ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Escussione della vittima vulnerabile: è abnorme il rigetto della richiesta del pubblico ministero di procedere con il mezzo dell’incidente probatorio
(commento Cass. SS.UU. 10869-25)
Sommario: 1. La vittima vulnerabile. 2. Le conseguenze del riconoscimento della vulnerabilità della vittima: in particolare, l’escussione mediante incidente probatorio. 3. La richiesta di incidente probatorio e la decisione del Giudice. 4. Le ragioni dell’orientamento finora maggioritario: la discrezionalità del giudice sull’ammissione dell’incidente probatorio. 5. L’orientamento opposto: automatismo decisionale e abnormità del rigetto. 6. La decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.
1. La vittima vulnerabile
La nozione di vittima vulnerabile è di recente acquisizione nel nostro codice di rito.
Le norme che ne disciplinano lo statuto sono il prodotto di un processo di crescente attenzione al ruolo della persona offesa nel procedimento penale, consacrato in due provvedimenti legislativi che a distanza di poco tempo, nel 2013 e nel 2015, hanno sensibilmente rimodellato la disciplina delle parti private nel processo e introdotto formalmente il concetto di vittima, fino ad allora assente.
In special modo il secondo dei due provvedimenti menzionati, adottato con d.l. numero 212 del 2015[1], ha per la prima volta introdotto sia il concetto di vittima del reato che quello specifico di vittima vulnerabile, con l’introduzione dell’articolo 90 quater del codice di rito, ricollegando a tale condizione l’adozione di specifiche norme a tutela della sua particolare fragilità.
Come è noto, le norme di nuovo conio hanno previsto due categorie di vittime vulnerabili:
La figura del c.d. “vulnerabile atipico” è dunque individuata in base alla contestazione effettuata dal Pubblico Ministero e recepita dal Giudice, dal momento che è dalla qualificazione giuridica per la quale il fatto di reato è iscritto che discendono rilevanti conseguenze: prima fra tutte il binario privilegiato per la raccolta della testimonianza sia nella fase delle indagini che attraverso il ricorso all’incidente probatorio.
Sulla categoria concettuale della vulnerabilità presunta si sono da subito appuntate le critiche di parte della dottrina (in particolare, Bouchard) che hanno stigmatizzato l’automatismo previsto dalla legge.
Si era infatti sin da principio rilevata la pericolosità di far desumere l'esigenza di protezione della vittima da caratteristiche “specifiche” astrattamente predeterminate anziché accertarla, in concreto, di volta in volta, a prescindere da quelle caratteristiche che qualificano una particolare situazione di vittimizzazione.
Tali argomenti, come si vedrà di qui a breve, sono stati recepiti dalla giurisprudenza di legittimità in tema di accesso all’incidente probatorio, con un orientamento rimasto per lungo tempo maggioritario, fino all’odierno intervento della Corte di cassazione a Sezioni Unite che qui si commenta.
2. Le conseguenze del riconoscimento della vulnerabilità della vittima: in particolare, l’escussione mediante incidente probatorio
Il concetto di vulnerabilità della vittima nasce dalla constatazione, implicita nelle norme ma ben chiara nella mente di tutti gli operatori del diritto, della necessaria “cattiveria” del processo penale, simbolica arena in cui una delle parti – il difensore dell’imputato - ha lo specifico compito di demolire la credibilità del testimone/persona offesa, in adempimento del suo mandato di ottenere una pronuncia assolutoria per il suo assistito.
Dal successo di questa opera legale di decostruzione del racconto testimoniale della vittima, che nei processi per abuso o per quelli connotati da violenza di genere è molto spesso l’unica fonte di prova, discende la neutralizzazione dell’assunto accusatorio e quindi l’assoluzione dell’imputato.
Due interessi in gioco, egualmente meritevoli di tutela, confliggono dunque irrimediabilmente: quello dell’imputato di difendersi e quello della vittima di non subire nuovi traumi, tra cui quello noto come “trauma del processo”.
È noto infatti che, soprattutto nei processi per abuso, l’escussione testimoniale della vittima provoca un fenomeno di vittimizzazione secondaria: il trauma di rivivere in pubblico lo shock subìto provoca un nuovo shock indotto dal processo.
Secondo una definizione della Corte Costituzionale, la vittimizzazione secondaria “è quel processo che porta il testimone persona offesa a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto” (Corte Cost., n. 92 del 2018).
Per tale motivo, sin dalla prima stesura della Carta di Noto è stata raccomandato di evitare di sottoporre le vittime a reiterate escussioni, anche perché, come recentemente ricordato dalla Corte di Cassazione, “la pluralità delle sue audizioni ne determina necessariamente l'usura” (Cass. Pen., sez. III, n. 32764 dell’11.7.24, rv. 286705).
Proprio con riferimento a questa esigenza il menzionato d.l. 212 del 2015 ha inserito nell’articolo 392 c.p.p. una nuova ipotesi di incidente probatorio, prevedendo che il pubblico ministero – anche su richiesta della persona offesa – o l'accusato possano chiedere che si proceda con tale strumento processuale all'assunzione della testimonianza dell'offeso (art. 1, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 212 del 2015 che ha novellato l'art. 392 comma 1-bis cod. proc. pen.).
In questo modo si ottiene il risultato di assumere l’atto in contraddittorio e con valore di piena prova nei confronti di tutti coloro che vi hanno partecipato, in tempi compatibili con la necessaria urgenza della vittima di “andare oltre” lo shock vissuto.
Inoltre, si evita che il trauma di dover ripercorrere in pubblico e davanti ad estranei l’esperienza vissuta sia reiterato nelle diverse fasi del procedimento penale, come normalmente è imposto alle persone offese dal principio fondamentale del processo penale della separazione delle fasi, secondo cui tutti gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari non hanno valore di prova e devono dunque essere ripetuti, davanti al giudice che decide ed in contraddittorio delle parti.
All’anticipazione della prova viene infatti associata la irrepetibilità della stessa sancita dall’articolo 190 bis c.p.p..
Conseguentemente, un nuovo esame della persona escussa sarà ammesso “solo se riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze”.
3. La richiesta di incidente probatorio e la discrezionalità del Giudice
Sin dall’entrata in vigore della nuova previsione di incidente probatorio per i processi con vittime vulnerabili, in giurisprudenza si è creato un contrasto interpretativo simile a quello visto nel precedente paragrafo a proposito dell’automaticità dell’attribuzione dello stigma di vulnerabilità alla vittima.
Ci si è chiesti infatti se, a fronte della richiesta avanzata dal Pubblico Ministero di procedere ai sensi dell’articolo 392 c.p.p., il Giudice sia obbligato ad attivare lo strumento processuale invocato o se conservi un margine di discrezionalità nell’apprezzare sia la effettiva vulnerabilità della vittima che la concreta indifferibilità dell’atto.
Dalla ritenuta necessità di dirimere l’annoso contrasto scaturisce la rimessione alle Sezioni Unite del caso che ha dato origine alla sentenza in commento.
In particolare, nel caso di specie il G.I.P. aveva rigettato la richiesta sulla scorta della considerazione che la presunta vittima, che aveva denunciato un delitto di maltrattamenti in famiglia (reato rientrante nell’elenco di quelli per i quali la vulnerabilità è presunta dalla legge), non potesse in concreto essere definita vulnerabile sia perché maggiorenne, sia perché aveva in precedenza presentato plurime denunce.
Inoltre, paradossalmente, il G.I.P. deduceva la mancanza di vulnerabilità nel caso di specie dalla presenza di plurimi riscontri alla denuncia, in pratica considerando non così indifferibile un’escussione che, seppur fosse stata compromessa dal decorrere del tempo, non avrebbe portato all’assoluzione dell’imputato perché la prova della sua colpevolezza era desumibile da altri elementi in atti.
Avverso il provvedimento di rigetto, il Pubblico Ministero ha proposto ricorso sostenendo l’abnormità del provvedimento, in adesione ad uno dei due orientamenti formatisi in giurisprudenza e fino alla odierna decisione delle Sezioni Unite minoritario.
La Sesta Sezione della Corte, rilevando il contrasto di cui si è detto, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite.
4. Le ragioni dell’orientamento finora maggioritario: la discrezionalità del giudice sull’ammissione dell’incidente probatorio
Secondo l’orientamento finora maggioritario, la nuova previsione dell’articolo 392 c.p.p., prevedendo la possibilità per il Pubblico Ministero di chiedere l’incidente probatorio non in base ai tradizionali caratteri di indifferibilità ed urgenza della prova da assumere ma per la condizione di fragilità della vittima del reato non ha introdotto alcun automatismo, poiché il giudice mantiene la discrezionalità nel decidere se accogliere o meno la richiesta del Pubblico Ministero e gli è anzi demandato un vaglio non solo di ammissibilità della stessa ma di fondatezza delle ragioni addotte.
Il rigetto della richiesta non può essere dunque considerato atto abnorme, sia perché non si pone al di fuori dell’ordinamento processuale, sia perché non determina alcuna stasi del processo, ben potendo l’escussione della vittima essere assunta in un momento successivo, costituito dall’ordinaria fase dibattimentale.
5. L’orientamento opposto: automatismo decisionale e abnormità del rigetto
Di diverso avviso, come si è detto, altre pronunce di merito e di legittimità, secondo cui dalla presunzione di vulnerabilità della vittima, ricollegata alla pendenza di un procedimento per uno dei reati contenuti nelle norme degli articoli 351 e 392 c.p.p., discende l’obbligo di procedere con incidente probatorio quale unico mezzo per evitare la vittimizzazione secondaria.
