudizio instaurato con azione di condanna al risarcimento del danno; e, viceversa, intestando in capo al beneficiario del provvedimento (controinteressato processuale soccombente nel giudizio di annullamento) un interesse legittimo pretensivoillegittimamente soddisfatto, dal quale – a seguito dell’annullamento – residua esclusivamente un diritto soggettivo[9]asseritamente leso: l’affidamento. Situazione che lo conduce al Giudice ordinario[10].
La grande perplessità che l’orientamento della Cassazione porta con sé, peraltro – come si vedrà qui di seguito – prontamente sconfessata dal Giudice amministrativo, è che l’affidamento del privato costituisca una situazione soggettiva ex se, nella specie un diritto soggettivo: questo, indipendentemente dalla natura del rapporto principale dal quale quella lesione dell’affidamento deriva. Qualora mai la lesione derivasse da un illegittimo esercizio di potere amministrativo, questo sarebbe degradato a comportamento illecito presupposto ex art. 2043 c.c..
Ci si è chiesti, infatti, se davvero l’affidamento possa esser tenuto in separata considerazione rispetto alla vicenda amministrativa sottostante, tanto da affidarne la protezione a un organo giurisdizionale diverso rispetto a quello che ha il potere di cognizione su di essa: «è proprio incontrovertibile che l’affidamento sia un diritto soggettivo (o un interesse legittimo)? O meglio, è sicuro che esista un diritto all’affidamento o un diritto alla correttezza dell’azione amministrativa svincolato dalla vicenda amministrativa autoritativa? Cioè si è sicuri che la lesione dell’affidamento e la violazione della correttezza – che resta uno dei vizi di legittimità del procedimento amministrativo da tempi “sandulliani” e quindi costituisce un “parametro” del sindacato – diano invece luogo a posizioni soggettive autonome svincolate dalla vicenda sostanziale cui si riferiscono e idonee a essere riparate da un giudice diverso da quello della vicenda sostanziale? Cioè, si possono scorporare correttezza, non discriminazione, buon andamento, ecc. dal procedimento amministrativo e quindi dal luogo tipico di esercizio della funzione e di composizione tra interessi contrapposti? (Non si sottovaluti la normale trilateralità delle vicende sostanziali in esame e la potenziale plurioffensività dell’unica manifestazione del potere che si rinviene in esse). O piuttosto il giudice “ordinario” e naturale della funzione pubblica dovrebbe conoscere anche di quelle lesioni e di quelle violazioni provocate nell’esercizio del potere pubblico nell’ambito di una medesima vicenda sostanziale?»[11].
La Plenaria qui in commento fa propria questa opinione e chiarisce che l’affidamento non è una posizione giuridica autonomamente rilevante, ma è un quid pluris, che assume la natura del rapporto principale sul quale s’innesta. Nel caso di provvedimento ampliativo illegittimo poi annullato, in altre parole, il danno al suo beneficiario non è pervenuto dal “comportamento complessivo” dell’Amministrazione, bensì dall’illegittimo esercizio del potere.
Vediamo.
2.1. La rilevanza del potere amministrativo nell’elezione del plesso giurisdizionale competente.
La conseguenza di questo assunto è che l’affidamento – non essendo una situazione giuridica autonomamente configurabile – s’inserisce nella più nota dicotomia tra interessi legittimi e diritti soggettivi. Sicché esso assumerà la natura propria degli uni o degli altri a seconda che il rapporto principale rientri nell’una o nell’altra categoria.
Sicché, ove il rapporto principale abbia natura privatistica, anche la lesione dell’affidamento s’innesterà nell’ambito privatistico e si configurerà come lesione di un diritto soggettivo. Viceversa, ove il rapporto sottostante presenti caratteri pubblicistici, essa assumerà la natura di interesse legittimo.
Come noto, ciò che distingue un rapporto avente natura pubblicistica da uno avente natura privatistica sta nell’esercizio del potere pubblico. È per questo che la Plenaria attinge a piene mani a quel serbatoio giuridico costituito dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 204/2004 e 191/2006, le quali – è fatto notorio – hanno delineato un sistema di riparto nel quale la giurisdizione del G.a. – sia in sede di legittimità sia (in particolare) in sede esclusiva – è strettamente connessa alla veste autoritativa assunta dalla p.A. nel rapporto. Ciò che è facilmente identificabile allorquando l’Amministrazione esplichi la sua attività attraverso atti e provvedimenti formali; meno quando lo faccia tramite comportamenti: poiché in questa ipotesi «deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G.a. delle controversie relative a comportamenti collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere».
Sicché, per la Plenaria anche l’affidamento è soggetto al riparto di giurisdizione delineato dalla Costituzione e dalla Consulta nelle sue note pronunce: la sua lesione va alla cognizione del G.a. sia nel caso di richiesta risarcitoria derivante dall’annullamento di un atto o provvedimento ex art. 7 c.p.a., e dunque nella giurisdizione di legittimità sugli interessi legittimi; sia nel caso di azione risarcitoria intentata dal controinteressato processuale soccombente nei giudizi su quei rapporti nei quali interessi legittimi e diritti soggettivi sono indistinguibili, e cioè in giurisdizione esclusiva[12].
La rispondenza al sistema costituzionale di tutela è presto spiegata, anche facendo ricorso alla storia derivante dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo, in seguito alla cui emanazione è stato necessario che il Costituente creasse una «unità funzionale e non organica della giurisdizione nazionale»: v’è un Giudice naturale[13] per ciascuna delle due situazioni soggettive contemplate dalla Costituzione agli artt. 24 e 113 Cost., poiché al giudice ordinario spetta la cognizione sui diritti soggettivi e al giudice amministrativo quella sugli interessi legittimi, fatte salve le materie di giurisdizione esclusiva, in cui è concentrata presso quest’ultimo la tutela di entrambe le situazioni, poiché nelle «speciali materie» ex art. 103 Cost. queste si presentano inestricabilmente intrecciate.
Ciò in quanto – se la legge abolitrice del contenzioso amministrativo aveva assegnato ai Tribunali ordinari la cognizione dei diritti civili e politici, «comunque vi possa essere interessata la pubblica Amministrazione», lasciando la cura di tutti gli altri «affari non compresi» alla stessa p.A. – l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con la legge Crispi del 1889 aveva recuperato la dimensione giurisdizionale della tutela degli «interessi», affidandola al neonato Giudice amministrativo.
Il lungo cammino dell’ammissibilità della risarcibilità di quegli interessi – ove danneggiati dall’Amministrazione nell’esercizio del suo potere autoritativo – è poi passato attraverso diverse, faticose tappe, legislative e pretorie: dapprima esclusi dalla tutela risarcitoria, gli interessi legittimi sono stati ritenuti risarcibili per responsabilità oggettiva dell’Amministrazione nell’ambito degli appalti[14]; e solo dopo, a seguito della generalizzazione della loro risarcibilità in tutti gli ambiti d’esercizio del potere amministrativo, è stata loro accordata tutela risarcitoria derivante da responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.[15]. La relativa cognizione è transitata, peraltro, dal Giudice ordinario al Giudice amministrativo sia nella giurisdizione generale di legittimità, sia nelle materie di giurisdizione esclusiva, ove sussista il potere autoritativo della p.A.
Ma v’è un aspetto chiarito dalla Corte costituzionale proprio in relazione alla natura dell’azione risarcitoria: e cioè che «il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia”» attribuita alla giurisdizione del Giudice amministrativo, bensì «uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione»[16]. A stretto rigore se ne deve desumere che il risarcimento è una tecnica di tutela del Giudice amministrativo in giurisdizione generale di legittimità, che ad essere azionato per tale via, è l’interesse legittimo e non il diritto soggettivo[17].
Il risarcimento, in altre parole, non è oggetto di un diritto soggettivo, bensì un rimedio a tutela delle posizioni giuridiche tutte, siano esse di diritto soggettivo o d’interesse legittimo. Come tale, esso va chiesto al plesso giurisdizionale competente per la tutela della posizione giuridica sottostante. Dunque anche al G.a., poiché il giudizio amministrativo «assicura la tutela di ogni diritto: e ciò non soltanto per effetto dell’esigenza, coerente con i princìpi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica, ma anche perché quel giudice è idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa»[18].
Un assetto, questo, confermato anche dal c.p.a., il cui art. 7, co. 1 e 7, assegna al G.a. la cognizione delle controversie «nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni»; e declina il principio fondamentale di effettività (sancito dall’art. 1 c.p.a.) nel senso che esso «è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi».
Ora, come detto l’affidamento rientra esattamente in questa dicotomia. Esso ha cittadinanza certo nei rapporti interprivatistici, nell’ambito dei quali peraltro nasce[19]. Ma, trattandosi di un principio generale più che di una situazione soggettiva autonoma, esso trova applicazione anche nei rapporti pubblicistici di diritto amministrativo: rilevando non come diritto soggettivo ex se, bensì come «principio generale dell’azione amministrativa»[20] che fa sorgere nel destinatario del provvedimento favorevole l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale atto.
In altre parole, ciò che viene in rilievo è la fiducia del privato beneficiario nella legittimità del provvedimento e dunque nella stabilità dei suoi effetti favorevoli: quella che viene protetta, allora, è la delusione della fiducia (mal)riposta nell’esercizio del potere favorevole.
Ne deriva che la giurisdizione è devoluta al G.a. perché la “fiducia” su cui riposava la relazione giuridica tra Amministrazione e privato, asseritamente lesa, si riferisce «non già ad un comportamento privato o materiale – a un “mero comportamento” – ma al potere pubblico, nell’esercizio del quale l’Amministrazione è tenuta ad osservare le regole speciali che connotano il suo agire autoritativo e al quale si contrappongono situazioni soggettive del privato aventi la consistenza di interesse legittimo»[21].
L’Adunanza plenaria è su questo estremamente chiara: ove l’Amministrazione “tradisca” la fiducia del privato che aveva confidato nella legittimità e nella stabilità degli effetti del provvedimento, lo fa nell’ambito dell’esercizio di un pubblico potere, dunque la giurisdizione va al Giudice amministrativo.
E non v’è distinzione tra il beneficiario e il controinteressato al provvedimento ampliativo illegittimo: è col medesimo atto amministrativo, che l’Amministrazione può aver danneggiato tanto l’uno quanto l’altro, pertanto non v’è ragione di assegnare la giurisdizione circa le richieste risarcitorie a due Giudici diversi[22].
D’altra parte, che l’affidamento sia situazione accessoria rispetto al rapporto amministrativo principale è dimostrato anche dal dato normativo. Lo analizza correttamente la Plenaria: l’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990, per il quale i «rapporti tra il cittadino e la pubblica Amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede»[23].
Si tratta di una disposizione che prende atto del mutamento del procedimento amministrativo da segreto e unilaterale a partecipato e paragiurisdizionale. Si deve cioè ormai tener conto del fatto che il provvedimento che conclude la diacronia procedurale di atti – sia stata avviata essa su istanza di parte od officiosamente – è una vera e propria decisione partecipata[24]. I suoi effetti sono, sì, unilaterali. Ma vengono da una determinazione che la p.A. assume insieme al privato.
Questo ha due conseguenze fondamentali: sul piano provvedimentale, che la decisione è l’effetto della partecipazione al processo creativo sia della p.A. sia del privato; sul piano comportamentale, che entrambe le parti sono tenute a rispettare i principi della buona fede e della correttezza nel rapporto pubblicistico che si crea[25]. Il quale si nutre anche del principio fondamentale dell’affidamento: senza per questo vestirsi di natura interprivatistica.
A questo proposito è utile il richiamo a un noto precedente del Consiglio di Stato[26] che ha statuito la sussistenza della responsabilità precontrattuale della p.A. in caso di revoca di un bando di gara: nonostante la revoca possa esser legittima, il piano della responsabilità ne è completamente svincolato. È dunque ben possibile che l’Amministrazione agisca legittimamente, ma violando canoni di correttezza e buona fede, risultando così responsabile ex art. 1337 c.c. Da un unico esercizio di potere possono derivare conseguenze autonome: legittimità del provvedimento e illiceità del comportamento. Entrambi, però, vanno valutati sotto il profilo pubblicistico, perché connessi – appunto – all’esercizio di potere. E la responsabilità è affermata proprio per la lesione dell’affidamento delle imprese che hanno partecipato alla gara e hanno incolpevolmente confidato nel suo buon esito e nella stabilità degli effetti dell’aggiudicazione, condizionando anche loro altre scelte imprenditoriali. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la legittimità – o anche la doverosità – di un provvedimento di revoca[27]: è oggetto d’esame autonomo, che s’innesta però pur sempre in un rapporto di natura pubblicistica perché connotato da un agire autoritativo dell’Amministrazione.
In questa prospettiva, l’affidamento del privato «si proietta sulla positiva conclusione del procedimento, e dunque sull’attuazione dell’interesse legittimo di cui il medesimo [privato] è portatore, ma che diventa in sé tutelabile in via risarcitoria se l’amministrazione con il proprio comportamento abbia suscitato una ragionevole aspettativa sulla conclusione positiva del procedimento. E ciò a prescindere dal fatto che il bene della vita fosse dovuto ed anche se si accertasse in positivo che non era dovuto»[28]: ai fini dell’affermazione di una responsabilità della p.A. nella lesione dell’affidamento bisogna dunque guardare non tanto la legittimità o meno del provvedimento ampliativo; bensì il tenore comportamentale dell’Amministrazione stessa, la quale può aver suscitato una “ragionevole aspettativa” sulla favorevole conclusione del procedimento.
Si parla, dunque, del comportamento pubblicistico dell’Amministrazione: ne deriva che resta competente, in aperto contrasto con l’orientamento consolidato della Cassazione[29], il Giudice amministrativo sia nella giurisdizione generale di legittimità (tanto per provvedimenti tanto per atti e comportamenti) sia nella giurisdizione esclusiva.
3. Nel merito dell’affidamento: l’apporto del privato al provvedimento, la riconoscibilità della sua illegittimità, la consapevolezza dell’impugnazione giurisdizionale.
L’Adunanza plenaria si diffonde, poi, sui requisiti che devono sussistere perché l’affidamento del privato possa dirsi “legittimo”. O meglio, per usare proprio le parole del Collegio, “incolpevole”.
Anche qui bisogna fare un piccolo passo indietro all’ordinanza di rimessione. La Sezione rimettente aveva, infatti, espresso un’opinione molto rigorosa sui requisiti dell’affidamento, escludendo che esso possa configurarsi ogni qualvolta la p.A. annulli un proprio provvedimento favorevole illegittimo o – su impugnazione del controinteressato – lo faccia il Giudice. Optando per una valutazione caso per caso, il Giudice aveva dunque ritenuto che il privato dovesse versare inequivocabilmente in una situazione di buona fede soggettiva e di assenza di colpa: tale ritenendosi lo stato di chi ha ragione di confidare nella legittimità del provvedimento a sé favorevole, restandone invece esclusa l’ipotesi d’impugnazione giurisdizionale o di illegittimità riconoscibile.
La posizione espressa dalla Sezione rimettente era particolarmente rigida poiché si rifaceva al principio di autoresponsabilità del privato, attribuendo a costui una determinante efficacia causale dell’illegittimità del provvedimento: non si può dolere dell’annullamento (da parte della p.A. o del Giudice) chi abbia contribuito – con la propria istanza «oggettivamente non accoglibile» – a dar vita al provvedimento illegittimo.
Secondo la Sezione, concedere il risarcimento del danno da lesione dell’affidamento significava sgravare il privato dalla sua corresponsabilità: addirittura, dargli la possibilità di beneficiare della compensazione economica risarcitoria derivante dal (giusto) annullamento del provvedimento illegittimo alla cui emanazione egli stesso aveva contribuito.
La lettura aveva suscitato anche qualche perplessità: se non altro perché conduceva al risultato opposto, ovvero accrescere il peso della responsabilità sul privato, lasciando invece totalmente deresponsabilizzata l’Amministrazione[30].
Perplessità che è stata colta dall’Adunanza plenaria, la quale ha smorzato l’efficacia causale dell’istanza inaccoglibile del privato, richiamando il ruolo di garanzia dell’Amministrazione per l’interesse pubblico tutelato. In altre parole, vero è che il privato può presentare una istanza oggettivamente non suscettibile d’accoglimento e non può quindi giovarsi – nemmeno indirettamente, in via risarcitoria – del vantaggio indebitamente percepito; è però anche vero che l’Amministrazione ha un ruolo altrettanto determinante laddove abbia – erroneamente – accolto l’istanza e provveduto favorevolmente, venendo meno al suo compito di proteggere l’interesse pubblico intestatole[31].
In questo senso l’Adunanza plenaria parla di affidamento «incolpevole»: basato cioè su una situazione di apparenza costituita dall’Amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato.
Quindi, per un verso il privato non può avvantaggiarsi indebitamente degli effetti del provvedimento illegittimo, chiedendo il risarcimento della “delusione” della sua aspettativa di stabilità: poiché, se così fosse, la tutela risarcitoria compenserebbe il bene della vita perso, non certo il suo affidamento[32].
Per altro verso, ove però la sua aspettativa sia “ragionevole” perché indotta dall’Amministrazione medesima senza colpa di costui, allora la tutela risarcitoria interverrebbe a ristorare il convincimento ragionevole che quel vantaggio spettasse al privato.
Si deve, dunque, guardare al grado di colpa dell’Amministrazione: che muta a seconda che il vizio del provvedimento sia manifesto o comunque riconoscibile dal privato. È noto che la responsabilità della p.A. nell’ambito della sua attività provvedimentale segue i criteri dell’art. 2043 c.c. e si è ormai assestata su un “adattamento” della responsabilità aquiliana, tale per cui la c.d. colpa d’apparato è presunta nel caso di atto illegittimo, ma si tratta di presunzione semplice, superabile dalla p.A. adducendo la prova contraria dell’errore scusabile[33].
Rientra tra le fattispecie d’errore scusabile anche l’illegittimità manifesta del provvedimento: che consente di ritenere che il privato ne potesse pertanto essere consapevole e, quindi, di escludere o attenuare la colpa dell’Amministrazione.
Infatti, poiché percepibile ictu oculi, questa patologia marchiana esclude in radice un affidamento tutelabile: lo conferma la giurisprudenza sul risarcimento del danno chiesto proprio a seguito dell’adozione di atti di autotutela su provvedimenti illegittimi, la cui ragionevolezza è tarata sul «tipo di vizio che affligge l’atto»[34].
Insomma, ci devono essere circostanze che obiettivamente giustifichino l’aspettativa sul risultato utile (o sulla conservazione dell’utilità ottenuta) serbata dal privato. Se questa si regge solo su un intimo animus, contrario a dati che invece suggeriscono la prevedibilità dell’esito demolitorio, non è risarcibile.
Nessun automatismo per il risarcimento della lesione dell’affidamento. Né in senso positivo, collegandolo alla sola buona fede soggettiva del privato; né in senso negativo, addossando a costui il costo dell’improvvido accoglimento di una sua istanza non accoglibile.
Quanto, poi, al rilievo sull’elemento soggettivo dell’affidamento dell’impugnazione giurisdizionale del provvedimento. Anche qui le osservazioni della Plenaria sono generate dal rigido argomentare della Sezione rimettente: chi esegue un provvedimento per sé vantaggioso a dispetto della sua impugnazione da parte del controinteressato sostanziale, e dunque a dispetto del giudizio caducatorio instauratosi, «lo fa a suo rischio e pericolo».
È probabile che le parole della Sezione abbiano inteso colpire coloro che fraudolentemente, nonostante la – anzi, proprio a causa della – impugnazione del provvedimento, vi diano esecuzione sì da non poter poi, nelle more del giudizio, ridurre in pristino la situazione.
Di certo, quanto meno nella fattispecie dell’impugnazione di titoli edilizi, la Plenaria ha avallato questa lettura, per la quale l’instaurazione del giudizio caducatorio da parte di chi vi abbia interesse deve avvenire «senza indugio»[35], poiché il decorso del tempo è idoneo a consolidare l’affidamento del beneficiario; se ne deduce che, viceversa, la tempestiva impugnazione del titolo edilizio interrompe quel lasso temporale d’inerzia e impedisce che venga a configurarsi un affidamento tutelabile del privato.
Pertanto, con l’esercizio dell’azione di annullamento quest’ultimo è posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce – per un verso – a escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto, e addirittura da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro verso porta a ipotizzare un affidamento tutelabile prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.
Si resta piuttosto perplessi da questa ricostruzione: se non altro perché essa sembra non tener conto della presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo, la quale trova il suo fondamento nel principio generale di certezza del diritto in ossequio al quale l’atto amministrativo – pur (asseritamente) invalido – produce i suoi effetti giuridici dalla sua emanazione e il ricorso non è idoneo a sospenderne l’efficacia salvo l’accoglimento di una specifica domanda in tal senso del ricorrente.
