ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. La vicenda di fatto – 2. La pronuncia del TAR – 3. Considerazioni sulla pronuncia – 4. Spunto di riflessione.
1. La vicenda di fatto[1]
Il pomeriggio del 28 marzo 2025 si sarebbe dovuto tenere, in un’aula dell’Università di Torino, un evento accademico regolarmente autorizzato, intitolato “Storia e legalità internazionale del conflitto Russia-Ucraina” e organizzato da un docente di diritto civile di quella Università, con la proiezione di un documentario della tv “Russia Today” seguita da un dibattito con due docenti provenienti da altri Atenei, inteso ad analizzare il filmato per verificarne la natura propagandistica e/o informativa.
A seguito di proteste di Radicali locali, che invocavano la normativa europea che vieta la diffusione di prodotti della propaganda russa, il 18 marzo il Rettore dell’Università di Torino revocava la disponibilità dell’aula universitaria già concessa.
Il docente organizzatore dell’evento impugnava davanti al giudice amministrativo il provvedimento di revoca e gli atti presupposti, chiedendone l’immediata sospensione.
2. La pronuncia del TAR
Con il decreto che si commenta, emesso in forma monocratica inaudita altera parte, il TAR del Piemonte ha respinto la richiesta di sospensiva e fissato la trattazione del merito a data successiva a quella dell’evento accademico non consentito, escludendo il pericolo nel ritardo e dubitando dell’interesse ad agire del ricorrente perché non vi sarebbe evidenza: 1) di lesione della libertà di insegnamento del ricorrente, docente di diritto civile, trattandosi di documentario estraneo a insegnamenti giuridici; 2) di pregiudizio per gli studenti, stabilendo la normativa europea che la Federazione russa ricorre in modo sistematico alla manipolazione dei media e alla distorsione dei fatti per destabilizzare i Paesi confinanti e della UE.
3. Considerazioni sulla pronuncia
La motivazione del giudice amministrativo, pur assumendo di escludere il pericolo nel ritardo, riguarda evidentemente il solo fumus boni iuris. Nessuna persona di buon senso potrebbe infatti ritenere non urgente, a prescindere dalla sua fondatezza o meno, la richiesta di consentire lo svolgimento di un evento autorizzato per il 28 marzo, e vietato solo il 18 marzo. Al di là di questa sorprendente confusione terminologica, è il contenuto intrinseco del decreto a suscitare serie perplessità.
Risulta anzitutto singolare l’idea che la proiezione e analisi collettiva di un documento relativo a un conflitto che è oggetto di valutazioni per il diritto internazionale e non (si pensi solo all’incidenza sulle libertà di impresa e di commercio delle sanzioni applicate alla Russia) non riguardi la libertà di insegnamento di un docente di diritto civile, e sia perfino estranea a insegnamenti giuridici, sì da far venir meno l’interesse ad agire di quel docente.
L’idea di libera comunità di docenti e studenti interessati alla conoscenza, a tutta la conoscenza svincolata da finalità immediate, che sta all’origine dell’istituzione universitaria, non è mai venuta meno nel corso della sua complessa evoluzione storica[2]. Se così non fosse, del resto, non si spiegherebbe l’originaria autorizzazione data dall’Ateneo torinese.
Di fatto, l’argomento in esame finisce per risolversi, più che nella vetusta prescrizione “Qui non si fa politica”, in una più attuale prescrizione “Qui si fa solo diritto” (oppure solo matematica, o solo filosofia, o solo scienza della comunicazione, ecc.). Dove la definizione vincolante dell’oggetto di studio “diritto” (o matematica, filosofia, scienza della comunicazione, ecc.), di cui gli ex-libertari Radicali invocano l’accezione restrittiva, è data dalla magistratura.
Ancora più sconcertante, se possibile, è l’idea che esaminare criticamente un prodotto comunicativo, russo o meno che sia, significhi ratificarne l’eventuale portata manipolativa anziché imparare a difendersene. L’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, caratteristica secondo Kant dell’illuminismo, non potrebbe quindi maturare neppure nello spazio universitario, i cui utenti andrebbero tutelati attraverso la soave censura preventiva eurofila.
Peraltro, l’idea che tutto quanto è russo sia propaganda e manipolazione era molto presente durante i primi mesi dell’occupazione dell’Ucraina, quando si cercava di censurare anche le opere musicali o letterarie dei secoli scorsi. Oggi sarebbe possibile un atteggiamento più maturo, perché l’affermazione eurounitaria “la Federazione russa attua una sistematica campagna internazionale di manipolazione dei media e di distorsione dei fatti” ha carattere descrittivo e non normativo (altrimenti vi sarebbe la scienza della comunicazione di Stato, o meglio eurounitaria), e non riguarda necessariamente ogni aspetto della realtà, senza possibilità di verifica e controprova. Verifica e controprova che interessano quegli uomini e quelle donne che sono così desiderosi di uscire da ogni stato di minorità, da iscriversi ad un’Università.
4. Spunto di riflessione
La vicenda esaminata induce a chiedersi dove sia mai possibile esaminare e discutere i prodotti della ipotizzata disinformazione russa, se neppure l’Università sarebbe una sede adatta. Qualcuno da qualche parte lo dovrà fare: quanto meno per batterlo, un nemico bisogna pur conoscerlo. Magari si può fare solo con le agenzie che oggi è di moda chiamare di intelligence – parola straniera rassicurante, rispetto alla declinante intelligenza naturale e alla debordante intelligenza artificiale. Quelle agenzie che però sempre servizi segreti sono. Almeno i servizi, loro sì che i documenti dei nemici li devono analizzare.
Non è questa una risposta solo ironica, visto che l’art. 31 del disegno di legge “sicurezza” discusso nei mesi scorsi in Parlamento prevedeva, per le pubbliche amministrazioni e altri soggetti, l’obbligo di prestare ai servizi “la collaborazione e l'assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale”, anche stipulando apposite convenzioni che potevano prevedere “la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”.
Disegno di legge che, a causa delle difficoltà incontrate nella sua approvazione, dovrebbe essere sostituito da un decreto-legge che, recependo alcuni rilievi di Mattarella, prevederebbe tra l’altro la facoltà e non l’obbligo di collaborazione delle pubbliche amministrazioni con i servizi, e senza deroga alle normative sulla privacy. La modifica non può fugare le perplessità, perché prevedere espressamente la possibilità di collaborazioni con i servizi che non erano mai state vietate in precedenza significa di fatto incentivarle: quale delle nostre Università sottofinanziate (quasi tutte, e non solo al Sud) potrà mai rinunciare ai benefici economici e di prestigio derivanti dalle sinergie prospettate dal mondo dei servizi e dai suoi referenti politico-economici? E chi potrà fare affidamento sull’effettivo rispetto della privacy (ad es. sulla mancata schedatura di studenti e professori che protestino contro lo sterminio dei palestinesi in Terra Santa), se solo considera che con il decreto legge si vogliono esentare da pena gli agenti dei servizi che (non si limitino a infiltrarsi ma) partecipino ad associazioni terroristiche? Una volta giustificato il terrorismo di Stato in nome della sicurezza, sarebbe difficile non giustificare, quanto meno di fatto, anche la schedatura di Stato.
Conclusione – Può darsi che, in un eventuale futuro, un documentario russo come quello oggi vietato dal Rettore torinese possa essere liberamente proiettato e analizzato, purché in adempimento di qualche convenzione, facoltativa ma tanto “consigliata”, tra Università e servizi segreti. Magari alla presenza di barbe finte e di politici post-pannelliani. Se questa è libertà di insegnamento.
[1] Le informazioni essenziali sono tratte da https://www.torinoggi.it/2025/03/20/leggi-notizia/argomenti/politica-11/articolo/cancellata-la-proiezione-del-documentario-russo-il-professor-ugo-mattei-la-censura-non-riguarda-l.html
[2] Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/universita_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/
Qui la decisione commentata TARPiemonteN
Sommario: 1. Premessa e contesto di riferimento - 2. Contenuti della proposta di riforma della Corte dei conti - 2.1 Interventi sulla responsabilità erariale- 2.2. Interventi sulla funzione di controllo - 2.3 I profili organizzativi – 3. Conseguenze della riforma sull’intero sistema delle garanzie.
1. Premessa e contesto di riferimento
Dopo un letargo durato quasi un anno la riforma della Corte dei conti si è risvegliata e punta a completare l’iter approvativo alla Camera dei Deputati con il dibattito in Aula il 7 aprile. prossimo. Obiettivo di Governo e maggioranza è ottenere un primo via libera a Montecitorio entro aprile, perché alla fine di aprile scade l'ennesima proroga dello scudo erariale, norma che impedisce alle procure contabili di perseguire i danni erariali per «colpa grave ( disposizione varata nel periodo pandemico con l’art 21 del DL 76/2020,e più di recente prorogata ancora nel decreto mille proroghe DL 27/12/24, n 202»), una riforma approdata al secondo ramo del Parlamento darebbe un argomento forte per superare possibili obiezioni costituzionali sull'ennesima proroga.
Il «Ddl Foti», presentato il 19 dicembre 2023 dall’attuale ministro per il Pnrr quando era capogruppo di Fratelli d´Italia, atto Camera n. 1621, è tornato alla ribalta all’inizio di quest’anno anche per una riformulazione del testo con emendamenti a cura dei due nuovi relatori, che, nello stravolgere il testo originario, hanno anche proposto con l’emendamento 2.07. (art 2bis.) una delega con diversi punti di intervento volti a ridefinire in modo massiccio le attribuzioni e l’organizzazione della Corte dei conti.
La Corte dei conti è un giudice garante imparziale degli equilibri economico finanziari del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse, al servizio della collettività, così è stata definita, in diverse sentenze, dalla Corte costituzionale, in attuazione dell’art 100 Cost e, ai sensi dell’art 103 Cost, ha giurisdizione nelle materie di Contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
Da molti mesi quindi un organo di garanzia, vitale negli snodi del sistema democratico, è posto sotto scacco dalla minaccia di un radicale cambiamento delle proprie funzioni. La causa scatenante di tale riforma non è l’esigenza di migliorare il sistema delle funzioni ma “è la paura della firma del funzionario pubblico che affligge il funzionamento della pubblica amministrazione italiana”, questo è indicato nella relazione che accompagna il disegno di legge.
Sotto tale profilo è illuminante l’intervista rilasciata sull’argomento dal procuratore di Napoli Gratteri il 27 marzo scorso a Piazza Pulita “La riforma della Corte dei conti è un colpo di spugna (…) Si parla molto poco di questa riforma (…) i pubblici amministratori possono fare quello che vogliono senza dare conto a nessuno e senza avere un minimo di responsabilità. Nell’attuale sistema essi rispondono solo per colpa grave (…) essi risponderanno solo se fanno un danno con dolo (…) nessuno pagherà più. Pagheranno solo gli italiani (…) A vantaggio di chi? (…) Si sentono perseguitati la paura della firma, come anche sull’abuso d’ufficio che è stato abrogato, si narrano favole, il sindaco non firma nulla è il funzionario che firma e non il sindaco, comunque se il sindaco ha un dubbio può chiarirsi chiedendo al segretario comunale, alle prefetture, specialisti in diritto amministrativo”.
Sostanzialmente le modifiche proposte sulle due funzioni rispondono alla logica di creare esimenti relative alla responsabilità erariale a cui sono tenuti i funzionari pubblici che causano un danno alle risorse pubbliche, in caso di colpa grave e non hanno quindi l’obiettivo di migliorare le funzioni.
Il quadro che emerge non lascia dubbi in ordine alla possibilità di favorire l’impunità per i politici coinvolti in cattiva gestione dei fondi pubblici. Inoltre la riforma che va emergendo potrebbe indebolire il sistema dei controlli sulle risorse pubbliche, riducendo la possibilità di chiedere conto agli amministratori degli eventuali danni erariali causati. Il rischio è che si possa consentire agli amministratori pubblici di sfuggire alle proprie responsabilità senza dover risarcire adeguatamente i danni causati alla collettività dalla propria azione gravemente colposa.
Fin dalla presentazione del DDLL vanno registrate delle anomalie, non solo la disponibilità del testo si è avuta solo dopo due mesi dalla sua presentazione, ma lo stesso è stato interessato anche da varie riscritture del testo base per interventi radicali dei relatori. Inoltre, nonostante le diverse audizioni dei vertici della Corte (Presidente, Procuratore Generale) e dell’Associazione magistrati e la consegna di documenti fra cui un parere reso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti n 3/2024, che ha fornito con completezza profili di criticità, nessun elemento fra quelli proposti è stato recepito. L’impressione è che l’attività parlamentare abbia un peso relativo rispetto a decisioni assunte altrove. Tale conclusione la si trae anche seguendo il dibattito nelle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, presso le quali si esamina il DDLL. Infatti, se si analizza l’iter dei lavori e l’approvazione degli emendamenti presentati, prevalentemente, dalle opposizione, si assiste al rigetto sistematico degli stessi da parte della maggioranza senza o con limitato dibattito, ed invece all’approvazione di quelli, limitati nel numero ma molto insidiosi, presentati dalla maggioranza, anche se assolutamente improponibili (si segnala su tutti il recente sub emendamento 1.23- definito un salvacondotto per i politici), attraverso un copione scontato e prevedibile.
Nel completare preliminarmente il contesto di riferimento, è necessario segnalare anche la recente sentenza della Corte costituzionale n 132/2024 con cui la Corte, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate sulla reiterazione dello “scudo erariale”, ha formulato, in modo inusitato, vere e proprie linee direttive al legislatore riprendendo in più punti il disegno di legge richiamato.
Dai lavori parlamentari emerge che sono già stati esaminati la metà degli emendamenti e sub emendamenti presentati (n 240).
2. Contenuti della proposta di riforma della Corte dei conti.
Con l’obiettivo di modificare il sistema di responsabilità amministrativa e rendere più efficienti i controlli sulla gestione della cosa pubblica, la riforma interviene su tre linee di azione: responsabilità erariale (giurisdizione e procure), controllo e organizzazione.
2.1 Interventi sulla responsabilità erariale
Sono numerose le criticità nel testo della riforma.
- La quantificazione del danno erariale addebitabile e risarcibile. Il risarcimento non potrà superare il 30% del danno accertato e non potrà eccedere il doppio della retribuzione annua del responsabile, fissando quindi un tetto massimo per le condanne (emendamento 1.58). In caso di danni di notevole entità, la misura del risarcimento risulterà assolutamente irrilevante. Si rammenta che nella disciplina attuale la responsabilità erariale è assistita da particolari condizioni rispetto al sistema di risarcimento civilistico, non solo per il livello della colpa, (colpa grave)ma anche rispetto all’entità del danno da risarcire, visto che il giudice ha la possibilità di applicare il potere riduttivo sull’entità del danno accertato.
- L´indeterminatezza nella scriminante dell´atto vistato (si veda oltre sul controllo)
- L´avvenuto spontaneo adempimento del pagamento di ogni importo indicato nella sentenza definitiva di condanna determina la cessazione di ogni altro effetto della condanna medesima. Quindi ai sensi di questa norma, approvata con l’emendamento 1.60, qualora l’agente provveda spontaneamente al pagamento degli importi indicati nella sentenza definitiva non si avranno ulteriori ricadute in termini disciplinari o con riguardo ad altre sanzioni accessorie (Ad esempio, se il funzionario pubblico colpevole paga quanto previsto ed estingue il debito indicato, non operano le incompatibilità, potrà partecipare a concorsi pubblici).
- Il decorso del termine per la prescrizione Con un altro emendamento dei relatori approvato dalle Commissioni è stato modificato in modo rilevante il regime della prescrizione. Si prevede che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso "indipendentemente dal momento in cui l’amministrazione o la Corte dei conti ne siano venuti a conoscenza". In caso di occultamento doloso del danno, "realizzato con una condotta attiva", precisa l´emendamento, (1.61), “la prescrizione di cinque anni si considera dalla data della sua scoperta”. Il concetto di “condotta attiva” dell'interessato è tutto da costruire sul piano della giurisprudenza. Nei casi più comuni in cui l’amministrazione omette la segnalazione che aveva l’obbligo di effettuare è evidente che la fattispecie di danno è interamente ascrivibile all’inerzia ed all’incuria del titolare dell’obbligo. Pertanto l’approvazione di questa norma costituisce un ulteriore colpo alla possibilità di ottenere un risarcimento del danno erariale visto che aumenteranno i casi di prescrizione dell’azione.