Proprio perché la vulnerabilità è presunta, non vi è spazio per il giudice per stabilire che nel caso concreto tale condizione non vi sia e dunque vi è l’obbligo di scongiurare la vittimizzazione secondaria anticipando l’escussione della prova alla fase delle indagini preliminari.
Tale orientamento porta alla conseguenza che «è illegittima l’ordinanza che rigetta la richiesta di incidente probatorio sul presupposto che manca l’urgenza e l’atto è rinviabile al dibattimento perché così si trascura il rischio di vittimizzazione secondaria» (tra le plurime pronunce di legittimità che si sono espresse in questo senso, cfr. Cass. Pen., sez. III, n. 34091 del 16.5.19).
Tuttavia, non basta stabilire l’illegittimità di un provvedimento se a tale declaratoria non consegue alcun effetto; e perché si produca qualche effetto occorra, ancor prima, che vi sia la possibilità di impugnare il provvedimento illegittimo.
Poiché, come noto, il nostro sistema processuale prevede la tassatività delle impugnazioni e non è previsto alcun rimedio avverso le ordinanze di rigetto pur essendo queste, secondo la ricostruzione ora riassunta, illegittime, i sostenitori della tesi in esame sono ricorsi alla categoria concettuale dell’abnormità.
Il rigetto sarebbe abnorme, in particolare, perché espressione di un potere astrattamente previsto dal codice di rito, ma in concreto estraneo al sistema processuale, in quanto manifestazione dell’esercizio arbitrario di un sindacato non consentito.
Dal contrasto tra i due orientamenti descritti è scaturita dunque la necessità di un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione.
6. La decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
Superando il precedente orientamento maggioritario di cui si è detto, la Corte ha stabilito che non vi sono margini di discrezionalità del Giudice, che è dunque obbligato a procedere con incidente probatorio nel caso di richiesta riguardante vittime vulnerabili.
Completamente recepita anche la ricostruzione che ricollega l’illegittimità del provvedimento alla categoria dell’abnormità.
La massima estratta dalla pronuncia in esame non potrebbe essere più chiara sul punto: «è viziato da abnormità ed è, quindi, ricorribile per cassazione il provvedimento con il quale il giudice rigetti la richiesta di incidente probatorio, avente ad oggetto la testimonianza della persona offesa di uno dei reati compresi nell’elenco di cui all’art. 392, comma 1-bis, primo periodo, cod. proc. pen., motivato con riferimento alla non vulnerabilità della persona offesa e alla rinviabilità della prova, trattandosi di presupposti presunti per legge».
La Corte giunge a questa conclusione facendo leva in primo luogo sul dato testuale della norma esaminata: laddove il comma 1 bis dell’articolo 392 c.p.p. prevede l’adozione dello strumento dell’incidente probatorio, nei reati a vittima vulnerabile, “anche al d i fuori delle ipotesi di cui al comma 1” non può che intendere che vi si deve procedere anche in mancanza dei presupposti ivi previsti, che sono appunto quelli dell’indifferibilità ed urgenza.
Conseguentemente, non spetta al giudice sindacare se nel caso di specie l’atto sia indifferibile o meno.
Si tratta, argomenta la Corte, di presunzione juris et de jure, sicché il sindacato del giudice è escluso per legge.
Dopo un articolato richiamo alle pronunce della Corte Costituzionale in tema di vittima vulnerabile ed alle fonti sovranazionali (Convenzione di Lanzarote e pronunce della CEDU), la Corte affronta infine lo spinoso problema, di cui si è detto in precedenza, della mancanza di una previsione espressa di impugnabilità del rigetto della richiesta per il caso di specie.
Ripercorso l’excursus pretorio attraverso cui si è nel tempo affinata la categoria dell’abnormità e la sua distinzione ormai recepita tra “abnormità strutturale” e “abnormità funzionale”, la Corte conclude che nel caso di rigetto della richiesta di incidente probatorio avente ad oggetto la testimonianza della persona offesa di uno dei reati ricompresi nel catalogo di cui all’articolo 392 comma 1 bis del codice di procedura penale, laddove il rigetto sia fondato su valutazioni che attengono alla vulnerabilità della persona offesa ovvero alla non rinviabilità dell’assunzione della prova si rientri nella categoria dei provvedimenti viziati da abnormità strutturale per carenza del potere in concreto.
La scelta di campo operata dalla Corte di Cassazione nella sua espressione massima è dunque quella di garantire la piena tutela della vittima vulnerabile, al punto da comprimere al minimo il sindacato del giudice, ridotto alla sola verifica delle condizioni di ammissibilità.
L’interpretazione consacra dunque e completa il percorso di affermazione del ruolo della vittima nel procedimento penale, compiendo un decisivo passo nel percorso tracciato negli ultimi anni dal legislatore sulla spinta delle fonti sovranazionali.
[1] Si deve invece al d.l. 93 del 2013 l’introduzione degli avvisi alla persona offesa dell’instaurazione del procedimento penale con la modifica dell’articolo 101 c.p.p., la gestione delle misure cautelari (art. 299 c.p.p.) e l’introduzione dell’obbligo di notifica alla persona offesa dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
L'immagine è un'opera di Igor Mitoraj.
Cade quest'anno il settantacinquesimo anniversario della CEDU, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre del 1950.
Un anniversario certamente difficile per questo trattato che a buon diritto si considera uno dei sistemi più avanzati al mondo sotto il profilo dei meccanismi di controllo giurisdizionale esercitato attraverso la Corte europea dei diritti dell'uomo la quale grazie a una rigorosa interpretazione delle sue norme e a una coraggiosa giurisprudenza ha stabilito nel corso di decenni alcuni principi che rappresentano riferimenti di immenso valore per tutti i cittadini[1].
Questi ultimi anni hanno visto aggiungersi ai conflitti già in atto, in Africa se ne contano più di una decina, due sanguinose guerre dove il diritto umanitario internazionale è stato sistematicamente violato e dove sono stati commessi efferati crimini di guerra e contro l'umanità.
Il prodotto di tutto questo - o forse la causa - è che i diritti della persona non sembrano avere più alcun ruolo e spazio così come le istituzioni preposte a tutelarli, oggetto di una predicazione sempre più evidentemente volta a denigrarli e a depotenziarli.
Il cammino intrapreso con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 in realtà non si è mai sostanziato in norme positive tali da consentire ai diritti di essere immediatamente esigibili e da rendere immediatamente sanzionabili le loro violazioni, anche ove poste in essere dai governanti, così lasciando spazio a possibili derive in cui quei diritti restano irrilevanti nell’ambito delle dinamiche dei rapporti di forza e di potere, vulnerando il concetto stesso di democrazia.
La stretta connessione tra diritti umani, stato di diritto e principi democratici sembra essere sempre più misconosciuta sia a livello internazionale che all’interno degli Stati.
Negli ultimi anni gli attacchi al multilateralismo e alle convenzioni internazionali si sono susseguiti portando a intaccare la stessa legittimità del diritto internazionale, come plasticamente rappresentato dall'aggressione e dalla progressiva erosione dei confini dell'Ucraina e da ultimo anche dalle prospettazioni di annessioni della Groenlandia o addirittura del Canada ventilate dal presidente degli Stati Uniti.
Il diritto internazionale, anche venendo a casa nostra e all’onda trumpiana che ormai ci connota, è visto sempre più come un intralcio, come dimostrano le richieste di fuoriuscita da organizzazioni internazionali come l’OMS o di messa in stato d'accusa di altre come la Corte Penale Internazionale.
Ma la lesione dei diritti e una certa insofferenza per qualunque istituzione che pretenda di tutelarli sta assumendo contorni preoccupanti anche a livello interno degli Stati creando preoccupazioni per la stessa tenuta della democrazia
Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha diffuso sui social il commento irridente del presidente salvadoregno Bukele (Too Late!) alla notizia che un giudice degli Stati Uniti aveva bloccato l'espulsione di 260 immigrati venezuelani e salvadoregni dagli Stati Uniti, accompagnato dal post dell’immagine dei deportati rasati e ammanettati mani e piedi a bordo di un aereo americano, schernendo il divieto sancito della Corte di Washington che si era pronunciata contro l’espulsione.
Il Presidente USA, rincarando la dose, ha chiesto, con un post violentissimo sul suo social network Truth Social, l'impeachment di James Boasberg, il giudice federale che ha cercato di bloccare l'espulsione dei 260 immigrati accusati dall'amministrazione Trump di essere parte di gang criminali, dichiarando illegale la loro deportazione poiché avvenuta senza il rispetto delle procedure previste dalla legge.
«Questo giudice pazzo della sinistra radicale è un piantagrane e un agitatore, è stato tristemente nominato da Barack Obama ma non è stato eletto presidente, non ha vinto il voto popolare, non ha vinto nulla…. questo giudice, come molti dei giudici corrotti davanti ai quali sono costretto a comparire, dovrebbe essere messo sotto impeachment.»[2]
La questione per cui un giudice ha il peccato d'origine di non essere stato eletto dal popolo, più volte agitata anche dalle parti di casa nostra, oltre ad essere una manifestazione di incultura giuridica e politica, nasconde in realtà un ben più allarmante pensiero.
E cioè che chiunque sia chiamato ad esercitare un potere lo debba derivare dalla elezione popolare e che comunque lo debba esercitare all'ombra e sotto la direzione del potere esecutivo che quel voto ha ricevuto.
Lo scontro tra l'amministrazione di Donald Trump e il potere giudiziario ha raggiunto nuovi e accesi toni con la nota della Corte Suprema degli Stati Uniti, intervenuta in risposta all'attacco specifico a Boasberg ma anche ai vari tentativi del Dipartimento della giustizia e di altri funzionari dell'esecutivo che hanno cercato in vario modo di aggirare o contestare i provvedimenti emessi da diverse Corti che hanno bloccato atti dell'amministrazione Trump ritenuti illegali, tra i quali i licenziamenti in tronco di funzionari pubblici ritenuti non graditi.