Paradossalmente, il controinteressato sostanziale (ricorrente) potrebbe non inoltrare al Giudice istanza sospensiva cautelare e il beneficiario dell’atto (controinteressato processuale) potrebbe comunque non portarlo a esecuzione, nonostante la sua presunzione di legittimità, pena la perdita di un diritto al risarcimento, nel caso di soccombenza, per lesione dell’affidamento.
4. La rimproverabilità soggettiva dell’Amministrazione: margini sfocati e ricorso a principi generali di correttezza.
Di contro all’attenzione prestata all’affidamento del privato, le considerazioni sul comportamento dell’Amministrazione si fanno più rapide e meno puntuali.
C’è un presupposto necessario, già accennato più sopra: la responsabilità dell’Amministrazione da comportamento o da provvedimento è ancorata al paradigma extracontrattuale, dunque è contraddistinta dalla colpa d’apparato, eliminabile con la dimostrazione dell’errore scusabile.
Ne deriva che, in assenza dell’errore scusabile, l’Amministrazione è ritenuta responsabile dell’affidamento ingenerato nel privato, ove costui dimostri di versare in condizioni di buona fede soggettiva e oggettiva.
È l’infiltrazione del principio di responsabilità dell’Amministrazione nel procedimento amministrativo: principio che assume pienamente, oggi, valenza sostanziale, e che già dovrebbe ritenersi presente nell’attività amministrativa dal rinvio che l’art. 1, l. n. 241/1990 opera ai principi del diritto comunitario[36].
Eventuali condotte “riparatorie” della p.A. non valgono, poi, ai fini dell’esclusione della sua responsabilità: al contrario, se l’Amministrazione adotta iniziative di qualunque genere per difendere il provvedimento – o i suoi effetti – per tenere indenne il privato dall’eventuale annullamento, questo comportamento non rientra tra le scusanti. Esso è idoneo a rafforzare l’affidamento, e quindi ad aggravare la delusione in caso di annullamento dell’atto.
L’impianto argomentativo dell’Adunanza plenaria impone, pertanto, di considerare il comportamento dell’Amministrazione non soltanto per ciò che concerne il suo contributo alla formazione del provvedimento illegittimo, ma anche per quanto riguarda la sua condotta successiva alla sua adozione.
Come a dire che, ove la p.A. abbia emanato un atto favorevole contra legem, difenderlo resistendo nell’eventuale giudizio instaurato non la esimerà dal dover risarcire al suo beneficiario il danno per lesione dell’affidamento, ove costui sia in completa buona fede: né il fatto che egli si sia costituito in giudizio in qualità di controinteressato al ricorso – e dunque anche lui per difendere quel provvedimento – può in alcun modo attenuare la rimproverabilità del comportamento dell’Amministrazione[37].
5. Affidamento legittimo o incolpevole? Qualche considerazione conclusiva su un tema destinato a far discutere ancora.
Non v’è dubbio che la pronuncia qui in commento abbia determinato l’avvio di una nuova querelle in tema di giurisdizione sul danno da lesione del legittimo affidamento.
Il fulcro centrale della questione diventa – più che la causa petendi, la quale finora aveva condotto a una discutibile distinzione tra interesse legittimo oppositivo deluso e interesse legittimo pretensivo non soddisfatto – l’esercizio di potere autoritativo o meno.
La Plenaria ha chiarito che sussiste la giurisdizione amministrativa ogni qualvolta il privato lamenti la lesione del suo affidamento derivante – in via immediata o mediata – dall’esercizio di potere pubblico: perché il legittimo affidamento non è una situazione a sé stante, non è un diritto scorporabile dal rapporto amministrativo sottostante. È un principio applicabile a tutti i rapporti e la sua tutela – risarcitoria – è uno strumento ulteriore che si aggiunge all’armamentario del Giudice amministrativo.
L’Amministrazione può bensì deludere l’aspettativa di un privato e per questo esser giudicata dal Giudice ordinario, ma solo quando detta delusione avvenga nell’alveo di un rapporto jure privatorum, per esempio quando la p.A. agisca, come qualunque soggetto di diritto, tramite contratto o qualunque altro strumento che escluda l’uso del potere ma involga le dinamiche del consenso paritario.
Viceversa, quando la delusione dell’aspettativa privata avvenga nell’alveo di un rapporto la cui instaurazione è legata all’esercizio di potere pubblico autoritativo, non v’è spazio per la giurisdizione ordinaria: il rapporto di base è sperequato, gli interessi sono asimmetrici, tanto che l’affidamento del privato non è riposto in un comportamento specifico della p.A. nei suoi confronti, bensì nella legittimità del provvedimento e nella stabilità dei suoi effetti.
Da questo assunto deriva un’osservazione, sulla scia di autorevole dottrina[38].
E cioè che forse il richiamo all’incolpevolezza dell’affidamento potrebbe non essere appropriato, poiché quel concetto è imbevuto di paritarietà interprivatistica.
Nel diritto civile la tutela dell’affidamento si rende necessaria laddove questo, ingenerato dal comportamento altrui che ha fatto nascere un’aspettativa, sia stato poi causa anche di una determinata condotta, rivelatasi pregiudizievole: è ciò che rende l’affidamento “incolpevole”. Viceversa, nei rapporti pubblicistici le cose sono molte diverse. Perché il rapporto amministrativo ha una forma determinata, non vige il principio di libertà: e la forma è quella degli atti amministrativi soggetti allo scrutinio di legittimità secondo i principi che regolano l’attività amministrativa. Sono principi «connotati in senso obiettivo, che non danno spazio alla valutazione dei fattori di ordine personale che sono spesso determinanti per l’insorgere dell’affidamento “incolpevole” nei rapporti tra i privati»[39]. Sicché, nel diritto amministrativo, quell’affidamento – più che incolpevole – è “legittimo”.
Il richiamo a categorie interprivatistiche denota dunque lo sforzo di sganciare la tutela dell’affidamento da quella della legittimità dell’azione amministrativa: provando a far convivere due realtà – quella legata a parametri di soddisfazione dell’interesse pubblico e quella legata alla riparazione della delusione (non dell’interesse privato, bensì) dell’aspettativa – che sono rette da due regole d’ingaggio differenti.
La p.A., che agisce in via d’autorità ed è dunque sottoposta al vaglio della legittimità dei suoi provvedimenti, è trattata anche come un soggetto privato, che nulla “deve”, ma comunque tenuta al rispetto del principio più ampio di correttezza.
Sicché, un’Amministrazione che si espone all’adozione di un provvedimento ampliativo illegittimo deve stare attenta due volte, anzi tre: all’annullamento (sanzione costitutiva), al risarcimento del controinteressato e del già beneficiario deluso.
Il rischio paralisi è più che evidente: ricadendo così nella prassi dell’Amministrazione difensiva che preferisce restare inerte. In barba a ogni intervento legislativo che invece mira all’azione, quale che essa sia.
Seguono alcuni palliativi: un’approfondita disamina della effettiva legittimità dell’affidamento, con uno scrutinio dei parametri oggettivi e soggettivi di assoluta buona fede del privato; la concomitante possibilità per l’Amministrazione di fornire la prova dell’errore scusante per evitare la rimproverabilità della colpa d’apparato.
In ciò giocano un ruolo fondamentale le due eccezioni che escludono in radice qualunque affidamento e dunque la logica del caso per caso: l’impugnazione del provvedimento dinanzi al G.a. da parte del suo controinteressato e la riconoscibile illegittimità.
Se l’uno è comunque un parametro oggettivo, che rende prevedibile l’annullamento e dunque impedisce il formarsi di una vera e propria “delusione” o “sorpresa” del privato beneficiario; l’altro resta ancora piuttosto fumoso, peraltro nuovamente rischiando di sovrapporre il piano della legittimità dell’atto (che risponde a interessi pubblici e principi legislativi) con quella della buona fede del privato deluso (che risponde invece a parametri comportamentali diversi dalla sfera della legittimità).
Questo secondo aspetto, in particolare, è destinato, nell’opinione di chi scrive, a nuovi arresti giurisprudenziali che ne definiscano i contorni. Quello, di cui in apertura, in punto di giurisdizione, è invece in aperto contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite, alle quali – senza alcun velo – la Plenaria “lancia” la sfida. Ci penserà, dunque, un ricorso per motivi di giurisdizione ex art. 111 Cost., a riaprire la querelle tra Giudice ordinario e amministrativo.
Alla prossima puntata.
[1] Cons. Stato, II, ord. 9 marzo 2021, n. 2013, in Giustiziainsieme.it con nota di C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato, 27 aprile 2021; Cons. Stato, II, ord. 6 aprile 2021, n. 2753; Cons. Stato, IV, 11 maggio 2021, n. 3701, in Giustiziainsieme.it, con nota di G. Capra, La lesione dell’affidamento: i dubbi sulla giurisdizione e sulla tutela del privato, 2021.
V’è da sottolinearsi, peraltro, che l’ordinanza Cons. Stato, II, n. 2753/2021, cit., concerneva prettamente la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale derivanti dall’annullamento in sede giurisdizionale dell’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico di lavori: pronunziava dunque sulla responsabilità della pubblica Amministrazione per l’affidamento suscitato nel destinatario di un provvedimento ampliativo illegittimamente emanato e poi annullato, con particolare riguardo all’ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture, successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale. Sull’ordinanza si è pronunciata l’Adunanza plenaria con sentenza del 29 novembre 2021, n. 21, la quale ha affermato il principio secondo cui «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa». In altre parole – in disparte il profilo della giurisdizione, non oggetto di vaglio giurisprudenziale – la p.A. nella veste di stazione appaltante può incorrere in una responsabilità precontrattuale per violazione dei canoni di correttezza e buona fede indipendentemente dalla legittimità del suo operato. Principio, questo, già fortemente affermato in Cons. Stato, Ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6, più volte richiamata anche nella Plenaria qui in esame, la n. 20/2021.
[2] Su questo punto le argomentazioni assumono percorsi profondamente differenti. Per la II Sezione, non vi potrebbe essere affidamento tutelabile laddove il provvedimento ampliativo sia annullato dal Giudice perché dal potere giurisdizionale non si può pretender nulla: non v’è affidamento da riporre nell’Autorità giurisdizionale, la quale agisce esercitando un potere terzo e imparziale vòlto a dirimere le controversie e non a bilanciare interessi. Viceversa, per la VI Sezione l’affidamento del beneficiario non è tutelabile laddove il provvedimento sia stato impugnato – e annullato dal G.a. – in quanto la mera impugnazione è di per sé un fattore di conoscibilità dell’illegittimità dell’atto e l’annullamento di quest’ultimo non è un evento imprevedibile, tale da “deludere” il beneficiario/controinteressato processuale.
[3] Tar Marche, 6 maggio 2020, n. 268, il quale ha ravvisato la «colpa d’apparato» dell’Amministrazione comunale, consistita nell’adozione dell’illegittima variante urbanistica e il nesso di causalità tra questa e il relativo annullamento in sede giurisdizionale: la ricorrente infatti «aveva acquistato il terreno per realizzarvi una dimora estiva» e «non avrebbe verosimilmente acquistato un terreno di cui non era possibile la trasformazione edilizia». La sentenza di primo grado ha quindi condannato il Comune al risarcimento dei danni consistenti nel maggior valore del terreno acquistato correlato alla sua illegittima destinazione edificatoria e nelle spese sostenute per l’edificazione e per la successiva demolizione del fabbricato su di esso realizzato.
[4] C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione, cit.
[5] V. in proposito, G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Riv. giur. ed., n. 5/2016, pp. 483 ss.; C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss.; F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell’affidamento, in Federalismi.it, n. 24/2011; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, n. 7/2011; P. Chirulli, Responsabilità da comportamento. Report annuale 2011, in Jus Publicum, www.jus-publicum.com, 2011; da ultimo – più in generale sulla tutela dell’affidamento alla luce degli ultimi arresti giurisprudenziali della Cassazione – v. anche M. Filippi, Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione: riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza, in Giustiziainsieme.it, 11 febbraio 2021.
[6] Così Cass., SS.UU., ord. 4 settembre 2015, n. 17586: «L’azione di risarcimento dei danni per l’affidamento incolpevole del beneficiario del provvedimento amministrativo emesso illegittimamente e poi rimosso per annullamento in autotutela divenuto definitivo o per annullamento in sede giurisdizionale spetta alla giurisdizione del G.o.; il solo fatto che nella fattispecie rilevi l’agire della p.a. che ha portato all’adozione del provvedimento favorevole illegittimo non giustifica che la lesione che si manifesta ex post quando tale provvedimento viene rimosso, e fa sorgere eventuale diritto al risarcimento del danno da affidamento incolpevole, sia riferibile all’interesse legittimo che il beneficiario aveva in relazione a quell’agire, e ciò in quanto quell’interesse pretensivo non era già l’interesse all’agire legittimo della p.A., bensì quello all’emanazione del provvedimento ampliativo, che è stato, sia pure illegittimamente, soddisfatto. Ciò che viene in rilievo successivamente all’annullamento è piuttosto il diritto soggettivo all’integrità patrimoniale, con conseguente giurisdizione del G.o.». A commento di quest’ordinanza, cfr. M. Sinisi, Annullamento della concessione per la realizzazione e gestione di un porto turistico, in Riv. giur. ed., n. 5/2015, pp. 1059 ss.
[7] Cass., SS.UU., ord. 22 giugno 2017, n. 15640, statuisce che la responsabilità da annullamento in autotutela della p.A. non ricade né nella responsabilità aquiliana né in quella contrattuale, pur essendo più vicina a quest’ultima a causa del “contatto” qualificato tra le parti; la posizione giuridica ricoperta dal privato, peraltro, non ricadrebbe nell’interesse legittimo ma sarebbe «assimilabile» al diritto soggettivo.
[8] Le perplessità espresse sul punto, all’epoca dell’emanazione delle ordinanze, da M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno, cit., p. 11, sono chiare e condivisibili, poiché «il provvedimento favorevole giustamente annullato è comunque espressione del potere pubblico e coerentemente la lesione che esso arreca deve essere ricondotta, almeno nelle materie di giurisdizione esclusiva, alla cognizione del giudice amministrativo: tanto più se esso ha già conosciuto in sede cognitoria della sua legittimità (su ricorso del terzo leso nel suo interesse oppositivo o del destinatario leso dal suo annullamento d’ufficio)». Questo a meno che la situazione di legittimo affidamento non sia considerata diritto soggettivo, tutelabile innanzi al Giudice ordinario: orientamento, questo, progressivamente consolidatosi negli anni successivi.
[9] Peraltro deve darsi atto di un’attenta opinione secondo la quale l’interesse legittimo pretensivo risulterebbe leso anche dall’illegittima adozione di un provvedimento ampliativo: secondo C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 564 ss., spec. p. 569-570: «l’interesse legittimo vantato dal cittadino [...] è sempre il medesimo, e cioè è la pretesa ad un provvedimento (non solo) favorevole (ma anche) frutto dell’attività legittima dell’amministrazione […]. […] l’interesse legittimo non può essere disgiunto dalla legittimità del provvedimento». Viceversa, secondo F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, p. 462 ss., la legittimità del provvedimento ampliativo è una qualità affatto indifferente per il privato destinatario, il quale più semplicemente mira al conseguimento e alla stabilità degli effetti di quel provvedimento.
[10] Vi sarebbe interesse legittimo soltanto a fronte della illegittima negazione di un bene della vita e non dinanzi all’illegittimo ‒ e, pertanto, necessariamente instabile ‒ riconoscimento di siffatto bene. Una lettura, questa, che porta inevitabilmente il titolare di un interesse pretensivo illegittimamente insoddisfatto a rivolgersi al G.a. per il danno derivante dall’illegittimo diniego, mentre il titolare di un interesse oppositivo all’eventuale annullamento d’ufficio a rivolgersi al G.o. per chieder il risarcimento dei danni: situazioni soggettive che potrebbero riguardare tanto i destinatari dei provvedimenti quanto i controinteressati, non essendo certo infrequente che un medesimo provvedimento, frutto di un medesimo unico esercizio di potere, generi interessi contrastanti nei soggetti che ne subiscono gli effetti diretti o riflessi. Cfr. M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., n. 2/2011, p. 896 ss., spec. p. 809.
[11] F. Patroni Griffi, L’eterno dibattito, cit., p. 9.
[12] Queste le parole d’apertura della parte in diritto della Plenaria in commento: «sussiste la giurisdizione amministrativa tanto sulle domande aventi ad oggetto le conseguenze risarcitorie dell’annullamento di un atto amministrativo, in sede di giurisdizione generale di legittimità, quanto nel caso di specie, in cui la domanda risarcitoria sia proposta dal controinteressato soccombente in un giudizio di annullamento di provvedimenti della pubblica amministrazione nella materia “urbanistica e edilizia, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio”, devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), del codice del processo amministrativo» (corsivo originale).
[13] M. Mazzamuto, Per una doverosità costituzionale del diritto amministrativo e del suo giudice naturale, in Dir. proc. amm., n. 1/2010, pp. 143 ss., per il quale il diritto amministrativo è una branca giuridica d’esistenza necessaria, poiché è l’unico nato per regolare rapporti squilibrati, fondati su interessi diseguali, con l’intento di perequarli e garantire il privato nei confronti del potere amministrativo; conseguentemente, questi rapporti hanno un loro Giudice naturale: «il giudice amministrativo, così come già evidenziava l’antica giuspubblicistica, si può giustificare come giudice speciale non nella veste odiosa, per la mentalità giuridica moderna, del giudice ratione personae, bensì del giudice ratione materiae: la materia o la specialità è appunto il diritto amministrativo. È questo il vero tradizionale fondamento dell’esistenza di questo giudice che, infine, nonostante il sempre mistificatorio riferimento alle posizioni soggettive, ha riconosciuto il nostro giudice delle leggi, qualificando il giudice amministrativo come “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica” (Corte cost. n. 191/2006 e n. 140/2007)».
[14] Il riferimento è alla Direttiva c.d. Rimedi, 89/665/CEE del 21 dicembre 1989, e all’art. 13, l. n. 142/1990:«1. I soggetti che hanno subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento possono chiedere all’Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. 2. La domanda di risarcimento è proponibile dinanzi al giudice ordinario da chi ha ottenuto l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo».
[15] Queste, in estrema sintesi, le tappe dopo il 1992:
– d.lgs. n. 80/1998, con attribuzione della giurisdizione sul risarcimento danno al Giudice amministrativo;
– Cass. SS.UU., 22 luglio 1999, n. 500, che ha. riconosciuto nell’interesse legittimo una situazione giuridicamente rilevante di natura sostanziale, concernente il «bene della vita» connesso all’esercizio del potere, sentenza che ha ritenuto ammissibile la domanda volta a ottenere il risarcimento del danno derivante dall’illegittimo esercizio del potere, a prescindere dall’azione impugnatoria contro l’atto causativo del danno, attribuendo quindi la relativa giurisdizione al Giudice ordinario;
– l.n. 205/2000, con la quale il legislatore, per la prima volta in modo esplicito, ha riconosciuto la risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, attribuendone la giurisdizione al Giudice amministrativo, senza nulla specificare in ordine alla questione, affrontata e risolta positivamente dalla sentenza n. 500, circa l’ammissibilità di un’azione risarcitoria proposta in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria;
- art. 30, d.lgs. n. 104/2010, che finalmente positivizza l’autonomia dell’azione risarcitoria per lesione d’interessi legittimi e ne attribuisce la cognizione al Giudice amministrativo sia nella giurisdizione di legittimità sia in quella esclusiva.
[16] Corte Cost., n. 204/2004, passim. Ne consegue che «l’attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell’art. 24 Cost., il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola (avvenuto, peraltro, sovente in via pretoria nelle ipotesi olim di giurisdizione esclusiva), che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l’eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l’art. 13 l. 19 febbraio 1992 n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null’altro che attuazione del precetto di cui all’art. 24 Cost.».
[17] Così, G. Montedoro, Il danno ingiusto nella prospettiva del Giudice amministrativo, in Quest. giust., n. 1/2018.
[18] Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140.
[19] Come da Plenaria, «l’affidamento è un istituto che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata. Dell’affidamento sono applicazioni concrete, tra le altre, la “regola possesso vale titolo” ex art. 1153 cod. civ., l’acquisto dall’erede apparente di cui all’art. 534 cod. civ., il pagamento al creditore apparente ex art. 1189 cod. civ. e l’acquisto di diritto di diritti dal titolare apparente ex artt. 1415 e 1416 cod. civ., il cui denominatore comune consiste nell’attribuire effetti all’atto compiuto dalla parte che in buona fede abbia pagato o contrattato con chi ha invece ricevuto il pagamento o alienato senza averne titolo».