- L’introduzione di uno scudo per i politici “la buona fede dei titolari degli organi politici si presume, fino a prova contraria, fatti salvi i casi di dolo, quando gli atti adottati dai medesimi titolari nell’esercizio delle proprie competenze, sono proposti, vistati o sottoscritti dai responsabili degli uffici tecnici o amministrativi in assenza di pareri formali interni o esterni di contrario avviso”. Con tale norma gli amministratori (membri del governo, sindaci, responsabili di organi regionali e provinciali), in virtù di una singolare presunzione di buona fede, non saranno più responsabili per danno erariale, qualora gli atti amministrativi siano stati approvati sulla base di pareri tecnici o amministrativi. In pratica, poiché vi sono sempre alla base come presupposti dei pareri tecnici e/o amministrativi (del segretario comunale, del responsabile finanziario, dell’ufficio tecnico) i politici saranno esenti da responsabilità per colpa grave. Saranno condannati solo nel caso venga dimostrato il dolo, ovvero l’intenzione fraudolenta. L’emendamento presentato dalla maggioranza e approvato rafforza quanto previsto dalla legge 20/1994, che già dispone, nel caso di atti rientranti nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, che la responsabilità non si estenda “ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”. Nell’attuale disciplina la buona fede deve essere documentata, invece con la recente norma non dovrà più essere provata ma sarà presunta fino a prova contraria, invertendo, pertanto, l’onere della prova, che viene posto a carico del giudice contabile. ll provvedimento estende quindi il perimetro dell’irresponsabilità contabile in modo irragionevole, in violazione dei princìpi costituzionali e dello Stato di diritto, ipotizzando una sostanziale impunità. È evidente che tale modifica indebolisce il sistema dei controlli di legalità sulla spesa pubblica, riducendo e sostanzialmente vanificando la possibilità di chiedere conto agli amministratori per eventuali danni causati all’erario e crea un vulnus all’intero sistema della finanza pubblica. È evidente che l’indebolimento dei controlli sulle risorse pubbliche consentirà agli amministratori pubblici di sfuggire alle proprie responsabilità riducendo l’effetto di deterrenza e favorendo l’elusione del principio di prudenza e precauzione che ha sempre caratterizzato la gestione della cosa pubblica, con grave tenuta del sistema democratico, in un momento in cui, l’utilizzazione delle consistenti risorse europee legate al PNRR imporrebbe l’accentuazione di tali cautele, come richiesto dall’art 22 del REG EU 241/2021, che impone agli SM di prevenire, con adeguati controlli, le frodi, le irregolarità, i conflitti d’interessi, i doppi finanziamenti, la corruzione. Dalla disciplina approvata emerge, senza ombra di dubbio, che nel caso di violazioni l’Italia risponderà, con riguardo ai comportamenti negligenti dei propri funzionari, sacrificando solo risorse del proprio erario e quindi di tutti i cittadini. Siamo molto lontani dal principio etico di chi ritiene che ad un grande potere corrisponda una grande responsabilità, si tratta invece di considerare, che a maggiori poteri corrisponda l’insindacabilità. Seguendo tale linea di intenti è possibile leggere la recente norma dell’art 8, comma 7 del DL 25/2025, che ha previsto,per i politici che si siano resi responsabili del dissesto di un ente, la candidabilità, modificando il precedente regime addirittura attraverso l’utilizzo di uno strumento d’urgenza quale è il decreto legge.
- La riorganizzazione degli uffici di procura e del loro ruolo e la gerarchizzazione delle Procure territoriali rispetto alla Procura Generale. L’emendamento 2.07, ha aggiunto l’art 2 bis, prevedendo una delega in materia di organizzazione ed efficienza della Corte dei conti, che, fra i principi ed i criteri direttivi ha indicato, al c 2, lett d,) ed e ), la riorganizzazione delle funzioni requirenti. Attualmente seguendo il codice di giustizia contabile si individua un Procuratore generale e un procuratore Regionale con vice procuratori generali e sostituti procuratori generali addetti all’ufficio per ogni Regione, con competenza esclusiva a promuovere le azioni di responsabilità nel territorio di competenza. La norma di riforma, ancora nella fase della proposta, fa riferimento alla Procura generale ed a procure territoriali (non più regionali) rette da un procuratore preposto all’ufficio (non più un procuratore regionale) sotto il coordinamento del Procuratore generale; a quest’ultimo sarebbero riconosciuti generali poteri di indirizzo e coordinamento, poteri di avocazione delle istruttorie in caso di violazione degli indirizzi ed ancora l’obbligo del PG di sottoscrivere, a pena di nullità, gli atti più rilevanti, congiuntamente al procuratore territoriale. È evidente che l’assetto indicato, qualora approvato, creerebbe un’ampia gerarchizzazione che mal si concilia con l’autonomia di cui sono dotati i magistrati, che, secondo la Costituzione, si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni (art 107, c. 3, Cost). L’assetto proposto segna un ritorno alla situazione antecedente agli anni 1991 /93 in cui la funzione requirente era accentrata, in prevalenza, presso gli uffici del Procuratore Generale a Roma. Ma è evidente, anche con riguardo alla giurisprudenza del Giudice delle leggi ed in linea con l’esperienza più che trentennale, che le Procure Regionali, nell’interesse delle medesime amministrazioni presenti sul territorio, non possono essere ridotte a involucri vuoti, ma devono continuare ad essere veri presidi di legalità sul territorio, efficaci e tempestivi non solo nella repressione ma anche nella prevenzione del danno erariale, svolgendo un fondamentale ruolo di deterrenza.
2.2 Interventi sulla funzione di controllo
La Corte dei conti svolge diversi controlli sia in sede centrale che nelle sedi regionali, la riforma si occupa del potenziamento del controllo preventivo su atti, perché direttamente collegato all’effetto esimente della responsabilità del funzionario/-agente. Ma la modifica proposta investe l’intero sistema dei controlli visto che, soprattutto in sede regionale, per la mole di atti presumibilmente in arrivo e la scarsità di risorse umane disponibili, sarebbero difficilmente eseguibili gli altri controlli.
I profili più rilevanti delle modifiche in itinere sono i seguenti.
-Si stabilisce che qualora un atto della PA superi il controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti, non sia più possibile sottoporre a giudizio per responsabilità erariale gli amministratori che lo abbiano adottato, qualora dalla sua attuazione derivino danni all’erario. È evidente che tale norma è indirizzata a definire un’esimente automatica, a prescindere dalle azioni che ne conseguono e dal comportamento del funzionario/amministratore.
-Si segnala poi l’emendamento 1.56, che modifica l'articolo 1 della legge n.20/1994, prevedendo l'esclusione della gravità della colpa, quando il fatto dannoso tragga origine, non solo dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, ma anche dagli atti richiamati e allegati che costituiscono il presupposto logico e giuridico dell'atto sottoposto a controllo. Con tale disposizione le condotte gravemente colpose e dannose saranno intangibili, indiscriminatamente, a condizione che derivino dall'atto vistato o da quelli allegati e richiamati nello stesso È evidente che c’è anche il rischio di un rallentamento dell'azione amministrativa, non in linea con la conclamata esigenza di semplificazione. E ’infatti immaginabile che possa essere necessario ampliare l'istruttoria del controllo, spinti dalla necessità di svolgere anche un ulteriore controllo sugli atti richiamati.
-Altra norma ha previsto che, trascorsi i trenta giorni indicati dal procedimento di controllo, in assenza di deliberazione da parte della Sezione, l’atto si intende registrato, anche ai fini dell’esclusione della responsabilità. Con una sorta di silenzio assenso, si considererà eseguito il controllo della Corte dei conti senza che nessun vaglio di legittimità sia stato svolto dai magistrati, estendendo il medesimo regime di esenzione previsto in caso di vaglio preventivo di legittimità. Un'estensione pericolosa, come è stato evidenziato dal parere sulla proposta di legge Foti, reso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti (n.3/2024), che ha osservato come "sul piano sostanziale, l'esclusione dalla colpa grave in caso di silenzio determina l'apodittico discarico da responsabilità rispetto ad atti per i quali non vi è stata alcuna valutazione di legittimità”. Il silenzio assenso sarà equivalente alla registrazione degli atti sottoposti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, indipendentemente dal fatto che il magistrato contabile si pronunci o meno. Si tratta di una norma che "crea evidenti profili di incertezza su dove estendere questa sorta di scudo tombale perché alla base non vi è neppure un atto di registrazione ufficiale del magistrato, ciò impedirà di procedere nei confronti dei dirigenti pubblici per colpa grave, quindi per grave negligenza, incuria, imperizia ed il relativo, eventuale danno sarà a carico dei cittadini. Tale modalità potrà essere oggetto di censure davanti alla Corte Costituzionale".
La riforma DDL 1621 del 2024 introduce, poi, in materia di PNRR e Piano nazionale di Investimenti Complementari (PNC)) un controllo preventivo eventuale su atti di aggiudicazione di appalti lavori e forniture o su atti conclusivi di affidamento a richiesta degli enti locali o delle Regioni, attraverso un macchinoso procedimento. Il controllo positivo o il mancato controllo per scadenza del termine produce l’effetto esimente della responsabilità del funzionario che ha sottoscritto l’atto, qualora derivino danni all’erario. È poi prevista un’incongruente estensione a tutti i soggetti pubblici che gestiscono il PNRR ed il Piano nazionale di Investimenti Complementari (PNC), che com’è noto sono i più disparati ed in notevole numero.
È un pericoloso ritorno al passato, a prima del gennaio 1994, quando la legge n. 20/1994 ha drasticamente ridotto i controlli preventivi della Corte dei conti a favore dei controlli sulla gestione come previsto negli altri Paesi UE e per il bilancio UE. Con riguardo alle Regioni ed agli enti locali, enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita, possono essere poi sollevati delicati problemi di costituzionalità dopo la riforma del Titolo V (legge n 3/2001). Va poi evidenziato che l’anticipazione del controllo preventivo, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto allontana i controlli della Corte dalle fasi dell’esecuzione, nelle quali si annidano inerzie, inefficienze ed altre irregolarità gestionali foriere spesso di gravi ritardi. Inoltre sottrae risorse preziose ai controlli finanziari svolti dalle Sezioni di controllo regionali sui bilanci degli enti locali e sui bilanci delle Regioni, controlli indispensabili per tenere sotto controllo gli equilibri degli enti territoriali (art. 81 Cost) e scongiurare disavanzi eccessivi. Il ruolo di ausilio tecnico dei controlli della Corte dei conti è volto in questi casi ad evidenziare, con tempestività, le criticità finanziarie della gestione, che possono emergere per indebitamenti eccessivi ed incontrollati e che necessitano di misure tempestive di risanamento stabili per evitare di compromettere il futuro degli enti e quindi i servizi ai cittadini. È infatti evidente che un indebitamento eccessivo e fuori controllo condurrà l’ente all’impossibilità di onorare i propri debiti verso i creditori, con forti rischi di dissesto degli enti medesimi.
Viene quindi in rilievo l’esigenza di assicurare la buona gestione dei conti pubblici, anche in relazione ai vincoli che derivano all’Italia dall’appartenenza all’UE, assicurando, con un controllo costante sui bilanci e sui rendiconti degli enti territoriali, che siano preservati gli equilibri delle relative finanze, per evitare disavanzi eccessivi. Si rammenta, infatti, che il Piano strutturale di bilancio di medio termine, presentato dal Governo in attuazione del nuovo Patto di stabilità individua un percorso prestabilito per la finanza pubblica (per i prossimi 4 anni estesi a 7 anni), al fine di raggiungere una riduzione del rapporto debito PIL ed una diminuzione del debito pubblico, che va garantita anche dalle amministrazioni locali che impegnano 1/3 della spesa delle Amministrazioni Pubbliche. Ciò va assicurato favorendo ed incentivando il debito buono, a sostegno della crescita e degli investimenti, rispetto a quello cattivo (indebitamento per spesa corrente), è imprescindibile l’esigenza di una rigorosa azione della Corte dei conti sotto il doppio profilo della lotta agli sprechi e della correzione dei disavanzi. Ma tale problematica sembra estranea al legislatore del DDLL 1621.
2.3 I profili organizzativi
L’emendamento 2.7, nel prevedere la legge delega, non fa cenno ad una Commissione deputata allo studio e redazione delle norme con componenti dotati di quei requisiti di tecnicità e competenza necessari per l’elaborazione di una disciplina così complessa.
La delega nelle linee direttive oltre alle funzioni di procura, in precedenza menzionale, richiama anche altri profili organizzativi relativamente alle funzioni di controllo, consultive e giurisdizionali (art 2 bis, c 2, lett a) ); il criterio proposto fa riferimento a livello centrale a Sezioni “abilitate a svolgere unitariamente funzioni di controllo, consultive, referenti e giurisdizionali ordinate in collegi con provvedimenti del Presidente della Corte (senza fare riferimento a criteri oggettivi e predeterminati, come sarebbe stato preferibile), mentre sul territorio, distingue in modo chiaro la previsione di una sezioni con funzioni consultive, di controllo e referenti e di una sezione con funzioni giurisdizionali ( art 2 bis, c 2lett c), n1.)
La differenza fra le sezioni centrali e quelle del territorio non ha motivo di esistere e può forse spiegarsi con una svista… Infatti la diversa tipologia delle funzioni giustifica la struttura territoriale indicata nelle due sezioni. Sotto tale aspetto le posizioni non sembrano ancora particolarmente chiare e denotano da parte del legislatore una scarsa conoscenza dell’Istituto su cui opera la riforma e delle relative funzioni.
Viene poi affermata, sotto il profilo delle risorse umane e strumentali, l’esigenza di rafforzare il sostegno alle funzioni consultiva e di controllo, rispondendo alla logica che anima l’intera riforma che vorrebbe attribuire alla Corte dei conti un ruolo consulenziale preventivo (si parla infatti di rilasciare pareri non più su fattispecie astratte, ma bensì su fattispecie concrete), volto ad influenzare la gestione delle Amministrazioni pubbliche, a servizio dello Stato apparato, più che valorizzare, nel ruolo indipendente e neutrale, il ruolo di garanzia della correttezza finanziaria, in ausilio allo Stato Comunità e quindi al servizio dei cittadini, come in più sentenze ha sottolineato la Corte costituzionale.
3. Le conseguenze della riforma sull’assetto dell’intero sistema
Emerge dal quadro descritto un radicale ridimensionamento delle funzioni dell’Istituto, che diventa più simile ad un’autorità amministrativa indipendente (Autority), perdendo le caratteristiche di un potere giudiziario non accentrato e gerarchizzato, ma diffuso e orizzontale.
La perdita di effettività della giurisdizione e l’indubbia limitata incidenza dell’azione di responsabilità erariale da parte delle procure contribuirebbero a marginalizzare i giudici contabili rispetto alle altre Magistrature.
È evidente che il ruolo della magistratura contabile ne esce profondamente snaturato con gravi conseguenze sui beni e sui valori che in base alla Costituzione la Corte dei conti è chiamata a difendere. Non ultimo gli equilibri di bilancio e la lotta agli sprechi, che, in un momento di risorse limitate come quello attuale, comprometterebbe, in misura sensibile, la tutela dei cittadini nella difesa dei diritti fondamentali, soprattutto a danno delle fasce più deboli della popolazione, a cui sarà sempre più difficile assicurare servizi essenziali, con la conseguenza della violazione di un principio fondamentale dello Stato di diritto, il principio di uguaglianza, previsto dall’art 3 della Costituzione, favorendo pochi a danno di molti.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
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Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quinta puntata: balbettare sul diritto internazionale
Sommario: 1. Un arresto che viene da lontano - 2. Un controverso resoconto - 3. Procura internazionale contro Governo italiano - 4. Cosa resta dello scandalo.
1. Un arresto che viene da lontano
Secondo la Corte penale internazionale, l’arresto di Osama Elmasry/Almasri Njeem si è reso necessario, ai sensi dell’art. 58 del Trattato istitutivo[1], perché a suo giudizio, una volta esaminati la richiesta e le prove del Procuratore, sussistono fondati motivi di ritenere che abbia commesso un crimine nella giurisdizione della Corte (comma 1.a) e che il suo arresto possa garantirne la comparizione personale al processo (comma 1.b.i). Il mandato era diretto, più che a privare la libertà, ad assicurare la presenza dell’incolpato davanti alla CPI.
Il 26 febbraio 2011 Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva segnalato al Procuratore presso la Corte la situazione perdurante in Libia dal giorno 15, con commissione di crimini di guerra e contro l’umanità; in questo modo era maturata la condizione per l’esercizio della giurisdizione della CPI stessa (art. 13.b)[2].