Il presidente della Corte Suprema John Roberts ha diffuso una dichiarazione nella quale rappresenta che «da oltre due secoli è stato chiarito che l'impeachment non è una risposta appropriata a un disaccordo su una decisione giudiziaria. Esiste il normale processo di ricorso in appello proprio per questo.»
È, al momento, l'ultimo atto di uno scontro che vede l'amministrazione del neo eletto presidente USA entrare in una pericolosa rotta di collisione con gli organi che rappresentano a vari livelli la giustizia del Paese, davanti alla quale sono stati impugnati gran parte degli ordini esecutivi emessi dalla nuova amministrazione la quale, in risposta, mette in discussione i poteri dei giudici e se ne arroga di nuovi, spesso revocando diritti consolidati[3] e insinuando il dubbio, neanche tanto peregrino, che possa arrivarsi addirittura all'aperto rifiuto di dare esecuzione a sentenze che annullano i suoi provvedimenti
Formalmente questo non è (ancora) accaduto.
Nella vicenda dei migranti deportati la Casa Bianca nega di aver formalmente violato un ordine del tribunale affermando che l'aereo a bordo del quale viaggiavano sarebbe atterrato in Salvador ben prima del pronunciamento dei giudici e che l’azione effettuata risponde ad una competenza assegnata al presidente dall'Alien Enemies Act, una legge del 1798 che attribuisce al capo di Stato poteri straordinari sull'espulsione di cittadini provenienti da paesi in guerra con gli Stati Uniti[4].
E tuttavia la vicenda segna un nuovo momento di scontro dell'amministrazione con le altre istituzioni e, al di là dei suoi aspetti legali, mette in luce la rivendicazione da parte del governo di un'autorità che sembra sempre più intaccare il sistema dei pesi contrappesi che garantisce la democrazia.
A rincarare la dose la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha dichiarato in una nota che le corti federali non hanno giurisdizione sulle decisioni che riguardano la politica estera e tra questi l'espulsione degli stranieri.
La questione, ipotizza il New York Times, finirà probabilmente sul tavolo della Corte Suprema, così come probabilmente avverrà per i provvedimenti adottati per la repressione delle proteste filopalestinesi in diversi Campus universitari, che involgono il diritto costituzionale della libertà di parola e di manifestazione del pensiero; o per quelli di chiusura di servizi di informazione[5] o di definanziamento[6], tutti atti adottati esercitando un potere sempre più personalizzato ed alimentando la contrapposizione tra le posizioni MAGA e un apparato istituzionale sul quale sempre più chiaramente viene scaricata la colpa dei problemi del paese.
E dunque, mentre gli esperti osservano con preoccupazione il profilarsi di una crisi costituzionale che rischia di condurre il paese in un territorio inesplorato con un presidente che sfida apertamente il sistema di pesi e contrappesi con cui la costituzione - come quelle di tutti i Paesi democratici - stabilisce e perimetra raggio d'azione e confini tra i principali poteri dello Stato, sembrerebbe che alla magistratura sia rimesso il compito di ripristinare legalità e tutela dei diritti.
E di verificare di quali anticorpi sia munita la democrazia di quel Paese e della democrazia in generale.
Colpisce nei recenti fatti francesi che la stampa non abbia registrato alcuna corretta e legittima critica alla sentenza, posto che l’unica accusa al provvedimento è stata quella di essere espressione della politicizzazione della magistratura, colpevole di privare il popolo di giuste future elezioni, ledendo i diritti della democrazia.
Accuse che hanno ricevuto il plauso del presidente Putin.
E dunque il compito collettivo di ripristinare la legalità, e anche un buon galateo istituzionale, non è facile.
Anche perché anche la magistratura è gravata dalle fratture interne e dai problemi di immagine che affliggono tutte le istituzioni statali, comprese quelle politiche.
E tuttavia può dirsi, a voler essere ottimisti, che i segnali che arrivano dal contesto internazionale in questi giorni possono essere letti positivamente.
Basta guardare a quanto sta accadendo in Turchia, dove nonostante la conferma della misura custodiale, la magistratura ha prosciolto Imamoglu dalle accuse di terrorismo; o in Israele dove si susseguono, mentre la folla protesta nelle strade, le impugnazioni del licenziamento in tronco del capo dello Shin Bet Ronald Bar; e, per quanto riguarda il ruolo della magistratura, disprezzata e umiliata da una pessima riforma della giustizia, il ruolo che sta svolgendo la Procuratrice Generale Ghali Baharav-Miara e le dichiarazioni pubbliche del presidente Herzog che in un video rilanciato da Times of Israel afferma che nessun governo può ignorare le sentenze dei giudici senza apportare una ferita mortale alla democrazia: «gli eletti ubbidiscano alle decisioni dei tribunali, gli israeliani potrebbero arrivare a smantellare il nostro paese.»
La massima potrebbe essere questa: se la Magistratura è l’istituzione alla quale gli atti fondanti delle democrazie hanno affidato il controllo della legalità in tutti gli aspetti della vita del paese, attaccarle, denigrarle ed affondarle non giova al bene della democrazia e alla fiducia che in esse i cittadini devono nutrire, fiducia senza la quale le democrazie sono in pericolo.
È questo il messaggio che trasmette il Global Democracy Index 2024 pubblicato a fine febbraio di quest’anno e che valuta 167 paesi e territori, su una scala che prende in considerazione il processo elettorale, il pluralismo, il funzionamento del governo, la partecipazione politica, la cultura politica e le libertà civili.
Secondo l'indice dell’Economist, ormai da 10 anni il livello di democratizzazione degli Stati del mondo è in continuo declino, la media globale dell'indice di democrazia è sceso al minimo storico, in calo rispetto al 2015, prospettando un quadro secondo cui, mentre le autocrazie sembrano guadagnare forza, le democrazie mondiali stanno faticando, sotto il peso sempre più forte del sentimento generale di disillusione per le istituzioni democratiche che contribuisce a far crescere populismo disimpegno politico e polarizzazione.
Nel ranking internazionale il nostro Paese ha un trend negativo rispetto allo scorso anno perché, pur migliorando sul criterio della funzionalità del governo, registra un declino dovuto principalmente all'andamento al ribasso di due dei 5 criteri dell'indice ovvero la cultura politica e le libertà civili.
Dati che impongono una seria riflessione da parte di tutti, nessuno escluso, prima che sia troppo tardi.
[1] CeSPI – Futura Network - F. De Robilant, Marzo 2025.
[2] Riportato da Il Sole 24 Ore – Mondo, 18.3.2025.
[3] Così i provvedimenti di espulsione di residenti in regola con il visto e possessori di green card nonché l'arresto di Mahmoud Kahlil anche lui possessore di green card consolidata, le cui condotte sono state considerate un rischio per la sicurezza nazionale per aver animato le proteste nel campus della Columbia University in sostegno alla causa palestinese contro la guerra a Gaza.
[4] L’Atto è stato azionato durante la Seconda guerra mondiale per espellere i cittadini italiani e giapponesi mentre il conflitto era in corso.
[5] Voice of America, Radio Free Europe, Radio Liberty.
[6] Alla Columbia University sono stati tagliati tout court ingenti fondi federali perché l'istituzione viene accusata di non aver fatto abbastanza per proteggere gli studenti ebrei da quella che è stata definita “violenza antisemita” dimenticando che alla protesta partecipavano anche studenti israeliani.
Immagine: Joe Ravi, Panorama of the west facade of United States Supreme Court Building at dusk in Washington, D.C., United States of America, via Wikimedia Commons, CC-BY-SA 3.0.
Sulla dichiarazione di ripudio del fascismo nella richiesta di concessione di spazi pubblici (nota a Cons. Stato, Sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687)
di Alice Cauduro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. L’attuazione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” nella concessione di spazi pubblici: la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa. 3 – Cenni conclusivi sulla pubblica amministrazione nella ‘ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
1. Il caso di specie.
Con la sentenza del Consiglio di Stato qui commentata il giudice amministrativo torna ad affrontare il tema dell’applicazione da parte della pubblica amministrazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione della Repubblica italiana secondo cui “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (comma 1).
La vicenda da cui origina il ricorso riguarda la contestata legittimità della delibera n. 781 del 19 dicembre 2017 della Giunta del Comune di Brescia, avente ad oggetto “Indirizzi in merito alla concessione di spazi ed aree pubbliche, sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale”, per la previsione in essa contenuta dell’obbligo di allegare alla richiesta di concessione di spazi pubblici anche una esplicita dichiarazione di ripudio del fascismo.
Con la suddetta delibera il Comune di Brescia ha stabilito “l'obbligo di allegare alla domanda di concessione per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e l’utilizzo di sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale [anche] una dichiarazione esplicita di adesione ai principi della Costituzione” (pp. 3-4). La deliberazione prevede che alla richiesta si alleghi una dichiarazione “che contenga i seguenti impegni del richiedente: di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione; di non professare e non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste, in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori democratici fondanti” (pp. 2-3).
Trattasi di indirizzi espressamente finalizzati alla concreta attuazione del citato comma 1 della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana, nonché della relativa normativa attuativa[1].