[20] Cons. Stato, VI, 13 agosto 2020, n. 5011: nel caso di specie – revoca del finanziamento di un’opera pubblica e conseguente declaratoria d’illegittimità dell’atto di esproprio per la sua realizzazione – il Collegio ha attribuito la giurisdizione al G.o., ma sottolineando che l’affidamento non è né un «diritto all’integrità patrimoniale» né, più in generale, un diritto, bensì un principio generale che può trovare collocazione anche nell’attività amministrativa.
[21] Queste le parole della Plenaria in commento.
[22] La richiesta di tutela dell’affidamento asseritamente leso dev’essere dunque vagliata dal G.a. sia che esso sia stato pregiudicato da un provvedimento, sia da un comportamento, purché nell’esercizio di potere autoritativo. E ciò sia che si verta dell’interesse del soggetto leso dal provvedimento amministrativo, e come tale titolato a domandare il risarcimento del danno alternativamente o (come più spesso accade) cumulativamente all’annullamento del provvedimento lesivo, sia che si abbia riguardo all’interesse del soggetto invece beneficiato dal medesimo provvedimento. Anche quest’ultimo, infatti, vanta nei confronti dell’amministrazione un legittimo interesse alla sua conservazione, non solo rispetto all’azione giurisdizionale del ricorrente, ma anche rispetto al potere di autotutela dell’amministrazione stessa.
[23] Comma aggiunto dall’art. 12, comma 1, lettera 0a), l. 11 settembre 2020, n. 120; di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali».
[24] Come ricorda F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015, «il legislatore degli anni novanta ha peraltro rinforzato il procedimento, generalizzando il principio del contraddittorio e della partecipazione. Qui i Maestri ci insegnano che quando ciò avviene la manifestazione di volontà dell’amministrazione tende a strutturarsi come decisione propriamente intesa, con l’effetto di consumazione del relativo potere». Il che ha reso per diverso tempo difficilmente inquadrabile il fondamento unilaterale del potere di autotutela amministrativa.
[25] Così la Plenaria: «tale dovere comportamentale si rivolge sia all’amministrazione sia ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento, qualificando in termini giuridici una relazione che è e resta pubblicistica, sia pure nell’ottica di un diritto pubblico in cui l’autoritatività dell’agire amministrativo dà vita e si inserisce nel corso di un rapporto in cui doveri comportamentali e obblighi di protezione sono posti a carico di tutte le parti. E non sembra, in tale contesto, che i princìpi che regolano il rapporto siano espressione di autonome situazioni soggettive autonome, se non avulse, dalla posizione delle parti; si deve piuttosto ritenere che si tratti di doveri imposti alle parti, e in primis all’amministrazione, a salvaguardia delle situazioni soggettive coinvolte, che, in quanto afferenti a quel rapporto, non mutano la loro natura e la loro consistenza».
[26] Cons. Stato, Ad. plen. 5 settembre 2005, n. 6.
[27] M. Renna, Responsabilità della pubblica Amministrazione: a) profili sostanziali, in Enc. dir., Annali IX, p. 806: «la legittimità, e financo la doverosità, di un intervento in autotutela non è incompatibile con la contrarietà a buona fede del contegno precontrattuale della pubblica amministrazione complessivamente considerato. Tra liceità della condotta e legittimità degli atti non sussiste, infatti, un nesso di necessaria corrispondenza. Ciò in ragione del fatto che la condotta, pur allorquando si estrinsechi nell’emanazione di una serie di atti (e dunque non nel compimento di mere azioni materiali: v. il paragrafo precedente), non si identifica con la mera sommatoria degli atti medesimi, ma si sostanzia anche, e forse soprattutto, della complessa trama delle interrelazioni tra questi».
[28] Cons. Stato, Ad. plen., n. 20/2021, cit.
[29] Il Collegio, consapevole della frizione creatasi con la statuizione di questo principio di diritto, non lascia peraltro sotto traccia questa consapevolezza, tradottasi in un atto di forza: «Il possibile contrasto del principio di diritto come sopra affermato in punto di giurisdizione con l’orientamento certamente prevalente della Corte regolatrice potrà essere vagliato in sede di eventuale impugnazione ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione delle sentenze di questo Consiglio, le quali sono nel frattempo tenute all’osservanza del principio di diritto (salva nuova rimessione) ai sensi dell’articolo 99 cod. proc. amm.».
[30] G. Capra, La lesione dell’affidamento, cit.: «L’Amministrazione, lungi dall’essere un soggetto incapace per il quale l’ordinamento deve apprestare una particolare tutela, occupa una posizione che genera di per sé un affidamento – lato sensu inteso – in capo ai cittadini, vieppiù quando riscontra l’istanza del privato con un provvedimento espresso».
[31] Per prendere a prestito le parole della Plenaria: «Va considerato al riguardo che, sebbene al privato sia riconosciuto il potere di attivare il procedimento amministrativo e di fornire in esso ogni apporto utile per la sua conclusione in senso per sé favorevole, egli lo fa all’esclusivo fine di realizzare il proprio utile. È peraltro sempre l’Amministrazione a rimanere titolare della cura dell’interesse pubblico concreto, alla cui attuazione è tenuta; se dunque l’interessato consegue il provvedimento favorevole, è perché l’Amministrazione lo ha ritenuto conforme al primario interesse pubblico. Gli istituti partecipativi introdotti nella più recente legislazione, a partire dalla legge n. 241 del 1990, e la recente positivizzazione dei doveri di correttezza e buona fede non hanno fatto venir meno il carattere unilaterale del provvedimento amministrativo e soprattutto, anche con riferimento ai moduli consensuali, la sua inerenza all’esercizio di un potere correlato alle finalità istituzionali, tipizzate per legge, di cui l’amministrazione è titolare e responsabile».
[32] In questo senso anche G. Capra, La lesione dell’affidamento, cit.
[33] Sul punto v. il contributo di E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, in Giustiziainsieme.it, 2021.
[34] V. in proposito M. Immordino, Risarcimento del danno e obbligo della pubblica amministrazione di annullare un proprio atto inoppugnabile su istanza del privato interessato, in S. Perongini (a cura di), Al di là del nesso autorità/libertà: tra legge e amministrazione, Torino, 2017, pp. 255 ss.
[35] Tar Lazio, II, 8 maggio 2018, n. 5112: «Il principio della certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta, quindi, che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura; pertanto sono state individuate una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell'intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato e delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extra-processuale, sussiste, a carico dell'interessato, un onere di attivarsi giudizialmente senza indugio, tenuto conto anche del fatto che resta in ogni caso salva la possibilità per il ricorrente di proporre eventuali motivi aggiunti, a seguito di una successiva e più approfondita analisi di tutta la documentazione rilevante ai fini della causa. Ne deriva che il vicino che intenda avversare un intervento edilizio ha il preciso onere di attivarsi tempestivamente secondo i canoni di buona fede in senso oggettivo, senza differire colposamente o comunque senza valida ragione l’impugnativa del relativo titolo alla fine dei lavori, quando ciò non sia oggettivamente necessario ai fini ricorsuali».
[36] Per A. Bartolini, Principio eurounitario di responsabilità e legge n. 241 del 1990, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 2/2021, pp. 143 ss.: «La responsabilità ha […] carattere sostanziale ed è un modo diverso di garanzia, che arricchisce la tutela dell’amministrato. In questo quadro la legge generale è proprio la sede di queste garanzie e tutele, che vanno dagli interessi partecipativi lungo il procedimento, alle garanzie in tema di trasparenza, ai rimedi amministrativi di autotutela, fino alla disciplina delle condizioni sostanziali di invalidità (nullità, annullabilità, cui si aggiunge di recente l’inefficacia). Poiché la tutela risarcitoria si configura come garanzia alternativa ai rimedi in forma specifica, pare, appunto, che la sua sede naturale sia proprio la legge 241. Ecco perché si deve ritenere che l’art. 1, colmando una lacuna del legislatore, attragga a sé il principio europeo di responsabilità come canone regolatore dell’attività amministrativa disfunzionale».
[37] La precisazione si rende necessaria perché, secondo la sezione rimettente, la costituzione in giudizio del beneficiario dell’atto quale controinteressato processuale per difenderlo ne impedirebbe, poi, la domanda risarcitoria in ossequio al principio di non contraddizione. La Plenaria smentisce questo assunto, poiché difendere la legittimità di un provvedimento è fatto del tutto indipendente dalla liceità del comportamento dell’Amministrazione, da valutarsi – su un piano separato – a seguito della sentenza di annullamento.
[38] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’Amministrazione, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, pp. 823 ss.
[39] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo, cit., passim, che così prosegue: «nel caso dell’annullamento d’ufficio – che è considerato caso esemplare di tutela dell’affidamento – la tutela giurisdizionale dell’affidamento leso non ripara il danno patrimoniale ma, annullando il provvedimento lesivo, tende ad assicurare la corretta valutazione degli interessi implicati nella vicenda amministrativa, considerati nella loro consistenza obiettiva. La diversa tecnica di tutela riflette la diversa configurazione dell’affidamento nei rapporti tra i privati e nel rapporto con l’autorità amministrativa. Nel rapporto amministrativo l’interesse materiale cui è finalizzata la tutela dell’affidamento non riceve protezione diretta: quell’interesse sarà soddisfatto se il confronto tra gli interessi in gioco risulterà favorevole al privato, secondo la logica della tutela dell’interesse legittimo che si correla al potere amministrativo discrezionale».
Riflessioni su minorenni, vaccino anti-Covid e tutela dei diritti
di Maria Giovanna Ruo
La pandemia da COVID-19 ha riportato in emersione alcuni temi che coinvolgono svariati aspetti della questione della somministrazione di vaccini ai figli minorenni: da quello della dignità della persona di età minore e del suo rispetto nell’esercizio di diritti personali, a quello dell’esercizio in via condivisa della responsabilità genitoriale in caso di disaccordo sulla decisione di sottoporre i figli minorenni a vaccinazioni non obbligatorie, all’assenza di strumenti diretti di tutela per i minorenni che vogliono (o non vogliono) vaccinarsi in disaccordo con i genitori NO VAX. Il tutto in un quadro normativo che, nelle interpretazioni giurisprudenziali note, si delinea sempre favorevole alla vaccinazione.
Sommario: 1. Il diritto alla salute della persona di età minore nel quadro costituzionale - 2. Giurisprudenza costituzionale e orientamento della giurisprudenza di merito in tema di vaccinazioni obbligatorie - 3. La legge 219/2017 nel quadro della normativa pattizia: ascolto e consenso delle persone di età minore (rectius del suo rappresentante legale) ai trattamenti sanitari - 4. La pandemia da COVID-19 e i diritti negati alle persone di età minore - 5. Scelte vaccinali e minorenni: i pareri del Comitato Nazionale di Bioetica - 6. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e vaccini (anche anti COVID-19) - 7. Vaccinazione anti COVID-19 in caso di disaccordo dei genitori: giurisprudenza interna di merito - 8. …e quando i figli sono affidati ai servizi sociali? - 9. Minorenni e diritto al ricorso effettivo.
1. Il diritto alla salute della persona di età minore nel quadro costituzionale
La tutela della persona di età minore si iscrive necessariamente nel quadro costituzionale disegnato dagli artt. 2, 3, 30, 31 e 32 della Costituzione, ispirata dal criterio del suo superiore interesse da definirsi principio immanente nell’ordinamento in forza di numerose pronunce della Corte Costituzionale[1]. L’art. 32 ne fa parte, come sensibile e avveduta dottrina[2] rileva da tempo, perché salute per una persona di età evolutiva coincide con le concrete possibilità del suo miglior sviluppo psico-fisico. Da qui l’obbligo positivo dello Stato, anche ai sensi dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, di intervenire per rimuovere tutti gli ostacoli che vi si frappongono con provvedimenti tempestivi ed efficaci e di offrire gli strumenti rimediali opportuni perché ciò si verifichi: il principio del ricorso effettivo di cui al successivo art. 13 CEDU lo pretende. Della salute della persona di età minore fa parte anche la sua possibilità di relazioni affettive e sociali piene: con i genitori, i fratelli, gli ascendenti, parenti di ciascun ramo genitoriale e anche -se non soprattutto dall’adolescenza in poi- con i cd. “pari”. Tale relazione con il progredire delle età diventa sempre più rilevante per il miglior sviluppo della persona di età minore; se deprivata, infatti, le sue potenzialità affettive e relazionali ne subiscono pregiudizio.
Il diritto alla salute delle persone di età minore ha quindi contenuti più ampi e complessi di quelli di un soggetto ormai adulto, perché ricomprende necessariamente anche le prospettive future. Afferma G. Recinto che “la salute assume i caratteri di generale stato di benessere del minore, che non può evidentemente prescindere dai luoghi, dagli ambienti e dai momenti della sua crescita, del suo evolvere, del suo relazionarsi, e che, perciò, ha quali immediati referenti costituzionali, non più soltanto l’art. 32, ma anche, ed inevitabilmente, gli artt. 2, 3, 30, 31, 33 e 34 cost. E da ciò, quindi, una ricostruzione del diritto alla salute, che, a sua volta, come suggerito proprio dalla lettura combinata del dettato costituzionale, non ha una rilevanza limitata esclusivamente al profilo del minore come degente, ma un diritto alla salute che considera il minore di età nella sua complessità, ovvero innanzitutto, e prima di tutto, nei molteplici e variabili contesti ove lo stesso svolge la sua personalità”[3].
Salute per una persona di età minore è quindi “un valore complesso, fatto di integrità fisica, morale, psicologica, emotiva, culturale, ambientale, aspetti questi che si manifestano diversamente in ciascuno di loro e nei differenti momenti del loro divenire, del loro crescere, del loro formarsi”[4].
2. Giurisprudenza costituzionale e orientamento della giurisprudenza di merito in tema di vaccinazioni obbligatorie
La centrale rilevanza del diritto alla salute delle persone di età minore, ai sensi degli artt. 2, 3 30 e 31, si confronta con il disposto dell’art. 32 Cost. che, dopo aver affermato che la salute è diritto fondamentale dell’individuo, dispone che nessuno possa essere obbligato a trattamento sanitario se non per disposizione di legge che non può mai violare i limiti del rispetto della persona umana. La Corte Costituzionale (sent. 307/1990)[5], ebbe a precisare che che “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”. Successivamente la Consulta affermò che la tutela della salute implica anche il “dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri” (Corte Cost., sent. 218/1994 in materia di accertamenti sanitari diretti ad accertare l’esistenza o meno di HIV).
In tale perimetro costituzionale, all’inizio dello scorso decennio, si evidenziò la necessità “di emanare disposizioni per garantire in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette alla prevenzione, al contenimento e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica e di assicurare il costante mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza epidemiologica in termini di profilassi e di copertura vaccinale»; nonché la necessità di «garantire il rispetto degli obblighi assunti e delle strategie concordate a livello europeo e internazionale e degli obiettivi comuni fissati nell’area geografica europea». Così recita espressamente il preambolo del D.L. 7 giugno 2017, n. 73 che fu emanato con il dichiarato scopo[6] di raggiungere il 95/% di copertura vaccinale contro malattie a rischio epidemico, soglia raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per il conseguimento della cosiddetta “immunità di gregge” (herd immunity, immunità o resistenza collettiva a un certo patogeno da parte di una comunità o di una popolazione umana). Dal 2013 si era infatti verificata in Italia la tendenza alla diminuzione del ricorso alle vaccinazioni e la copertura vaccinale si era attestata al di sotto di tale soglia; erano aumentati i casi di malattie infettive (soprattutto morbillo e rosolia), anche in fasce di età diverse da quelle classiche, con quadri clinici più gravi e maggiore ospedalizzazione; erano persino ricomparse malattie da tempo debellate. Le coperture italiane erano tra le più basse d’Europa, inferiori ad alcuni Paesi africani[7], secondo dati dell’OMS.
Pertanto, fu ritenuto necessario e urgente estendere e rendere effettivi gli obblighi vaccinali anche in conformità al principio di precauzione, che prescrive di neutralizzare o minimizzare i rischi per la salute umana, anche se non del tutto accertati.
L’art. 1, comma 1, previde, per i minori fino a sedici anni di età, dodici vaccinazioni obbligatorie e gratuite[8]. Di queste, otto (anti-pertosse, Haemophilus influenzae di tipo B, meningococcica di tipo B e C, morbillo, rosolia, parotite e varicella) non erano previste dalla normativa previgente[9].
L’obbligo era escluso in caso di avvenuta immunizzazione a seguito di malattia naturale, nonché di pericolo per la salute in relazione a specifiche condizioni cliniche, da documentare nei modi stabiliti nel medesimo D.L. che prevedeva sanzioni pecuniarie per genitori e tutori inadempienti[10] e la necessità delle vaccinazioni obbligatorie per l’iscrizione scolastica di minori[11].
La Regione Veneto ed altri sollevarono una serie di questioni di legittimità costituzionale, -tutte respinte dalla Consulta con la sentenza 5/2018- il cui cuore fu individuato dalla Corte Costituzionale nell’asserita incompatibilità con l’art. 32 Cost., il quale comporta il diritto di scegliere se, quando e come curarsi e, quindi, anche il diritto di non curarsi e, per quanto qui interessa, di rifiutare la vaccinazione.
La Corte Costituzionale dichiarò non fondate le questioni sollevate alla normativa in tema di obbligo di vaccinazione per i minori fino ad anni 16 e sanzioni amministrative pecuniarie e del divieto di accesso ai servizi educativi per l'infanzia in caso di mancato adempimento. La Consulta specificò come fossero nella questione prevalenti i profili ascrivibili alle competenze legislative dello Stato, relative ai principi fondamentali in materia di "tutela della salute", di "profilassi internazionale" e di "norme generali sull'istruzione". Viene anche in rilievo la competenza di "profilassi internazionale", nella misura in cui le norme in questione servono a garantire uniformità anche nell'attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale. Infine, le disposizioni in materia di iscrizione e adempimenti scolastici si configurano come "norme generali sull'istruzione", garantendo che la frequenza scolastica avvenga in condizioni sicure per la salute di ciascun alunno, o addirittura (per quanto riguarda i servizi educativi per l'infanzia) non avvenga affatto in assenza della prescritta documentazione. Il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica, deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.
Per quanto concerne i figli minorenni, dopo le sentenze della Corte Costituzionale, le pronunce di merito si sono orientate nel senso di concentrare in capo al genitore favorevole alla vaccinazione obbligatoria dei figli il diritto di scegliere, senza dare particolare rilievo alla volontà dei figli minorenni. Corte di appello di Napoli, decr. 30 agosto 2017, che ha deciso sul reclamo proposto dalla madre contraria alla vaccinazione -soccombente davanti al Tribunale per i minorenni di Napoli che ne aveva affievolito la responsabilità genitoriale attribuendola al padre coaffidatario del bambino relativamente alla somministrazione delle ulteriori dosi vaccinali (esavalente e trivalente), da eseguirsi a sua cura cui attribuendogli in concreto il diritto dovere di prelevare il figlio, accompagnarlo in ambulatorio per le vaccinazioni e poi riaccompagnarlo a casa. Il tutto dopo una CTU resasi necessaria per verificare se le vaccinazioni avrebbero comportato pregiudizio al bambino, afflitto da una particolare patologia. La CTU aveva concluso negativamente. La Corte di appello partenopea, peraltro, conferma la competenza a decidere in caso di disaccordo tra i genitori in capo al giudice competente ai sensi degli artt. 330 e sgg., in quanto negare la vaccinazione a un bambino è decisione che potrebbe recargli grave pregiudizio e quindi sussumibile nella fattispecie dell’area del pregiudizio cui si riferiscono le norme citate, e non in quella del semplice disaccordo tra genitori. La Corte di appello di Napoli fa sua la motivazione della CTU espletata in I grado affermando che “È assolutamente acclarato il ruolo sociale e il valore etico ed economico delle vaccinazioni. Le vaccinazioni devono essere considerate come un "intervento collettivo ", in quanto oltre a proteggere il singolo permettono anche la protezione in collettività dei soggetti vulnerabili (ad es., immunodeficienti congeniti o immunodepressi, ecc.), permettendo in buona sostanza il controllo della trasmissione delle malattie oggetto del programma vaccinale. Il beneficio è dunque diretto, derivante dalla vaccinazione stessa che immunizza totalmente o parzialmente la persona vaccinata rispetto alle conseguenze di una patologia, e indiretto, in virtù della creazione di una rete di sicurezza a favore dei soggetti non vaccinati. Precedentemente la giurisprudenza di merito era orientata ad attribuire la decisione sulle vaccinazioni al pediatra di base. Così Tribunale di Roma, sez. I, ord. 16.02 2017. Non si sono rinvenute decisioni nelle quali la giurisprudenza abbia ritenuto di nominare invece un curatore speciale la cui funzione è quella di rappresentare la persona di età minore in ipotesi di contrasto anche potenziale del suo interesse con quello dei genitori e/o con la loro opinione di quale sia il suo interesse. Sul versante della giurisdizione amministrativa, TAR Piemonte, 18.09.2018, n. 1034 ha stabilito che l'inadempimento dell'obbligo vaccinale costituisce ragione di per sé ostativa all'accesso alle scuole dell'infanzia (ex art. 3 comma 3 D.L. n. 73/2017), a tutela del minore stesso e dell'intera comunità scolastica.