Dal 2017 il Procuratore riferisce due volte l’anno al Consiglio di sicurezza dei numerosi crimini contro l’umanità commessi in danno dei migranti. Secondo quell’ufficio, da allora al 2 ottobre 2024 più di 120.000 bambini, donne e uomini adulti “sono stati catturati, rapiti e trasferiti con la forza dal Mediterraneo alla Libia e poi detenuti in campi atroci, dove sono stati sottoposti ai delitti di prigionia, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, sparizioni forzate e altri atti inumani”[3].
L’arresto nei confronti di Njeem – così Almasri è chiamato nel mandato della CPI – è stato giustificato dall’attribuzione personale a lui di crimini di guerra (oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele, tortura, violenza sessuale, omicidio e stupro) e crimini contro l’umanità (detenzione abusiva, tortura, violenza sessuale, stupro, omicidio e persecuzione), consumati all’interno della prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2015 al 2 ottobre 2024. Tra le vittime, vi sarebbero 34 persone uccise e un bimbo di cinque anni violentato.
La prigione di Mitiga è stata costruita, dopo la caduta di Gheddafi e l’ascesa del Governo di accordo nazionale (GNA) fedele a Fayaez al-Serraj, nell’area aeroportuale omonima –scalo civile di diverse compagnie di bandiera tra cui, da gennaio 2025, di ITA-Airways – e affidata al controllo di Njeem, che ha ai propri ordini le guardie carcerarie di questa e di altre prigioni della Libia occidentale oltre ad almeno due brigate di combattenti.
Il collegio che ha emesso il mandato nei suoi confronti è costituito nella camera preliminare, la quale, per Statuto della CPI, esercita le funzioni decisionali durante l’inchiesta ed è competente ad emettere mandati di arresto e ordini di comparizione (artt. 56-58). Era presieduto da Iulia Antoanella Motoc (Romania) e composto da Reine Alapini-Gansou (Benin) e Socorro Flores Liera (Messico). Quest’ultima ha espresso un’opinione dissenziente sull’emissione del mandato nei confronti di Njeem. L’atto è stato dunque adottato a maggioranza non per un contrasto sul merito della misura, bensì per dissenso sulla giurisdizione della CPI in relazione alla correlazione tra i crimini contestati e quelli che avevano reso inizialmente procedibile l’azione del Procuratore.
2. Un resoconto controverso
Sabato 18 gennaio 2025 la camera preliminare della Corte emette la misura nella pienezza dei poteri. Dopo la sua esecuzione da parte della Digos di Torino domenica 19, la liberazione e il rimpatrio di Njeem, avvenuti nelle controverse e frenetiche ore comprese tra le 11 e le 19.51 di martedì 21 gennaio, scatenano polemiche politiche, reazioni disparate nella stampa e nell’opinione pubblica, sconcerto da parte delle istituzioni europee.
Dopo quella degli antefatti, ecco un’altra cronaca da raccontare.
22 gennaio. Njeem è atterrato da poche ore a Mitiga col Falcon messogli a disposizione dal ministero dell’interno. La CPI emette un comunicato stampa che precisa come essa abbia “continuato a impegnarsi con le autorità italiane per garantire l’effettiva esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta della Corte. In tale contesto, la Cancelleria ha anche ricordato alle autorità italiane che qualora esse individuassero problemi che possano ostacolare o impedire l'esecuzione della presente richiesta di collaborazione, dovrebbero consultare senza indugio la Corte al fine di risolvere la questione”.
Fatta questa premessa, il comunicato stampa della CPI conclude: “Il 21 gennaio 2025, senza preavviso o consultazione con la Corte, Osama Elmasry Njeem sarebbe stato rilasciato dalla custodia e rimpatriato in Libia. La Corte sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica dalle autorità sulle misure che sarebbero state prese. La Corte ricorda il dovere di tutti gli Stati parti di cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e nei procedimenti giudiziari per i crimini commessi”.
La CPI, dunque, non è ancora stata messa al corrente dall’Italia dell’accaduto.
23 gennaio. Il governo finalmente fa sentire la propria voce. Nel question time al Senato il ministro dell’interno Matteo Piantedosi offre una prima spiegazione dell’accaduto: una volta scarcerato dalla corte d’appello, Njeem, che allo stato “era a piede libero in Italia”, è stato “rimpatriato a Tripoli, per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto”[4].
Si contesta anche la tempistica riguardante la richiesta, l’emissione e l’esecuzione del mandato di cattura internazionale. La presidente del Consiglio nota che il provvedimento è scattato dodici giorni dopo l’inizio del viaggio di Njeem in giro per l’Europa, quando il libico aveva già attraversato Regno Unito, Belgio e Germania, superando i controlli, e dopo che, nei mesi scorsi, era già stato, a quanto le risulta, anche in Francia, Olanda e Svizzera.
Il ministro degli esteri Tajani, a sua volta, mette in discussione i vincoli dell’Italia contratti col Trattato istitutivo della Corte internazionale: “L’Aja non è il verbo. Siamo tra i fondatori della Carta di Roma, ma non è che chi governa l’Aja è la bocca della verità”[5].
28 gennaio. La presidente Meloni si reca da Mattarella per comunicargli di essere stata iscritta nel registro degli indagati e subito dopo, in un messaggio sui social, annuncia di avere ricevuto un avviso di garanzia dal procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi (“lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”) “per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino Almasri, avviso inviato anche ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano, presumo al seguito di una denuncia che è stata presentata dall'avvocato Luigi Ligotti .. conosciuto per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi ”. Trova “curioso” che la CPI abbia emesso il mandato mentre Njeem si trovava in Italia dopo avere “serenamente” soggiornato per dodici giorni in altri tre Stati europei[6].
29 gennaio. Salta la prevista informativa dei ministri Nordio e Piantedosi sul “caso Almasri”. Su richiesta delle opposizioni, i lavori in aula alla Camera e al Senato vengono sospesi in attesa i ministri si presentino a riferire.
31 gennaio. Rispondendo alla domanda di un giornalista, un portavoce della Commissione UE risponde: “non spetta alla Commissione europea fare rispettare i mandati di arresto della Corte penale internazionale, ma ricordiamo che nel 2023 il Consiglio europeo ha invitato tutti gli Stati membri a garantire la piena cooperazione con la Corte, compresa la tempestiva esecuzione dei mandati di arresto.
2 febbraio. Lam Magok Biel Ruei, cittadino sudanese del Darfur con status di rifugiato in Francia, deposita presso la CPI un esposto contro Meloni, Piantedosi e Nordio per il reimpatrio di Njeem, dopo le torture che questi gli ha inflitto e che aveva denunciato[7].
3 febbraio. Palazzo Chigi comunica che a riferire al Parlamento saranno i ministri Nordio e Piantedosi e non, come chiesto dalle opposizioni, la presidente Meloni [8].
5 febbraio. Dopo sei giorni di sospensione dei lavori parlamentari, i ministri arrivano a riferire. Le informative sono dense e dettagliate nella difesa dell’azione del governo. Si ascoltano critiche alla CPI, “che ha fatto un pasticcio frettoloso”, e a “certi magistrati", perché intervenuti “in modo sciatto”. I due interventi vengono spesso interrotti da proteste, da scambi di accuse urlate fra maggioranza e opposizione, a volte anche verso e dai banchi dell’Esecutivo[9].
5 febbraio. L’ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale – in base alla denuncia del cittadino sudanese – chiede di avviare un procedimento nei confronti di Meloni, Nordio e Piantedosi.
3. Procura internazionale contro Governo italiano
Il Procuratore avanza la richiesta in applicazione dell’art. 70 dello Statuto della CPI. In particolare fa riferimento alla condotta di “ostacolare... la presenza o la deposizione di un testimone .. distruggere, manomettere o interferire con la raccolta di prove” (art. 70.1.c).
Lascia un senso di intimo sconcerto leggere un atto dove un’autorità internazionale qualifica le massime cariche del governo italiano come “indagati”, per avere abusato dei loro poteri al fine di interferire e vanificare i procedimenti legali ed evitare le responsabilità, in ordine sia allo scandalo del contrabbando di Al-Masri sia ai crimini di cui Al-Masri è accusato sia all’imputazione penale di loro stessi per crimini contro i migranti[10].
Già perché, secondo il Procuratore, è dal 2017 che le autorità italiane si sono rese indisponibili a perseguire i cittadini italiani o stranieri per “indiscussi crimini contro l’umanità in danno dei migranti”. Il “caso Al-Masri” dimostrerebbe ora un salto di qualità nelle violazioni dell’Italia: “il governo e la magistratura italiani non sono nemmeno in grado di collaborare con la CPI quando quest’ultima cercherà finalmente di perseguire e giudicare in modo indipendente questi crimini”[11].
L’incapacità della magistratura è derivata da quella governativa. Gli “indagati”, infatti, non si sono resi responsabili di un’omissione, ma hanno agito in maniera attiva “per fare fallire e vanificare i procedimenti penali e internazionali”; una volta che è stato reso pubblico il loro “piano per contrabbandare un fuggitivo nel suo Paese di origine”, essi si sono mossi per attaccare la CPI, la polizia italiana “e persino per attaccare i giudici italiani, sostenendo falsamente che il Ministro della Giustizia non era stato informato e che la magistratura italiana è parziale, non indipendente e politicamente motivata”. In questo modo Meloni, Nordio e Piantedosi avrebbero cercato di eludere le indagini sulle proprie condotte a favore di Njeem e sulle proprie “complicità nei crimini contro l’umanità commessi contro i migranti nella rotta del Mediterraneo centrale”[12].
È un j’accuse implacabile, che riconducendo al 2017 l’inizio della politica italiana complice con i criminali libici fa riferimento, evidentemente, al Memorandum firmato il 2 febbraio 2017 dal presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, e dal presidente al-Serraj. L’Italia vi si è impegnata a fornire risorse al GNA per arginare in più modi “i flussi di migranti illegali” e individuare i “metodi più adeguati per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani”.
Da allora le risorse italiane sono state impiegate nel rafforzare i mezzi e le operazioni della guardia costiera locale per ricondurre in Libia i migranti diretti nel Mediterraneo verso nord e nel consolidare centri di restrizione come Mitiga. La politica del Governo Meloni avrebbe intensificato i crimini contro l’umanità favoriti da quell’accordo[13].
Nella motivazione delle proprie accuse l’ufficio del Procuratore istituito dall’ONU presso la CPI scardina la ricostruzione della vicenda fornita dall’esecutivo italiano: al ministro dell’interno che aveva giustificato l’immediatezza del reimpatrio con la pericolosità del soggetto, replica che Njeem era già stato in Italia il 6 gennaio e vi si trovava di nuovo dal giorno 18 e che comunque il suo collega guardasigilli non aveva ritenuto che tale pericolosità meritasse una rapida presentazione alla corte d’appello di Roma di un’autonoma richiesta di esecuzione dell’arresto; alla presidente del Consiglio contesta che l’asserita irritualità della comunicazione al ministro della giustizia del mandato d’arresto da parte della CPI è stata smentita dal ministro della giustizia stesso, che nella sua informativa ha motivato la propria inerzia in tutt’altro modo; a quest’ultimo addebita l’illegittimità delle sue omissioni, motivate con dichiarazioni sorprendenti (la richiesta “è arrivata in inglese senza essere tradotta”; abbiamo ricevuto “un’email informale di poche righe dell’Interpol tre ore dopo l’arresto”; “è stato fatto un immenso pasticcio”; il ministro “non è un passacarte”) e dirette a minare – insieme con le accuse di politicizzazione mosse dalla presidente Meloni – l’integrità della del sistema giudiziario internazionale e interno, quest’ultimo reo di “avere semplicemente cercato di rispettare la legge italiana”[14].
Secondo l’ufficio del Procuratore, gli indagati avevano chiesto di non rendere pubblico l’arresto di Njeem. Ciò andrebbe letto insieme con la predisposizione del Falcon 900 – che lo ha rimpatriato in serata – già all’alba del 21 gennaio, ben prima cioè che la Corte decidesse il rilascio, e con l’inattività del guardasigilli, che pure ben sapeva di essere l’unica autorità che avrebbe dovuto procedere entro 48 ore, per evitare la scadenza dell’arresto provvisorio. La decisione di non darvi esecuzione e di riportare Njeem in Libia è dipesa, dunque, “non da ragioni legali, ma politiche e criminali”.
4. Cosa resta dello scandalo
Il Trattato istitutivo (o Statuto) pone un obbligo generale di “cooperare pienamente con la Corte nelle inchieste e azioni giudiziarie” in capo agli Stati parti (art. 86). In particolare, lo Stato parte che riceva una richiesta di fermo o di arresto o di consegna “prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona”, secondo la propria legislazione e le disposizioni dello Statuto stesso (art. 59.1 St.). Solo la presenza nella legislazione interna di un divieto alla specifica richiesta di assistenza ammette la mancanza di cooperazione, ma ciò comporta l’avvio di una consultazione urgente con la Corte (art. 97e 99 St.).
Le norme dello Statuto precludono dunque al Ministro della giustizia qualsiasi sindacato politico o di legalità – quasi che, in questa seconda ipotesi, fosse egli stesso una corte di legittimità[15] – sul mandato di arresto. È vero, come egli ha dichiarato in Parlamento, che l’art. 2 della l. n. 237/2012, per l’adeguamento del nostro ordinamento allo Statuto, gli attribuisce la facoltà di concordare la propria azione con altre autorità interne, ma ciò è in funzione delle modalità di esecuzione della richiesta ricevuta, in particolare di quelle di assistenza previste dall’art. 93 St., non sulla possibilità o meno di cooperare con la Corte.
Nei confronti di Njeem non vi era una procedura di estradizione, che investe una relazione tra Stati. C’era invece una procedura giurisdizionale riconosciuta dall’Italia come vincolante mediante l’adesione al Trattato, con cui essa ha ceduto una parte di sovranità.
In relazione alla vicenda di Njeem, l’11 febbraio il Parlamento europeo ha avviato una discussione sulla “protezione del sistema di giustizia internazionale e le sue istituzioni, in particolare la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”. Nel frattempo, però, il presidente USA Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per sanzionare la CPI, per avere intrapreso “azioni illegali contro gli Stati Uniti e il nostro stretto alleato Israele”. Tra le sanzioni, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti a funzionari e impiegati coinvolti nel lavoro investigativo della Corte, oltre che ai loro familiari più stretti, e il blocco dei loro beni[16].
Il dibattito dei parlamentari europei, incentrato inevitabilmente su questo nuovo evento, non ha mancato di toccare la corresponsabilità dell’Italia nella delegittimazione degli organi giudiziari sovranazionali. Nella parte conclusiva, la necessità di difendere la CPI e il diritto internazionale in un momento in cui le dinamiche di risoluzione dei conflitti e le tendenze politiche nel mondo sembrano ignorarli è stata affermata solennemente[17].
Ma forse, a ricordarci la funzione della giurisdizione nella lotta contro l’impunità locale o globale, valgono più di ogni dibattito le parole di chi ha ancora sul proprio corpo e nel proprio animo le ferite delle violenze subite da Njeem: “molte persone che lo hanno denunciato, ora hanno paura di parlare, stiamo perdendo fiducia nelle autorità. Sono stato in quella prigione, non posso accettare che lo abbiano lasciato andare. Significa che tornerà a uccidere e torturare altre persone in Libia. Non lo posso accettare”[18].
[1] Il Trattato, o Statuto, fu firmato a Roma il 17 luglio 1998, durante la conferenza diplomatica convocata dall’assemblea generale dell’ONU nella sua cinquantaduesima sessione. La conferenza, riunita dal 15 giugno, era presieduta da Giovanni Conso ed ebbe uno svolgimento molto travagliato, con l’opposizione della gran parte delle rappresentanze partecipanti e il culmine di una conseguente mobilitazione di organizzazioni non governative nella fiaccolata che dal Campidoglio giunse al Circo Massimo in cui Romano Prodi, prossimo presidente della Commissione europea, che tanto aveva sostenuto l’evento, consegnò al rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite, Hans Corell, la petizione per l’istituzione della Corte. La conferenza, riunita nel vicino palazzo della FAO, pervenne infine, nella notte del 17 luglio, all’approvazione con 120 voti favorevoli su 147. Lo Statuto è efficace dall’1 luglio 2002. Alle iniziali 72 firme, apposte in Capidoglio, si sono aggiunte nel tempo quelle di altri 139 Paesi. Tra gli aderenti vi sono tutti gli Stati dell’Unione Europea, non invece, tra gli altri, USA, Russia, Cina, India, Israele, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Turchia.
[2] Consiglio di sicurezza ONU, risoluzione 1970, 26 febbraio 2011, S/RES/1970(2011).