Dalla deliberazione emerge che l’esigenza del Comune di Brescia di adottare tali indirizzi è sorta a seguito di episodi di manifestazioni di ideologia nazista e fascista ed è avvertita anche in altri Comuni tanto da portare gli stessi all’adozione di analoghi atti[2]; in effetti, tra gli altri, anche i Comuni di Pavia, Siena, Prato, Firenze, Torino, di recente si sono mossi in tal senso[3]. Una deliberazione dal contenuto simile a quella impugnata davanti al Tar Lombardia è stata approvata anche dal Comune di Rivoli e ha dato origine ad analogo contenzioso innanzi al Tar Piemonte, richiamato nella pronuncia che qui si commenta (sul punto infra § 2).
Nel caso qui esaminato l’associazione CasaPound, tramite il suo legale rappresentante, lamentava l’imposizione dell’obbligo previsto dalla delibera comunale, in quanto asseritamente lesivo della libertà di manifestazione del pensiero dell’associazione e dei suoi aderenti, nella parte in cui si chiede di allegare alla domanda una dichiarazione – ad avviso dell’associazione ricorrente – in grado di “compromettere le proprie convinzioni” con condividendo l’associazione stessa i “presunti valori dell’antifascismo”, senza che ciò significhi che essa non rispetti la Costituzione italiana e il metodo democratico da essa individuato[4].
Nella ricostruzione del fatto il giudice di prime cure (Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166) riportava gli argomenti della ricorrente a sostegno del ricorso per l’annullamento della delibera, specie laddove sosteneva che la deliberazione di indirizzo impugnata violasse diversi diritti e libertà fondamentali (artt. 2, 3, 17, 18, 21 e 49 Cost.) e che «l’unico limite opponibile alle libertà costituzionalmente tutelate di cui alle norme ricordate sarebbe quello rappresentato dall’obbligo di rispetto dell’ordine pubblico e, conseguentemente, di tenere riunioni pacifiche e senza armi, di dare il preavviso all’autorità e di rispettare i limiti imposti dalla legge penale»; che «la pretesa di ripudiare il fascismo non avrebbe nulla a che vedere con tali prescrizioni e con il loro rispetto da parte del richiedente. In ogni caso, una tale dichiarazione sarebbe del tutto inutile, in quanto non preserverebbe la società da comportamenti riprovevoli come quelli xenofobi, omofobi, razzisti ecc»; infine, rilevando i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, l’associazione affermava che «la famigerata professione di antifascismo […] perseguirebbe una finalità del tutto estranea a quella che deve perseguire il Comune nella sua azione amministrativa, limitata dalla legge statale ad alcune specifiche materie. Allo stesso modo, quindi, l’utilizzo delle attribuzioni amministrative per subordinare l’accesso dei cittadini alle strutture e agli spazi pubblici a tale aberrante condizione costituirebbe uno sviamento del potere amministrativo, che sarebbe utilizzato per finalità che non sono quelle sue proprie».
In primo grado i giudici amministrativi respingevano il ricorso premettendo anzitutto che il “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana” e il “ripudio del fascismo” costituiscono un’endiadi, «nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo»[5].
Escludevano poi la violazione del «principio di uguaglianza e dei diritti di riunione e associazione anche in partiti politici» in quanto la «dichiarazione richiesta dal Comune non pregiudica in alcun modo la costituzione dell’associazione, ma solo, eventualmente, la possibilità per la stessa di utilizzare gli spazi pubblici del Comune di Brescia».
Non vi sarebbe neanche violazione della libertà di manifestazione del pensiero in quanto l’amministrazione locale non impone una “proclamazione di pensiero” ma impone «una condizione specifica all’utilizzo da parte dei privati dei beni pubblici, rappresentata dall’impegno a non destinarli a scopi non in contrasto con la Costituzione, quali quelli propri di un soggetto che non prenda le distanze dal pensiero fascista».
Gli stessi giudici ravvisavano altresì il rispetto del principio di ragionevolezza nella scelta di «precludere l’utilizzo di beni pubblici a soggetti che non intendano "respingere decisamente" il fascismo e il nazismo e cioè due ideologie i cui ideali e principi si pongono in reciso contrasto con i valori costituzionali, tra cui, in primo luogo la libertà di pensiero e di parola».
Sarebbe rispettato anche il principio di proporzionalità in quanto la richiesta di dichiarazione è preordinata «all’acquisizione di garanzie atte ad assicurare che l’uso del bene pubblico non sia strumentale all’esercizio di attività non rispettose dei principi costituzionali e, in particolare, del divieto di ricostituzione del partita fascista e di fare propaganda filo-fascista».
Riconoscevano così la legittimità degli indirizzi in tal senso adottati dalle pubbliche amministrazioni, affinché, «nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, abbiano cura di evitare che i beni pubblici possano essere utilizzati per scopi non conformi alla Costituzione, a prescindere dall’innegabile e aggiuntiva possibilità di intervenire, in esito all’esercizio dell’attività di controllo, con provvedimenti dichiarativi della decadenza immediata dalla concessione nel caso di turbativa dell’ordine pubblico legata a condotte del concessionario»[6].
E, in effetti, la pubblica amministrazione ha sempre il potere «di adottare, in caso di inosservanza degli obblighi del concessionario, i provvedimenti sanzionatori previsti dalla legge […], nonché, in particolare, […] la potestà, di carattere generale, di pronunciare la revoca della concessione tutte le volte che ragioni di interesse pubblico, e in particolare ragioni istituzionali per l’ente concedente, in relazione al bene, lo esigano»[7].
Come non può limitarsi «la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto, escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività». E, in effetti, da tempo si è evidenziato che nell’amministrazione dei beni pubblici «è il demanio comunale a spiccare per l’importanza dei suoi collegamenti con i bisogni collettivi della comunità locale»[8].
Di diverso avviso i giudici amministrativi siciliani che in quegli stessi anni si sono trovati a decidere della legittimità di provvedimenti di diniego di occupazione temporanea di suolo pubblico subordinata alla dichiarazione di ripudio del fascismo. In quei casi, infatti, i giudici avevano sostenuto l’illegittimità di tali provvedimenti per lesione del c.d. diritto al silenzio laddove «impone al richiedente la concessione di suolo pubblico di effettuare affermazioni che appaiono, almeno in parte, lesive del diritto inviolabile (ai sensi dell’art. 2 Cost.) alla libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’art. 21 Cost. nella parte in cui tutela anche la libertà di pensiero e il diritto al silenzio, cioè a non manifestare le proprie convinzioni», dal momento che «le limitazioni alla libertà di cui all’art. 21 Cost. che discendono dall’ordinamento costituzionale e, in particolare, dalla XII disp. trans. della Cost. non si riverberano sulla libertà di formazione del pensiero nel cosiddetto “foro interno”, […] in disparte ogni considerazione in ordine all’assoluta impossibilità di controllare quest’ultimo, è la connotazione pubblica della manifestazione del pensiero a delineare la rilevanza penale delle condotte tipizzate dalla legge Scelba (n. 645 del 20 giugno 1952) secondo l’interpretazione del giudice costituzionale (Corte cost. 25 novembre 1958 n. 74)»[9]. Tali considerazioni non sono condivise dalla pronuncia del Consiglio di Stato qui commentata.
2. L’attuazione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” nella concessione di spazi pubblici: la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa
Sulla legittimità della concessione di spazi pubblici condizionata alla dichiarazione esplicita di ripudio del fascismo si era espresso in modo analogo, invece, il Tar Piemonte, Sez. II, 18 aprile 2019, n. 447 l’anno precedente, su ricorso presentato dalla stessa associazione Casa Pound, con riferimento al provvedimento del Comune di Rivoli che aveva rigettato l’istanza di occupazione temporanea di suono pubblico presentata dalla suddetta associazione.
Anche in quel caso la ricorrente aveva sostenuto che l’amministrazione locale «non può imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati “valori dell’antifascismo” che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a “ripudiare il fascismo e il nazismo”, atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell’individuo, che non può essere coartata dall’amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali o con le leggi dello Stato»[10].
Il giudice amministrativo in quell’occasione aveva evidenziato che «i valori dell’antifascismo e della resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948» e che il «limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui» non possono esplicarsi «in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del distolto partito fascista».
Anche in quella vicenda il giudice amministrativo aveva ritenuto non irragionevole la richiesta dell’amministrazione, nel valutare la meritevolezza del’interesse dedotto, «della dichiarazione di impegno rispetto dei valori costituzionali e, in particolare dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell’ideologia autoritaria fascista nell’adesione ai valori fondanti l’assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell’antifascismo e della resistenza».
In quel caso l’associazione CasaPound aveva reso una dichiarazione diversa da quella richiesta espressamente dal Comune, omettendo «volutamente, la parte di dichiarazione relativa al ‘ripudio del fascismo e del nazismo’ e all’adesione ‘ai valori dell’antifascismo’». Tuttavia, secondo i giudici, «dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica». Così, anche in quel caso, il ricorso era stato respinto considerando legittimo il diniego di concessione del Comune che, «a fronte dell’assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell’antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica».
Tale impostazione è ripresa dal Consiglio di Stato nella pronuncia qui commentata che – nel rigettare il ricorso presentato dall’associazione Casa Pound per la riforma della sentenza del Tar Lombardia sopra ampiamente richiamata – ha anzitutto ricordato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui la concessione di spazi pubblici, in quanto comporta un utilizzo a fini privati di aree o locali che vengono sottratti all’uso comune, «è espressione di una potestà ampiamente discrezionale, sia nell’an, sia nella definizione di tempi, modi e condizioni dell’occupazione»[11].
Sicché – afferma il Consiglio di Stato – nell’esercizio del potere comunale di stabilire i criteri per l’occupazione di spazi pubblici «l’amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo - comprese le idee e i metodi razzisti - o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste».