3. La legge 219/2017 nel quadro della normativa pattizia: ascolto e consenso delle persone di età minore (rectius del suo rappresentante legale) ai trattamenti sanitari
La Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, rat. con l. 176/199 (d’ora in poi denominata anche Convenzione o CRC), all’articolo 3 sancisce il principio del superiore interesse del minore: sussiste l’obbligo per gli Stati Parti di “assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati”. Gli Stati parti hanno altresì l’obbligo di “vigilare affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”. Dopo aver stabilito al successivo art. 12 il diritto assoluto della persona di età minore all’ascolto della sua opinione e a prendere parte a tutte le procedure che la riguardino[12], la CRC si occupa del diritto alla salute dei minorenni in particolare all’art. 24 riconoscendo il diritto del minore “di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato del diritto di avere accesso a tali servizi”. L’art. 25 riconosce al minore il diritto di godere del migliore stato di salute possibile e che gli esercenti la responsabilità genitoriale debbano avere tutte le informazioni possibili.
La “Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina”, adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa e firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, (detta anche Carta di Oviedo) che riconosce il diritto ai trattamenti sanitari con opposto diritto al loro rifiuto se non imposti dalla legge. L’art. 5 pone il principio generale secondo il quale un intervento medico non possa essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia rilasciato il proprio consenso libero ed informato. Il successivo art. 6 si occupa del consenso dei cd. incapaci, affermando che il trattamento può essere effettuato solo se a loro beneficio diretto. In questi casi – tenendo in debito conto anche i successivi artt. 17 e 20- “Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e maturità”.
Infine anche l’art. 6 della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani dell’Unesco[13] prevede che se sia un soggetto diverso rispetto al minorenne, persona direttamente interessata al trattamento sanitario, ad esprimere il consenso, tuttavia il minorenne dovrebbe essere coinvolto nella forma più estesa possibile nel processo decisionale.
Nella Carta di Nizza il diritto alla salute viene in considerazione non solo come diritto di poter usufruire di un elevato livello di prestazioni sanitarie (art. 35 Carta di Nizza, art. 1 Convenzione Oviedo), ma ancor prima come diritto di autodeterminazione che si esercita mediante il consenso: “nell’ambito della biologia e della medicina” afferma la Carta — deve essere rispettato “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge” (art. 3).
Il 6 febbraio 2013 fu presentato al Ministro della Salute il Codice del diritto del minore alla salute e ai servizi sanitari, redatto da un gruppo di lavoro multidisciplinare[14] che trae diretto spunto dalla CRC ed è stato successivamente rielaborato anche nei territori[15]. Fu uno sforzo significativo di costruire una disciplina completa, ma si riferisce sostanzialmente ai diritti della persona di età minore malata e ospedalizzata, non considera la persona di età minore come soggetto in sviluppo psico-fisico il cui diritto alla salute ha una particolare centralità.
Finalmente l’art. 3 della legge n. 219 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), detta anche Legge sul biotestamento, prevede che il consenso o il rifiuto ai trattamenti sanitari sia prestato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla persona di età minore (o dal tutore) tenendo in considerazione la di lei volontà e perseguendone l’interesse. Il contesto deve essere ovviamente “informato” e cioè preceduto da informazione specifica in modo da rendere consapevole chi deve esprimerlo dei dati relativi la questione sanitaria. Quindi l’informazione deve essere completa, aggiornata e comprensibile sia riguardo alla diagnosi sia riguardo alla prognosi e concernere anche le possibili alternative, benefici e rischi di accertamenti e terapie. In caso di minorenni, senza distinzioni di età, il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale deve essere espresso dopo un attento ascolto dei desideri della persona di età minore. Cass. n. 21748/2007 affermò, a proposito del consenso ai trattamenti medici dell’incapace, che il tutore deve agire nel suo esclusivo interesse e nella ricerca del best interest, deve decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace, ma con l’incapace. Tuttavia l’art. 3 non sembra lasciare spazio all’effettiva possibilità per il minorenne di esprimere il rifiuto o il consenso autonomo alle cure: pur essendo chiamato ad esprimere la sua volontà valorizzata dal suo ascolto, in definitiva il consenso o il dissenso rispetto al trattamento necessario sono dei genitori o del tutore. In caso di contrasto tra questi e il medico, decide il Giudice tutelare.
Nulla dice infatti la legge nel caso in cui insorga contrasto tra volontà del minore e quella dei genitori sul prestare o rifiutare il consenso. D’altronde lo stesso art. 316 c.c. disciplina solo il contrasto di volontà tra i genitori, ignorando la fattispecie del contrasto tra il figlio minorenne e i genitori. Vi sono tuttavia una serie di casi specifici in cui la legge prevede che anche i minorenni possano esercitare diritti inerenti la loro salute, indipendentemente dai loro genitori o proprio perché in contrasto con gli stessi. Così ad es. l’art. 12 della l. 194/1978 il quale prevede che, in caso di Interruzione Volontaria della Gravidanza di una donna minorenne e di contrasto con gli esercenti la responsabilità genitoriale, il Giudice Tutelare possa essere adito dal consultorio, dalla struttura socio-sanitaria o dal medico di fiducia. La Corte Costituzionale con ordinanza del 19 luglio 2012 n. 196, affermò che l'autorizzazione del Giudice tutelare è solo finalizzata ad integrare la volontà della minorenne (dati i vincoli gravanti sulla sua capacità di agire)[16]. In relazione al parto: «la partoriente di minore età può donare cellule staminali emopoietiche da cordone ombelicale» nonché la placenta e il sangue da cordone ombelicale, previo consenso informato, dato al momento del parto (art. 3, commi 2° e 3°, l. n. 219/2005 sul sangue e i suoi derivati). In relazione alla tossicodipendenza e alle malattie che presentano legami statistici con alcuni tipi di tossicodipendenza, cioè hanno un’incidenza maggiore fra i tossicodipendenti, soprattutto quelli dediti all’eroina, l’art. 120 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 [17] stabilisce che la richiesta di accertamenti diagnostici e di programmi terapeutici e sociali di riabilitazione possa essere fatta anche direttamente dal minore (comma 2) e che gli sia garantito l’anonimato (comma 3), rafforzato dal diritto di ottenere che la propria scheda sanitaria non contenga informazioni identificative (comma 6). L’art. 5 della l. 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’Aids) prevede al comma 4 che i risultati degli accertamenti diagnostici per l’infezione da virus HIV debbano essere resi noti solo all’interessato.
4. La pandemia da COVID-19 e i diritti negati alle persone di età minore
In questo quadro irrompe la pandemia da COVID-19 e la questione delle vaccinazioni per i minorenni acquista nuova rilevanza. Bambini e ragazzi, che hanno una spiccata esigenza di socialità, di scambi tra i pari, di vicinanza fisica, sono rimasti deprivati di mesi di scuola, di attività sportive, ludiche, religiose, sociali, con significative ricadute sulla loro vita relazionale e sul loro sviluppo psico-fisico. Gli indiscutibili progressi nell’affermazione dei diritti, lo stesso sistema di tutela delle persone di età minore, è stato messo in crisi dalla pandemia in una situazione in cui già la sempre più diffusa povertà ne aveva già esposto molte a marginalizzazione, depauperamento di strumenti educativi e opportunità formative; causa anche la povertà educativa che, pur se frequentemente è coincidente con quella economica, ne è anche indipendente, annidandosi anche in situazioni di benessere patrimoniale ma carenti sul piano valoriale e di accudimento delle giovani generazioni.
Nella situazione emergenziale che si è verificata durante il lockdown e nei mesi successivi molte conquiste sul piano dei diritti fondamentali delle persone di età minore sono apparse compromesse.
Scuole, centri ricreativi e sportivi, parrocchie e oratori, sono rimasti chiusi per mesi; in particolare le scuole, anche quando hanno riaperto, hanno funzionato (e funzionano tutt’ora) a intermittenza e a scacchiera per i focolai di contagio che si sono manifestati e si manifestano in varie comunità scolastiche. La didattica a distanza è stata una soluzione emergenziale benemerita, ma che per i suoi limiti strutturali non ha potuto e non può garantire a tutti i fruitori il principio costituzionale di pari opportunità. Ne sono rimaste escluse - o comunque marginalizzate - le fasce di persone di età minore economicamente svantaggiate, quelle nelle cui famiglie non vi è un numero di devices sufficiente per essere utilizzato contemporaneamente da più fruitori; quelle che vivono in spazi domestici angusti, in cui isolarsi per la concentrazione necessaria per lo studio è più difficile; quelle che non hanno avuto genitori disponibili o in grado - per limiti personali, lavorativi, o di cognizioni idonee – di supplire, aiutare e sostenere. Ne sono rimaste escluse le persone di età minore con bisogni speciali, che necessitano più delle altre della relazione “uno ad uno” con gli insegnanti, di programmi individualizzati e alle quali spesso, contemporaneamente, sono stati anche negati i percorsi di cura riabilitativi.
Frequenza scolastica non vuol dire “solo” migliore possibilità di apprendimento delle diverse discipline e abilità: scuola è il mondo di relazione con i pari, dove si impara a vivere nella società, dove nascono amori e amicizie, si affrontano le inimicizie e le rivalità, si apprende il limite di se stessi, il perimetro della liceità del gioco, si conosce la necessità delle regole, si contribuisce alla costruzione di una comunità. Si trasgredisce e si imparano le conseguenze; si collabora, e si gode dei frutti della collaborazione. Insomma, si diviene cittadini di oggi e di domani. Ci sono i tempi prima di entrare e i tempi dopo l’uscita, quelli dei commenti, dell’organizzazione del tempo successivo. Ci sono i compiti fatti insieme nel pomeriggio, tra uno sport, un catechismo, una passeggiata all’aria libera, un gioco con la playstation in compresenza, il commento allo sport, alle medesime relazioni sociali. Ci sono gli amori travolgenti dell’infanzia e dell’adolescenza. Insomma la vita relazionale e affettiva di ogni persona di età minore, e anche poi di molti giovani adulti, in cui ci si conosce, si sperimenta e accresce la propria umanità, si impara a vivere. La brusca interruzione di tutto ciò ha precipitato più generazioni di ragazzi esclusivamente nelle relazioni virtuali con i pari, accompagnata persino dalla negazione del contatto fisico con le generazioni più anziane per le quali hanno anche appreso improvvisamente di poter rappresentare un pericolo; i bambini -accuditi fino al giorno prima dai nonni- hanno dovuto acquisire la consapevolezza di poter essere per loro un veicolo di contagio e ne sono stati separati.
Tutto ciò vuol dire diritti negati; all’uguaglianza, alla dignità e all’identità, alle relazioni affettive primarie, all’istruzione, alla religione, allo sport, alla vita all’aria aperta. Insomma tutto ciò - e molto altro ancora: pensiamo ai minorenni testimoni di violenza nel chiuso delle mura domestiche, dove sappiamo che i comportamenti violenti sono aumentati - ha prodotto un arresto di crescita personale e sociale nei bambini e ragazzi con costi non stimabili oggi ma certo pesanti; ne ha interrotto lo sviluppo psico-fisico, ne ha quindi minato la salute psico-fisica intesa in quella accezione complessa di cui si è detto supra.
5. Scelte vaccinali e minorenni: i pareri del Comitato Nazionale di Bioetica
Anche di questo si è occupato il Comitato Nazionale di Bioetica nel parere 23 ottobre 2020 , COVID-19 e bambini dalla nascita all’età scolare[18]. Il CNB sottolinea le ripercussioni specifiche indotte dalla pandemia sulla salute globale dei bambini e sui principali aspetti bioetici sottesi, con specifica attenzione già dalle primissime correlazioni esistenti nell’unità materno-netoneonatale, fino alle prime fasi dello sviluppo, quali l’infanzia e la fanciullezza. Cfr. in particolare Cap. 3 sulle conseguenze psicologiche e sociali del lockdown sui bambini e sulle conseguenze educative e scolastiche.
Precedentemente[19] il CBN aveva sottolineato l’importanza del benessere del minore, che si realizza necessariamente riconoscendo e tutelando la sua soggettività, attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione nelle scelte personali. Il CBN aveva quindi sollecitato pertanto gli operatori sanitari a personalizzare le cure destinate ai bambini e agli adolescenti con i quali occorre entrare in relazione. L’assenso ai trattamenti terapeutici, in questa prospettiva, -aveva già sottolineato il CBN- contribuisce a creare l’alleanza terapeutica tra il medico e il minore e deve essere ricercato con la dovuta attenzione al grado di maturità raggiunto dal minore stesso, valutando comunque l’importanza dell’intervento richiesto e fatte salve le prerogative dei legali rappresentanti.
All’inizio del 2021 sono finalmente cominciate le vaccinazioni contro COVID-19. Come è noto, la vaccinazione non è obbligatoria[20]. Nel tempo è stata proposta prima alle categorie professionali esposte, ai grandi anziani, ai soggetti fragili e poi mano mano alle altre categorie con un grado inferiore di esposizione e alle fasce di popolazione più giovani.
La questione del vaccino ai minorenni non si è quindi posta nell’immediatezza, ma è tuttavia risultato evidente come la questione avesse considerevole rilevanza etica, sociale, giuridica. Quando si tratta di minorenni, si parla di situazioni profondamente differenziate, anche solo per età: da 0 a 18 anni, con infinite sfumature di capacità di discernimento ed espressione della propria opinione.
È necessario tenere presente quanto stabilito dal Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2021/953 del 14.06.2021, al considerando 36, “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti Covid -19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate”. Nella situazione dei minorenni, la scelta di non vaccinare avviene per scelta dei genitori ma viene subita dai figli con ulteriori danni al loro sviluppo psico-fisico.
In particolare, sul tema del vaccino ai minorenni il Comitato Nazionale di Bioetica ha emesso un articolato parere in data 29 luglio 2021 con particolare riferimento ai cd. “grandi minori”[21] Il CNB ha sottolineato come la vaccinazione anti-Covid 19 sugli adolescenti possa salvaguardare la loro salute e contribuire a contenere l’espansione del virus nell’ottica della salute pubblica, in particolare in vista del rientro a scuola.
La vaccinazione anti-Covid 19 degli adolescenti richiede nuove e diverse attenzioni e forme di comunicazione adatte all’età da parte delle istituzioni e dei medici. E’ importante l’informazione rivolta ai genitori, che dovrà essere calibrata in base all’età dell’adolescente, con particolare attenzione al bilanciamento di rischi e benefici, diverso rispetto agli adulti e agli anziani. Ma è altrettanto importante l’informazione rivolta agli adolescenti, auspicabilmente mediante un foglio informativo prima del vaccino, affinché possano partecipare in modo consapevole. Necessarie altresì azioni di sensibilizzazione e di educazione di genitori e insegnanti, e attivazione di specifiche iniziative nella scuola. È importante ascoltare l’adolescente e valorizzarne il diritto ad esprimere la sua scelta in relazione alla sua capacità di discernimento.
Se la volontà del “grande minore” di vaccinarsi fosse in contrasto con quella dei genitori, il Comitato ritiene che l’adolescente debba essere ascoltato da personale medico con competenze pediatriche e che la sua volontà debba prevalere, in quanto coincide con il migliore interesse della sua salute psico-fisica e della salute pubblica. Per gli adolescenti con patologie e rientranti nelle categorie identificate dal Ministero della Salute (in una lista aggiornata), per le quali la vaccinazione è raccomandata, emerge in forma ancora più pressante l’obbligo dei rappresentanti legali di garantire ai propri figli il miglior interesse; il CBN raccomanda di ricorrere al comitato di etica clinica o ad uno spazio etico e, come extrema ratio, al giudice tutelare. Sul consenso informato nell’interesse dei minori, il CNB raccomanda un coinvolgimento degli stessi, proporzionato al grado di maturità e di comprensione che essi presentano, fatte salve le prerogative dei genitori e dei rappresentanti legali.
Nel caso dell’adolescente che rifiuti la vaccinazione anti-Covid 19 a fronte del consenso dei genitori, il Comitato ritiene importante e auspicabile che l’adolescente sia informato che la vaccinazione è nell’interesse della sua salute, della salute delle persone prossime e della salute pubblica. In ultimo appare comunque corretto, dal punto di vista bioetico, non procedere all’obbligo di vaccinare in mancanza di una legge, ma porre in essere misure atte a salvaguardare la salute pubblica.
Il CNB ritiene opportuno che nelle circostanze di contrasto tra le parti, la volontà sia certificata per esplicitare con la massima chiarezza le rispettive posizioni, anche al fine di individuare meglio i contrasti nel tentativo di ricomporli. Dal punto di vista bioetico, per quanto non sussista un obbligo di vaccinazione in mancanza di una legge, sussiste tuttavia il dovere morale e civile.
6. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e vaccini (anche anti COVID-19)
Nella sentenza 8 aprile 2021, La Grande Camera della Corte EDU nel caso Vavric ka e altri contro la Repubblica Ceca, (http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-209039 ), su ricorso 47621/13 di diversi cittadini della Repubblica Ceca che denunziavano l’obbligo di vaccinazione contro nove malattie (tra le quali difterite, poliomielite, pertosse, epatite b, morbillo, parotite, rosolia, HIB, infezione da pneumococco) imposto ai propri figli minori, ha ritenuto non sussistesse violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (diritto alla vita privata e familiare) atteso che lo Stato convenuto intendeva legittimamente garantire al contempo sia la salute dei vaccinati che dei non vaccinati, attraverso il raggiungimento della “immunità di gregge” per le nove gravi malattie in questione. Nel caso in esame, inoltre, vi era l’esigenza di rispondere alle preoccupazioni delle più alte Autorità sanitarie per la diffusione delle nove gravi malattie che con la vaccinazione si intendeva contrastare, così rispondendo alla diminuzione del tasso vaccinale tra i bambini, preoccupazione delle Autorità Sanitarie condivisa ed anzi sollecitata dalla Comunità scientifica.
Recentemente la Corte EDU è tornata ad occuparsi della questione vaccinale in riferimento al vaccino anti COVID-19 con la sentenza 21 settembre 2021, ricorso n. 41994/21. In tale decisione la Corte EDU ha dichiarato irricevibile il ricorso di Zambrano contro la Francia. Il Ricorrente aveva invocato violazione degli artt. 3, 4, e 8 della Convenzione EDU da parte delle leggi francesi emesse durante la pandemia e restrittive a suo dire ingiustificatamente di diritti fondamentali (loi n 2021-689 du 31 mai 202 e loi n. 2021-1040 del 5 agosto 2021). La Corte di Strasburgo dichiara irricevibile il ricorso per l’insussistenza di tutti gli elementi richiesti dal Regolamento tra cui la qualità di vittima nel Ricorrente e il mancato esaurimento delle vie interne.
7. Vaccinazione anti COVID-19 in caso di disaccordo dei genitori: giurisprudenza interna di merito
In questo quadro, complesso e multilivello, in cui però è evidente che la vaccinazione sia considerata positivamente anche per le persone di età minore da tutte le Autorità tempo per tempo interessate, si sono succedute alcune vicende giudiziarie relative a queste ultime che hanno come segno distintivo il disaccordo tra genitori in relazione all’opportunità di sottoporre i figli minorenni alla vaccinazione anti-covid 19.
Il Tribunale di Monza, con decreto in data 22 luglio 2021, decide su un ricorso ex art. 709 ter c.p.c. presentato dalla madre di un quindicenne che aveva espresso consenso alla vaccinazione al fine di poter liberamente espletare attività sociale e sportiva. Il padre, che inizialmente aveva prestato il suo consenso, non aveva poi sottoscritto il modulo di autorizzazione con motivazioni generiche. La madre aveva quindi adito l’autorità giudiziaria ex art. 709 ter c.p.c.; il padre aveva chiesto preliminarmente che il ricorso venisse dichiarato inammissibile, ritenendolo irrituale ai sensi della norma richiamata e aveva confermato il proprio dissenso motivandolo con l’essere il vaccino ancora in fase sperimentale e non ancora testato per l’età del figlio. Il Tribunale di Monza non ha condiviso le eccezioni del Resistente: ha ritenuto ammissibile il ricorso materno, osservando che è stato introdotto proprio per dirimere i dissidi sull’esercizio della responsabilità genitoriale relativamente alle decisioni sulla salute, educazione, istruzione dei figli. Tali decisioni vanno assunte di comune accordo ai sensi dell’art. 337 ter c.c., e la somministrazione del vaccino rientra in tale area, ancorché non sia obbligatorio ma facoltativo. Il Tribunale di Monza, nel merito, richiama la giurisprudenza precedente in tema secondo la quale la vaccinazione può essere esclusa solo quando in concreto, per le condizioni personali e sanitarie del minore, possa rappresentare un rischio maggiore e deve tenere conto della salute pubblica. L’assenza di copertura vaccinale, soprattutto in presenza di varianti sempre più contagiose, “comporta da un lato un maggior rischio per i singoli, ivi compresi i minori, di contrarre malattia e, dall’altro, ripercussioni negative sula vita sociale e lavorativa delle persone e, per quanto riguarda i minori, sul loro percorso educativo, limitando la possibilità di accesso alle strutture formative”. Tenuto conto dell’assenza di rischi certificata dal pediatra, ma della volontà positiva del minore, letta proprio nel contesto della norma di cui all’art. 3 della l. 219/2017, il Tribunale di Monza autorizza la somministrazione del vaccino al figlio quindicenne attribuendo alla madre la facoltà di accompagnare il figlio presso un centro vaccinale e sottoscrivere il relativo consenso informato anche in assenza del consenso dell’altro genitore.