[3] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, documento pubblico del 5 febbraio 2025, richiesta di avviare un procedimento ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma contro la signora Giorgia Meloni, il signor Carlo Nordio e il signor Matteo Piantedosi.
[4] Question time al Senato sul caso Almasri, 23 gennaio 2025, in YouTube, consultato il 9 marzo 2025.
[5]Almasri, Tajani: “La Corte dell’Aja non è la bocca della verità”, in YouTube, consultato l’8 marzo 2025.
[6] Giorgia Meloni indagata: “Non mi faccio intimidire”, 28 gennaio 2025 in YouTube, consultato l’8 marzo 2025.
[7] Accusa Meloni e i ministri Nordio e Piantedosi di favoreggiamento. “Mi hanno tolto la possibilità di avere giustizia”, A. Candito, in La Repubblica, 3 febbraio 2025.
[8] Scontro su Meloni i Aula, arrivano Nordio e Piantedosi, 3 febbraio 2025, in ansa.it, consultato il 9 marzo 2025.
[9] Informativa di Nordio e Piantedosi su caso Almasri, 5 febbraio 2025, YouTube, consultato il 9 marzo 2025. Il testo integrale del resoconto stenografico dei due interventi si trova in sistemapenale.it, YouTube, consultato il 16 marzo 2025. Piantedosi ha affermato, tra l’altro: “dopo la mancata convalida dell’arresto mi è apparso chiaro che si prospettava la possibilità che Almasri permanesse a piede libero sul territorio nazionale per un periodo indeterminato, che ritenevo non compatibile con il suo profilo di pericolosità sociale. Per tali motivi, il 21 gennaio ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, ai sensi dell’art. 13, comma 1, del testo unico in materia di immigrazione, e ricordo che, dall’insediamento del Governo, sono stati ben 190 i provvedimenti di espulsione per motivi di sicurezza, dei quali 24 adottati ai sensi proprio dello stesso articolo 13, comma 1. In precedenza, Nordio, dopo avere asserito che il mandato di arresto presentava delle “contraddizioni”, tanto da avere suscitato il dissenso della giudice messicana, ha riferito di avere dovuto ponderare la posizione da assumere nei confronti della richiesta della CPI. E, invocando l’art. 2 dello Statuto, ha dichiarato che il ministro della giustizia “non è un passacarte, è un organo politico che deve meditare il contenuto di queste richieste in funzione di un eventuale contatto con altri ministeri, con le altre istituzioni e con gli altri organi dello Stato”.
[10] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 59.
[11] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 55.
[12] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 55 e 58.
[13] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 45.
[14] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 37.
[15]Così A. Nappi, Caso Almasri: il Governo in Parlamento, in sistemapenale.it, 7 febbraio 2025. L’autore commenta conclusivamente: “L’opposizione ha sostenuto in Parlamento che il Ministro Nordio ha parlato come difensore di Almasri. Non è così. Il Ministro ha inscenato una requisitoria contro la Corte penale internazionale, per dissimulare la realtà di un’autodifesa rispetto a quell’ipotesi di accusa della cui esistenza ha egli stesso informato il Parlamento”.
[16]Stati Uniti, Trump impone sanzioni alla Corte penale internazionale per le indagini su Israele, in it.euronews.com, 7 febbraio 2025, consultato il 13 febbraio 2025.
[17] Così M. Mc Grath, intervenuto per la Commissione UE: “Noi nell'Unione Europea riconosciamo assolutamente l'urgenza di fornire supporto alla corte, sia finanziariamente che diplomaticamente, e continueremo a utilizzare gli strumenti a nostra disposizione per proteggere la CPI. La Commissione sta esplorando tutte le possibili vie d'azione per sostenere la Corte... perché dobbiamo vincere la lotta contro l'impunità globale. Il dibattito di questa sera mostra anche l'importanza e la complessità di garantire la protezione del diritto internazionale e del sistema giudiziario internazionale. Dobbiamo assicurarci che i nostri valori fondamentali non siano minacciati dai tentativi di minare i principi chiave del nostro ordine internazionale basato sulle regole su cui si basano le nostre relazioni internazionali, la nostra sicurezza e, in ultima analisi, il nostro futuro. Alla luce dei molteplici conflitti in corso, insieme alla tendenza allarmante a ignorare il diritto internazionale, è essenziale restare impegnati nell'ordine internazionale basato sulle regole, sostenendo fermamente le Nazioni Unite e i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite”.
[18] A. Camilli, Quello che non torna del caso Almasri, in internazionale.it, 29 gennaio 2025.
Riforma Foti amministratori pubblici esonerati, i cittadini pagano il conto.
Di fronte agli sprechi di risorse pubbliche la risposta alla domanda del cittadino “Adesso chi paga ?” è chiara: “Il cittadino stesso”.
Sommario: 1. Premessa – 2. Consistente limitazione del quantum del danno erariale risarcibile – 2.1. Limite al quantum risarcibile – 2.2. Ulteriore riduzione del limite massimo risarcibile – 2.3. Si sono salvati anche i concessionari di servizi pubblici – 3. Ma non finisce qui – 4. E ancora non finisce qui: dallo scudo alla immunità per gli amministratori pubblici: l’eldorado della componente politica – 4.1. Funzionari e/o dirigenti pubblici: Dalla “paura della firma” alla “paura degli amministratori” [1] - 4.2. Mani legate alle procure… non più tali!
1. Premessa
Prima di addentrarmi nella descrizione di quanto sta accadendo rispetto ai progetti di riforma della magistratura contabile (la Corte dei conti) che procede con iter spedito verso la sua approvazione definitiva, vorrei provare a spiegare anche a chi non è esperto del settore giuridico di cosa si sta parlando, in quanto le modifiche proposte incideranno pesantemente sulla vita quotidiana di tutti i cittadini ed anche degli stessi dirigenti e funzionari pubblici, in modo nettamente peggiorativo.
Per questo proverò a ricorrere ad una similitudine, utilizzando, il meno possibile, termini tecnici.
Tutti o quasi tutti noi cittadini viviamo la esperienza dei “condomini”, con la conseguente necessità di amministrare le parti comuni, affidando la relativa gestione ad un amministratore cui versiamo, a tal fine, una quota di denaro, il cd. onere condominiale.
Laddove l’amministratore gestisca con gravissimo disinteresse, menefreghismo ed ignoranza le risorse finanziarie che ciascun condomino mensilmente versa, sprecando le stesse senza fare eseguire correttamente gli eventuali lavori di cura e manutenzione, sarà possibile agire, da parte dei condomini, contro quell’amministratore per fare valere la sua responsabilità. È di tutta evidenza che quell’amministratore sapendo di “rischiare” anche con il proprio patrimonio personale (ove sia chiamato a risarcire un danno arrecato con negligenza al palazzo), starà attento a che ciò non accada.
Ebbene, medesimo ragionamento, sebbene con riferimento a numeri immensamente più rilevanti rispetto agli importi degli oneri condominiali, va fatto anche per la gestione della pubblica amministrazione affidata a ministeri, comuni, province, regioni, società partecipate da enti pubblici. Anche in tali casi, infatti, i cittadini, pagando le tasse, affidano ad amministratori, dirigenti e funzionari pubblici immense risorse economiche per gestire i servizi pubblici.
Anche in tale caso, allora, ci si aspetterebbe, da parte del cittadino, di potere controllare come quelle risorse finanziarie vengono gestite, di avere la possibilità di far valere la responsabilità risarcitoria dell’amministratore e/o dirigente o funzionario pubblico che, per menefreghismo, negligenza, gravissima ignoranza, spreca quelle risorse, danneggia la collettività consentendo la costruzione di opere inutili oppure di ponti pericolanti oppure non adempia correttamente ai propri doveri verso il cittadino non lavorando o lavorando male con conseguenze quali ad esempio infinite liste di attesa nella sanita, trasporti pubblici inefficienti, strade non curate e piene di buche ecc…
Fino ad oggi, la possibilità di fare valere questo tipo di responsabilità, la responsabilità, cioè, di amministratori e dipendenti pubblici per non avere gestito in modo corretto le finanze della collettività, per avere sprecato le risorse pubbliche, esiste, con la presenza di un pubblico ministero della magistratura contabile (cioè della Corte dei conti) obbligato ad avviare indagini nei confronti di chiunque sprechi le risorse pubbliche e chiamarlo a risarcire i danni arrecati. Il pubblico ministero, in pratica, sostituisce i cittadini nel controllare ed indagare l’operato degli amministratori e funzionari pubblici.
Come per l’amministratore di condominio, dunque, anche per l’amministratore pubblico, rispetto a risorse finanziarie immensamente più grandi (si pensi ai bilanci di comuni come Napoli, Milano, Roma o ministeri vari) può valere, innanzitutto, l’effetto conformativo indotto dalla paura di essere chiamato dal pubblico ministero contabile a rispondere di condotte gravemente inefficienti e disinteressate, dalla paura di rischiare, quindi, il proprio patrimonio personale, così impegnandosi a meglio operare. Laddove, poi, nonostante il pericolo della responsabilità, si operi ugualmente con menefreghismo, disinteresse e scorretta gestione delle risorse pubbliche, entra in gioco l’azione effettiva del pubblico ministero contabile, terzo ed imparziale, che ha l’obbligo, come si diceva, di intervenire a tutela dei cittadini per fare eventualmente condannare chi ha prodotto danni, sprecando le risorse pubbliche, a risarcirli alla collettività danneggiata.
Con la riforma “Foti” che si sta portando avanti, ove definitivamente approvata, non ci sarà più alcuno strumento per tutelare il cittadino dalla gestione negligente e disinteressata delle risorse pubbliche, dallo spreco delle stesse, con un esonero pressoché totale dei “politici” da ogni responsabilità e la conseguente possibilità per gli stessi di gestire a proprio piacimento funzionari e dirigenti pubblici, in violazione del principio della separazione tra indirizzo e gestione.
Come spiegherò meglio più avanti, la riforma in atto mira semplicemente a lasciare mani libere alla componente politica, prevedendo per gli amministratori una “scudo” rinforzato dalla presunzione che agiscano sempre e comunque bene (presunzione della buona fede).
2. Consistente limitazione del quantum del danno erariale risarcibile
Una prima incisiva modifica, come si diceva, è la fortissima riduzione del danno risarcibile da parte di politici, funzionari e dirigenti pubblici, anche nelle ipotesi nelle quali il danno sia il frutto di condotte gravemente negligenti, viziate da gravissima ignoranza, disinteresse e menefreghismo.
Come noto, la pubblica amministrazione è chiamata a gestire risorse finanziare elevate, rappresentate, nella quasi totalità, dalle tasse pagate dai cittadini e, da ultimo, dai finanziamenti straordinari provenienti dalla Unione Europea (il cd PNRR).
Senza dubbio si tratta di una gestione complessa che richiede da un lato, professionalità, preparazione, attenzione e dedizione al lavoro, ma che, dall’altro, induce anche un “timore” in chi opera, proprio in ragione delle elevatissime somme di denaro gestite e delle possibili altrettanto elevate conseguenze in termini di responsabilità che rischia.
Per questo motivo il legislatore, come indicato anche dalla Corte costituzionale, deve individuare un giusto punto di “equilibrio” che riduca la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.
Più banalmente, occorre individuare fino a che punto può ritenersi che l’errore ed il conseguente spreco delle risorse pubbliche da parte dei politici e dei funzionari e dirigenti pubblici possa essere “giustificato” e, dunque, non risarcito rimanendo a carico della collettività. Si tratta, cioè, di individuare il punto fino al quale i danni e gli sprechi (somme spese male ed inutilmente) derivanti da negligenza ed errore, ad esempio, nel costruire un ‘opera oppure nel gestire un ospedale o nell’erogare un servizio sanitario inefficiente con ritardi e liste di attesa infinite, possano non essere risarcite dai responsabili rimanendo a carico dei cittadini.
Ebbene, fino ad oggi, il limite oltre il quale si è ritenuto che non sia più scusabile l’errore e che, quindi, chi rompe deve pagare, deve, cioè, restituire ai cittadini le somme pagate inutilmente, le somme sprecate, è stato individuato nel caso in cui il danno sia conseguenza di un errore che sia gravissimo, frutto di disinteresse, grave ignoranza, grave negligenza, menefreghismo.
Pertanto, l’errore che non sia grave, ma che sia giustificato dalla indubbia complessità della gestione e che non derivi da disinteresse, menefreghismo, assenza sul lavoro, ma da oggettiva difficoltà della materia gestita, non comporta la responsabilità del politico o pubblico funzionario ed il danno che ne sarà derivato sarà pagato dai cittadini.
Viceversa, Il politico e/o pubblico funzionario o dirigente che, per gravissimo errore, disinteresse e menefreghismo, utilizza male le risorse che la collettività gli ha affidato per gestire un ospedale e/o un ufficio pubblico e/o un servizio pubblico (raccolta rifiuti, pulizia delle strade ecc..), dovrà risarcire il danno che ne sarà derivato, restituendo ai cittadini le risorse sprecate.
Il punto di equilibrio così definito ha retto per anni, fin dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371/1998.
Con la riforma in corso di approvazione, si mira a rompere questo equilibrio in funzione di una ricomposizione dello stesso in differente formulazione, con spiccata tendenza alla deresponsabilizzazione.
2.1. Limite al quantum risarcibile
Innanzitutto, si introduce una drastica limitazione alla risarcibilità del danno derivante da condotte gravemente negligenti e frutto di disinteresse e menefreghismo nella gestione dei servizi e funzioni pubbliche.
L’autore del danno non potrà risarcire, infatti, più del 30% del danno accertato ed i cittadini dovranno pagare il restante 70%.
Per meglio comprendere, se un amministratore pubblico (sindaco, assessore, presidente, consigliere) e/o funzionario o dirigente pubblico, per gravissimo ed inescusabile errore, dovuto, cioè, a gravissima ignoranza, disattenzione e menefreghismo, decide, ad esempio, di pagare milioni di euro non dovuti oppure costruisce un’opera inutile oppure si “disinteressa” di riscuotere i canoni della locazione degli immobili di proprietà dell’ente pubblico (e quindi di tutti noi cittadini), risponderà, nonostante la gravissima e colpevole negligenza, di non più del 30% di quel danno arrecato. Immaginando, pertanto, uno spreco, di 500.000 euro (ad es, si “regala” la gestione di una bellissima abitazione di proprietà dell’ente pubblico a soggetti “amici” impedendo alla collettività di guadagnare il prezzo di una vendita nel libero mercato), l’amministratore e dirigente e/o funzionario colpevole potrà essere condannato a restituire una somma non superiore a 150.000 euro.
Si badi, il 30% è la quantificazione massima, potendo, pertanto, essere condannati a restituire anche una somma inferiore al predetto limite massimo del 30%, ponendo la restante parte del danno (nel nostro caso euro 350 mila ove si giunga a condannare a risarcire la misura piena del 30% del danno) a carico di noi cittadini che in buona fede abbiamo affidato nelle mani di quell’amministratore e/o funzionario pubblico la gestione delle risorse pubbliche versate attraverso il pagamento delle tasse.
2.2. Ulteriore riduzione del limite massimo risarcibile
Il risarcimento potrebbe, poi, essere anche ulteriormente ridotto, laddove quel famoso 30% dovesse essere, comunque, superiore, al doppio della retribuzione di un anno del funzionario o dirigente colpevole oppure superiore al doppio della indennità fruita dall’amministratore pubblico colpevole della spesa.
In tal ultimo caso, infatti, il massimo risarcibile sarà parametrato all’importo della retribuzione lorda annuale (goduta al momento dell’illecito) e non oltre![2]
Nel nostro esempio, dunque, laddove il funzionario o amministratore colpevole fruiscano, rispettivamente, al momento dell’illecito di una retribuzione lorda annuale oppure di una indennità annuale, pari a 100.00 euro, inferiore quindi ad euro 150.000, pari al limite massimo del 30% del danno di cui all’esempio, saranno condannati a pagare un risarcimento non superiore ad euro 100.000/00 (centomila) a fronte id un danno causato pari a complessivi euro 350.000/00!
Con l’ulteriore seguente beffa per il cittadino: la norma proposta fa riferimento “alla retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo”.
Ciò significa che, se quel funzionario o amministratore che ha sprecato soldi pubblici con disinteresse, successivamente alla data in cui ha commesso gli sprechi, ottiene anche un aumento della retribuzione annuale e/o della indennità, il limite al risarcimento non verrà proporzionalmente aggiornato allo stipendio o indennità più alti successivamente conseguiti! Rimarrà fermo, infatti, come parametro del limite del risarcimento massimo imputabile all’autore del danno, l’importo inferiore della retribuzione goduta al momento della commissione dell’illecito.