Trattasi, secondo i giudici, di un «obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito ‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’[12]». La riconosciuta ‘matrice antifascista’ della Costituzione repubblicana emergerebbe sia dalla sua genesi sia «soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto», attesa la discontinuità delle norme e dei principi costituzionali rispetto a quelli del regime precedente[13], in questo senso il primo comma della XII disposizione non è da intendersi come norma meramente “transitoria”, come ampiamente sostenuto dalla dottrina e giurisprudenza[14]. Secondo la ricostruzione argomentativa dei giudici di secondo grado, la XII disposizione – in deroga all’art. 49 cost. che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partititi, nonché degli artt. 17 e 21 Cost. che sanciscono la libertà di riunione e di manifestazione del pensiero – è volta a «scongiurare un ritorno ‘sotto qualsiasi forma’ del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono proprie». E a tale previsione ha inteso dare attuazione il legislatore anzitutto con la legge del 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba), seppure – come già ricordato dal giudice amministrativo – senza voler offrire un’attuazione limitata alla repressione penale, poiché questa «va estesa ad ogni atto fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[15].
Proprio considerando tale finalità nella pronuncia qui commentata i giudici hanno affermato che «l’obbligo posto dalla giunta del Comune di Brescia non può dirsi sproporzionato» […] e «anche la parte di dichiarazione contestata dall’associazione appellante – lungi dal rappresentare una sorta di ‘professione di fede’ o un giuramento di fedeltà fine a sè stessi – debba intendersi come strettamente correlata all’uso dello spazio pubblico di cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, e quindi mantenga un legame con quell’esperienza, possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità antidemocratiche».
Il ricorso è perciò respinto condividendo gli argomenti dei giudici di prime cure e riportando espressamente quello secondo cui: «se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero valersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività».
Proprio con riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero si è parlato in dottrina di «limite ideologico del neofascismo» contenuto nella XII Disposizione che sarebbe perciò tesa a «spogliare l’ideologia neofascista dalla garanzia costituzionale delle libertà»; in tal senso, più in generale, la Costituzione «intende chiaramente vietare non solo gli atti conclusivi di ricostituzione del partito fascista, ma anche tutti i comportamenti idonei a porne le premesse, attraverso l’istaurazione di un clima favorevole»[16].
3. Cenni conclusivi sulla pubblica amministrazione nell’‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
Con la sentenza qui commentata, il Consiglio di Stato – riprendendo gli argomenti del giudice di prime cure e dei precedenti conformi qui richiamati – offre interessanti spunti di riflessione non solo sull’attuazione del divieto della «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» nell’attività amministrativa della concessione di spazi pubblici, ma più in generale sul ruolo della pubblica amministrazione nell’ ‘ispirazione antifascista della nostra Costituzione’.
La pubblica amministrazione è stata messa alla prova dalla matrice antifascista della Costituzione italiana anche in altre occasioni e in ambiti diversi dell’azione amministrativa.
Nelle competizioni elettorali locali, infatti, alcune associazioni politiche sono state escluse dalle commissioni elettorali circondariali in diversi Comuni sul territorio nazionale proprio in ragione della loro ispirazione al disciolto partita fascista. Non a caso il contenzioso sul punto è richiamato nella pronuncia che qui si commenta.
Con rifermento a quelle vicende la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che non è ammissibile che «un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione con norma tanto più grave e severa, in quanto eccezionalmente derogatorio al principio supremo della pluralità, libertà e parità delle tendenze politiche»[17].
Si è affermato che «un movimento politico che si ispira ai principi del disciolto partito fascista deve essere incondizionatamente bandito dalla competizione elettorale, secondo quanto impone la XII esposizione transitoria e finale della Costituzione, il cui precetto sul piano letterale ideologico non può essere applicato solo alla repressione di condotte finalizzate alla ricostruzione di un’associazione vietata […] ma deve essere esteso ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista, per sua essenza stessa antidemocratico, e quindi anche al riferimento inequivoco ai suoi principi fondanti, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 645 del 1952»[18].
Nel tempo si è ribadito che «il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’arte. 49 Cost., e quello di accesso alle cariche elettive, ex art.51 Cost., trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere democratiche dinamiche. […] l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzata alla ricostituzione di un’associazione vietata, [ma] deve essere estesa ad ogni atto fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[19]; si riconosce così il potere della commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento.
Sia nel caso della concessione di spazi pubblici, sia nell’ammissione alle competizioni elettorali l’esercizio di libertà e diritti dei privati richiede l’esercizio del potere della pubblica amministrazione. Si tratta di un ambito di applicazione della XII Disposizione costituzionale che si distingue da quello che di recente ha visto l’intervento della giurisprudenza penale con riferimento al divieto di utilizzo di simboli e del cosiddetto saluto romano[20].
La sentenza del Consiglio di Stato qui commentata offre un’articolata e chiara ricostruzione del fondamento e dei contenuti del potere della pubblica amministrazione di prevedere una dichiarazione di ripudio del fascismo nel rilascio della concessione di spazi pubblici con l’obiettivo di evitare che gli stessi siano «utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo – comprese le idee e i metodi razzisti – o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del distorto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste». Sarebbe proprio questo – si è detto – l’«obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito ‘l’ispirazione antifascista della nostra costituzione’»[21].
È qui di interesse ricordare che secondo la Corte costituzionale la XII Disposizione della Costituzione repubblicana «ha conferito in modo tassativo al legislatore non solo la potestà-dovere di fissare sanzioni penali in casi di violazione del divieto costituzionale di ricostituzione del disciolto partito fascista, ma anche di ricercare il modo e le forme più idonei e più incisivi per la realizzazione della pretesa punitiva nella salvaguardia dei diritti fondamentali che la costituzione riconosce a tutti i cittadini, al fine di combattere più efficacemente e sollecitamente possibile quel pericolo che la citata disposizione, in accordo con l’ispirazione antifascista della nostra costituzione è inteso direttamente imperativamente prevenire».
La legislazione penale si è fatta nel tempo interprete dell’obiettivo costituzionale del ripudio del fascismo e «il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle»[22].
In linea con tale orientamento si è in seguito affermato che «non può sostenersi la illegittimità costituzionale di una norma legislativa che attui il disposto della XII disposizione transitoria, la quale, in vista della realizzazione di un ben determinato scopo, pone limiti all’esercizio dei diritti di libertà enunciati dagli evocati precetti costituzionali»[23].
Va detto che il contenuto del comma 1 delle XII Disposizioni fin dal dibattito in Assemblea costituente è stato lungi dall’essere pacificamente interpretato come norma “transitoria”[24].
E il carattere “finale”, e non meramente transitorio, del “divieto di riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” (comma 1 della XII Disposizione) – oggi generalmente riconosciuto – è riconducibile al suo legame con l’art. 54 comma 1 Cost. secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica “e l’art. 139 Cost. che sottrae alla revisione costituzionale la forma repubblicana[25]. In tale prospettiva la c.d. legge Scelba avrebbe fornito al bene giuridico dell’“ordine pubblico democratico e costituzionale” una tutela anticipata[26]. Sicché l’attuazione di tale precetto – lungi dal limitarsi alla repressione penale che richiede il pericolo concreto d di ricostituzione del partito fascista[27] – come già ricordato dalla giurisprudenza amministrativa, «deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[28], facendo così della pubblica amministrazione un importante “strumento di attuazione”.
Come ricordato dai giudici di prime cure nella vicenda qui commentata non sarebbe «in questione […] la rilevanza penale di condotte riconducibili alla connotazione pubblica della manifestazione del pensiero, bensì il significato da attribuire al “silenzio” che l’associazione ricorrente vorrebbe serbare sul tema, rifiutandosi di sottoscrivere le dichiarazioni richieste dall’atto di indirizzo del Comune di Brescia. In buona sostanza, con tale provvedimento non si richiedono né abiure, né professioni di fede che non si traducano nella mera riaffermazione dei valori fondanti della Carta costituzionale e del nostro Ordinamento»[29].
Sulla questione dell’attuazione della XII Disposizione, ancora oggi attuale, si è di recente ricordata l’idea che «se la democrazia muore nel cuore del popolo, nessuna forza giuridica potrà farla resuscitare»[30].
Non c’è dubbio che né le leggi (né l’azione dell’amministrazione) possano di per sé sole proteggere la democrazia e, tuttavia, proprio la «perdurante esigenza di garanzia antifascista», che è stata ricondotta a una «sorta di disattuazione strisciante»[31] della XII Disposizione, sembra imporre estrema attenzione alla compiuta attuazione della previsione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Di interesse sarebbe perciò lo studio del ruolo della pubblica amministrazione, in generale, nell’‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
La questione dell’attuazione delle XII disposizioni finali da parte della pubblica amministrazione nella specifica attività di concessione di spazi pubblici assume certo contorni differenti rispetto a quelli della legislazione penale, forse meno “problematici” con riferimento alla limitazione della libertà di manifestazione del pensiero; in tali casi l’obbligo di dichiarare il ripudio del fascismo, imposto come condizione della concessione di spazi pubblici da parte della amministrazione locale, non pone luna imitazione della libertà di manifestazione del pensiero che, in caso di diniego, può essere esercitata su spazi privati entro i limiti della legislazione penale.
Proprio alla luce della ricostruzione offerta dalla giurisprudenza amministrativa richiamata, ci si chiede se non sia ultroneo, se non addirittura fuorviante, considerando ‘l’ispirazione antifascista della nostra Costituzione’, qualificare come ampiamente discrezionale l’esercizio del potere della pubblica amministrazione che si sostanzia nel condizionare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione di ripudio del fascismo.