A settembre analogo tema viene portato all’attenzione del Tribunale di Milano (decr.. 2 settembre 2021, inedito)[22], sempre con ricorso ex art. 709 ter c.p.c., da un padre in contrasto con la madre la quale si opponeva alle vaccinazioni obbligatorie, ad altri vaccini utili e persino al tampone per la figlia undicenne; successivamente chiedeva l’autorizzazione alla vaccinazione COVID-19. La Resistente sollevava questione di costituzionalità del DL 73/2017, convertito nella legge 119/2017, che veniva rigettata dal Tribunale di Milano in quanto le medesime questioni erano già state esaminate dalla Consulta e ricordandone le motivazioni. In particolare sottolinea il giudice meneghino che un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell'ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. Dunque, i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute
individuale e collettiva (tutelate dall'art. 32 Cost.), anche l'interesse del minore. Vengono respinte in quanto infondate anche le questioni di incostituzionalità relative ai profili dell’obiezione di coscienza e alla violazione della privacy, ugualmente sollevate dalla Resistente, in quanto manifestamente infondate.
Il Tribunale di Milano autorizza quindi il padre alle vaccinazioni obbligatorie non sussistendo motivi sanitari che possano farle ritenere pregiudizievoli per la figlia delle Parti. Autorizza poi anche all’effettuazione dei tamponi “anti-COVID” e alle vaccinazioni facoltative come richiesto dal Ricorrente (a) anti-meningococcica B; anti-meningococcica C; c) anti-pneumococcica; d) anti-coronavirus, trattandosi di vaccini raccomandati dalla scienza medica internazionale a tutela della salute delle popolazioni, tanto che nel nostro Paese sono gratuite. Le obiezioni della Resistente a tali vaccinazioni vengono qualificate come opinioni personali, prive di fondamento scientifico, basate su notizie inveritiere. Infine il Tribunale di Milano autorizza il padre anche all’effettuazione del vaccino anti-COVID-19 come da lui richiesto, per essere la contraria posizione della madre basata ancora una volta su convinzioni personali prive di pregio scientifico, basate sulla teoria del “complotto”, su una “visione pregiudiziale e viziata della realtà espressione di una presa di posizione aprioristica nei confronti della scienza internazionale che non può che essere frutto di ideologie estremistiche” che pretermette di considerare l’autorizzazione di tale vaccinazione ai minori ultradodicenni del’EMA e non considera che tali persone di età minore vanno vaccinate prima di tutto per proteggere loro stesse e poi tutte le persone con le quali entrano in contatto nonché la didattica in presenza.
Il Tribunale di Milano considera quindi il comportamento materno “di grave pregiudizio per la minore” per averla esposta a gravi malattie negandole l’accesso alle vaccinazioni obbligatorie: il che porta il giudice a ritenere di dover limitare la responsabilità genitoriale della madre relativamente alle decisioni sulla salute della figlia afferenti le questioni vaccinali. Ovviamente viene respinta anche la domanda materna di affidamento esclusivo della figlia a se medesima. Circa l’istanza di ascolto della minore, il Tribunale la respinge sottolineando come il CBN, nel suo citato parere del 30.07.2021 ne abbia richiamato la necessità per l’adolescente e il grande minore. Richiama anche il conflitto di lealtà cui sarebbe stata sottoposta la bambina, convivente con la madre e dalla stessa “indottrinata” a giudizio del padre. Il Tribunale meneghino infine condanna la Resistente anche alle spese ex art.96 c.p.c. sottolineando come tale norma risponda a una funzione sanzionatoria di chi abusa del processo anche al fine di dilatarne i tempi.
Altro strumento processuale ha invece scelto in analogo caso il padre di minore sedicenne propenso a vaccinarsi per essere libero di accedere alla vita sociale, relazionale e sportiva, ma con una madre NO-VAX, presentando ricorso al Giudice Tutelare aretino ai sensi dell’art. 337 c.c. e chiedendogli che il minore sia ascoltato. Il Giudice Tutelare autorizza la vaccinazione e raccomanda alla commissione medica vaccinatrice di raccogliere il consenso del ragazzo unitamente a quello del padre.
È ricorsa sempre invece allo strumento ex art. 709 ter c.p.c. al Tribunale di Venezia la madre di una donna separata dal marito per la somministrazione del vaccino anti COVID-19 alla figlia che aveva espresso analoga volontà, Sentita la ragazza che “ha espresso liberamente, chiaramente e univocamente la volontà di sottoporsi al vaccino anti Covid-19, sì da poter svolgere in sicurezza le attività scolastiche ed extrascolastiche che, in seguito all’introduzione dell’obbligo del green pass, lo sono state parzialmente precluse”; acquisito il parere del medico famiglia attestante controindicazioni clinico-mediche alla somministrazione del vaccino alla minore; rilevata l’assenza di pericolo per la salute della minore e le indicazioni univoche della comunità scientifica, la diffusività del virus Covid-19 e la genericità e pretestuosità dei motivi di rifiuto paterni, con decreto del 1 dicembre 2021 il Tribunale di Venezia ha attribuito alla madre ricorrente il potere di decidere in via autonoma e senza il consenso paterno alla somministrazione del vaccino alla figlia minore.
Il giorno dopo, la Corte di appello di Venezia in altro caso, con decreto in data 2 dicembre 2021 ha autorizzato un padre alla somministrazione del vaccino al figlio che aveva invece espresso parere contrario, conforme a quello della madre con lui concivente. La Corte di appello ha osservato che, pur dovendosi tenere conto delle dichiarazioni dell’interessato, il giudice debba orientare la decisione a realizzare l’interesse del minore e dunque possa giungere anche a un convincimento diverso alla volontà manifestata da quest’ultimo.
8. …e quando i figli sono affidati ai servizi sociali?
Un caso particolare di dissenso tra genitori rispetto alla vaccinazione anti covid-19 si è verificato in un caso di affidamento dei figli minori ai Servizi sociali: in questo caso il Tribunale di Roma ha dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso ex art. 709 ter c.p.c. della madre, favorevole al vaccino, in quanto con precedente decreto tutte le decisioni relative anche alle scelte sanitarie per i figli minorenni erano state attribuite al servizio affidatario (Trib. Roma, decr. 29.07.2021). Questo, dopo aver sentito -non senza molte sollecitazioni anche del curatore speciale dei figli minorenni- il pediatra che ha escluso le conseguenze paventate dal padre -non contrario di per sé alla vaccinazione ma preoccupato di risposte allergiche essendo lui stesso un soggetto con varie allergie- ha autorizzato la vaccinazione. In questo caso il figlio minorenne era favorevole al vaccino, in quanto senza lo stesso non avrebbe potuto frequentare lo sport dal medesimo prediletto.
Differentemente invece una ragazza dell’interland milanese, contraria a vaccinarsi e anche lei affidata ai Servizi sociali: cui però non erano stati attribuiti poteri/doveri inerenti le scelte sanitarie con il provvedimento di affidamento (il che peraltro manifesta ancora una volta l’inadeguatezza dei provvedimenti di affidamento ai Servizi che non specifichino con chiarezza quali poteri sono loro attribuiti). Ricorre il padre -favorevole al vaccino- ex art. 709 ter c.p.c. chiedendo di sospendere la responsabilità genitoriale della madre. La figlia dichiara di non essere allo stato favorevole e la madre neutrale. Ma dagli atti Il Tribunale ritiene evidente che ha invece contrarietà alla somministrazione del vaccino e la manipolazione delle fonti informative; la ragazza è stata nelle sue dichiarazioni adesiva alla tesi materna. Citate varie fonti scientifiche, il Tribunale di Milano ritiene di doversi discostare dall’opinione espressa dalla minore, citando Cass. 23804/2021, essendo comunque il giudice a dove valutare l’interesse del minore dato che la stessa non appare , peraltro in questo caso con problematiche varie emerse nel corso di precedenti giudizi, impossibilitata al libero accesso alla figura paterna, priva di vita sociale propria. Citando i precedenti del Tribunale di Milano tutti favorevoli alla vaccinazione (decr. 2/13.9.2021; decr. 7.10.2021; decr. 3.11.2021) autorizza il padre ad assumere in autonomia e in assenza del consenso materno, ogni decisione relativa alla somministrazione della vaccinazione anti Covid19, con l’esplicito mandato di informare la figlia attraverso personale specializzato “della opportunità di proceder alla vaccinazione per tutelare la sua salute” ma senza subordinare l’effettuazione della vaccinazione al consenso della figlia (Tribunale Milano, decr. 22.22.2021).
9. Minorenni e diritto al ricorso effettivo
La questione, risolta dai provvedimenti citati concentrando sempre in capo al genitore favorevole alla vaccinazione anti COVID-19 del figlio minorenne, esprime un deciso favor per la somministrazione del vaccino. Stupisce che in nessuna delle decisioni richiamate si sia rinvenuto richiamo all’art. 29 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo che, dettando i contenuti del diritto all’educazione del minorenne, esplicitamente richiama anche il tema della responsabilità sociale, affatto estranea alla considerazione giuridica della scelta vaccinale anche nella prospettiva dell’art. 32 Cost.
Ma non è la sola questione senza risposta che emerge dal rapido esame sul tema vaccino anti covid-19 ai minorenni: nell’ambito delle decisioni sulla salute, sul piano sostanziale dovrebbe essere riconosciuta ai cd. “grandi minori” maggiore autonomia decisionale, non essendo sufficiente il loro ascolto nell’ambito della procedura nei casi in cui si trovino in contrasto o in conflitto di interessi con chi esercita la responsabilità genitoriale. Dovrebbe essere garantito loro la rappresentanza autonoma nel procedimento con la nomina di un curatore speciale e dovrebbe essere garantito loro l’accesso alla giustizia per la tutela dei loro diritti di scelta autonoma. Difatti la breve rassegna di provvedimenti in tema di vaccinazioni anti covid-19 dimostra che solo se vi è contrasto tra i genitori, vi è l’intervento del giudice.
Il problema riguarda anche altre fattispecie. Ne è esempio la difficoltà per l’infrasedicenne dell’esercizio del diritto di riconoscere un figlio ai sensi dell’art. 250 c.c., per la cui concreta attuazione e tutela effettiva la giurisprudenza ha dovuto inventare tortuose strade[23]. Oppure la possibilità di contrarre matrimonio per gli ultrasedicenni. La nostra normativa prevede che i minorenni di 14 anni possano prestare consenso al trattamento dei dati personali e possano dare l’assenso al riconoscimento del genitore che non li ha riconosciuti alla nascita, indipendentemente dal dissenso del genitore che ha invece operato immediatamente il riconoscimento. Il minorenne può chiedere il disconoscimento o impugnare di veridicità il suo riconoscimento tramite curatore speciale chiedendone la nomina al Pubblico Ministero (previsione però astratta, non essendo immaginabile per un minorenne l’agevole accesso al PM). Il minorenne invece non può chiedere la dichiarazione giudiziale di paternità, se la madre rimane inerte, perché vi è una surroga ex lege nell’azione e la nomina del curatore speciale nella fattispecie è prevista solo quando vi è un tutore: evidentemente la norma intende salvaguardare la vita privata e familiare del nucleo madre-figlio, lasciando alla prima la valutazione se sia il caso o meno di procedere alla relativa domanda. Tuttavia non sfugge che tale ratio ha le sue radici in una visione obsoleta non solo dei rapporti familiari ma soprattutto della considerazione del figlio, come se non fosse portatore di propri diritti indisponibili all’identità, alle relazioni familiari, alla vita privata e familiare della persona di età minore, considerato non molto più che un’appendice del genitore con il quale vive arbitro assoluto anche dei di lui diritti fondamentali. D’altra parte invece sussistono barriere nella ricerca di autonomia del minorenne in scelte che rivestono comunque importanza nel suo sviluppo psico-fisico. L’art. 316 bis c.c. prevede infatti che il Giudice Tutelare possa intervenire nelle questioni di particolare importanza sulle quali c’è contrasto tra i genitori su ricorso di uno di essi, e non su domanda di una persona di età minore che però deve essere ascoltato. Evidentemente la sua volontà troverà tutela solo se vi sarà stato contrasto tra i genitori e questi avrà adito un giudice. Nelle questioni sanitarie il contrasto della volontà del grande minore con i suoi genitori potrà essere portato a conoscenza del Giudice Tutelare dal medico, come si è già visto.
Tuttavia è evidente che difetta una filosofia di sistema che preveda aree di sua autonomia di accesso alla giustizia, trattandosi di una disciplina frammentaria in cui è difficile persino individuare il perimetro di aree omogenee. Né è possibile che il minore possa rivolgersi direttamente a un avvocato, perché si faccia portatore della sua domanda di giustizia. Ai sensi dell’art. 56 cod. deont. forense, difatti: “L’avvocato non può procedere all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, sempre che non sussista conflitto di interessi con gli stessi. L’avvocato del genitore, nelle controversie in materia familiare o minorile, deve astenersi da ogni forma di colloquio e contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle stesse”. Pur potendosi sostenere che vi sia conflitto di interessi tra un minorenne che vuole vaccinarsi e genitori che non vogliono, è evidente il rischio professionale insito in questa prospettiva per l’avvocato cui il minorenne dovesse rivolgersi; comunque resta insuperabile il problema della procura, che deve essere conferita da persona munita di capacità di agire e, quindi, o dal rappresentante legale del minore (genitori o tutore) o dal curatore che gli sarà stato nominato, anche su suo ricorso. Sicché i possibili percorsi sono: o che il minorenne si rivolga al Pubblico ministero minorile affinché richieda la limitazione della capacità di agire dei genitori per la scelta vaccinale, attribuendola eventualmente a un curator ad acta; o che si rivolga al presidente del tribunale perché gli nomini un curatore speciale che proponga la domanda al Giudice Tutelare. Percorsi tortuosi e di fatto impercorribili, il che porta ancora una volta a chiedersi quanta strada ancora ci sia perché alle persone di età minore sia riconosciuto il diritto al ricorso effettivo ai sensi dell’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Del che anche la recentissima riforma del processo civile in area persona, relazioni familiari e minorenni, non sembra essersi occupata.
[1] Sul tema dell’interesse del minore, la più approfondita e completa analisi in M. Bianca (a cura di) , The best interest of the child, Roma, 2021. Per una veloce sintesi, che segnalo in quanto attinente al presente tema, rinvio a M.G. Ruo, Il principio dell’interesse del minore: una bussola ai tempi del COVID. Il punto sulle tutele, in Guida al diritto – Il sole 24 ore, N. 48, 5 dicembre 2020, pp. 30-34.
[2] Così G. Recinto, Il diritto alla salute della persona di età minore e il suo superiore interesse, in Persone di età minore e diritto alla salute. Aspetti bioetici, giuridici, medici, psicologici e pedagogici. Matera, 2015, pp. 15-22 che raccoglie gli atti del congresso di CAMMINO, svoltosi a Matera nel 2013. Cfr. anche nello stesso volume i saggi di S. Amato, Bioetica e minori, pp. 23-34 e P. Stanzione, Persona minore di età e salute, diritto all’autodeterminazione, responsabilità genitoriale, pp. 35-47.
[3] Così G. Recinto, ibidem, p. 16.
[4] Così G. Recinto, ibidem, p. 21.
[5] La sentenza 307 del 14-22 giugno 1990 fu pronunciata in materia di vaccinazione poliomelitica e dichiarò l’illegittimità costituzionale della l. 51/1966 nella parte i cui non prevedeva a carico dello Stato un’equa indennità in caso di conseguenze al vaccino.
[6] Così Corte Cost., sent. 5/2018, desumendo dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione, nonché dalla circolare del Ministro della salute del 12 giugno 2017 (Circolare recante prime indicazioni operative per l’attuazione del decreto-legge 7 giugno 2017, n. 73, recante “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale”),
[7] Secondo i dati dell’OMS nel World Health Statistics, rapporto pubblicato il 17 maggio 2017.
[8] Fermo restando il rinvio alle specificazioni del calendario vaccinale nazionale riferito a ciascuna coorte di nascita, le vaccinazioni obbligatorie e gratuite sono state ridotte nella conversione in legge da dodici a dieci. Restano obbligatorie, quelle contro poliomielite, difterite, tetano ed epatite B, nonché contro pertosse e Hib (comma 1); sono altresì obbligatorie le vaccinazioni contro morbillo, rosolia, parotite e varicella (comma 1-bis). Non sono obbligatorie, ma vengono offerte attivamente e gratuitamente le vaccinazioni anti-meningococcica B e C e, inoltre, quelle contro pneumococco e rotavirus (comma 1-quater).
[9] Legge 6 giugno 1939, n. 891, recante «Obbligatorietà della vaccinazione antidifterica»; legge 5 marzo 1963, n. 292, recante «Vaccinazione antitetanica obbligatoria»; legge 4 febbraio 1966, n. 51, recante «Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica»; legge 27 maggio 1991, n. 165, recante «Obbligatorietà della vaccinazione contro l’epatite virale B».
[10] Rispettivamente previste, dallo stesso art. 1 del d.l. n. 73 del 2017, ai commi 2 e 3 e successivamente ridotte in sede di conversione che ha anche introdotto un procedimento amministrativo con convocazione degli esercenti la responsabilità genitoriale alla ASL.
[11] Precedentemente la Consulta era intervenuta sul tema delle vaccinazioni anche con le sentenze n. 423/2000, n. 27/1998, n. 268/2012 e con la sentenza n. 268/2017.
[12] Art. 12 CRC: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”. Cui fa riscontro, da parte dell’ordinamento interno, l’art. 315 bis c.c.
[13] Dichiarazione di norme universali di bioetica elaborato dal Comitato internazionale di bioetica (CIB) dell'UNESCO, ed approvato nel 2005.
[14] Il Codice è stato redatto da un gruppo di lavoro multidisciplinare ed è il frutto di un lavoro intrapreso nel 2008 per iniziativa dell'Istituto Nazionale per i Diritti dei Minori (Indimi). Hanno preso parte alla redazione del Codice la Società italiana di pediatria (Sip), l'Associazione culturale pediatri (Acp), la Società italiana di medicina dell'adolescenza (Sima), la Società italiana di Scienze infermieristiche pediatriche (Sisip), con la collaborazione di Unicef Italia e degli Ospedali Pediatrici Gaslini, Burlo Garofalo, Meyer e Bambin Gesù (https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Docs/Ministero-della-Salute-Codice-del-diritto-del-minore-alla-salute-e-ai-servizi-sanitari).
[15] Ad es. ad opera del Garante infanzia delle Marche: https://www.garantediritti.marche.it/storage/2020/09/codice_salute_minore.pdf
[16] Le ragazze minorenni hanno il diritto di rivolgersi personalmente ai consultori familiari anche all’insaputa dei genitori, per ottenere la prescrizione di farmaci contraccettivi che necessitano di controllo medico: gli operatori sono tenuti a rispettare unicamente le convinzioni etiche delle richiedenti. In particolare, dall’età di 14 anni possono richiedere anche visite ginecologiche. Sono ammessi accertamenti diagnostici, anche di laboratorio, e cure qualora si presentino sintomi di insorgenza di una malattia trasmessa sessualmente.
[17] Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
[18] Parere del Comitato Nazionale di Bioetica 23 ottobre 2020https://bioetica.governo.it/media/4114/p139_covid-19-e-bambini-dalla-nascita-all-eta-scolare_it.pdf
[19] Bioetica con l’infanzia, parere 22 gennaio 1994, https://bioetica.governo.it/it/pareri/pareri-e-risposte/bioetica-con-linfanzia/. Ancor prima cfr. Parere 20 giugno 1992, Informazione e consenso all’atto medico https://bioetica.governo.it/it/pareri/pareri-e-risposte/informazione-e-consenso-allatto-medico/
[20] L’obbligo è stato imposto dal decreto legge del 1 aprile 2021 n. 44, convertito dalla legge 28 maggio n. 76, per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura ed assistenza.