Dunque, non solo godrà del limite posto in linea generale al quantum del danno risarcibile, ma, nello specifico caso appena sopra descritto, sarà anche parametrato ad una retribuzione inferiore rispetto a quella effettivamente goduta al momento della condanna![3]
2.3. Si sono salvati anche i concessionari di servizi pubblici
La cosa è resa, poi, ancora più grave dal fatto che il grave limite al quantum di danno risarcibile non riguarda solo i politici ed i funzionari e dirigenti pubblici, ma potrebbe intendersi esteso a ricomprendere anche i concessionari e/o controparti contrattuali della pubblica amministrazione.
La norma proposta, infatti, nel quantificare il limite risarcitorio in questione precisa che non può comunque superare il “il doppio della retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell'indennità percepiti per il servizio reso all'amministrazione o per la funzione o l'ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio”.
Il riferimento al “corrispettivo” per il servizio, funzione o ufficio svolti, consente di comprendere tra i destinatari del limite in questione anche i concessionari di servizi pubblici della pubblica amministrazione, anch’essi, infatti, soggetti alla possibile azione del pubblico ministero contabile ove sprechino le risorse pubbliche di cui sono, appunto, affidatari (cioè, concessionari).
Si pensi ai concessionari del servizio di gestione del patrimonio immobiliare di un ente pubblico o del servizio di raccolta dei rifiuti.
Ebbene, anche in questo caso, quel concessionario, pur essendo un privato che fruisce di beni e risorse pubbliche, non potrà essere condannato a risarcire un danno che sia superiore al doppio del corrispettivo contrattuale che fruisce per erogare quel servizio pubblico, anche se il danno arrecato alla collettività sarà molto più alto!
3. Ma non finisce qui
Responsabilità a geometria variabile: casi di esonero totale da responsabilità, nei quali il funzionario e/o il politico non è proprio chiamato a risarcire il danno pur se commesso con gravissima negligenza… (caso della ADER -agenzia entrate riscossione;
- del funzionario che conclude accertamenti con adesione, di accordi di mediazione, di conciliazioni giudiziali e di transazioni fiscali in materia tributaria;
- della Rai;
- dell’esonero dal danno per mancata copertura dei servizi minimi;
- dell’esonero da responsabilità per dissesto degli enti locali)
Vi sono casi, introdotti con la riforma in corso, nei quali il funzionario non può essere chiamato a risarcire il danno derivante da spreco inutile di risorse pubbliche, anche se lo ha commesso con una condotta inammissibilmente negligente e menefreghista del pubblico interesse.
Insomma, una responsabilità per danno all’erario a “geometria variabile” con spiccata tendenza all’esonero.
Tra i casi in questione, acquisisce notevole interesse per il cittadino, innanzitutto quello, contenuto nella riforma in esame, relativo alla ipotesi in cui il funzionario e/o dirigente pubblico concluda “procedimenti di accertamento con adesione, di accordi di mediazione, di conciliazioni giudiziali e di transazioni fiscali in materia tributaria” che si rivelino dannosi per la collettività. Si tratta della materia relativa alla gestione delle “tasse” e, più in particolare, dei casi nei quali il funzionario pubblico sbagli, per gravissimo errore, nella gestione del tributo o imposta o tassa a carico di un contribuente, ad es. avvantaggiando indebitamente il contribuente destinatario di quei provvedimenti (si pensi ad una transazione fiscale dannosa per la collettività ma indebitamente vantaggiosa per i contribuente con cui è conclusa), con disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri cittadini-contribuenti!
Già esistono, poi, norme, ad oggi in vigore, che prevedono ulteriori casi di vantaggi e forme di irresponsabilità in favore di alcune categorie di dipendenti pubblici: si pensi alla agenzia entrate riscossione (ADER): sono ben noti ai contribuenti i fastidi e le conseguenze in termini di danni patrimoniali che possono derivare da una esecuzione coattiva per cartelle esattoriali illegittime o comunque indebite. Ebbene, con il d.lgs. 110/24 recante “Disposizioni in materia di riordino del sistema nazionale della riscossione”, disciplinante, nello specifico, l’attività della sola agenzia entrate riscossione, si è escluso che si possa agire dinanzi alla magistratura contabile per far condannare ADER 8 ed i relativi funzionari) al risarcimento per i danni arrecati alle casse pubbliche (e quindi alle tasche dei cittadini) a seguito di omissioni, irregolarità e i vizi verificatisi nello svolgimento dell'attività di riscossione, salvo limitate ipotesi elencate tassativamente dalla norma[4]. In pratica se la ADER, agenzia entrate riscossione, pone in essere una esecuzione forzata indebita a danno di un cittadino/contribuente arrecandogli, oltre a gravi fastidi, anche danni patrimoniali, nessun dirigente o funzionario della ADER medesima risponderà davanti alla corte dei conti per quella condotta, anche se gravemente negligente e disinteressata.
Laddove, infatti, il cittadino/contribuente vessato riuscirà ad ottenere il risarcimento del danno che ha patito per quelle esecuzioni fiscali illegittime, quel danno sarà pagato con soldi pubblici e quindi a carico dei cittadini che pagano le tasse, senza che il pubblico ministero contabile possa chiamare in giudizio il funzionario ADER autore della condotta illecita e gravemente negligente per ottenere che restituisca ai cittadini quelle somme!
Si pensi alla Rai: Ai sensi dell’art 64 del d.lgs. 208/2021[5] L'amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della Rai-Radiotelevisione italiana S.p.a non possono rispondere del danno erariale, cioè non possono essere chiamati dal pubblico ministero contabile per essere condannati a risarcire i danni derivanti dallo spreco dele risorse pubbliche che i cittadini versano mediante pagamento del canone Rai! Eventuali spese “pazze”, di ogni genere, sostenute dalla RAI, saranno a carico esclusivo dei cittadini e delle stesse non risponderanno i vertici della RAI.
Si pensi ai politici per i quali:
1) Dl 543/96 art 3 comma 2 ter prevede l’esonero degli amministratori dal danno derivante dalla mancata copertura dei servizi minimi: L'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi[6];
2) Dl 25/2025, nel modificare l’art 248 dlgs 267/00[7], con riferimento alla responsabilità per dissesto dell’ente locale ed alla conseguente ineleggibilità ed incandidabilità decennale comminata ai politici che abbiano causato quel dissesto, ha introdotto una drastica limitazione di siffatta responsabilità, precisando che, ove anche risulti avere causato o concausato il dissesto dell’ente locale, con colpa grave e cioè per condotte gravemente negligenti e disinteressate, con evidente spreco delle risorse dei propri cittadini, non potrà essere condannato alla ineleggibilità ed incandidabilità e, dunque, non risponderà del dissesto, se avrà adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale approvato dalla Corte dei conti, ai sensi dell'articolo 243-bis, entro due anni dall'insediamento del primo mandato e a seguito di delibera della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 148-bis, comma 3, di accertamento di gravi irregolarità o criticità relative agli esercizi precedenti l'elezione. In definitiva, ove anche gli amministratori pongano in essere azioni gravemente negligenti e buttino letteralmente i soldi dei contribuenti dalla finestra causando il dissesto dell’ente locale, potranno comunque andare esenti da ogni responsabilità erariale semplicemente adottando e facendo approvare dalla corte dei conti un piano di riequilibrio, nel rispetto dei tempi normativamente previsti.
Piano di riequilibrio, con il quale, tra l’altro, le tasse, a carico dei cittadini, vengono alzate fino alle aliquote massime.
In questo modo i cittadini sono beffati due volte: non solo l’amministratore in questione avrà sprecato le risorse del bilancio dell’ente provocandone il dissesto (fallimento), senza rispondere di alcunché, ma le tasse, a causa di questa condotta che rimarrà impunita, verranno portate alla aliquota massima, aumentando il peso fiscale sui cittadini medesimi.
A testimoniare quanto la predetta norma sia “parziale” e finalizzata a consolidare la irresponsabilità della sola componente politica, rileva il fatto che analogo esonero da responsabilità non è stato, invece, previsto per i revisori dei conti, per i quali, ove concorrenti al dissesto, permangono, invece, le sanzioni già previste con la norma di cui al comma 5 bis del medesimo art. 248 d.lgs. 267/00.[8]
In un simile contesto normativo, la generale limitazione del quantum del danno risarcibile, unitamente ad ulteriori situazioni particolari nelle quali, viceversa, i funzionari e dirigenti sono totalmente esentati da ogni responsabilità, non vi sarà più alcun incentivo ad agire con diligenza, non vi sarà più il deterrente, rappresentato dalla possibile responsabilità patrimoniale personale, utile ad indurre, chi gestisce le ingenti risorse provenienti dalle tasse pagate dai cittadini, ad agire in modo diligente, in quanto ormai a pagare tutte le conseguenze delle condotte illecite sarà solo “Pantalone”, cioè i cittadini medesimi!
4. E ancora non finisce qui: dallo scudo alla immunità per gli amministratori pubblici: l’eldorado della componente politica
Con recente emendamento il progetto di legge Foti ha anche rafforzato la esenzione della componente politica da ogni responsabilità per lo spreco delle risorse pubbliche, prevedendo in loro favore una presunzione normativa di buona fede.
Si prevede, infatti, che nel caso di deliberazioni di organi collegiali aventi ad oggetto atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione: a tal proposito si precisa che la buona fede è presunta per legge!
Viene in tal modo “scudata” la posizione della sola componente politica, rispetto a quella di funzionari e dirigenti pubblici, ritenendoli esenti da ogni responsabilità, in quanto si presume la relativa buona fede!
Con una inversione dell’onere della prova normativamente imposto, sarà eventualmente compito del pubblico ministero dimostrare che, nella realtà dei fatti, quella buona fede non esisteva. Ove non si riesca a fornire in giudizio siffatta prova, quel politico non risponderà dello spreco di risorse pubbliche causato! Ne risponderà il solo dirigente o funzionario che ha dato parere favorevole, ma con il limite risarcitorio sopra richiamato, anche se la condotta dello stesso è stata viziata da gravissima negligenza, disinteresse, ignoranza e menefreghismo verso la corretta gestione delle risorse dei cittadini!
Ove, poi, si riesca comunque a provare, da parte del PM contabile, la assenza della buona fede, l’eventuale condanna dell’amministratore pubblico al risarcimento del danno sconterà i limiti quantitativi più volte richiamati e che, nello specifico caso degli amministratori, corrispondono al 30% del danno accertato o, comunque, non superiore al doppio della “indennità” percepita per la funzione svolta.
Ove, infine, dalle condotte dissennate e di spreco ne scaturisca anche il dissesto, ad esempio, del comune, gli amministratori non sconteranno alcuna responsabilità se, prima della formale dichiarazione del dissesto stesso, avranno ottenuto la approvazione di un piano di riequilibrio con il quale, tra l’altro, le tasse verranno portate alle massime aliquote, con conseguente gravissimo aumento del peso fiscale a carico dei cittadini!
4.1. Funzionari e/o dirigenti pubblici: Dalla “paura della firma” alla “paura degli amministratori” [9]
L’ordito normativo, se da un lato tesse uno “scudo” ben attrezzato per la componente politica, dall’altro colloca i dirigenti e funzionari pubblici in uno stato di evidente prostrazione.
Pur prevedendo la più volte menzionata limitazione quantitativa del risarcimento del danno cui possono andare incontro, nel contempo prevede, però, per i soli funzionari e dirigenti pubblici e non anche per i politici che concorrano nello spreco delle risorse pubbliche, la possibilità che gli venga irrogata, per i soli casi più gravi, anche una sanzione interdittiva consistente nella sospensione dalla gestione di risorse pubbliche per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni, con conseguente destinazione a funzioni di studio e ricerca ed avvio di un procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 21 d.lgs. 165/01[10].
Ne deriva, dal quadro normativo oggetto di proposta, che la posizione di dirigenti e funzionari, al cospetto della componente politica ben scudata da ogni possibile responsabilità risarcitoria e(o sanzionatoria per gli sprechi causati, sarà di evidente debolezza, con la conseguente disapplicazione del principio di separazione tra potere di indirizzo e gestione di cui al d.lgs. 165/01.
La ratio di fondo, dunque, della riforma in commento non è certo quella dichiarata del maggiore efficientamento della corte dei conti, bensì quella di un mal celato obiettivo di deresponsabilizzazione, in primis della componente politica, in favore della quale, non solo si è previsto un sistema ben strutturato di esonero e/o drastica limitazione della responsabilità erariale, senza previsione, nei loro confronti, di eventuali sanzioni interdittive previste, invece, nei confronti di funzionari e dirigenti pubblici autori di ingenti danni erariali, ma sono state, nel contempo, anche gravemente ridotte le conseguenze sanzionatorie originariamente previste per le condotte di spreco causative del dissesto degli enti locali!
V’è da dire, a tal ultimo proposito, che la previsione delle sanzioni interdittive, consistenti, in pratica, nella temporanea sospensione dalla gestione di un certo settore di coloro per i quali sia stata accertata con sentenza una condotta gravemente negligente, rappresenta una misura che, a mio modo di vedere, può giustamente compensare la previsione di un tetto massimo alla risarcibilità, da parte dei dipendenti medesimi, del danno patrimoniale accertato.
Rappresenta, infatti, misura ragionevole il destinare ad altro incarico coloro che diano prova di inefficienza e grave negligenza in un determinato settore di gestione. Si tratta, peraltro, di misura che, se da un lato non incide in modo devastatane sul patrimonio personale, come nel caso di condanne a risarcire danni milionari, dall’altro consente, comunque, di sanzionare chi opera con gravissima negligenza, così da mantenere inalterata la funzione deterrente della responsabilità per danno all’erario, prospettandosi, in caso di condanna per gravissima negligenza, sia il risarcimento di una quota minima del danno (come ampiamente illustrato sopra), ma anche l’eventuale spostamento ad altro incarico, con il rischio di perdere parte del trattamento retributivo accessorio.
Peraltro, la declinazione di siffatta misura interdittiva ben si inquadrerebbe nell’attuale sistema della responsabilità, connotato da un evidente spostamento della attenzione del legislatore dalla posizione del danneggiato, cui va prioritariamente assicurato l’integrale risarcimento del danno patito, alla posizione del danneggiante, rispetto al quale va tenuto in debita considerazione, sotto lo specifico profilo del limite delle conseguenze patrimonialmente rilevanti della responsabilità, il rapporto proporzionale tra l’assunzione delle responsabilità e l’ammontare della retribuzione erogatagli per l’assunzione di quelle medesime responsabilità.
Tuttavia, che la richiamata previsione sanzionatoria accessoria, di cui al DDL Foti, sia relativa ai soli dirigenti e funzionari pubblici e non sia estesa anche ai “politici”, adattandola ovviamente allo specifico ruolo dagli stessi ricoperto, rende il tutto estremamente asimmetrico, costruendo un sistema di immunità per la sola componente politica finalizzato a ricondurre il pallino, non solo dell’indirizzo ma anche della gestione delle risorse pubbliche nelle loro mani.
Il problema principale, però, è che, ormai, rarissimamente si discuterà di risarcimenti di danni erariali, peraltro molto contenuti nel quantum o di sanzioni accessorie interdittive comminate, in quanto, la riforma in commento si spinge fino alla definitiva riduzione al silenzio delle procure contabili!
4.2. Mani legate alle procure… non più tali!
La riforma, infatti, va molto oltre, incuneandosi nel DNA della magistratura contabile per mutarlo definitivamente in qualcosa di diverso, contrario alla nostra stessa amata Costituzione!
Fermi restando tutti i paletti, limiti e scudi previsti alla possibile responsabilità per danno all’erario, si è prevista, mediante un progetto di legge delega, sempre integrato nel Foti, la riorganizzazione della magistratura contabile, con l’evidente fine ultimo di limitare drasticamente, fino alla eliminazione sostanziale, la possibilità di azioni giurisdizionali per responsabilità derivante da sprechi di risorse pubbliche.
Se da un lato, infatti, si ampliano le funzioni di controllo e consultive, definite espressamente prioritarie in sede di delega legislativa, con la conseguenza che gli atti sui quali si interviene in tale specifica funzione saranno totalmente scudati da responsabilità per danno all’erario; dall’altro si verticalizzano le procure erariali, con poteri di accentramento e di avocazione dei fascicoli, di accesso agli atti e addirittura di “cofirma” degli atti di chiamata in giudizio da parte del procuratore generale!
Viene letteralmente stracciata con un semplice tratto di penna la caratteristica fondante di una magistratura che sia davvero tale, la indipendenza, cioè, l’autonomia e terzietà dei magistrati medesimi, subordinando i pubblici ministeri ad un vero e proprio potere di ingerenza dell’unico procuratore generale.