In tale prospettiva, ragionando sul ruolo della pubblica amministrazione nel garantire l’effettiva attuazione del comma 1 delle XII Disposizioni, subordinare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione di ripudio del fascismo sembra piuttosto espressione di una discrezionalità della pubblica amministrazione necessariamente orientata dall' "ispirazione antifascista della nostra Costituzione".
[1] La delibera richiama espressamente sia la legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba) sia l’art. 1 del d. l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. in legge 25 giugno 1993.
[2] Nella premessa della deliberazione si rileva che “alcuni Comuni, sulla scorta di recenti episodi e manifestazioni che hanno inneggiato o propagandato ideologie naziste, fasciste e/o razziste, hanno approvato o si stanno attivando per approvare un atto di indirizzo al fine di ottenere uno specifico impegno al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella Costituzione italiana per quanto concerne l’utilizzo di spazi ed aree pubbliche”.
[3] Per una ricostruzione della vicenda che ha portato all’ordinanza cautelare del Tar Brescia, 8 febbraio 2018, n. 68 e alle delibere dei Comuni sopra richiamati si rinvia a F. Paruzzo, Il Tar Brescia rigetta il ricorso di CasaPound: l’antifascismo come matrice e fondamento della Costituzione, in Osservatorio costituzionale, AIC, fasc. 2/2018, pp. 2 ss.
[4] Cit. virgolettato estratto dal ricorso, come riportato nel testo del Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166.
[5] Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166: «la deliberazione censurata, nella sua formulazione integrale, richiede agli interessati di dichiarare di “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”, facendo ricorso, nella sostanza, a una vera e propria endiadi, nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo».
[6] E. Silvestri, voce Concessione, I. Concessione amministrativa, in Enc. dir., vol. VIII, 1961, p. 370, osserva che «le concessioni amministrative sono espressione di una potestà pubblica e tendono quindi al conseguimento di fini pubblici».
[7] Cit. A. M. Sandulli, voce Beni Pubblici, in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, p. 290; in generale, sul rapporto tra “Concessione, potere pubblico e interesse pubblico” F. Fracchia, voce Concessione amministrativa, in Enc. dir., Annali I, 2007, p. 267 ss.
[8] V. Caputi Jambrenghi, I beni pubblici e d’interesse pubblico, in Diritto amministrativo, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F. G. Scoca, Bologna, 1993, II ed., p. 1126.
[9] Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, sez. giur., ordinanza, 13 dicembre 2019, n. 797; poi anche Tar Sicilia, sez. I, 15 aprile 2021, n. 1241.
[10] Cit. virgolettato estratto dal ricorso, come riportato nel testo del Tar Piemonte, Sez. II, 18 aprile 2019, n. 447.
[11] Ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5442; Consiglio di Stato, Sez. quinta, 7 giugno 2022, n. 4660; Consiglio di Stato, Sez. V, 8 maggio 2024, n. 4129. L’occupazione di suolo pubblico da parte di privati comporta la sottrazione di spazi pubblici all’uso comune coinvolgerebbe l’amministrazione non solo nella «mera scelta delle aree da occupare, ma anche nella scelta della dimensione, dei tempi e dei modi dell’occupazione, nonché nella previsione delle restrizioni delle forme di temperamento ritenute, di volta in volta, opportune dal punto di vista viabilistico, urbanistico, architettonico, paesaggistico, al fine di bilanciare la pluralità di interessi coinvolti», cit. Cons. St. n. 4129 del 2024.
[12] In questi termini espressamente Corte cost., sent. n. 254 del 1974.
[13] I giudici amministrativi – nella sentenza commentata – argomentano che «in questo senso il primo comma della XII disposizione – che non è da intendersi come norma meramente “transitoria” – sarebbe legata sia all’art. 54 comma 1 Cost che recita: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica”, sia all’articolo 139 Cost. che esclude la possibilità di revisione costituzionale per la “forma repubblicana”». Sula “continuità degli ordinamenti statutario, fascista e repubblicano” dedica interessanti passaggi L. Paladin, voce Fascismo (dir. cost.), in Enc. dir., vol. XVI, 1967, p. 887, 888.
[14] Cfr. Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166, come ripreso espressamente da Cons. Stato, Sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687.
[15] Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, così potendo la commissione elettorale circondariale esercitare un potere di ricusazione ed estromissione dalla competizione di quelle liste o simboli che si rifanno specificatamente al partito fascista «bandito irrevocabilmente dalla Costituzione».
[16] Cit. P. Barile, voce Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 470; sull’art. 21 Cost. M. Manetti, A. Pace, Art. 21. La libertà di manifestazione del pensiero, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 2006, p. 212; la qualifica come “libertà funzionale” C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento democratico, Milano, 1958, p. 3.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. I, 23 febbraio 1994, n. 173; Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 2013 n. 1355; Cons. Stato, Sez. III, 29 maggio 2018, n. 3208.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 29 maggio 2018, n. 3208; già Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354.
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, dove si dice altresì che la disciplina costituzionale «dettando un requisito originario per la partecipazione alla vita politica, fonda il potere implicito della commissione di ricusare le liste che si pongano in contrasto con diritto precetto».
[20] Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[21] In questi termini, Corte cost., sent., n. 254 del 1974, richiamata nella pronuncia qui commentata.
[22] Corte cost., sent. n. 74 del 1958.
[23] Corte cost., sent. n. 15 del 1973. Sulle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, in una prospettiva penalistica, si rinvia a P. Caroli, Il potere di non punire, Uno studio sull’amnistia Togliatti, Napoli, 2020, p. 278 ss.
[24] Alla seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea costituente l’intervento di Calamandrei aveva già evidenziato il carattere non transitorio di questa disposizione: «Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome “fascismo”, ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c'è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. […]».
[25] La pronuncia qui commentata evidenzia che «il primo comma della XII disposizione, che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, non può ritenersi meramente ‘transitoria’, ossia destinata a trovare applicazione per un periodo di tempo determinato (com’è, per esempio, il secondo comma), ma, come osservato anche in letteratura, è norma ‘finale’, in quanto, legandosi all’art. 54, co. 1, Cost. secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica” e all’art. 139 Cost., che sottrae alla revisione costituzionale “la forma repubblicana” (secondo Corte cost., sent. n. 1146 del 1988, da intendersi comprensiva di tutti quei principi che “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione Italiana” e quindi innanzitutto dei ‘diritti inviolabili’, su cui si v., tra le più recenti, Corte cost., sent. n. 135 del 2024), rifinisce il disegno costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che in deroga all’art. 49 Cost., che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti, nonché agli artt. 17 e 21 che sanciscono le libertà di riunione e di manifestazione del pensiero (sul punto si v. Corte cost., sentt. n. 74 de 1958 e n. 15 del 1973) – è volta a scongiurare un ritorno “sotto qualsiasi forma” del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono propri».
[26] Da ultimo Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[27] Cfr. Corte cost., sent. n. 15 del 1973; Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[28] Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354.
[29] In questi termini già Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166, poi ripresa dal Consiglio di Stato qui commentato.
[30] Cit. P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 413; di recente richiamato nelle sue osservazioni conclusive da F. Paruzzo, La XII Disposizione transitoria e finale: tra garanzia “antirazzista” della legge Mancino e specificità della matrice antifascista, in Rivista AIC, fasc. 3/2024, p. 131.
[31] B. Pezzini, Attualità e attuazione della XII Disposizione finale: la matrice antifascista della Costituzione repubblicana, in AA. VV., Le frontiere del Diritto costituzionale. Scritti in onore di V. Onida, Milano, 2011, p. 1402. Parla di «poche occasioni pratiche di applicazione» P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 411.
Con l’inizio del mese di aprile entra in vigore un ulteriore segmento di processo penale telematico.
O meglio, “dovrebbe” entrare in vigore, perché anche l’efficacia di questo scaglione – come già successo in occasione dei precedenti previsti dal provvedimento legislativo che ha introdotto l’utilizzo del famigerato applicativo APP - sembra destinato a rimanere su carta ancora per un po’.
L’incredibile sequela di disfunzioni, malfunzionamenti, crash di sistema che stanno affliggendo il lavoro di magistrati, avvocati ed operatori del diritto da quando sono costretti a confrontarsi con questo sistema operativo ha da tempo reso evidente che il processo penale telematico è allo stato del tutto inidoneo a far fare l’auspicato salto di qualità al lavoro nelle aule e negli uffici giudiziari; anzi, non riesce nemmeno nel più modesto obiettivo di velocizzarne i tempi, risolvendosi anzi in un ulteriore rallentamento degli stessi.
Qualche mese fa, nel pieno delle feste natalizie, il Ministero della Giustizia ha fatto uscire il decreto che rendeva obbligatorio l’utilizzo di APP, quasi senza alcuna sperimentazione, in tutti gli uffici giudiziari nei tre giorni successivi (il decreto, uscito il 27 dicembre, è entrato in vigore il 1° gennaio del 2025), costringendo i Presidenti dei Tribunali di tutta Italia a sospenderne l’obbligatorietà per i riscontrati malfunzionamenti.
La successiva scadenza del 1° aprile, indicata dal decreto come data dalla quale APP diventerà obbligatorio per una ulteriore seri di provvedimenti e adempimenti, pur non essendo stati risolti nei tre mesi di vigore del decreto i problemi riscontrati, sembra dunque essere destinata a vedere il bis dei provvedimenti di sospensione, con ulteriore proroga del “doppio binario” nella speranza che qualcuno metta mano al programma attenuandone le anomalie e i disagi.
Il panorama attuale vede quasi ovunque un enorme rallentamento nella celebrazione dei processi e nella redazione dei provvedimenti per colpa di un sistema operativo che avrebbe dovuto apportare funzionalità ad un sistema già duramente messo alla prova dalla obsolescenza dei computer e dei mezzi informatici in dotazione a magistrati e cancellerie.