[21] Sui “grandi minori” cfr. intervista del Prof. Roberto Sinigaglia in Diritti in cammino: Rubrica Dove va il diritto di famiglia: i cd grandi minori. https://www.youtube.com/watch?v=brVd9h0tHpY&ab_channel=CAMMINOAssociazioneAvvocati. Bisogna lasciarsi alle spalle l’idea dell’infradiciottenne come incapace di scegliere, nell’ambito dei diritti personali e in particolare dei diritti sanitari. Nonostante la legge 219/2017 preveda che il consenso debba essere espresso dai genitori, pur tenendo conto della volontà del minore. Genitori e medici si debbono mettere in ascolto della persona di età minore. Cfr. anche il codice privacy che riconosce al grande minore (in Italia dai 14 anni) la possibilità di esprimere il consenso al trattamento dei suoi dati personali.
[22] Ringrazio l’Avv. Grazia Ofelia Cesaro, presidente dell’UNCM e difensore del padre, per avermene reso disponibile copia anonimizzata.
[23] Quando un bambino nasce da un’infrasedicenne, su ricorso del Pubblico Ministero Minorile viene aperto il procedimento di adottabilità (art. 9 l. 184/1983). Il Tribunale per i minorenni sospende il procedimento se la minorenne vuole riconoscere il figlio (art. 11 l. 184/1983) e le nomina un curatore speciale che ricorra al Tribunale ordinario per richiedere la relativa autorizzazione.
Scienze, neuroscienze e accertamento multifattoriale delle infermità psichiche*
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Il dibattito scientifico sull’imputabilità, il contributo delle neuroscienze e il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità determinato dalla sentenza “Raso” – 2. La rivisitazione della condizione di imputabilità, la funzione sociale della pena e l’ampliamento neuro-scientifico delle patologie psichiche – 3. La verifica processuale sull’imputabilità del soggetto attivo del reato, gli equivoci neuro-scientifici e l’accertamento multifattoriale delle infermità psichiche – 4. La crisi del principio di causalità nel diritto penale e l’accertamento multifattoriale del nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto delittuoso.
1. Il dibattito scientifico sull’imputabilità, il contributo delle neuroscienze e il nuovo corso della giurisprudenza di legittimità determinato dalla sentenza “Raso”
A partire dagli anni Sessanta si è sviluppato un acceso dibattito scientifico sul tema dell’imputabilità, alimentato dalla mancanza di parametri scientifici univoci sulle nozioni di infermità psichica e di capacità di intendere e di volere[1]. Tali contrasti interpretativi discendono dalle posizioni estremamente diversificate assunte dalla psichiatria forense nostrana sul tema dell’imputabilità, che traggono a loro volta origine dai contrasti esistenti in ordine allo stesso apporto di questa disciplina scientifica al processo penale e che le recenti aperture alle problematiche neuro-scientifiche hanno ulteriormente accentuato[2].
Per comprendere tale situazione di incertezza interpretativa è sufficiente richiamare le parole di Tullio Bandini e Uberto Gatti, che, in un loro studio sulla valutazione clinica dell’imputabilità degli anni Ottanta, così commentavano il dibattito scientifico interno alla psichiatria forense su questo tema: «Nell’attuale momento storico si è quindi giunti ad una situazione di contrasto, che vede contemporaneamente presenti da un lato la richiesta di estendere l’intervento psicologico e psichiatrico all’interno del processo penale, attraverso la sistematica utilizzazione della cosiddetta perizia “criminologica”, e dall’altro lato la richiesta di limitare o addirittura escludere l’intervento della psichiatria nel sistema della giustizia, fino a giungere alla proposta di considerare sempre imputabili i rei affetti da patologia mentale»[3].
In questa situazione di pluriennale incertezza interpretativa, a metà dello scorso decennio, si inseriva risolutivamente la Suprema Corte, intervenendo con una pronuncia a Sezioni Unite con la quale veniva definitivamente rivisitata la nozione di imputabilità, aprendo nuovi spazi ermeneutici ad approcci clinici nuovi e certamente affascinanti come quello neuro-scientifico.
Le Sezioni Unite, in particolare, intervenivano per stabilire se, ai fini del riconoscimento del vizio parziale o totale di mente, rientrassero nel concetto di infermità psichica i gravi disturbi della personalità tradizionalmente inquadrati nell’ambito delle anomalie psichiche riconducibili all’art. 90 c.p. Con il loro intervento le Sezioni Unite risolvevano la questione oggetto di rimessione affermando il principio secondo cui i gravi disturbi della personalità sono ascrivibili al novero delle infermità psichiche e possono dare luogo al vizio di mente previsto dall’art. 88 c.p. a condizione che siano di intensità e gravità tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’agente e sussista un nesso eziologico tra il disturbo mentale e la condotta delittuosa[4].
Veniva, conseguentemente, affermato il seguente principio di diritto, a tutt’oggi insuperato, secondo cui: «Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”»[5].
Per raggiungere tali conclusioni, le Sezioni Unite rivisitavano la nozione di imputabilità, inquadrandola nell’ambito della capacità penale e adeguandola alle più recenti acquisizioni della psichiatria forense, che venivano reinterpretate in una prospettiva clinica aperta ai possibili apporti della ricerca scientifica.
Si giungeva, in questo modo, a definire l’infermità psichica come una condizione di disagio mentale di consistenza tale da escludere o ridurre consistentemente la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato. In questa prospettiva interpretativa, dunque, non è tanto la condizione di infermità psichica dell’agente a rilevare sul piano dell’accertamento processuale della capacità di intendere e di volere, quanto il suo disagio mentale, la cui consistenza deve essere tale da incidere negativamente sulla sua capacità di determinarsi liberamente in rapporto al singolo evento delittuoso[6].
2. La rivisitazione della condizione di imputabilità, la funzione sociale della pena e l’ampliamento neuro-scientifico delle patologie psichiche
Per inquadrare l’orientamento interpretativo che si è richiamato nel paragrafo precedente occorre analizzare preliminarmente i presupposti sistematici di tale impostazione allo scopo di comprenderne l’effettiva portata applicativa.
In tale ambito, cominciamo con l’osservare che, secondo la Suprema Corte, l’imputabilità non è solo una condizione psichica indispensabile per attribuire un reato all’agente, ma esprime la sua capacità penale, sul presupposto che non può esservi colpevolezza senza consapevolezza delle proprie azioni. L’imputabilità, dunque, è la condizione soggettiva indispensabile per affermare la responsabilità penale dell’agente, a condizione che questi, al momento del fatto, versi in una condizione di rimproverabilità riscontrata processualmente[7].
Ne discende che non può esservi colpevolezza senza rimproverabilità per la condotta tenuta dal soggetto attivo del reato, per sanzionare la quale è necessario riscontrare l’effettiva coscienza dell’antigiuridicità del fatto in capo all’agente.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che la verifica della colpevolezza del soggetto attivo del reato costituisce un momento insostituibile del giudizio di responsabilità penale in conseguenza delle finalità di rieducazione della pena affermate dall’art. 27, comma terzo, Cost., alla luce delle quali deve essere reinterpretato l’orientamento ermeneutico che si sta considerando. Infatti, la sanzione penale può svolgere la sua funzione di rieducazione del condannato soltanto a condizione che sia stato effettivamente commesso un fatto dannoso da parte del soggetto che deve essere rieducato e sia stata attuata con forme compatibili con il rispetto della persona imposto dall’art. 27, comma terzo, Cost.
Ne deriva ulteriormente che la sanzione penale può svolgere un’effettiva funzione di rieducazione solo a condizione che il condannato abbia maturato la consapevolezza degli effetti lesivi del suo comportamento, attivando in conseguenza di tale percorso interiore un processo di reinserimento sociale all’interno o all’esterno del circuito penitenziario[8]
In altri termini, è possibile parlare di rimproverabilità di un comportamento delittuoso solo se l’agente è consapevole dell’antigiuridicità del fatto che gli deve essere attribuito, sulla base di una verifica processuale sulla consapevolezza della sua condotta e non di una relazione meramente meccanicistica.
Ne discende che il processo rieducativo del condannato non può mai essere dato per scontato, presupponendo la piena consapevolezza del reo e l’accettazione del percorso sanzionatorio attuato nei suoi confronti. Tali principi, del resto, possono ritenersi ormai pacificamente accettati e acquisiti al patrimonio concettuale del nostro sistema penale[9].
Tutto questo porta a escludere ogni forma di coercizione, fisica o psichica, nel perseguimento delle finalità di rieducazione del condannato, che costituiscono un obiettivo tendenziale della pena perseguibile solo in presenza di una disponibilità del soggetto passivo del trattamento, sul presupposto della sua capacità di determinarsi liberamente[10].
Da questo punto di vista, si ritiene di dovere ulteriormente affermare che la necessità di stabilire un collegamento tra l’imputabilità e la funzione sociale della pena è una conseguenza della centralità riconosciuta nel nostro sistema processuale al principio del libero convincimento del giudice affermato dall’art. 192 c.p.p., che è individuati nell’obbligo di motivare la sentenza attraverso un percorso giustificativo coerente rispetto alle argomentazioni poste a suo fondamento e alle finalità perseguite dalla sanzione penale. Questo principio di origine illuministica, nella sua storia secolare, ha trovato la sua giustificazione nell’esigenza di limitare il pericolo di sentenze logicamente contraddittorie o emotive, imponendo una verifica rigorosa delle emergenze processuali riscontrate in relazione ai reati di volta in volta contestati e alla pena comminata all’esito del processo penale[11].
L’accoglimento di tale principio nel nostro ordinamento comporta che qualsiasi elemento probatorio possa contribuire alla formazione del convincimento del giudice, senza che possano crearsi artificiose gerarchie processuali tra le fonti di prova legittimamente acquisite. Di conseguenza, il giudice, per formare il suo convincimento, può utilizzare tutti gli elementi probatori che ritiene utili per la decisione della vicenda sottoposta al suo vaglio processuale, avvalendosi anche di eventuali accertamenti neuro-scientifici, purché dia conto nella motivazione dell’attendibilità e della pertinenza delle fonti di prova utilizzate, che non devono essere valutate empaticamente.
In tale prospettiva, ci sembra evidente che il principio del libero convincimento del giudice segni il passaggio fondamentale dalla fase della dimostrazione dei reati contestati all’imputato a quella della verità processuale trasfusa nella sentenza, che deve fondarsi sulle emergenze probatorie e tenere adeguatamente conto della consapevolezza del soggetto attivo del reato, rispetto alla quale le verifiche neuro-scientifiche, in quanto tali, possiedono un valore neutro, soggiacendo ai parametri generali affermati dalla sentenza “Raso”[12].
Si ritorna in questo modo alla centralità dell’art. 27 Cost., nell’ambito del quale deve essere inquadrato il principio della presunzione d’innocenza sancito nel suo secondo comma – nella sua duplice valenza di strumento di raggiungimento della verità processuale e di insostituibile regola di argomentazione – che impone all’autorità giudiziaria di formulare un giudizio di responsabilità penale dell'imputato solo quando la sua colpevolezza è stata dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed è per questa ragione che riteniamo indispensabile collegare ulteriormente il principio del libero convincimento del giudice con il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, nella convinzione che tali principi costituiscano la piattaforma sistematica indispensabile per comprendere il significato più intimo dell’opzione interpretativa tesa a ricondurre i disturbi mentali nell’alveo dell’incapacità di intendere e di volere riconosciuta dall’art. 88 c.p.
Sotto questo profilo, l’ingresso nel nostro ordinamento della regola di giudizio fondata sul principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio comporta il rifiuto categorico dell’assunto secondo il quale i processi si possono risolvere con il solo metodo dell’intuizione personale del giudice, che dunque non si potrà spingere fino a sostituirsi alle acquisizioni consolidate della psichiatria forense per valutare l’imputabilità dell’agente. In altre parole, laddove le evidenze scientifiche riscontrate nel caso di specie dovessero risultare incerte o comunque contraddittorie, lasciando residuare consistenti margini di dubbio sull’imputabilità e sulla sua colpevolezza, il giudice dovrà assolvere[13].
A ben vedere, questa opzione interpretativa esprime una consapevolezza da tempo presente nelle scienze criminali nostrane, rafforzando il significato e la portata applicativa del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. In questa direzione, possiamo affermare che il responsabile dell’evento delittuoso può essere colpito dalla sanzione penale solo quando si raggiunge la certezza processuale che, al momento del fatto, fosse imputabile e che la sua capacità di intendere e di volere non fosse gravemente compromessa dalla presenza di patologie psichiche, rispetto alla quale – occorre ribadirlo – le verifiche neuro-scientifiche possiedono un valore neutro, essendo indispensabile vagliarne gli esiti alla luce della giurisprudenza richiamata nel paragrafo precedente[14].
D’altra parte, lo scopo di sanzionare con una norma penale il comportamento del soggetto attivo del reato deve essere raggiunto attraverso il superamento di ogni ragionevole dubbio sul fatto che la sua condotta abbia effettivamente e consapevolmente causato l’evento delittuoso che si è preso in considerazione in sede processuale. Ne consegue ulteriormente che, qualora all’esito della verifica probatoria compiuta dall’autorità giudiziaria dovessero sussistere ragionevoli dubbi sulla capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato e sulla consapevolezza dell’azione criminosa oggetto di accertamento processuale, si dovrà ritenere non dimostrata la colpevolezza dell’agente che dovrà essere prosciolto dalle contestazioni che gli sono state mosse[15].
In altri termini, non si può stabilire un collegamento processuale tra la condotta del soggetto attivo del reato e l’evento delittuoso oggetto di osservazione al di fuori delle regole di giudizio che governano nel nostro sistema l’accertamento della responsabilità penale, a meno di non stravolgere i principi fondamenti del nostro processo penale, tra i quali a buon diritto devono collocarsi tanto il principio del libero convincimento del giudice quanto il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio[16].
3. La verifica processuale sull’imputabilità del soggetto attivo del reato, gli equivoci neuro-scientifici e l’accertamento multifattoriale delle infermità psichiche
Una delle conseguenze più significative della posizione interpretativa che si sta considerando è rappresentata dalla necessità che la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato e la sua imputabilità non siano valutate in astratto ma all’interno del processo penale, con le regole probatorie utilizzabili in tale ambito giurisdizionale e tenendo conto delle metodologie cliniche funzionali all’inquadramento della patologia psichica, di volta in volta, considerata.
Tali conclusioni postulano, a loro volta, un rapporto simbiotico tra il sapere scientifico proveniente dalla psichiatria forense – rispetto a cui assumono una dignità non secondaria, ancorché non decisiva, gli esiti delle verifiche neuro-scientifiche[17] – e il materiale probatorio esaminato dall’autorità giudiziaria, che deve beneficiare di questa simbiosi processuale. Sotto questo profilo, non possiamo che condividere la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità che, nell’ultimo decennio, si è mostrata sensibile agli orientamenti più raffinati delle discipline psicopatologiche, tra cui le neuroscienze, valorizzando, al contempo, una prospettiva interdisciplinare che punta al rafforzamento del rapporto di collaborazione tra giustizia penale e psichiatria forense[18].
Ne discende che la condizione di infermità psichica dell’agente assume rilevanza ai fini dell’imputabilità solo in quanto risulti comprensibile il quadro bio-psicologico al quale associarla, con la conseguenza che è alla psichiatria forense che il giudice deve rivolgersi per individuare i dati clinici che gli consentiranno di ritenere l’individuo imputabile o non imputabile; ed è in tale contesto, necessariamente interdisciplinare, che il supporto delle neuroscienze può essere utile per l’accertamento dell’infermità psichica dell’imputato, ferma restando l’assenza di connotazioni salvifiche di tali metodiche diagnostiche.
Da questo punto di vista, è condivisibile la scelta della Suprema Corte di sancire il definitivo superamento del paradigma organicistico, che non riteneva possibile l’inquadramento delle anomalie psichiche nel novero delle categorie nosografiche, dando spazio a prospettive cliniche nuove, tra le quali, a buon diritto, si collocano le verifiche neuro-scientifiche, laddove risolutive per accertare l’intensità obnubilante delle capacità psichiche della patologia psichiatrica oggetto di accertamento[19].
In questo modo, ha trovato definitiva consacrazione quell’orientamento giurisprudenziale originariamente elaborato con riferimento alle sole “reazioni a corto circuito”, secondo cui le gravi alterazioni psichiche – anche se normalmente riferibili a stati emotivi e passionali non integranti una condizione patologica secondo quanto previsto dall’art. 90 c.p. – possono costituire «manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, incidendo soprattutto sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni»[20].
L’ingresso delle “reazioni a corto circuito” nel dibattito giurisprudenziale risale alla seconda metà degli anni Ottanta, quando alcune Corti di Assise, pronunciandosi in materia di infanticidio, affermavano che i disturbi della personalità, se caratterizzati da particolare intensità, possono assurgere al rango di infermità psichica, facendo ritenere non imputabile quel soggetto che – in una situazione emotiva particolarmente coinvolgente e per effetto delle patologie di cui soffre – commette un fatto delittuoso. Tale impostazione partiva dall’assunto secondo cui l’infermità psichica idonea a compromettere la funzione intellettiva e ad abolire quella volitiva, anche solo transitoriamente, esclude che si possa applicare la disciplina dell’art. 90 c.p., che invece si riferisce a una condizione di turbamento passeggero dell’equilibrio psichico dell’agente conseguente all’insorgenza di fatti che toccano la sfera emotiva ovvero traggono origine da sentimenti più radicati nell’animo umano come la gelosia, l’amore, l’invidia o l’ambizione[21].
Si è ritenuto, in questo modo, che, a prescindere dalle catalogazioni nosografiche, quello che occorre verificare in sede processuale è l’assetto psichico complessivo dell’agente da intendere come il possesso, in un determinato momento, delle sue facoltà di autodeterminazione. Si è così attribuita rilevanza giuridica anche a quei disturbi mentali – non necessariamente inquadrabili nosograficamente o rilevabili neuro-scientificamente – che, per la loro intensità o per la loro persistenza, siano tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere del soggetto rapportabile in relazione al singolo evento delittuoso, escludendo o riducendo fortemente la sua capacità di autodeterminarsi[22].
Ne discende che non si tratta di affermare o escludere, sic et simpliciter, la rilevanza delle neuroscienze come metodica diagnostica ai fini dell’accertamento delle infermità psichiche e della loro eventuale rilevanza penale, ma di accertare se e in quale misura tali metodologie cliniche possono consentire di individuare patologie non altrimenti rilevabili e rispondere all’unico quesito che rileva in tema di capacità penale: l’imputato al momento del fatto era capace di intendere e di volere?.
In questa prospettiva, come acutamente evidenziato da Isabella Merzagora Betsos, le nuove metodiche diagnostiche neuro-scientifiche devono essere inquadrate in un corretto contesto nosografico, essendo utilizzabili laddove consentano di individuare clinicamente i disturbi della personalità. Tali metodiche, dunque, possono rilevarsi utili, qualora siano «in grado di stanare patologie che senza l’impianto concettuale e gli strumenti tecnici loro propri erano trascurate o non individuate […]»[23].
Seguendo questo percorso interpretativo si è ritenuto che anche i disturbi della personalità possono essere ritenuti idonei a concretizzare il vizio totale di mente previsto dall’art. 88 c.p., che può essere anche transeunte – connotazione quest’ultima differente dalla temporaneità del disturbo – ancorché riconducibile a una medesima condizione patologica. Da tali deduzioni deriva l’impegno del giudice nel distinguere gli stati di infermità psichica passeggeri da quelli che non possiedono siffatte connotazione cliniche e dai meri stati emotivi e passionali, i quali devono essere ritenuti irrilevanti ai fini dell’esclusione dell’imputabilità, secondo quanto previsto dall’art. 90 c.p.[24]
4. La crisi del principio di causalità nel diritto penale e l’accertamento multifattoriale del nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto delittuoso
A questo punto è chiaro che il dibattito che si è sviluppato in questi ultimi anni tra sostenitori del metodo di accertamento neuro-scientifico delle patologie psichiatriche e sostenitori del metodo di accertamento delle infermità mentali di impianto tradizionale, se portato alle estreme conseguenze, conduce a risultati aberranti.
L’accertamento delle patologie psichiatriche, infatti, postula un percorso di verifica multifattoriale, che mette al centro dell’attenzione giurisprudenziale non tanto il metodo seguito ma il risultato della verifica, occorrendo dimostrare, sulla base delle emergenze probatorie, la sussistenza di un nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto di reato, che consenta di ritenere il primo determinante per il verificarsi del secondo. In questa cornice, non è rilevante il metodo clinico utilizzato per accertare la patologia psichiatrica da cui è affetto l’imputato, ma l’esito dell’accertamento diagnostico, che può certamente essere effettuato con metodiche neuro-scientifiche, ma che, in ogni caso, deve consentire di affermare, in termini di certezza processuale, quale fosse la condizione di capacità penale dell’imputato al momento del fatto.