Ove anche i cittadini dovessero denunciare imbrogli e sprechi delle risorse pubbliche da parte di amministratori, dirigenti e funzionari, il pubblico ministero sarà pur sempre soggetto al parere, al controllo, alla valutazione e decisione di un unico soggetto, il procuratore generale, con gravissime ricadute sotto il profilo della assenza di autonomia, terzietà ed indipendenza!
Si giunge, in questo modo, ad impedire la libera ed autonoma azione tipica di una magistratura e del suo potere inquirente, in pratica si trasforma la magistratura contabile in qualcosa che non è più una “Magistratura”, sottraendo alla Repubblica un baluardo, previsto in Costituzione, a difesa del corretto uso delle risorse pubbliche, sostituendolo con una sorta di “amministrazione” e violando di netto gli art. 25 e 107 Cost. Il tutto con una semplice legge ordinaria!
Per ironia della sorte, nel progetto di legge in esame, nel trattare della riforma delle procure, si fa ricorso al termine “procura della Repubblica presso la Corte dei conti”, nonostante si stia trasformando le stesse in qualcosa d’altro, di certo non più “procura della Repubblica”!
Si tratta, forse, di un errore freudiano di chi ha compilato questo incredibile “pastrocchio” a danno di tutti i cittadini della Repubblica, quasi a testimoniare un intimo sussulto della coscienza rispetto alla consapevolezza di avviarsi, in questo modo, ad eliminare il vero baluardo contro gli sprechi delle risorse pubbliche in una nazione, come la nostra, divorata dal debito pubblico!!!
C’è da domandarsi se, una volta ben compreso in cosa effettivamente consista questa riforma della Corte dei conti e le conseguenze concrete cui dà luogo in termini di drastica limitazione della responsabilità per lo spreco delle risorse della collettività, sia ciò che davvero vuole il popolo italiano!
Senza dubbio, al momento, una riforma siffatta fornisce una risposta chiara e netta alla domanda e adesso chi pagherà? che il cittadino si pone, sgomento, di fronte ad intollerabili sprechi di denaro pubblico: Pantalone, cioè gli stessi cittadini, cioè tutti noi!
[1] Si consenta il rinvio a: FERRUCCIO CAPALBO, “Riforma della Corte dei conti: che paghi la collettività i danni causati dai funzionari incapaci - dalla "paura della firma" alla paura che i dirigenti firmino” in LEXITALIA – ottobre 2024.
[2] La proposta normativa è la seguente: 1-octies. Salvi i casi di danno cagionato con dolo o di illecito arricchimento, la Corte dei conti esercita il potere di riduzione ponendo a carico del responsabile, in quanto conseguenza immediata e diretta della sua condotta, : il danno o il valore perduto per un importo non superiore al 30 per cento del pregiudizio accertato e, comunque, non superiore al doppio della retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell'indennità percepiti per il servizio reso all'amministrazione o per la funzione o l'ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio.
[3] Vi è, inoltre, una evidente asimmetria con altri settori dell’ordinamento, come quello delle società commerciali. In tale ultimo ambito, infatti, con la recente legge 35/2025, nel modificare l’art 2407 cc, ha posto un tetto al danno dai medesimi risarcibile ove commesso con negligenza. Tuttavia, in questo specifico caso si è fatto ricorso ad un multiplo della indennità percepita molto più alto di quello previsto per i politici ed i funzionari e dirigenti pubblici dal ddl FOTI (pari al doppio della retribuzione o indennità annuale) in quanto va DA UNA MISURA PARI DA QUINDI A DIECI VOLTE IL COMPENSO“…i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l'incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso”
[4] La norma di cui all’art. 6 comma 10 e 11 reca:
Le omissioni, le irregolarità e i vizi verificatisi nello svolgimento dell'attività di riscossione non comportano l'avvio di giudizi di responsabilità previsti dal codice della giustizia contabile, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, salvo che in presenza di dolo e con l'eccezione, altresì, dei casi in cui dal mancato rispetto, per colpa grave, delle previsioni:
a) dell'articolo 2, comma 1, lettere a) e b), sia derivata la decadenza o la prescrizione del diritto di credito, per le quote affidate a decorrere dal 1° gennaio 2025;
b) dell'articolo 2, comma 1, lettera b), sia derivata, relativamente agli adempimenti posti in essere a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la prescrizione del diritto di credito, per le quote affidate fino al 31 dicembre 2024.
11. Le disposizioni del comma 10 si applicano anche nei casi di riaffidamento ai sensi dell'articolo 5, commi 1, lettera c), e 5.
[5] Art. 64. Responsabilità dei componenti degli organi della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a.
In vigore dal 25 dicembre 2021
1. L'amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a. sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali
[6] Dl 543/96 art 3 comma 2 ter prevede l’esonero degli amministratori dal danno derivante dalla mancata copertura dei servizi minimi: L'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi
[7] Art 248, dlgs 267/00 come modificato dall’art. 8, comma 7, D.L. 14 marzo 2025, n. 25: Fermo restando quanto previsto dall'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati. I sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili ai sensi del periodo precedente, inoltre, non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale nè alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Ai medesimi soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione .Le disposizioni di cui al primo, secondo e terzo periodo del presente comma non si applicano agli amministratori che, nei soli casi in cui la responsabilità sia attribuita per colpa grave, abbiano adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale approvato dalla Corte dei conti, ai sensi dell'articolo 243-bis, entro due anni dall'insediamento del loro primo mandato e a seguito di delibera della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 148-bis, comma 3, di accertamento di gravi irregolarità o criticità relative agli esercizi precedenti l'elezione.
[8] 5-bis. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, qualora, a seguito della dichiarazione di dissesto, la Corte dei conti accerti gravi responsabilità nello svolgimento dell'attività del collegio dei revisori, o ritardata o mancata comunicazione, secondo le normative vigenti, delle informazioni, i componenti del collegio riconosciuti responsabili in sede di giudizio della predetta Corte non possono essere nominati nel collegio dei revisori degli enti locali e degli enti ed organismi agli stessi riconducibili fino a dieci anni, in funzione della gravità accertata. La Corte dei conti trasmette l'esito dell'accertamento anche all'ordine professionale di appartenenza dei revisori per valutazioni inerenti all'eventuale avvio di procedimenti disciplinari, nonché al Ministero dell'interno per la conseguente sospensione dall'elenco di cui all'articolo 16, comma 25, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Ai medesimi soggetti, ove ritenuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione delle violazioni.
[9] Si consenta il rinvio a: FERRUCCIO CAPALBO, “Riforma della Corte dei conti: che paghi la collettività i danni causati dai funzionari incapaci - dalla "paura della firma" alla paura che i dirigenti firmino” in LEXITALIA – ottobre 2024.
[10] 1-decies Nella sentenza di condanna la Corte dei conti può, nei casi più gravi, disporre a carico del dirigente o del funzionario condannato la sospensione dalla gestione di risorse pubbliche per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni. L'amministrazione, conseguentemente, avvia immediatamente un procedimento ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, da concludere improrogabilmente entro il termine della sospensione disposta con il passaggio in giudicato della sentenza, e assegna il dirigente o il funzionario sospeso a funzioni di studio e ricerca.»
Sommario: 1. La proposta di introduzione del reato di femminicidio – 2. Il quadro delle prime critiche al disegno di legge - 3. Il femminicidio e il femicidio - 4. La responsabilità “di aver a che fare" con il diritto penale - 5. La dimensione politica della ribellione delle donne alla violenza maschile - 6. L’impatto sulla carcerazione a seguito del riconoscimento della rilevanza penale della violenza maschile nei confronti delle donne - 7. L’assenza di uno statuto coerente dei diritti e poteri della persona offesa dal reato e la vittimizzazione secondaria - 8. Note conclusive.
1. La proposta di introduzione del reato di femminicidio
Il 7 marzo 2025, come noto, è stato presentato in conferenza stampa dal Governo il disegno di legge per l’introduzione del reato di femminicidio.
Il disegno di legge formula un delitto autonomo introducendo l’articolo 577-bis nel codice penale che punisce con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Con la stessa formulazione si propongono aggravanti per altri reati, come maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale e lesioni.
Sul piano processuale e organizzativo, il testo mira a potenziare i diritti delle persone offese e dei loro familiari nel procedimento penale attraverso obblighi di informazione fin dal primo contatto con le autorità, il diritto a essere ascoltate dal pubblico ministero e prevede la notifica obbligatoria di atti rilevanti, come le richieste di patteggiamento. Vengono rafforzati i criteri per applicare misure cautelari e introdotti obblighi di comunicazione anche in fase esecutiva, ad esempio in caso di concessione di benefici penitenziari.
La legge prevede, infine, la formazione obbligatoria per magistrati e operatori, per assicurare un approccio competente e rispettoso delle vittime del reato, anche con lo scopo di prevenire ogni forma di vittimizzazione secondaria.
2. Il quadro delle prime critiche al disegno di legge
Le posizioni critiche sul disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio si muovono lungo i seguenti assi principali: l’inefficacia strutturale della legge penale per affrontare la violenza maschile nei confronti delle donne, l’abuso del diritto penale e l’incostituzionalità della norma, un protagonismo esacerbato delle vittime di reato, fino a considerazioni generali secondo le quali le ultime riforme in materia avrebbero alimentato la risposta carceraria senza nessun impatto né deterrente né di prevenzione generale, mentre la vittima sarebbe ridotta a oggetto simbolico della legge, privata di agency. Il carcere diventa il principale — e unico — strumento di risposta. La giustizia trasformativa e sociale sarebbe così accantonata a favore di una deterrenza punitiva che non mostrerebbe efficacia concreta.
Insomma, come si legge sempre a ogni proposta di riforma penale sul tema, dalla violenza sessuale allo stalking, il diritto penale alle donne “non serve”, sarebbe la “polpetta avvelenata” cui alcune più ingenue abboccano, e per di più si contrapporrebbe con il movimento abolizionista (del carcere).
Dall’altra parte, giuristi e penalisti evidenziano gravi criticità tecnico-costituzionali. Il nuovo reato è visto come espressione di un uso strumentale del diritto penale a fini di consenso politico, con un effetto simbolico che sovraccarica la macchina giudiziaria già ingolfata. Si sottolinea la vaghezza e l’indeterminatezza della fattispecie incriminatrice introdotta, ritenuta fondata su concetti psicologici e morali (odio, discriminazione, repressione dell’identità) che sarebbero difficili da provare in sede processuale e dunque suscettibili di applicazioni arbitrarie e soggettive.
Secondo questa prospettiva, il d.d.l. presentato ribadirebbe una deriva panpenalista, non solo inefficace e ingannevole, ma anche pericolosa per la tenuta costituzionale del diritto penale in uno Stato democratico, addirittura definita una “ordalia”, una vendetta femminista.
Inoltre, si osserva che, se davvero si volesse punire in modo autonomo l’omicidio motivato da odio verso un’identità, allora sarebbe necessario istituire specifiche figure di reato anche per omicidi omotransfobici, razzisti o abilisti.
Vale la pena ricordare sul punto che in questa direzione andava proprio il d.d.l. “Zan”, che aveva al cuore misure di natura strettamente penale, poiché volto ad ampliare l’ambito di applicazione dei reati attualmente contenuti nella sezione dedicata ai “delitti contro l’eguaglianza”, oltreché a modificare l’art. 1 della c.d. ‘legge Mancino’ (art. 5 del d.d.l.).
Nello specifico, l’art. 604 ter c.p., che già prevede invece un’apposita aggravante – applicabile a tutti i reati, fuorché quelli già puniti con l’ergastolo – che aumenta la pena fino alla metà se i reati sono commessi “per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità”, avrebbe meritato, secondo la proposta di legge, molto sostenuta anche da parte di chi oggi si scaglia contro la formulazione del delitto autonomo e dell’aggravante di femminicidio, l’aggiunta al novero delle possibili discriminazioni che la legge già prende in considerazione (razza, etnia, nazione, religione) quelle, del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità (art. 2 e 3 del d.d.l).
3. Il femminicidio e il femicidio
Il termine “femicidio”, dall’inglese femicide, è in uso sin dal XIX secolo e nel Law Lexicon del 1848 compare con il significato di “uccisione di una donna”. Nel contesto del dibattito femminista è impiegato per la prima volta da Diana Russell, scrittrice e attivista, durante la campagna per la costituzione a Bruxelles di un tribunale internazionale sui crimini contro le donne (Russell, Van De Ven, 1976). In tale contesto, secondo Diane Russell, il termine “femicidio” costituiva una valida alternativa al termine “omicidio” per indicare le uccisioni di donne “in quanto donne”: come l’espressione “omicidi a sfondo razzista” (racist murders) evidenzia il razzismo che ispira alcune uccisioni, così, secondo Russell, l’adozione del termine “femicidio” (femicide) e “femicidio nelle relazioni intime” (intimate partner femicide) avrebbe potuto condurre ad una maggiore sensibilizzazione sulle ragioni culturali e politiche che sottendono molte uccisioni di donne da parte di uomini, evidenziandone e denunciandone la motivazione misogina (Russell D. , 2012).
In Messico, l’antropologa e politica Marcela Lagarde ha approfondito e diffuso l’utilizzo del termine femminicidio per indicare il contesto generale nel quale si consumano i femicidi.
Secondo Marcela Lagarde per femminicidio si intende, dunque, l’insieme delle «condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia» (Lagarde, 2008).
Marcela Lagarde “nominando” tale contesto con il termine femminicidio ha richiamato l’attenzione sulla dimensione sociale e politica che costituisce terreno fertile per la commissione e l’impunità delle violenze maschili nei confronti delle donne nello stato di Chihuahua, in particolare a Ciudad Juárez[1], dove l’entità della questione sociale aveva raggiunto numeri tali da far parlare in Messico e poi in altri paesi dell’America Latina, di una vera e propria “guerra alle donne”, anche se ovunque sono state evidenziate preoccupazioni in merito a una risposta esclusivamente punitiva, scollegata da un rinnovamento socio-culturale (Segato, 2023).
In questa accezione ampia il termine femminicidio è stato sviluppato e utilizzato quale categoria antropologica e sociologica in altre zone del Messico e dell’America Latina, per essere recepito poi in Spagna (Instituto Centro Reina Sofìa, 211, 2007) e in Italia (Spinelli, 2008; UDI, 2004).
Il dibattito conseguente all’affermazione delle parole per nominare l’uccisione delle donne in quanto donne si è spostato anche sul piano di specifiche formulazioni di reati in molti ordinamenti, proprio a partire dai paesi latinoamericani (Toledo, 2013), avviando una riflessione sull’insieme delle pratiche sociali, politiche e pubbliche che di fatto legittimano le violenze maschili nei confronti delle donne in una dimensione di impunità, e sull’opportunità di una formulazione di fattispecie incriminatrici ad hoc, senza trascurare le misure volte ad assicurare l’effettività delle norme introdotte come disposto dalle Corti regionali per i diritti umani e dal Comitato CEDAW.
Il termine “femminicidio” ha trovato progressivamente diffusione anche nel linguaggio comune nel nostro paese, grazie all’instancabile lavoro del movimento delle donne che a partire dal 2009, in occasione dello Shadow report presentato al Comitato CEDAW per i trent’anni della convenzione Onu per l’eliminazione di ogni discriminazione nei confronti delle donne, si è mobilitato affinché la parola entrasse nel discorso pubblico, fino ad entrare ufficialmente anche nel dizionario della lingua italiana per indicare «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte» (Devoto, Oli, 2014).
Nonostante l’innegabile impegno profuso dalle studiose e dalle attiviste femministe a chiarire il significato e la rilevanza dei termini femicidio e femminicidio, il loro recepimento da parte del discorso giuridico è sempre stato particolarmente problematico e anche dileggiato con le stesse modalità che spesso si riservano a chi di noi pretende di essere nominata al femminile.
In Italia, sul piano politico, i termini femminicidio e femicidio sono stati impiegati in modo interscambiabile come etichette giornalistiche da apporre di volta in volta alle più variegate iniziative legislative, a fronte delle quale si registra sempre una diffusa reazione che invoca la generale presunzione di adeguatezza delle norme penali e procedurali vigenti ogni qualvolta, in modo trasversale tra le varie legislature degli ultimi venti anni, sono state proposte norme di diritto penale sostanziale e procedurale, lanciando allarmi per la tenuta del sistema penale liberale classico, percepito come “sotto assedio” dell’Unione Europea che progressivamente potenzia la posizione delle vittime di reato nei procedimenti penali, e come “labirinto intricato” dalle sentenze delle Corti e degli atti internazionali. Indicativo della refrattarietà della dottrina a istanze volte a riequilibrare i rapporti di potere tra uomini e donne costruiti dal diritto è sicuramente il dato storico che i timori di un eccessivo interventismo della Corte europea dei diritti umani si siano diffusi nella dottrina proprio quando i giudici di Strasburgo hanno cominciato ad aprire brecce nel muro di indifferenza che storicamente ha occultato la responsabilità statale dinanzi alle violazioni dei diritti fondamentali delle donne.