Al grido di dolore che da ogni ufficio giudiziario si leva verso il Ministero della Giustizia e il suo titolare, costituzionalmente deputato al funzionamento del servizio Giustizia, si aggiunge la nota dell’OCF che pubblichiamo, in cui si evidenziano ulteriori disfunzioni che mettono in serio pericolo il deposito telematico degli atti da parte degli avvocati, pure reso obbligatorio dalla data odierna.
GIUSTIZIA; OCF: CRITICITÀ SUI DEPOSITI TELEMATICI OBBLIGATORI DAL 1° APRILE PER IL PROCESSO PENALE
Roma, 31 marzo 2025 – Da domani, 1° aprile, le iscrizioni al Registro delle Notizie di Reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica, come previsto dal DM Giustizia n. 206/2024. Tuttavia, l’OCF esprime forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia.
A gennaio, 87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l'Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l'Innovazione). Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi.
Inoltre, l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa. Alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di Parte Civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali.
L’OCF ribadisce il proprio impegno per la digitalizzazione della giustizia, ma senza compromessi sulle garanzie difensive e le regole del giusto processo. Chiediamo interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico. Continueremo a monitorare la situazione per evitare disservizi e pregiudizi ai diritti delle parti processuali.
Così in una nota l’Organismo Congressuale Forense.
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L’Organismo Congressuale Forense (OCF) è l’organismo di vertice di rappresentanza politica dell’Avvocatura italiana. Fondato nel 2016, l’OCF esercita la rappresentanza politica del Congresso Nazionale Forense, di cui ha il compito di attuare i deliberati, ed elabora progetti e proposte a tutela degli interessi dell’Avvocatura e della società italiana.
Sommario: 1. La trattazione scritta dopo il d.lgs. 164/2024 – 2. La finzione di lettura (fictio recitationis). – 3. La decisione tardiva.
1. La trattazione scritta dopo il d.lgs. n. 164/2024
Con l’intervento legislativo in sede di “correttivo” della riforma del codice processuale civile (d. lvo n. 164/2024) è stata, come noto, integrata anche la disciplina relativa alla c.d. trattazione scritta ex art. 127ter c.p.c.[i] dirimendo, innanzitutto, il dubbio sorto in ordine alla compatibilità tra la trattazione “cartolare” e l’udienza di discussione che, ai sensi dell’art.128 c.p.c, “è pubblica a pena di nullità”[ii].
Nello stesso art. 128 c.p.c. è, infatti, ora chiarito che anche “l’udienza in cui si discute la causa” può essere dal giudice “sostituita” dal deposito delle note scritte previste dall’art.127ter c.p.c. se non sopravviene una opposizione anche di una sola parte.
Mentre, quindi, secondo la confermata disciplina generale, di regola, il giudice è tenuto a revocare la disposta trattazione scritta solo quando l’opposizione provenga da tutte le parti, nel caso invece di “sostituzione” della discussione è ora previsto espressamente che anche di fronte all’opposizione di una sola parte il giudice debba senz’altro revocare il proprio provvedimento e fissare l’udienza pubblica (art.127ter, comma 2, terzo periodo, c.p.c.)[iii].
È da ritenere, tuttavia, che in linea di principio per l’opposizione valga l’onere di proposizione entro il termine di cinque giorni decorrenti dalla comunicazione del decreto dispositivo della trattazione scritta, così come stabilito in via generale dallo stesso art. 127ter c.p.c., al fine di salvaguardare le esigenze difensive delle altre parti, in prossimità della già fissata udienza, oltre che le incombenze dell’”agenda” del giudice.
Nei confronti della parte non ancora costituita il decreto dispositivo della trattazione “cartolare” non può essere, invero, oggetto di specifica comunicazione; è però senz’altro esigibile la conoscenza di tale decreto quanto meno alla scadenza del termine per la costituzione in giudizio, alla stregua del più generale onere di esame degli atti già depositati in causa, con conseguente decorrenza contestuale del termine per l’opposizione alla modalità ex art.127ter c.p.c..
All’udienza di discussione partecipano i difensori delle parti costituite e, quindi, non opera l’ulteriore specifica preclusione alla trattazione scritta introdotta dall’intervento “correttivo” relativamente ai casi nei quali la comparizione personale delle parti sia prevista dalla legge o disposta dal giudice: preclusione che opera, a rigore, per tutte le prime comparizioni in primo grado ai fini dello svolgimento dell’interrogatorio libero ed il tentativo di conciliazione (artt. 183, 320, 420, 473bis.21 c.p.c.), anche se, in effetti, in caso di violazione, in difetto di una sanzione specifica di nullità, la rilevanza invalidante sarebbe comunque subordinata ai sensi dell’art.156 c.p.c. alla dimostrazione di una concreta pregiudizievole incidenza sul diritto di difesa.
La “correzione” più singolare apportata dal legislatore delegato è, poi, inserita all’ultimo comma dell’art. 127ter c.p.c. laddove era già previsto che “il giorno di scadenza del termine” per la trattazione cartolare “è considerato data di udienza a tutti gli effetti”: si aggiunge, infatti, una disposizione attinente alla modalità decisoria prevedendo che “il provvedimento depositato entro il giorno successivo alla scadenza del termine si considera letto in udienza”.
Viene così integrata la finzione dell’udienza anche riguardo al giudice: non solo, quindi, il deposito delle note sostituisce per le parti la trattazione orale “a tutti gli effetti” ma anche la decisione giudiziale, se depositata entro il giorno successivo, è da considerarsi come se fosse letta all’udienza stessa.
2. La finzione di lettura (fictio recitationis)
L’innovazione della finzione di lettura trova una ragione giustificatrice nell’esigenza pratica di contemperare i tempi dei depositi delle note delle parti con la concentrazione, nella stessa udienza, del provvedimento decisorio: ai sensi dell’art. 196sexies disp. att. c.p.c., infatti, il deposito della nota è tempestivamente eseguito quando la conferma del completamento della trasmissione “è generata entro la fine del giorno di scadenza”, con conseguente possibilità della inevitabile dilazione della decisione almeno al giorno successivo.
È da considerare, tuttavia, che nella giurisprudenza di merito è già riscontrabile la prassi di integrare la fissazione del termine per le note ex art.127ter mediante la prescrizione, oltre che del giorno, anche di un orario (le 9.00 o 10.00 a.m.) compatibile con l’esame degli atti nel medesimo giorno da parte del giudice.
In ogni caso, qualora il “giorno successivo” all’udienza coincida con il sabato o con un giorno festivo, ai sensi dell’art.155, commi 4 e 5 c.p.c., espressamente richiamati dall’art.196sexies disp. att. c.c., il termine è prorogato al primo giorno ulteriore non festivo: quindi nel caso di udienza cartolare di discussione di venerdì, è da considerarsi letta in udienza la sentenza depositata il successivo lunedì.
La contestualità tra la discussione e la lettura del dispositivo è stata, come noto, dapprima introdotta nel rito del lavoro dagli artt. 429, comma 1 (per il primo grado, ove è stata successivamente estesa anche alla motivazione) e 437 (per l’appello), c.p.c., quale connotato sintomatico dei principi di oralità, immediatezza e concentrazione che ispiravano il processo lavoristico; anche se non è stata prevista una espressa previsione di nullità in caso di violazione, tuttavia la giurisprudenza di legittimità si è orientata sin dagli anni settanta nel senso che la lettura del dispositivo è un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto e, quindi, la sua omissione implica la nullità insanabile della sentenza ai sensi dell’art.156, comma 2, c.p.c., venendo meno una modalità “strutturalmente ordinata al perseguimento delle finalità di concentrazione processuale, e di sollecita definizione delle controversie” attraverso la previsione di una pronuncia immutabile all’esito dell’udienza di discussione[iv].
La lettura dell’intera sentenza - cioè del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto che lo motivano - è stata successivamente, come noto, “esportata” dal rito del lavoro anche nel rito ordinario di cognizione sia pure come scelta discrezionale del giudice monocratico (art.281sexies c.p.c.) e, da ultimo, si è imposta come regola nel procedimento semplificato di cognizione avanti al giudice monocratico ( art.281terdecies, comma 1, c.p.c.), avanti al giudice di pace (art.321 c.p.c.) ed anche nel processo ordinario di appello nei casi nei quali il gravame sia ritenuto suscettibile di essere deciso senza la nomina del consigliere istruttore o, comunque, sia valutato dal consigliere istruttore di pronta soluzione (artt. 349bis, comma 1, c.p.c.; 350bis, comma 1, c.p.c.).
Tuttavia, è da sottolineare che a seguito della riforma ex d.lgs n. 149/2022 si è eliso il nesso originario di tra discussione e lettura della decisione in quanto ora l’art.281sexies c.p.c. – richiamato dagli artt. 281terdecies, 321 e 350bis c.p.c. - consente comunque al giudice, in alternativa alla lettura contestuale, di depositare la decisione nei successivi trenta giorni
Ora, la finzione di lettura non appare, invero, espressamente limitata, nel suo ambito di applicazione, né quanto al rito (ordinario o speciale) né relativamente allo stato del procedimento (trattazione o discussione): è, infatti, prevista non già dall’art.128 c.p.c., relativo all’udienza pubblica di discussione, bensì dalla disciplina generale della trattazione scritta, all’ultimo comma dell’art.127ter, ad integrazione della disposta assimilazione della modalità cartolare all’udienza (“a tutti gli effetti”).