Invero, questo principio era stato già espresso in alcune risalenti pronunce di legittimità[25], ma non costituiva espressione di un orientamento consolidato, fino all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, che hanno assunto al riguardo una posizione esegetica inequivocabile, adottando una soluzione applicativa condivisa da tutti i commentatori[26].
Tale posizione interpretativa ha incontrato il consenso degli esponenti più autorevoli della psichiatria forense nostrana che, da tempo, ritengono scientificamente plausibile che un malato di mente possa essere chiamato a rispondere del suo operato solo se viene stabilita una correlazione fra i disturbi mentali da cui è affetto e il reato commesso[27].
Tale posizione interpretativa appare condivisibile anche nella prospettiva di un potenziamento del rapporto tra la psichiatria forense e la giurisdizione troppo spesso rimasto su un piano larvale. Nessun dubbio, infatti, può nutrirsi sulla necessità di verificare quali siano le condizioni di salute psichica del soggetto attivo del reato, proprio per quell’indispensabile collaborazione che deve intercorrere tra il sapere scientifico e la iuris dictio del giudice.
Per la verità, l’affermazione apodittica di un sapere giuridico astrattamente fondato sul principio di causalità non può considerarsi del tutto appagante sotto il profilo epistemologico, se si tiene presente il carattere di indeterminatezza delle scienze mediche e la neutralità solo apparente delle acquisizioni scientifiche. Non v’è dubbio, infatti, che l’avere trascurato di inquadrare la medicina nel dibattito sul carattere indeterminato delle scienze naturalistiche inevitabilmente comporta un indebolimento complessivo dei modelli di riferimento scientifico utilizzati dalla Suprema Corte in relazione al problema dell’imputabilità[28].
D’altra parte, pur con i limiti epistemologici che si sono evidenziati, l’opzione interpretativa che si sta considerando ha l’indubbio merito di avere affrontato alla radice il problema del rapporto tra il disturbo mentale e l’agire criminoso dal punto di vista del diritto penale sostanziale, senza trascurare e anzi valorizzandone i profili probatori e gli effetti processuali. Infatti, il procedimento di accertamento della responsabilità penale seguito dal giudice – nonostante l’inevitabile tensione tra razionalità scientifica e logicità processuale – richiede un’intima coerenza con le leggi scientifiche generalmente condivise, tanto è vero che per inquadrare la causalità penale, da tempo, la Suprema Corte utilizza l’espressione “necessaria condivisione sociale dell’agire giurisdizionale”[29].
Da questo punto di vista, ferma restando l’autonomia scientifica – e naturalmente professionale – del perito che esegue le verifiche delegategli dal giudice in ordine alle condizioni di salute psichica del soggetto attivo del reato, il rapporto di cooperazione tra i due soggetti processuali deve essere coordinato dal giudice che deve fornire al suo collaboratore tutte le indicazioni necessarie per l’espletamento del suo accertamento. Le due figure processuali, infatti, devono operare in un ambito di condivisione interdisciplinare, che impone l’esatta delimitazione del contesto bio-psicologico nel quale si inserisce l’intervento del perito, al quale conseguentemente non potrà essere conferita una delega in bianco sulle modalità della verifica sull’infermità psichica.
Sotto questo profilo, particolare importanza deve essere attribuita alla storia clinica dell’autore del reato e agli esiti delle indagini psicodiagnostiche che sono state eseguite nei suoi confronti prima dell’intervento peritale, allo scopo di verificare se il disturbo mentale si è manifestato con un’intensità, qualitativa e quantitativa, tale da escludere o attenuare la capacità di intendere e di volere dell’agente in modo permanente o temporaneo[30].
Allo stesso tempo, essendo l’accertamento peritale finalizzato a consentire al giudice di valutare la capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato, il perito dovrà dare conto dei termini con cui si è sviluppato il dibattito scientifico sui temi dell’infermità psichica e dell’imputabilità nell’ambito della psichiatria forense, allo scopo di evitare gli incombenti pericoli di decisioni emozionali o irrazionali svincolate dal percorso giurisprudenziale rigoroso che si è delineato in queste pagine; ed è proprio questo, a ben vedere, il pericolo di un utilizzo improprio delle metodiche neuro-scientifiche che, laddove disancorate da parametri nosografici rigorosi, possono sfociare in decisioni, per l’appunto, emotive o irrazionali.
Né potrebbe essere diversamente, atteso che sul concetto di infermità psichica la Suprema Corte ha individuato degli argini interpretativi ineludibili, in linea con i principi richiamati dalla Corte Costituzionale in materia di coscienza dell’illiceità e di funzione sociale della pena, che costituiscono un punto di riferimento insostituibile nella valutazione della condizione di colpevolezza dell’imputato.
D’altronde, è difficile ipotizzare, nel breve periodo, un diverso approdo scientifico in tema di infermità psichica – nell’auspicabile direzione di un potenziamento di quel connubio tra i profili sindromici del disturbo mentale e quelli patogenetici – con la conseguenza che il problema dell’accertamento dell’imputabilità comporta la risoluzione di una questione preliminare, finalizzata a verificare se lo stato attuale delle conoscenze scientifiche e delle metodologie utilizzabili in sede peritale possa comportare profili di indeterminatezza della fattispecie in violazione del principio di tassatività[31].
Il vero è che l’accertamento dell’imputabilità del soggetto attivo del reato non può che fondarsi su un approccio multifattoriale dell’infermità psichica da cui è affetto e non può prescindere dalla consapevolezza del carattere multicausale della medicina moderna e dalla necessità di analizzare il processo di causazione di un disturbo mentale come conseguenza di una pluralità di fattori generalmente non isolabili. Soltanto un approccio multifattoriale, infatti, ci consente di comprendere che, nella rete di causazione di un disturbo mentale, molto spesso, non è isolabile il ruolo esclusivo o determinante di un’unica causa, con la conseguenza che l’infermità psichica non sempre si può attribuire, in termini di certezza scientifica, a un fattore piuttosto che a un altro[32].
Tali conclusioni ci sembrano incontrovertibili se solo si considera che i parametri scientifici per definire il rapporto tra la causa e l’effetto di un evento patologico si sono notevolmente indeboliti rispetto al passato, come ci viene efficacemente rappresentato da Paolo Vineis, che contesta l’attualità della stessa nozione di causa, affermando: «Il vocabolo causa viene ad assumere pertanto un senso modificato rispetto alla tradizione aristotelica, e il concetto di causazione multipla […] emerge come modello interpretativo principale. Tale modello è associato all’interpretazione delle malattie croniche in termini di processi a più stadi: non è più singola esposizione nel corso del tempo, a costituire un complesso causale sufficiente»[33].
Tuttavia, tali considerazioni finiscono per indebolire la posizione interpretativa della Suprema Corte che, nell’individuare quale requisito indispensabile dell’accertamento dell’imputabilità la sussistenza di un nesso eziologico tra condotta delittuosa e il disturbo mentale, finisce per trascurare il carattere multicausale della psichiatria forense e la difficoltà di selezionare i fattori causalmente rilevanti rispetto al disturbo mentale che affligge il soggetto attivo del reato. D’altra parte, l’impossibilità di circoscrivere l’origine del processo di causazione di taluni disturbi mentali tipici della società tecnologica è incontrovertibile, se solo si considera che nemmeno su tutte le patologie di origine paranoica, nella psichiatria forense, si dispone di dati scientifici idonei a stabilire con esattezza quali fattori possono ritenersi causalmente rilevanti rispetto al processo di degenerazione psichica[34].
Ne discende che l’opzione interpretativa seguita dalla Suprema Corte in tema di nesso eziologico tra disturbo mentale e condotta delittuosa, seppure meritevole sul piano delle finalità di politica criminale perseguite, costituisce una semplificazione epistemologica, costituendo un’acquisizione incontrovertibile della moderna psichiatria forense quella secondo cui i fattori di acutizzazione di una patologia psichica sono difficilmente individuabili, in considerazione del lungo periodo di maturazione patogenico e della presenza di elementi di predisposizione soggettiva variabile da paziente a paziente. Senza considerare, per altro verso, che un’ipotetica ricostruzione degli elementi di predisposizione soggettiva dell’infermità psichica appare ulteriormente complicata dalla presenza di aspetti familiari di difficile selezione, anche ricorrendo a metodiche interdisciplinari, non potendosi fare a meno di valutare la rilevanza di profili di predisposizione genetica della patologia, con un’operazione che è possibile soltanto ricostruendo lo stato di salute mentale di tutti i familiari del soggetto clinico; operazione, questa, rispetto alla quale le metodiche neuro-scientifiche possono consentire l’acquisizione di risultati utili alla verifica sulla capacità di intendere e di volere del soggetto attivo del reato
Si trae conferma, in questo modo, dell’assunto secondo cui la storicità della patologia psichica oggetto di osservazione è il frutto di un processo di maturazione stratificato – estremamente complesso e spesso risalente nel tempo – che si perfeziona con una successione di fattori espositivi più o meno rilevanti, rispetto ai quali non è possibile indicare con esattezza il momento della patogenesi, che ovviamente non coincide mai con quello dell’accertamento diagnostico della patologia psichica[35].
È questo, a ben vedere, uno dei punti di maggiore criticità del rapporto tra neuroscienze e accertamento delle infermità psichiche, su cui probabilmente occorre uno sforzo interpretativo maggiore, nella direzione di quell’auspicabile potenziamento del rapporto tra giurisdizione e psichiatria forense, al quale più volte ci siamo riferiti nel corso di questo intervento e che, troppo spesso, è rimasto a uno stadio meramente programmatico[36].
* Questo intervento, che è in corso di pubblicazione nel volume a cura di S. Aleo, Evoluzione scientifica e profili di responsabilità, Pacini, Pisa, 2022, fa parte delle riflessioni condotte nell’ambito del gruppo di ricerca “Responsabilità, neuroscienze, processi di predeterminazione sociale”, composto, oltre che dal sottoscritto, da alcuni docenti del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Catania, costituito con il contributo del Piano di incentivi per la ricerca di Ateneo 2020-2022.
[1] Sul dibattito sviluppatosi in seno alla psichiatria forense a partire all’inizio degli anni Sessanta sul tema dell’imputabilità, si richiamano gli studi condotti da T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica: riflessioni sul ruolo del perito nell’ambito del processo penale, in Riv. it. med. leg., 1982, pp. 321 ss.; Id., Nuove tendenze in tema di valutazione clinica della imputabilità, in Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, diretta da F. Ferracuti, Giuffrè, Milano, 1988, XIII, pp. 152 ss.
[2] Sull’influenza del dibattito sulle neuroscienze rispetto al problema dell’accertamento delle infermità psichiche si veda il recente S. Aleo, Diritto penale e neuroscienze, in Resp. med., 2020, 2, pp. 171 ss.; si vedano anche, sul piano più generale, D. Oliviero, De rerum neuroscientiarum natura. Dai laboratori di genetica alle aule di tribunale, Milano, 2018; R. Dell’acqua-M. Turatto, Attenzione e percezione. I processi cognitivi psicologia e neuroscienze, Roma, Carocci, 2006; A. Siracusano-A.I. Rubino, Psicoterapia e neuroscienze, Roma, Il Pensiero Scientifico, 2006.
[3] Si veda T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica, cit., p. 152.
[4] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, in Cass. C.E.D., n. 230317-01; si muovono nella stessa direzione ermeneutica anche le più recenti Cass. pen., Sez. I, 16 aprile 2019, Mazzeo, in Cass. C.E.D., n. 252686-01; Cass. pen., Sez. I, 31 gennaio 2013, Venzi, in Cass. C.E.D., n. 258444-01; Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2012, Bondì, in Cass. C.E.D., n. 276616-01; Cass. pen., Sez. VI, 27 ottobre 2009, Bolognani, in Cass. C.E.D., n. 245253-01.
Per l’approfondimento di tale posizione giurisprudenziale, si rinvia ai commenti, coevi alla pronuncia e sostanzialmente favorevoli alla svolta ermeneutica determinata dall’intervento delle Sezioni Unite, di M. Bertolino, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 9163, Raso, in Dir. pen. proc., 2005, 7, pp. 119 ss.; M.T. Collica, Anche i “disturbi della personalità” sono infermità mentale, in Riv. dir. proc. pen., 2005, 1, pp. 394 ss.; I. Merzagora Betsos, I nomi e le cose, in Riv. it. med. leg., 2005, 2, pp. 372 ss.
[5] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit.
[6] Si recuperava, in questo modo, la concezione dell’imputabilità in senso relativo affermatasi in seno alla psichiatria forense nel corso degli anni Settanta, secondo cui tale condizione soggettiva dell’agente non deve essere valutata come generica attitudine a rispondere di un reato, ma come capacità rapportabile al singolo evento delittuoso esaminato. Sosteneva, in particolare, questa concezione dell’imputabilità G. Canepa, Personalità e delinquente, Giuffrè, Milano, 1974, pp. 64 ss.; Id., Persectives d’innovation dans le domaine de l’expertise psychiatrique, in Revue de Police Tecnique, 1985, 3, pp. 59 ss.
[7] Si veda Cass. pen., Sez. un., 25 gennaio 2005, Raso, cit.
[8] La funzione sociale della sanzione penale è analizzata negli studi di E. Dolcini, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1979, pp. 479 ss.; L. Eusebi, La «nuova» retribuzione. L’ideologia retributiva e la disputa sul principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, pp. 493 ss.
[9] Si veda E. Dolcini, La «rieducazione» del condannato tra mito e realtà, cit., pp. 483-485.
[10] Si tratta di un orientamento interpretativo recepito dalla Corte Costituzionale, fin dalla metà degli anni Settanta, in C. Cost., 19 maggio 1976, n. 134, in Giust. cost., 1976, 1, pp. 938 ss.
[11] Esemplare, sotto questo profilo, ci appare il punto di vita di uno dei più importanti studiosi del diritto penale contemporaneo come M. Maiwald, Causalità e diritto penale, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 101-102, che afferma: «Il principio del libero convincimento del giudice nel processo penale è principio comune agli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale e deriva dal patrimonio ideologico dell’illuminismo francese».
[12] Si occupano esplicitamente di questo tema, attribuendo un valore probatorio neutro o comunque non risolutivo alle verifiche psichiatriche neuro-scientifiche, le pronunzie Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2021, Alamia, n. 28964; Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, Agnello, n. 12558.
[13] In questa prospettiva ermeneutica, ci sembra utile il richiamo a F. D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione "moderna" della Corte di cassazione sull’"oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 749, dove il fondamento storico-sistematico di questo principio viene così individuato: «La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, infatti, costituisce il fondamento più genuino della giustizia penale delle grandi democrazie, nelle quali è incrollabile la consapevolezza che “è molto peggio condannare un innocente che lasciare in libertà un colpevole”. Quando questa consapevolezza viene meno, come è accaduto in larga parte d’Europa con l’affermazione dei regimi autoritari e totalitari, crolla anche la forza morale del diritto penale, perché si insinua, nella comunità, il lacerante sospetto che i giudici condannino degli innocenti».
[14] Si rinvia, ancora una volta, a Cass. pen., Sez. I, 25 maggio 2021, Alamia, cit.
[15] In questo senso, ci sembra fondamentale un ulteriore riferimento alla posizione interpretativa di M. Maiwald, Causalità e diritto penale, cit., p. 116, quando afferma la centralità del principio in dubio pro reo ai fini della valutazione della responsabilità penale del soggetto attivo del reato: «In questi casi, secondo i nostri principi processuali, si può solo applicare il principio in dubio pro reo. Se, infatti, sussistono delle divergenze di opinioni tra gli esperti sulla esistenza di determinate regolarità in natura, allora il giudice deve porre a fondamento della sua sentenza il punto di vista più favorevole all’imputato».
[16] È questo il portato dell’orientamento giurisprudenziale affermato dalla Suprema Corte in Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese, in Cass. C.E.D., n. 222139-01.
Per l’approfondimento di tale posizione giurisprudenziale si rinvia al commento di R. Blaiotta, Con una storica sentenza le Sezioni unite abbandonano l'irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003, n. 332, pp. 1176 ss.
[17] Si muove in questa direzione O. Di Giovine, Ripensare il diritto attraverso le (neuro-)scienze, Giappichelli, Torino, 2019; Id., Prove “neuro”-tecniche di personalizzazione della responsabiltà penale, in AA.VV, La prova scientifica nel processo penale, a cura di G. Carlizzi e G. Tuzet, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 324 ss.
[18] Su questi temi si rinvia a B. Magro, Infermità di mente: nozione giuridica e ruolo delle neuroscienze, in www.quotidianogiurico.it, 16 giugno 2017, pp. 10 ss.
[19] Si rinvia, ancora una volta, a Cass. pen., Sez. IV, 11 febbraio 2020, Agnello, cit.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. I, 16 dicembre 1994, Sciumè, in C.E.D. Cass., n. 200687-01.
[21] In questo senso, si veda la storica sentenza sull’inquadramento delle “reazioni a corto circuito” pronunciata dalla Corte Assise App. Milano, Sez. I, 2 marzo 1988, Maresca, in Arch. pen., 1988, pp. 606 ss.
[22] Si rinvia, ancora una volta, a G. Canepa, Personalità e delinquente, cit. pp. 65-66.
[23] Si veda I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce?”, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 172.
[24] Sulla natura transeunte dei disturbi della personalità si rinvia a Cass. pen., Sez. I, 25 giugno 2014, Guidi, in C.E.D. Cass., n. 2613399-01; Cass. pen., Sez. I, 4 aprile 2012, Chiodini, in C.E.D. Cass., n. 252289-01; Cass. pen., Sez. VI, 7 aprile 2003, Spagnoli, in C.E.D. Cass., n. 225560-01; Cass. pen., Sez. I, 22 novembre 2005, Volontè e altro, in C.E.D. Cass., n. 233278-01.
[25] Per la prima volta questo principio veniva espresso in Cass. pen., Sez. I, 24 febbraio 1986, Ragno, in Cass. C.E.D., n. 172789.
[26] Per tutti, si rinvia al commento di G. Amato, Un’estensione del concetto di “infermità” vincolata ai riscontri su causa ed effetto, in Guida al diritto, 2005, 17, pp. ss.
[27] Si veda T. Bandini e U. Gatti, Perizia psichiatrica e perizia criminologica, cit., pp. 323-324.
[28] In questa prospettiva, fortemente critica nei confronti dell’utilizzo del principio di causalità nella medicina moderna, riteniamo opportuno il riferimento a P. Vineis, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Einaudi, Torino, 1990, pp. 4-5, che, nella prefazione del suo lavoro, osserva condivisibilmente: «Il complicarsi dell'idea di causalità negli ultimi decenni non ha ovviamente interessato la sola medicina né le sole discipline scientifiche. Un’idea di causalità indebolita, incerta e probabilistica si è fatta strada perfino nella letteratura. Talvolta questo interesse si è manifestato sotto forma di caricatura di un'idea forte di causalità».
[29] Si vedano Cass. pen., Sez. IV, 5 ottobre 1999, Hariolf, in C.E.D. Cass., n. 216210-01; Cass. pen., Sez. IV, 25 settembre 2001, Covili, in C.E.D. Cass., n. 220953-01.
[30] Si veda U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di infermità, cit., pp. 247-248.
[31] Su questi temi, si veda l’approccio critico di M. Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, in www.discrimen.it, 27 novembre 2018, pp. 14 ss.
[32] Si veda P. Vineis, Modelli di rischio, cit., pp. 4-5.
[33] Si veda P. Vineis, op. ult. cit., p. 21.
[34] Su questi temi si rinvia a V. Lingiardi, La personalità e i suoi disturbi. Un’introduzione, il Saggiatore, Milano, 2001, pp. 23 ss.
[35] Si veda M. Bertolino, Diritto penale, infermità mentale e neuroscienze, cit., pp. 16-17.
[36] Si veda M. Bertolino, op. ult. cit., pp. 16-17.
La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni - rimedi - prassi condivise e nuove forme di tutela
di Sebastiana Ciardo
Sommario: 1. La violenza delle donne basata sul genere: riflessioni generali - 2. Definizione ed analisi dei dati - 3. Strumenti di giustizia preventiva - 4. Prospettive di riforma - 5. Conclusioni.
1. La violenza sulle donne basata sul genere: riflessioni generali
Nella giornata del 25 novembre, che celebra il triste fenomeno della violenza di genere, si sono susseguite manifestazioni, riflessioni, articoli, analisi statistiche, proteste che inducono a riflettere su un aspetto che lascia a dir poco sgomenti: negli ultimi anni il panorama normativo, giudiziario e repressivo si è via via sempre più arricchito anche grazie al fondamentale apporto del diritto eurounitario e delle convenzioni internazionali[1], ma allora perché il numero delle donne uccise aumenta di anno in anno, come ci ha ricordato ieri il Primo Presidente della Corte di Cassazione in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario alla presenza del Presidente Mattarella? Perché il fenomeno sta diventando una sorta di “genocidio” senza che alcuno strumento, tra quelli previsti, possa arginarne la drammaticità?