4. La responsabilità “di aver a che fare" con il diritto penale
Il disegno di legge che oggi propone, tra l’altro, il delitto di femminicidio, come ogni proposta di legge nel nostro ordinamento, sarà discusso e posto di fronte alle contraddittorie e gravi ulteriori proposte legislative che minano la sicurezza sociale delle donne, per esempio non riconoscendo pienamente diritti e libertà sessuale e riproduttiva o perseguitando in sede civile coloro che cercano di difendere i figli da una genitorialità controllante e coercitiva. D’altro canto, la riforma delle disposizioni in materia di violenza sessuale ha atteso il 1996 per essere approvata ben diciotto anni dopo la proposta di legge di iniziativa popolare, attraversando cinque legislature.
Sulle disposizioni proposte dal disegno di legge, nello specifico, mi sto ancora interrogando e lo sto facendo insieme ad altre donne con cui sono in relazione politica, in particolare le operatrici attiviste, le avvocate e le donne accolte dai centri antiviolenza dell’associazione Differenza Donna: quotidianamente infatti, e a partire dall’esigenza concreta di misurarci con il bisogno specifico, e sempre diverso, di strategie elastiche e ridefinite caso per caso al fine di liberarsi da una situazione di violenza maschile (espressione che ancora ci dice in modo realistico chi agisce la condotta violenta), ci domandiamo “dell’utilità e del danno” delle tante disposizioni introdotte dal 1996 in poi, sulla loro efficacia deterrente, sull’effettività della protezione, sulle dinamiche processuali che continuano a imbrigliare la libertà delle donne e a mortificarne la dignità di soggetto di diritto uguale davanti alla legge[2].
Questa riflessione non può mai ignorare che il diritto penale storicamente ha codificato la violenza maschile nei confronti delle donne, nel senso che ne è stato architrave legittimante, con tracce culturali ancora vivide nella giurisprudenza di merito contemporanea, nella quale a volte riacquistano vigore le motivazioni che fondavano la tollerabilità sociale e giuridica della violenza nei confronti delle donne.
Pertanto, il diritto penale non è il solo strumento da invocare, ma neppure può rimanere ideologicamente esente da riscrittura e nuova problematizzazione e, in particolare, non può restare campo minato che impedisce il pensiero ogni qualvolta siano le donne il soggetto di diritto cui sono riconducibili i beni giuridici di rango costituzionale che si assumono violati.
La legge, in particolare quella penale, in nessun ordinamento ha eliminato la violenza maschile nei confronti delle donne fino alle sue conseguenze letali, così come, del resto, il reato di tortura, laddove introdotto, non ha posto fine alla inumana sopraffazione ai danni di chi rimane nella disponibilità solo della sua nuda vita nelle mani del potere statale, né, d’altra parte, il diritto internazionale e il diritto penale internazionale sono stati capaci di eliminare la guerra e i suoi spietati crimini, ma non per questo è possibile affermare, in tutta onestà intellettuale, che le disposizioni negli ambiti citati non abbiano prodotto un cambiamento degli ordinamenti e delle società attraverso meccanismi che assicurano l’accountability individuale e pubblica.
Non è dettaglio di contorno poi considerare che proclamarsi contro il diritto tout court non ha mai significato per le donne una estraneità del diritto stesso alla propria vita: ogni norma giuridica produce e ha prodotto un impatto su tutte e ciascuna, e non riesco a riconoscere alcun potenziale trasformativo della sola parola “contro” che non si interroga sulla possibilità di una riscrittura delle norme, comprese quelle penali, e non perché io “creda” nel diritto: la responsabilità di mettere mano alle norme, comprese quelle penali, è radicata proprio nella consapevolezza della loro fragilità e vischiosità, così come delle trappole delle procedure, consapevolezza che deriva dalla pratica di avvocata che non consiste, come ci ricorda la Suprema Corte, in una prestazione privatistica, ma in una funzione pubblica strumentale al corretto esercizio della giurisdizione nei confronti di tutte le parti[3], comprese le donne, esposte costantemente a un doppio standard di valutazione in qualsiasi ambito del diritto (civile, minorile, penale, finanche amministrativo) ci muoviamo.
Dunque, insieme all’opportunità o meno della formulazione del nuovo reato o dell’aggravante ipotizzata sarà necessario discutere e ragionare insieme sulle altre norme di diritto sostanziale e processuale necessarie affinché si definisca una cornice più complessa che metta a sistema tutte le modifiche normative che si sono susseguite negli ultimi anni, ma questa volta prevedendo un cospicuo investimento di risorse finanziarie nel sistema giudiziario, in affanno certamente, ma non perché ingolfato dalle denunce delle donne, come si legge da più parti, ma in quanto deprivato di spazi, mezzi, magistrati e personale sufficiente ormai da decenni.
5. La dimensione politica della ribellione delle donne alla violenza maschile
Preliminarmente a qualsiasi considerazione sulla proposta legislativa in questione, per me è importante riflettere sulla reazione scandalizzata che essa ha scatenato e sui tanti luoghi comuni che costantemente ritornano al centro della discussione quando si ripropone il dibattito su legge penale e diritti delle donne.
Innanzitutto, la violenza maschile nei confronti delle donne viene puntualmente mistificata: è bene chiarire che non stiamo parlando di corteggiamenti quando le donne denunciano atti persecutori, non stiamo parlando di litigi e conflitti irrisolti dalla psicanalisi quando le donne si rivolgono alla giustizia penale, non stiamo parlando di libertà sessuale repressa o conservatorismo bigotto quando si pretende di restituire centralità al consenso nelle relazioni sessuali. Bisognerebbe forse cominciare a pubblicare i capi di imputazione oggetto dei processi penali pendenti dinanzi agli uffici giudiziari del nostro paese e ciò per consentire di comprendere in concreto, fuori dagli esercizi di stili, la molteplicità di condotte che le donne ancora subiscono nelle relazioni da parte dei propri partner ed ex partner a prescindere dall’estrazione sociale, culturale e provenienza geografica, età e condizioni materiali.
Sono capi d’imputazione difficili da leggere e a volte anche per l’ordinarietà delle condotte, che spiazza, perché non racconta dell’eccezione, di contesti che si possono allontanare da sé in quanto marginali, che consentono di fare differenze tra chi agisce, subisce e chi legge: sono capi di imputazione che raccolgono fatti che “ci dicono” di tutti e tutte, dello stato delle relazioni nella nostra società, ci parlano dei vicini di casa, degli amici di famiglia, e forse di ciascuno/ciascuna di noi. E questo è faticoso da accettare, quindi si normalizza, si mistifica per non vedere cosa non va non solo nelle relazioni degli altri/e ma anche nelle proprie.
Sono capi di imputazione che, a prescindere dall’esito processuale, comprovano che le donne non accettano più violazioni dei propri diritti e libertà per un tempo prolungato, perché si riconoscono come soggetto e si occupano della realizzazione della propria identità; riconoscono le dinamiche di oppressione che vivono, provano a svelarle stando nella relazione, ma poi si ribellano e “si portano via” da quella situazione, nominandola sempre di più per quello che è: violenza sessista. Altra storia è la nominazione istituzionale che ricevono in risposta ciascuna nella propria esperienza di ribellione.
Non intendo dunque qui scendere nel dettaglio dei fatti oggetto di denuncia, per rispetto di tutte e di ciascuna: dal femminismo ho appreso che la realizzazione piena della mia umanità viene dal riconoscimento della forza trasformatrice della parola usata, da una parte, per “riparare” nella relazione con le altre donne al tentativo di annientamento della propria personalità, dall’altra per ribellarsi politicamente alle forme che assume il patriarcato privato e pubblico.
I fatti di violenza costituiscono il prezzo che le donne pagano per la ribellione dinanzi a chi ne vuole annullare identità e libertà, autodeterminazione e vitalità, sono causa di un trauma loro prodotto deliberatamente mediante condotte che in qualsiasi altro contesto e relazione sociale ormai sono ritenute inammissibili, essendo giunti anche a una censura netta del presunto monopolio statale della forza e della violenza.
Dunque, ciò che mi interessa, al di là di quello che la singola parola racconta, è il coraggio stesso della parola (dal racconto tra le pari alla denuncia in senso tecnico, passando per la rivendicazione pubblica), che fa politica perché apre al mondo ciò che si ritiene debba, ancora, rimanere privato.
Che tale parola femminile di ribellione trovi spazio anche nelle aule giudiziarie penali non può dirsi insignificante passaggio, poiché ha contribuito e contribuisce a ristabilire un equilibrio tra le voci ascoltate che somiglia sempre di più a un’idea di giustizia equa, che quasi mai, come più avanti si approfondisce, sfocia nella detenzione, poiché le pene sono generalmente contenute nelle soglie che ne consentono la sospensione oppure l’applicazione di pene alternative al carcere.
Per l’obiettivo di una giustizia anche per le donne, d’altra parte, lo studio e la pratica processuale non mi consentono di confidare sull’apporto della “dottrina autorevole” che oggi si scandalizza dinanzi alla proposta di una fattispecie incriminatrice che menziona l’odio o la discriminazione verso la donna o la volontà di reprimerne la libertà e l’identità: la pubblica indignazione manifestata mi induce a riflettere infatti sul contributo proprio di tale dottrina alla cultura giuridica che oggi ancora agisce da detonatore di ogni avanzamento sociale e giuridico delle donne dentro e fuori dai tribunali, dentro e fuori dall’accademia, dentro e fuori dai libri sui quali apprendiamo il diritto, e dove si legge che ritenere l’espressione “diritti dell’uomo” non equipollente a “diritti umani” sarebbe solo una questione di moda utile a soddisfare «un esacerbato formalismo femminista»[4].
Quando si parla di uguaglianza giuridica davanti alla legge nel nostro ordinamento, a maggior ragione davanti alla legge penale che, come ci hanno ricordato da più parti proprio negli ultimi giorni, deve essere caratterizzata da tassatività e determinatezza ed è soggetta al divieto di analogia, bisognerebbe partire dall’articolo 575 del Codice penale che, ancora oggi, è formulato prevedendo la punizione di “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Questo delitto è spiegato da sempre nei manuali chiarendo che oggetto materiale è “un uomo” che indica ogni “essere umano”, “qualsiasi uomo” e l’evento prodotto è “la morte dell’uomo”, oggetto giuridico è “un altro uomo”, ovvero la vita di cui è titolare “qualunque uomo”[5], senza sentire mai il bisogno di contestualizzare e riattualizzare la formulazione della fattispecie incriminatrice e chiarire che dovrebbe intendersi superata la prospettiva per la quale la nozione di uomo si identifica con quella di essere umano in generale[6].
Sarebbe quindi importante riflettere sulle ragioni storiche, politiche, giuridiche per le quali ancora oggi l’articolo 575 del codice penale sia così formulato e sul motivo per il quale non disturba nessuno/a che la donna non sia espressamente nominata, e ciò costituirebbe riflessione utile anche per il superamento delle logiche binarie, ricorrendo per esempio alla parola “persona”, già usata nel Codice penale per nominare il titolo XII del libro secondo (reati contro la persona), scelta linguistica che ci conferma, insieme agli altri pochi riferimenti alle donne nel codice penale, come individuare quale soggetto passivo del reato l’uomo, piuttosto che l’uomo e la donna o in generale una persona, non è stata storicamente motivata dal registro linguistico all’epoca in uso, (anche perché ci si è interrogati a lungo sulla posizione di soggetto passivo del reato nel caso di uccisione del monstrum partorito “da donna”), ma deliberata decisione dettata dal maggior valore della vita maschile a fronte di quella femminile, per la quale fino al 1981 non valeva nella dimensione privata l’habeas corpus, in quanto esposta all’ira funesta del padre, fratello o marito colpiti nell’onore per l’esercizio della sua libertà non contemplata dall’ordinamento.
6. L’impatto sulla carcerazione a seguito del riconoscimento della rilevanza penale della violenza maschile nei confronti delle donne
Secondo le ulteriori critiche sollevate, la logica sottesa al disegno di legge in esame alimenterebbe politiche di “incarcerazione di massa” così come avrebbero fatto le riforme legislative intervenute in tema di violenza maschile nei confronti delle donne negli ultimi anni. La proposta della pena dell’ergastolo — già previsto nel nostro ordinamento per l’omicidio aggravato — viene letta da molte voci come un arretramento rispetto alle battaglie per il superamento del carcere, e come un’ulteriore manifestazione del populismo penale.
Il movimento abolizionista del carcere e i movimenti femministi si intersecano, e non può essere silenziato con poche battute l’enorme contributo quotidiano da parte femminista a sostenere le ragioni di un superamento del modello carcerocentrico, considerato tutto il compendio di mobilitazione femminista per la denuncia politica di ogni forma di violenza istituzionale.
Tuttavia, invece di duellare “su chi è in possesso della verità” come spesso accaduto tra movimento abolizionista e movimento femminista[7], sarebbe auspicabile riflettere sul fatto oggetto di problematizzazione: quando si discute di politiche pubbliche e di diritto penale in tema di violenza maschile nei confronti delle donne, sarebbe prioritario partire dalle condizioni primarie trasversali e diffuse che rendono le donne particolarmente esposte all'uso della violenza psicologica, fisica e sessuale fino all’uccisione da parte degli uomini. Riprendo sul tema il dubbio che avanzava Gerlinda Smaus la quale sottolinea come ancora agisca da fattore di disturbo nel contesto del movimento abolizionista, che per lo più si mobilita per la liberazione degli “altri” rispetto a chi prende parola, cioè di coloro che, marginalizzati e razzializzati sono più vulnerabili alle pratiche selettive della criminalizzazione e carcerazione, il fatto che le condizioni primarie sottese alla violenza sessista non consentono alterizzazioni, poiché ci dicono di noi tutti/tutte.
La promozione di un quadro normativo effettivo ed efficace anche in termini di deterrenza ci viene indicato dalla Corte europea dei diritti umani, che penso rimanga autorevole riferimento tanto se obbliga l’Italia a punire la tortura[8] quanto se impone l’adozione di norme penali deterrenti in tema di violenza nei confronti delle donne[9], quale uno dei pilastri della politica integrata di prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne. In rapporto a questa finalità si condivide che il sistema delle pene andrebbe superato nelle sue logiche non conformi ai principi costituzionali, e ciò sotto un profilo sistemico e complessivo, anche alla luce dell’esperienza delle donne stesse che, dopo aver denunciato e ottenuto una condanna non possono permettersi la leggerezza del disinteresse, a causa di un diritto delle relazioni familiari tutt’altro che mite. E tuttavia ciò non può significare per l’ordinamento rinunciare a tutelare da violazioni di diritti e libertà fondamentali, ma vanno ridisegnate le forme della reazione dell’ordinamento nel rispetto dei principi costituzionali.
Non corrisponde, inoltre, a un dato di realtà correlare i reati specifici e le misure di protezione introdotti dalle riforme in materia all’incremento della popolazione detenuta, tantomeno è corretto affermare che le misure normative volte a prevenire la violenza nei confronti delle donne si inserisca nella cornice del populismo penale. Sul piano della realtà sociale che si vuole descrivere è bene ricordare che la pena non interessa alle donne che denunciano il proprio partner o ex partner, poiché la motivazione che muove all’accesso alla giustizia è la paura concreta per la propria integrità psicofisica; dunque, primario obiettivo è la prevenzione primaria ossia la protezione da ulteriori forme di violenza che si può concretamente perseguire con divieti disposti dall’autorità giudiziaria. A ciò deve aggiungersi però il superamento di una lettura individualista della violenza maschile nei confronti delle donne e la promozione di sicurezza intesa come risultato della condivisione e della co-gestione dello spazio pubblico nel quale il benessere individuale è tassello del più generale benessere collettivo. Ciò significherebbe rifiutare l’accettabilità sociale delle logiche omertose che spesso, a livello comunitario, intrappolano le donne nelle relazioni violente: per le singole sembra non esserci via di uscita perché c’è un muro di silenzio che giustifica, normalizza e rafforza l’autore aggravandone il controllo e la forza coercitiva. V’è inoltre l’indifferenza e la de-responsabilizzazione collettiva per la sofferenza individuale, di cui ciascuno/ciascuna risponde per non aver fatto abbastanza per prevenire un danno, nella logica stereotipata della considerazione per cui “forse se l’è cercata”, con i suoi comportamenti, con le sue scelte, anche con la sua fragilità, di cui si è sempre un po' colpevoli.