Potrebbe, quindi, teoricamente applicarsi a tutte le decisioni adottate all’esito delle udienze comunque “sostituite” dalla trattazione scritta ai sensi dell’art.127ter, comma 1, c.p.c., ivi compresi, quindi, i provvedimenti aventi contenuti ordinatori o istruttori.
Tuttavia, non sono da trascurare i rischi di tale interpretazione estensiva della finzione di lettura: in ragione dell’espressa assimilazione del tempestivo deposito della decisione (“entro il giorno successivo”) alla effettiva lettura in udienza, infatti, il provvedimento adottato non dovrebbe neppure essere comunicato alle parti a cura del cancelliere, ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c., essendo tale adempimento previsto solo per l’ordinanza “pronunciata fuori dall’udienza”[v], con la conseguenza che le parti sarebbero private dell’utilità della comunicazione ogniqualvolta il giudice emetta la sua decisione entro il primo dei trenta giorni previsti in via generale per il deposito del provvedimento ai sensi dell’art.127ter, comma 3, c.p.c..
È, quindi, preferibile seguire la intentio legis – desumibile dalla relazione al d. lgs n. 164/2024[vi] - orientata chiaramente soltanto a sostituire per equivalente una modalità decisoria già specificamente prevista per l’udienza in presenza delle parti, in tal senso circoscrivendo la fictio alle sole ipotesi in cui il codice processuale già contempli la lettura in udienza della decisione; ipotesi, pertanto, nelle quali le parti ben possono essere onerate della verifica dello stato del procedimento a prescindere da ogni avviso da parte della cancelleria, ai sensi dell’art.136 c.p.c., che non è previsto per la sentenza contestuale all’udienza
La finzione temporale dovrebbe, altresì, implicare che la sentenza si debba intendere emessa il giorno precedente anche ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione ex art. 327 c.p.c., con elisione cioè di un giorno del periodo c.d. lungo: sarebbe, tuttavia, preferibile argomentare, in senso contrario, che il sacrificio di diritti essenziali della difesa è estranea alla ratio dell’innovazione, finalizzata soltanto a promuovere la tempestività della decisione nei limiti consentiti dalla trattazione “cartolare”, così ammettendo la decorrenza del termine per l’impugnazione solo dal giorno di deposito “effettivo” del provvedimento.
3. La decisione tardiva
La questione più delicata è senz’altro quella di stabilire le conseguenze dell’eventuale deposito della sentenza oltre il termine previsto per l’integrazione della finzione di lettura (c.d. fictio recitationis), oltre cioè il giorno immediatamente successivo all’udienza, tenuto conto anche del differimento ex art.155, commi 4 e 5 c.p.c..
Si è già ricordato l’orientamento giurisprudenziale, affermatosi nel 1977, che ha individuato nella omessa lettura della decisione in udienza una nullità assoluta pur non prevista espressamente dal codice processuale ma derivante, ex art.156, comma 2, c.p.c., dal difetto di un requisito essenziale per il raggiungimento dello scopo dell’atto, individuato nel valore della concentrazione processuale.
È utile risalire, tuttavia, anche ad una delle critiche che a suo tempo furono rivolte in dottrina alla pronuncia delle Sezioni Unite, vale a dire che l’enfasi posta sulla concentrazione nella sola sequenza finale del processo (discussione-decisione) risulta del tutto sproporzionata rispetto all’assenza di qualsiasi sanzione al difetto di concentrazione nelle scansioni processuali precedenti, inerenti alla fase introduttiva, alla trattazione ed alla assunzione delle prove, governate da termini meramente ordinatori, già stigmatizzati come “canzonatori”[vii].
In effetti si può osservare che la qualità della decisione potrebbe, in astratto, ritenersi condizionata dal tempo trascorso rispetto all’assunzione degli elementi di prova assai più che dal difetto di immediatezza e contestualità rispetto alla discussione tecnica tra i legali delle parti.
A distanza di poco più di venti anni dall’arresto delle Sezioni Unite il legislatore costituzionale (l. n. 2/1999) ha finalmente ridefinito il valore della concentrazione affermando, nell’ambito del c.d. giusto processo ex art.111 Cost., il principio della ragionevole durata del processo, in forza del quale il valore della concentrazione dovrebbe essere predicato con riguardo non già a singoli segmenti processuali bensì all’intero tempo occorrente per la tutela giurisdizionale.
Ora, anche nell’ambito della trattazione meramente “cartolare” il termine previsto all’ultimo comma dell’art.127ter c.p.c. non è affatto presidiato da una esplicita nullità né ad esso è ricollegata alcuna decadenza, essendo piuttosto espressamente da osservare soltanto ai fini della integrazione della finzione di lettura della decisione.
Si può, al riguardo, ritenere che l’eventuale deposito tardivo della sentenza, oltre il giorno successivo all’udienza, sia comunque idoneo ad integrarne la funzione ex art.156, comma 3, c.p.c. – quale decisione sulla domanda – tenuto anche conto che la discussione si è svolta solo attraverso il deposito delle note e senza il dialogo immediato con il giudice, così difettando anche quei connotati di oralità ed immediatezza che caratterizzano la discussione ordinaria in presenza.
Una volta, quindi, intervenuto il pur tardivo deposito del provvedimento, l’atto è cioè idoneo a produrre gli effetti propri della sentenza in ottemperanza al principio di conservazione formulato all’art.159, comma 3, c.p.c.
L’ipotetica nullità, del resto, sarebbe da far valere attraverso il rimedio dell’impugnazione ex art.161, comma 1, c.p.c. ed implicherebbe la rinnovazione del giudizio di merito, sia pure nella medesima sede di gravame e senza il regresso del grado [viii], con conseguente dilatazione della durata complessiva del processo verosimilmente ben superiore all’entità del ritardo della decisione; la lettura della sentenza sarebbe, altresì, rimessa ad un giudice diverso da quello avanti al quale sono state raccolte originariamente le prove.
Appare, pertanto, evidente che il valore della concentrazione, circoscritto alla sequenza finale discussione-decisione, rischia di essere non più compatibile con il valore preminente del tempo nel c.d. giusto processo e, quindi, con lo stesso interesse della parte alla pronuncia sulla rispettiva domanda in tempi ragionevoli.
Di tale considerazione sembra avere tenuto conto proprio il legislatore della riforma processuale del 2022 allorché ha consentito nel rito ordinario al giudice, in forza di una valutazione discrezionale, di non decidere contestualmente all’udienza di discussione e di riservarsi la decisione nei successivi trenta giorni (art.281sexies, comma 3, c.p.c.), così superando l’originario nesso di conseguenzialità tra discussione e lettura della sentenza.
Si può, quindi, in conclusione, auspicare che nella sede di impugnazione si possa utilmente discutere, tra i vizi del provvedimento, solo sulla offerta “lettura” degli atti processuali piuttosto che sulla “finzione di lettura” della decisione giudiziale.
[i] Per una prima riflessione sulle novità apportate dal “correttivo” al regime della trattazione “scritta” v. G. AMMASSARI, Focus sul correttivo della riforma della giustizia civile: le novità in tema di udienze atti e processo telematico, su www.questionegiustizia.it, 23.12.2024; A. CARBONE, Udienza cartolare e D.Lgs. 31 ottobre 2024, n. 164. Nuove questioni e vecchi problemi in attesa delle Sezioni Unite, www.questionegiustizia.it, 28.1.2025.
[ii] La questione relativa alla compatibilità del rito del lavoro con la trattazione ex art.127ter c.p.c. è stata rimessa alle Sezioni Unite a seguito di Cass., sez. lav., ord. 3 maggio 2024 n. 11898.
[iv] Così Cass., sez. un., sent. 22 giugno 1977, n. 2632, cui si è conformata la giurisprudenza successiva: Cass. sez. VI-III sent. 28 novembre 2014 n. 25305,; Cass. sez. II, sent. 4 gennaio 2018 n. 72; Cass. VI-II, ord. 6 dicembre 2021, n. 38521. In dottrina, la tesi della nullità assoluta fu sottoposta a rilievi critici già da V. ANDRIOLI, Dir.proc.civ.,1978,I,495 e G.GUARNERI, In tema di omessa lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, Dir.proc.civ.,1978,I,546; successivamente anche da M.VELLANI, Alcune considerazioni in tema di lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, Riv.trim.dir.proc.civ., 2008, 435.
[v] Nel senso che il provvedimento adottato all’esito dell’udienza “cartolare” debba essere comunicato dalla cancelleria alle parti costituite ai fini della legale conoscenza dello stesso, Cass. sez. I, ord. 18 maggio 2023 n. 13735.
[vi] In tal senso la Relazione illustrativa dello schema del d.lvo 31 ottobre 2024 n. 164:”si è scelto di considerare….il dato esperienziale in base al quale l’udienza di cui all’art. 420, che in virtù dei principi di immediatezza, oralità e concentrazione dovrebbe condensare in una sola udienza l’intera vicenda processuale, si snoda invece in una fase introduttiva, nella quale si esperisce il tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi del primo comma, una fase istruttoria e una fase decisoria, alle quali sono destinate due o più udienze. Le disposizioni di cui si è detto (cioè la discussione in modalità ex art.127ter c.p.c.) troveranno quindi applicazione in relazione al segmento decisorio”.
[vii] G. Fabbrini, Della tutela eccessiva di talune forme processuali, Riv. Dir. Lav., 1978, II,721, che richiama la nota stigmatizzazione dei termini “canzonatori” di Redenti.
[viii] In conformità ad un principio consolidato: Cass. 25305/2014 cit.; Cass., sez. III, sent. 9 marzo 2010, n. 5659; Cass., sez. lav., sent. 8 giugno 2009, n. 13165.
Immagine: illustrazione di Günter Grass per la copertina del suo L'incontro di Telgte (1979).
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