La notizia di cronaca che quasi quotidianamente ci riporta un fatto di sangue a danno di una donna provoca un senso di profonda impotenza e rabbia, in ognuno di noi operatori della giustizia, perché non siamo riusciti, ancora una volta, ad ideare ed apprestare alcuna tutela effettiva a quella povera vittima tale da prevenirne la morte insensata.
I dati drammatici emergono dal rapporto pubblicato dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza: “nel periodo 1° gennaio – 7 novembre 2021 sono stati registrati 247 omicidi, con 103 vittime donne di cui 87 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Analizzando gli omicidi del periodo sopra indicato, rispetto a quello analogo dello scorso anno, si nota un lieve decremento (-2%) nell’andamento generale degli eventi (da 251 a 247), con le vittime di genere femminile che mostrano un aumento più significativo, passando da 97 a 103 (+6%). I delitti commessi in ambito familiare/affettivo mostrano una leggera crescita (+2%), passando da 124 a 127; le vittime di genere femminile, da 83 nel periodo 1° gennaio - 7 novembre 2020, arrivano a 87 nell’analogo periodo dell’anno in corso (+5%). Stesso incremento (+5%) per le donne vittime di partner o ex che passano da 57 a 60”. [2]
I dati drammatici ci pongono di fronte ad una valutazione di inevitabile “inefficienza” dell’apparato di repressione. Siamo chiamati a comprendere e capire quali siano le falle del sistema, dove si annidi in misura preponderante il pericolo, quali siano le fonti di maggiore rischio ed avviare una seria analisi dei dati, raccolti da organismi di elevata professionalità, allo scopo di modulare meglio e in maniera più efficace gli interventi.
2. Definizione ed analisi dei dati
Per comprendere meglio un fenomeno gli analisti ci insegnano che è necessario, in primo luogo, definirlo enucleandone i contorni e, in secondo luogo, esaminarne gli effetti anche se drammatici per prevenirne, nel futuro, le ulteriori manifestazioni.
La Convenzione di Istanbul fornisce una precisa definizione di tutte le forme di violenza contro le donne: per violenza nei confronti delle donne, si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata;
la violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; il termine “genere” si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; la violenza contro le donne basata sul genere designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che colpisce le donne in modo sproporzionato.
Questa ampia definizione racchiude e connota il fenomeno nel senso più ampio, ricomprendendo tutti i fatti di sangue consumati ai danni di una donna ma anche tutte le altre forme di “assoggettamento” ad un potere altrui, esercitato su una persona appartenente all’altro “genere”, che può estrinsecarsi in forme di gravi condizionamenti economici, psicologici, sessuali all’interno di un nucleo familiare.
Definire la violenza consente di individuarla tempestivamente e di distinguerla dalla conflittualità tra persone di sesso diverso che, per quanto esasperata e connotata da particolare intensità emotiva, si distingue dalla violenza e deve essere fronteggiata con gli strumenti processuali apprestati dall’ordinamento per ogni forma di disgregazione familiare.
Nel corso di un importante incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura [3], che ha visto la partecipazione di magistrati con funzioni di giudici della famiglia e minorili, penali, pubblici ministeri ordinari e minorili, svolto in forma laboratoriale, all’esito del quale sono state elaborate proposte di linee guida di coordinamento tra tutti gli uffici giudiziari coinvolti nella trattazione di casi di violenza, è stata predisposta una scaletta di indici sintomatici identificativi dell’uno e dell’altro fenomeno: la conflittualità presuppone sempre una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di conflitto. Non si può confondere il conflitto con l’azione/reazione personale anche giudiziaria della parte che rivendica tutela e che si trovi in una situazione di squilibrio. Indici sintomatici di una violenza, che si consuma spesso all’interno del nucleo familiare, sono: gestione tirannica delle risorse economica; ludopatia, alcooldipendenza e tossicodipendenza; assenza di responsabilizzazione e di collaborazione all’interno della famiglia; denigrazione e svilimento nelle scelte familiari; isolamento dal mondo sociale ed affettivo (familiari, amici); gelosia eccessiva; rifiuto alla richiesta di separazione; la persona offesa non si presenta a rendere dichiarazioni anche se citata, dopo avere denunciato.
L’importante studio condotto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, istituita al Senato e presieduta dall’on. Valente [4], ha consentito di raccogliere ed analizzare dati estrapolati dai numerosi procedimenti esaminati nei diversi distretti giudiziari e i risultati fanno emergere una serie di importanti informazioni che possono essere così sintetizzati:
a) i femminicidi avvengono in comuni di ogni dimensione e si distribuiscono in modo proporzionale alla popolazione residente;
b) le vittime più numerose si collocano tra le giovanissime o anziane, a dimostrazione della maggiore condizione di fragilità in cui in una parte dei casi si trova la donna rispetto all’uomo;
c) il 35,5% delle donne vittime di femminicidio risulta non occupata (29 disoccupate, 18 pensionate, 15 inattive, e 8 studentesse), mentre il 39,6% risulta occupata (78 su 197).
Il dato più significativo mostra che più della metà delle 197 donne vittime di femminicidio (113 su 197, il 57,4%) sono state uccise dal proprio partner (inteso come marito, compagno, fidanzato, amante) il quale nel 77,9% dei casi (88 su 113) coabitava con la donna; il 12,7% (25) sono state uccise, invece, dall’ex partner e, nei casi in cui è il partner a commettere il femminicidio, in 4 coppie su 10 sono stati riscontrati, negli atti dei fascicoli esaminati, segnali di rottura dell’unione, in particolare nel 4,4% dei casi la coppia era separata di fatto, nel 9,7% la separazione era in corso e nel 23,9% la donna aveva espresso la volontà di separarsi. Nella maggioranza dei casi, dunque, la rottura dell’unione non è emersa dagli atti neanche come intenzione della vittima.
Drammatiche, infine, sono le modalità cruente con le quali sono state perpetrati gli omicidi: il 28% delle donne sono state uccise con modalità efferate, la più frequente è l’accoltellamento (32%), seguono l’uso di armi da fuoco (25%) e di oggetti contundenti usati per picchiare/colpire la donna con lo scopo di provocarne la morte. Tra gli oggetti usati, che sono stati rilevati, nel 54% dei casi risultano: spranghe, tubi o pestelli di ferro, bastoni, martelli, asce, pietre, mazza da baseball, bottiglia di vetro, batticarne.
Dagli atti dell’inchiesta condotta dalla Commissione ancora emerge la profonda solitudine nella quale versa la donna maltrattata che denuncia poche volte gli abusi subiti, tant’è che il 63% (123 su 196) delle donne uccise non aveva riferito a nessuna persona o autorità le violenze pregresse subite dall’uomo, a riprova della difficoltà incontrata nel cercare aiuto e la inefficienza delle istituzioni nell’apprestare una rete di tutele adeguata[5].
La sintesi delle informazioni così enucleata mostra un dato comune: il fulcro delle violenze è certamente rinvenibile all’interno dei nuclei familiari e trova tragico epilogo nell’assenza di un sistema di rete idoneo a prevenire e tutelare la vittima.
La recente Risoluzione adottata dal Parlamento Europeo il 6 ottobre 2021[6] pone al centro dei considerando e delle raccomandazioni indirizzate agli Stati una riflessione evoluta dei rapporti tra le coppie disgregate, ove la prioritaria esigenza deve essere quella di tutelare la possibile vittima di violenza, in ogni sua forma, ed anche i rapporti genitoriali, gli affidamenti dei minori e la regolamentazione delle relazioni tra ex partners deve essere modulata con un’attenzione particolare verso la prevenzione, anche se questo potrebbe determinare una limitazione della bigenitorialità nei confronti del genitore violento. È chiaramente detto, dopo avere rammentato la preminenza del superiore interesse del minore, “che la violenza da parte del partner è chiaramente incompatibile con l'interesse superiore del minore e con l'affidamento e l'assistenza condivisi, a causa delle sue gravi conseguenze per le donne e i minori, compreso il rischio di violenza successiva alla separazione e di atti estremi di femminicidio e infanticidio; sottolinea che, al momento di stabilire le modalità per l'attribuzione dell'affidamento e i diritti di accesso e visita, la protezione delle donne e dei minori dalla violenza e l'interesse superiore del minore devono essere di primaria importanza e dovrebbero prevalere su altri criteri; pone pertanto l'accento sul fatto che i diritti o le richieste degli autori o dei presunti autori dei reati durante e dopo i procedimenti giudiziari, anche per quanto riguarda la proprietà, la vita privata, l'affidamento dei minori, l'accesso, i contatti e le visite, dovrebbero essere determinati alla luce dei diritti umani delle donne e dei minori alla vita e all'integrità fisica, sessuale e psicologica e orientati al principio dell'interesse superiore del minore; sottolinea pertanto che la revoca dei diritti di affidamento e di visita del partner violento e l'attribuzione dell'affidamento esclusivo alla madre, se questa è stata vittima di violenza, possono rappresentare l'unico modo per prevenire ulteriori violenze e la vittimizzazione secondaria delle vittime; evidenzia che l'attribuzione di tutte le responsabilità genitoriali a tale genitore deve essere accompagnata da meccanismi di compensazione pertinenti, ad esempio prestazioni sociali e l'accesso prioritario a servizi di assistenza collettiva e individuale” (art. 9). Tale indicazione costituisce una svolta nel sistema dei valori e degli interessi fino ad ora enucleati dal legislatore europeo, anche di carattere culturale, nel senso che, seppur il sistema delle relazioni debba essere tale da salvaguardare l’interesse del minore ad intrattenere rapporti costanti ed intensi con entrambi i genitori, tale esigenza può essere sacrificata o posticipata se ciò serva ad apprestare tutela alla possibile vittima di violenza. Ma la chiave di lettura delle importanti raccomandazioni di matrice europea deve essere quella per cui il genitore “violento” ha anche carenze educative e di accudimento del figlio, tali da minare la sua competenza genitoriale e da incidere in senso negativo sul sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico del minore.
3. Strumenti di giustizia preventiva
Il solco tracciato dal legislatore europeo individua due obiettivi, a mio avviso, prioritari ed ineludibili: a) costituire e far funzionare un sistema vero ed efficiente di rete e di coordinamento; b) intervenire con efficacia nella fase di immediata disgregazione del vincolo affettivo, mettendo immediatamente in protezione la donna ogni qualvolta emergano anche solo potenziali indici di violenza.
Rispetto al primo segmento di azioni, gli interventi devono essere tali da consentire, a tutti gli operatori che, in qualche modo e a vario titolo, siano entrati in contatto con la vittima, di interagire e relazionarsi costantemente sì da costruirle attorno una “protezione” vera e garantista. Ciò imporrà il costante scambio di informazioni, di relazioni, un controllo continuo e costante tra i servizi, la polizia giudiziaria, i magistrati della Procura ordinaria e minorile nel caso in cui siano coinvolti minori, il giudice della famiglia se è già pendente un procedimento di separazione o di affidamento, il giudice minorile, il tutto in tempi assolutamente ridotti e celeri.
La cura della tempistica deve necessariamente costituire l’obiettivo riformatore essenziale. Non possono essere tollerati più ritardi nello scambio di informazioni né nella somministrazione di protezione immediata e, sul punto, si potrebbe concepire l’utilizzo di nuovi strumenti informatici adeguati con la creazione di una rete che consenta a tutti gli operatori un costante dialogo e scambio di informazioni.
Le Linee Guida del CSM del 2018[7], hanno individuato una metodologia di lavoro tra uffici ispirata all’esigenza di specializzazione, di coordinamento tra magistratura civile, penale e requirente, di maggiore conoscenza dei procedimenti spesso paralleli relativi ad una stessa situazione di fatto, di coordinamento istruttorio anche per evitare “vittimizzazione processuale” secondaria, di maggiore coerenza nell’esito dei procedimenti penali e di quelli relativi all’affido dei figli minori, ancorché, alla luce degli esiti della Commissione di inchiesta e della nuova Risoluzione del Parlamento Europeo si imporrebbe un aggiornamento delle Linee Guida, per molti versi generiche, non sempre efficaci e in molti uffici rimaste inattuate.
La seconda azione deve necessariamente investire il giudice della famiglia, competente a regolamentare i rapporti tra ex coniugi/partners e ad adottare provvedimenti in materia di affidamento dei figli, oggetto di particolare attenzione anche da parte del legislatore europeo.
Il ruolo centrale rimane l’affidamento dei figli e ogni provvedimento adottato deve presupporre in primo luogo, l’individuazione rapida degli indici di violenza e la completa informazione del Giudice su tutti gli elementi già in possesso di altre autorità, con l’ausilio del Pubblico Ministero, specializzato ed attivo che veicoli i dati necessari nel processo.
In secondo luogo, il Giudice deve attivare i propri poteri officiosi conducendo un’istruttoria serrata su tutti gli aspetti rilevanti della vicenda che ha contrassegnato i rapporti di quella coppia, ciò allo scopo di accertare o di negare la violenza allegata.
In questa fase preliminare, è necessario adottare provvedimenti di affidamento dei minori compatibili con un’allegazione di violenza, evitando ogni forma di contatto tra i partners, anche con affidamenti esclusivi alla madre e/o con il coinvolgimento dei servizi o di soggetti estranei che favoriscano gli incontri, se possibile.
In terzo luogo, ogni intervento deve essere rapido: i tempi processuali devono necessariamente essere compatibili con le esigenze di tutela nella consapevolezza che il ritardo, nelle fasi iniziali della disgregazione dei vincoli affettivi, quando la emotività, la rabbia e le rivendicazioni possono raggiungere livelli elevatissimi ed esasperati, costituisce una fonte pericolosa che alimenta la violenza.
4. Prospettive di riforma
Su ciascuno dei punti indicati è necessario intervenire, perché gli apparati giudiziari e normativi non sono ancora pienamente adeguati a fornire risposte efficienti di tipo preventivo.
Un interessante progetto organizzativo “pilota”, adottato al Tribunale di Terni[8], ha previsto alcune soluzioni di tipo organizzativo e metodologico, nel senso dianzi indicato, laddove, in presenza di allegazioni di violenza, i singoli procedimenti sono trattati rapidamente, ricevendo una “corsia preferenziale” sui quali vengono svolti i seguenti adempimenti:
- apposizione di elementi distintivi sulla copertina del fascicolo cartaceo per una rapida identificazione dello stesso come procedimento con allegazioni di violenza domestica;
- fissazione della prima udienza di comparizione delle parti con urgenza rispetto agli altri procedimenti in materia (in un lasso di tempo che va da un minimo di 15 giorni - per assicurare la regolare citazione dell’altra parte – ad un massimo di 60 giorni);
- attivazione di poteri officiosi da parte del giudice assegnatario del procedimento per acquisire, già dalle prime fasi del procedimento, gli atti dei procedimenti penali, eventualmente pendenti, anche in fase di indagine (ove ostensibili), con diretta richiesta al Pubblico Ministero (interveniente necessario nei procedimenti in oggetto), e con sollecitazione rivolta al P.M. di presenziare in udienza ovvero di proporre proprie memorie ai sensi dell’art. 72 c.p.c.. Queste richieste vengono formulate, per i casi più gravi, già nel decreto di fissazione dell’udienza ovvero all’esito della prima udienza di comparizione delle parti;
- attivazione di poteri officiosi da parte del giudice civile assegnatario per acquisire, già nelle prime fasi (con richiesta contenuta nel decreto di fissazione dell’udienza o all’esito della prima udienza), gli atti dei procedimenti eventualmente pendenti dinanzi al Tribunale per i minorenni;
- adozione di misure necessarie per evitare la c.d. vittimizzazione secondaria assicurando, nei casi di maggiore gravità (per esempio in ipotesi di presenza di misure cautelari nell’ambito di paralleli procedimenti penali), la presenza della forza pubblica nell’udienza civile, ovvero assicurando le necessarie cautele per evitare la contemporanea presenza nel medesimo contesto di entrambe le parti (ad esempio prevedendo la comparizione delle parti in orari differenziati ovvero lo svolgimento dell’udienza con modalità di collegamento da remoto tramite l’applicativo TEAMS);
- valutazione a confronto delle dichiarazioni delle parti sui fatti di violenza già dalla prima udienza di comparizione, stimolando il contraddittorio sulle affermazioni contrastanti;
- attenzione ad evitare qualunque forma di invito alla mediazione familiare;
- attivazione già dalle prime fasi del procedimento, e comunque prima dell’adozione dei provvedimenti provvisori (per esempio prima dell’emanazione dei provvedimenti presidenziali) dei poteri officiosi del giudice al fine di verificare, il fumus circa la fondatezza delle allegazioni di violenza (per esempio disponendo l’escussione quali informatori di soggetti che possano aver assistito ovvero possano riferire sui fatti di violenza; acquisendo documenti presso uffici pubblici o Forze dell’Ordine intervenute, pur in assenza di procedimenti penali pendenti);
- ascolto diretto dei minori da parte del giudice procedente già dalle prime fasi del procedimento e comunque prima dell’adozione dei provvedimenti presidenziali o provvisori;
- formulazione di richieste ai responsabili del Servizio Sociale o di quesiti ai CTU che tengano in considerazione la presenza di potenziale violenza domestica, per evitare anche in tali contesti forme di vittimizzazione secondaria, ovvero accertamenti incompleti proprio in ragione della mancata considerazione di eventuali agiti violenti.
- applicazione dei contenuti della “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, cd. Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge del 27 giugno 2013, n. 77, in particolare: dell’art. 31 nel quale è previsto che “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione” e che devono essere adottate misure necessarie per garantire che l'esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini; dell’art. 48 che vieta la mediazione familiare in presenza di violenza domestica.
Infine, la recentissima Legge delega per la riforma del processo civile n. 206/2021 pubblicata nella G.U. il 9.12.2021, all’art. 23 lett b), testualmente prevede, nella parte relativa alla riforma del rito avente ad oggetto il contenzioso familiare e minorile, che il governo, nell’adottare i decreti delegati, “in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere siano assicurate: su richiesta, adeguate misure di salvaguardia e protezione, avvalendosi delle misure di cui all’articolo 342 -bis del codice civile; le necessarie modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; l’abbreviazione dei termini processuali nonché specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria. Qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, prevedere che il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell’affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza” [9].
5. Conclusioni e riflessioni
Le indicazioni provenienti dal legislatore europeo ed italiano tentano di individuare un sistema serrato di interventi nella consapevolezza che l’apparato di norme repressive, seppur necessario, non abbia consentito di prevenire né di ridurre l’escalation di violenza e di femminicidi sempre più drammatica, inevitabilmente acuita dall’emergenza pandemica, dalla forzata convivenza e dalla depressione economica. Ed allora, sarà necessario ripensare l’intero sistema organizzativo, nella convinzione che solo una rapida ed efficace tutela preventiva e “protettiva”, anche di tipo culturale e sociale, potrà servire a fronteggiare nel miglior modo possibile questo orrendo crimine[10].
L’ultima riflessione deve essere riservata alla formazione: solo operatori informati e formati possono comprendere ed agire in maniera efficace ed efficiente, manovrando nel modo corretto gli strumenti offerti dal legislatore e dal sistema organizzativa, la realtà quotidiana lo impone senza che ogni intervento sia più rinviabile.
[1] Tra le fonti più importanti, si rammentano: Convenzione di Istanbul 11 maggio 2011, ratificata in Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77 ed entrata in vigore nel mese di agosto del 2014; Risoluzione del parlamento europeo del 26 novembre 2009; Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (Cedaw), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata in Italia con la legge n.132 del 1985; Direttiva 2012/29/UE: norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato recepita ed attuata con il decreto legislativo n.212 del 2015; in ultimo, la Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull'impatto della violenza da parte del partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini.
[2] Relazione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione centrale della polizia criminale - Servizio analisi criminale pubblicato nel mese di novembre 2021.
[3] Corso P19040 tenuto a Scandicci il 13-15 maggio 2019
[4] Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere (Istituita con deliberazione del Senato della Repubblica del 16 ottobre 2018e prorogata con deliberazione del Senato della Repubblica del 5 febbraio 2020)
[5] Solo il 35% (69 su 196) aveva parlato della violenza con una persona vicina, il 9% (18 su 196) si era rivolta ad un legale per chiedere consiglio, e il 15% (29 su 196) aveva denunciato/querelato precedenti violenze o altri reati compiuti dall’autore ai suoi danni.
[6] Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull'impatto della violenza da parte del partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini (2019/2166)
[7] Delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 9 maggio 2018
[8] Progetto Pilota per la rilevazione e la trattazione dei procedimenti di famiglia che presentino allegazioni di violenza domestica – novembre 2020
[9] LEGGE 26 novembre 2021, n. 206. Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata.
[10] Definito da Papa Francesco, nell’omelia tenuta durante la messa del 26.12.2021 come “peccato demoniaco”.
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