Una volta frenata la condotta violenta, le donne chiedono di essere credute. Chiedono che la propria vita, schiacciata dalla sopraffazione, possa essere riscritta con parole di giustizia. Cercano risarcimento e riparazione, perché questa è la risposta che la cultura giuridica ha formulato ripudiando ogni forma di vendetta e mirando a ricostruire rapporti sociali prima segnati dalla violenza attraverso il riequilibrio e il riconoscimento del danno prodotto, salvo poi tutto ciò essere usato in sede giudiziaria come pretesto per screditare l’attendibilità delle donne che hanno osato chiedere un risarcimento del danno subito. Sul punto, è bene evidenziare che dalle prime attuali documentazioni dei percorsi di recupero dedicati agli autori del reato che ritroviamo nei fascicoli (in attesa di una effettiva implementazione dei percorsi di giustizia riparativa) emerge una generalizzata tendenza a giustificare i comportamenti addebitati al condannato alla luce delle condotte delle donne, facendo “rientrare dalla finestra” tutte quelle argomentazioni colpevolizzanti delle donne faticosamente espunte dal processo penale, interferendo così con l’accertamento dei fatti e delle responsabilità contenuto nelle sentenze di condanna, mai incoraggiando operativamente una dimensione di consapevolezza del disvalore delle condotte commesse, bensì alimentando, al contrario, mistificazioni delle stesse quali reazioni tutto sommato “comprensibili” alla delusione, al rifiuto, alla ribellione delle donne.
È infondato, inoltre, su un piano statistico sostenere che la legislazione penale intervenuta in materia di violenza maschile nei confronti delle donne sia causa in concreto di politiche carcerarie inflazionate: prima del 2001 si interveniva solo quando la condotta era ormai gravissima, quindi non solo prolungando l’esposizione al rischio di atti lesivi della vita, ma anche ricorrendo alla misura cautelare in carcere, cioè con la massima privazione della libertà personale possibile durante il procedimento penale prima dell’accertamento della responsabilità penale.
Solo con la legge n. 154 del 2001 e poi con il decreto-legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009, che ha introdotto il reato di atti persecutori, sono state disciplinate misure che — dopo l’abbandono della custodia cautelare in carcere prevista ex lege per la violenza sessuale, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale — hanno risposto in modo più articolato e coerente alle esigenze di prevenzione primaria.
Tali misure si collocano nell’ambito di una gradualità effettiva del sistema, da presidiare anche in sede di discussione del nuovo disegno di legge che propone automatismi nella fase cautelare, in quanto ispirata al principio del minimo sacrificio della libertà personale e al principio di adeguatezza, secondo cui la misura deve essere proporzionata alla natura e all’intensità delle esigenze cautelari da soddisfare, in conformità agli articoli 13, primo e secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.
Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, al 31 luglio 2024, su una popolazione carceraria totale di 61.133 detenuti, 15.285 (circa il 25%) erano in custodia cautelare, dato che indica una diminuzione complessiva della percentuale di detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria, che nel 2010 era il 42% della popolazione detenuta. I dati non ci dicono quanti di questi detenuti lo siano per reati che rilevano in tema di violenza nei confronti delle donne; tuttavia, si consideri che la custodia cautelare in carcere generalmente è risposta, prevista dal codice di procedura penale, alle violazioni delle restrizioni imposte con l’applicazione della misura cautelare specifica del divieto di avvicinamento (art. 282-ter c.p.p.), misura che ha percentuali di applicazione che oscillano da 9,2% fino al 14,9%, mentre l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) rappresenta la quota minore delle misure cautelari (tra il 3,3% e il 5,6% in generale), in calo netto nelle percentuali negli anni recenti (anche sotto l’1% in alcuni casi)[10]. Si consideri che questi dati non sono disaggregati dunque potrebbero riguardare anche situazioni di violenza domestica, per esempio, dei figli contro i genitori.
In generale, rileva evidenziare che si registra una diminuzione significativa del numero assoluto di misure cautelari emesse nel quadriennio 2020–2023 rispetto al biennio precedente e, in generale, secondo i dati statistici disponibili al 31 dicembre 2024, la popolazione detenuta in Italia è costituita da persone perseguite per reati che non riguardano né la sfera familiare né quella interpersonale. I detenuti al 31 dicembre 2024 erano ristretti prevalentemente per reati contro il patrimonio come furti, rapine, truffe (35.287 persone). Seguono i reati in materia di stupefacenti (21.131 detenuti), che da anni costituiscono un asse portante del sistema penale e penitenziario italiano. A questi si aggiungono 9.303 persone detenute per associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.), 9.242 per violazioni alla legge sulle armi, 2.716 per reati contro l’ordine pubblico, 11.214 per reati contro la pubblica amministrazione[11]. Questi dati confermano che l’universo penitenziario italiano continua a essere strutturato attorno a reati economici, di criminalità organizzata o di sicurezza pubblica.
Nel 2022 risultano rilevate sul territorio italiano 10.146 notizie di reato a carico di uomini per delitti di atti persecutori, maltrattamenti contro familiari o conviventi, percosse, violenze sessuali, omicidi consumati, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio[12].
Rileva, infine, evidenziare che la maggior parte delle pene di reclusione applicate in caso di condanna per i reati prevalentemente contestati nei casi di violenza maschile nei confronti delle donne sono sotto i due anni, sono sospese, solo a volte condizionate al risarcimento del danno e, fino ai quattro anni beneficiano dell’esecuzione mediante pene alternative (ad eccezione dei reati ostativi, tra cui la violenza sessuale o la violenza assistita di cui all’art. 572 co. 2 c.p.).
Se ne ricava, pertanto, un quadro nel quale la violenza maschile nei confronti delle donne costituisce in realtà una parte minoritaria delle condotte effettivamente punite con il ricorso alla carcerazione.
7. L’assenza di uno statuto coerente dei diritti e poteri della persona offesa dal reato e la vittimizzazione secondaria
Vengo all’ultimo tema toccato dal dibattito in corso, ossia il presunto protagonismo della vittima di reato, denunciato come segno di un arretramento culturale perché restaurerebbe una struttura dei rapporti sociali fondata sul modello della vendetta insieme al correlato paradigma vittimario di analisi dei conflitti sociali.
Il disegno di legge proposto contiene dei meri correttivi, pur fondamentali, a lacune informative del sistema processuale che ancora, dopo i numerosi interventi legislativi, non ha saputo costruire uno statuto sistematico e coerente di diritti, facoltà e poteri per la persona offesa dal reato che rischia di rimanere all’oscuro delle scelte processuali dell’indagato/imputato, anche quando le stesse scelte possano avere un impatto sulla propria incolumità personale.
In questo contesto, il ruolo della difesa tecnica è quello di garantire che il processo penale non si faccia strumento di un nuovo silenziamento istituzionale delle donne, ma sia, al contrario, luogo di riconoscimento della loro parola. Un ruolo che va esercitato non in modo assolutistico o dogmatico, ma nella relazione, nell’ascolto delle scelte soggettive, anche quando consistono nel desistere, nell’arretrare, nel rinunciare. Perché non di rado quelle scelte sono frutto di una sopraffazione ancora in atto, o segnano invece un oltrepassamento, una nuova direzione, una libertà.
Neppure questa scelta è neutra quando a compierla sono le donne. Se una persona offesa da un reato di truffa (art. 640 c.p.) decide di rimettere la querela nei confronti dell’imputato, nessuno si azzarda a generalizzare, sostenendo che “tutte le vittime di truffa mentono”. Al contrario, quando una donna sceglie di non proseguire l’azione penale per violenza subita, sa che quella decisione —mai leggera come non lo è la denuncia querela — avrà un impatto che travalica la sua vicenda personale: alimenterà, suo malgrado, quel senso comune diffuso secondo cui le donne denunciano “strumentalmente”, per vendetta, interesse o calcolo. Una rappresentazione tossica e persistente, che finisce per ricadere su tutte secondo una generalizzazione che non si rileva per altre fattispecie incriminatrici.
L’altra questione sollevata è quella della prevalenza di un paradigma vittimario nella costruzione pubblica dei problemi sociali: un approccio che innegabilmente oggi tende a patologizzare questioni strutturali, a ridurre i conflitti politici ad antagonismi puntuali, privandoli di spessore trasformativo. Su questo, ritengo sia fondamentale chiarire che non è certo addebitabile alle mobilitazioni per politiche sistemiche di prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne l’incapacità politica attuale generalizzata di assumersi la responsabilità collettiva dei conflitti sociali, della loro analisi e della loro trasformazione, anzi, nella mobilitazione politica femminista sulla violenza di genere v’è ancora traccia di una politica delle relazioni e della complessità che altrove è difficile scorgere.
È giunto però il momento di un riconoscimento pubblico alle donne che si ribellano alla violenza della piena dignità di soggetto politico del nostro tempo accantonando l’immagine di simulacro senza voce della miseria femminile che temiamo ricada su di noi ogni qualvolta non mettiamo distanza tra noi e “queste” donne viste solo come oggetto della violenza prima e dell’intervento pubblico poi.
A fronte di violazioni gravi di diritti e libertà fondamentali, quale risposta l’ordinamento dovrebbe predisporre? Tra le righe di tanti commenti critici io leggo chiaramente che quanto le donne denunciano non è riconosciuto, davvero, in termini di compressione di beni giuridici ritenuti da tutelare: in fondo, rimane forte il preconcetto che si tratti “di questioni di famiglia”, di “liti”, di “panni sporchi da lavare in casa”.
Accanto alle fattispecie incriminatrici, sarebbe importante riflettere inoltre anche sui meccanismi normativi e pratici in grado di monitorare e sanzionare l’inadempimento delle autorità pubbliche di fronte alle richieste di protezione in caso di violazione dell’obbligo di dovuta diligenza, comportamenti discriminatori, dilatori, di sottovalutazione o che scoraggino l’accesso alla giustizia da parte della persona offesa. Norme di questo tipo, che spostano il fuoco dell’attenzione sulle responsabilità istituzionali, possono rappresentare un ulteriore importante strumento per promuovere un cambiamento culturale profondo. Un cambiamento che chiami le autorità giudiziarie a riconoscere, non solo nei singoli casi concreti, ma anche nell’operato delle autorità coinvolte le connessioni tra la violenza perpetrata nella dimensione privata e quella tollerata o prodotta in ambito pubblico, interrogandosi sulle strategie per spezzare questa continuità e superare le cattive prassi che ostacolano la protezione effettiva e producono vittimizzazione secondaria.
Quest’ultimo fenomeno tanto è stato documentato, anche in sede istituzionale dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne[13], in particolare in relazione alle cattive prassi delle forze dell’ordine e alla vittimizzazione secondaria nel processo, ma un ulteriore approfondimento meriterebbe anche il ruolo dell’avvocatura, oggi scagliata compatta contro l’ipotesi di un reato autonomo di femminicidio intesa quale tradimento di una prospettiva liberale e garantista del diritto penale, ma che nelle aule giudiziarie perpetua una strategia difensiva basata sul discredito, sulla colpevolizzazione della vittima, sulla mistificazione e sottovalutazione della offensività delle condotte oggetto di accertamento, allorché una difesa tecnica consapevole che riconosce le dimensioni della questione sociale della violenza maschile potrebbe essere di grande ausilio, soprattutto nella fase di attualità delle condotte aggressive: porre un freno ai propri assistiti, non avallarne le motivazioni e definire strategie difensive volte alla maturazione della consapevolezza delle lesività delle proprie condotte non significa non fare gli interessi del proprio assistito o non chiedere l’assoluzione laddove non ci sia la prova della responsabilità. Significa. al contrario, contribuire ai presupposti per un percorso autentico di riparazione e rieducazione.
8. Note conclusive
Non esistono soluzioni semplici a fenomeni strutturali come la violenza maschile contro le donne. Ma è certo che il diritto, anche quello penale, svolge un ruolo che non è mai neutro. E non lo è neppure l’inerzia legislativa o istituzionale così come non lo è un generalizzato rifiuto di definire una condotta offensiva di beni costituzionalmente protetti.
La discussione sull’introduzione di un reato autonomo di femminicidio, con tutte le sue ambiguità, è oggi uno spazio politico che, come a ogni proposta di legge che riguardi il tema, e che attraversano tutte le legislature, problematizza le pratiche politiche e l’esperienza delle donne, ma non può essere abbandonato né derubricato a “discorso populista punitivo”. È un terreno di conflitto simbolico e concreto, che impone di interrogarsi sul senso della giustizia e sul potere che la legge mantiene, a prescindere dal nostro rifiuto, di nominare, proteggere, riconoscere o escludere.
Sostenere la necessità di questa discussione non equivale a negare le contraddizioni del sistema penale né a smettere di lottare per un cambiamento sociale profondo, per la prevenzione, per l’autodeterminazione e la libertà delle donne. Significa, invece, riconoscere che anche il linguaggio della legge è luogo in cui si gioca la possibilità, per le donne, di essere credute, riconosciute e vedersi difeso il diritto a vivere libere dalla violenza. Rifiutarsi di nominare giuridicamente la violenza per ciò che è — esercizio del potere patriarcale, alimentato da odio sessista — significa mantenere agibile il terreno del diritto quale contesto per legittimarla dimenticando che il tentativo di problematizzarla anche in termini di fattispecie giuridiche ha consentito di sparigliare le carte sul tavolo delle relazioni sociali e della pratica processuale.
E perciò, infine, mi chiedo, dopo aver letto tanti articoli e analisi sul disegno di legge in questione: perché l’odio razziale può essere oggetto di accertamento giuridico, e quello sessista no?
Perché si invocano scioperi accademici per l’espressione “limitazione della libertà della donna” nel Codice penale, e non per la riscrittura autoritaria del diritto penale minorile, per l’abuso delle misure penali e amministrative contro dissenso, povertà e migrazioni, per l’assenza di identificativi per le forze dell’ordine, o per lo “scudo penale” loro promesso?
Prima ancora di discutere la perfezione tecnica della formulazione normativa, credo sia urgente interrogarsi su ciò che queste resistenze raccontano. Forse che l’odio per le donne, purtroppo, è più diffuso e socialmente legittimato di quanto siamo disposti/e ad ammettere.
[1] Marcela Lagarde, Los cautiverios de las mujeres. Madresposas, monjas, putas, presas y locas. Coordinación General de Estudios de Posgrado, UNAM. México, 1993; Id, “Género y feminismo. Desarrollo humano y democracia”, in Cuadernos Inacabados, No. 25, 1997; p. 244; Id., “Para mis socias de la vida. Claves feministas para el poderío y la autonomía de las mujeres, los liderazgos entrañables y las negociaciones en el amor”, in Cuadernos Inacabados, No. 48, p.489.
[2] https://www.differenzadonna.org/news/differenza-donna-lancia-il-suo-1-rapporto-nazionale-sulla-violenza-maschile-contro-le-donne/
[3] Cass. Pen., Sez. Un., 27 giugno 2019 (dep. 19 novembre 2019), n. 46994.
[4] Così Zanghì, La protezione dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino, 2013, p.3.
[5] G. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, CEDAM, 2008, p. 95 ss.
F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, Milano, Giuffrè, 2006, p. 43 ss.
[6] R. Bartoli, M. Pelissero, S. Seminara, Diritto penale. Parte speciale, Torino, Giappichelli, 2024, cap. I, §3 (edizione online, Biblioteca Giappichelli).
[7] Così G. Smaus, Io sono io, Castelvecchi, 2024, p. 95.
[8] Corte EDU, Quarta Sezione, sentenza 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11.
[9] Da ultimo Corte EDU, Quarta Sezione, sentenza 13 febbraio 2025, P.P. c. Italia. ricorso n. 64066/19.
[10] Relazione al Parlamento 2024 ai sensi della legge 16 aprile 2015, n. 47
[11] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST459008# https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=1_5_2&facetNode_2=3_1_6&contentId=SST613925&previsiousPage=mg_1_14
[12] https://www.istat.it/statistiche-per-temi/focus/violenza-sulle-donne/il-percorso-giudiziario/denunce-forze-di-polizia/
[13] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/372013.pdf
Immagine: Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di Suzanne Valadon, olio su tela, 1885, Museo Nacional de Bellas Artes, Buenos Aires.
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