ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum
di Paola Filippi, direttrice scientifica della rivista
Sommario: 1. Il passaggio dalla funzione requirente alla funzione giudicante e viceversa: numeri e propensione. - 2. Il pubblico ministero, questo sconosciuto. - 2.1. Le funzioni civili - 2.2. Le funzioni di appello - 2.3. Le funzioni di legittimità. - 3. La riforma in discussione al Senato: opzione di funzione entro termine perentorio. - 4. La premessa del quesito referendario sulla separazione delle funzioni. - 4.1. Il quesito referendario - 5. Conclusioni.
1. Il passaggio dalla funzione requirente alla funzione giudicante e viceversa: numeri e propensione.
Il numero dei passaggi dei magistrati dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti - e viceversa-, fotografa il perimetro del transito che tanto anima i separazionisti, e offre la reale dimensione del tema che, nei prossimi giorni, impegnerà il Senato della Repubblica, in sede di approvazione dell’art. 12 del D.D.L. S. 2595 – disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario –, e i cittadini italiani nella consultazione referendaria del prossimo giugno.
Negli ultimi sedici anni (ovvero dalla riforma Castelli-Mastella al 2021) è stato pari a 19,5 il numero medio annuo dei passaggi dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti. In totale i passaggi dalla giudicante alla requirente sono stati 312, di cui 61 verso la Procura generale della Corte di cassazione.
Nello stesso periodo è stato invece pari a 28,5 il numero medio dei passaggi dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti. In totale i passaggi dalla requirente alla giudicante sono stati 456, di cui 25 verso la Corte di cassazione.
Tali dati vanno considerati alla luce del numero medio (dal 2006 al 2021) dei magistrati in servizio: 8620.
In sostanza, il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto solo lo 2 magistrati su mille, quello inverso solo 3 su mille.
Dal 2006 - anno dell’entrata in vigore dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 che ha ridotto a quattro il numero massimo di passaggi - al 2021, il numero dei passaggi effettuati dal medesimo magistrato è stato di regola uno solo, salvo trentanove magistrati che hanno effettuato due passaggi, solo un magistrato ne ha effettuati quattro (peraltro in funzioni di legittimità civili).*
I numeri ridimensionano drasticamente il fenomeno del cambio di funzioni.
Alla luce dei limiti introdotti dall’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 non vi è rischio che i magistrati che cambiano funzione rimangano nello stesso distretto o nella stessa regione. La disciplina attualmente vigente assicura infatti la terzietà sia nell’essere che nell’apparire, prevedendo anche limiti ultronei rispetto allo scopo.
Con riferimento alla propensione dei magistrati al cambio di funzioni è utile ricordare l’iter introduttivo e abrogativo della disposizione di cui al comma 2 dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006.
Detta diposizione precludeva ai magistrati di prima nomina l’assegnazione alla funzione requirente, il legislatore in quell’occasione valorizzò lo svolgimento della funzione giudicante ai fini della formazione professionale della magistratura requirente. La disposizione richiamata fu abrogata dall’articolo 1 della legge n. 187/2011[1].
La norma è stata abrogata non per un ripensamento in ordine all’utile propedeuticità della funzione giudicante ma per ragioni di ordine squisitamente pratico: l’impossibilità di coprire con tramutamenti ordinari i posti degli Uffici di Procura di primo grado rimasti vacanti. Fu il rischio della paralisi delle Procure della Repubblica che determinò infatti l’abrogazione della norma.
L’introduzione del comma secondo dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 o meglio la sua abrogazione, ha consentito di acquisire un dato di conoscenza di fondamentale importanza ovvero che i magistrati non sono propensi al cambio di funzioni.
La scelta della funzione dipende, più di quanto non si tenga conto, da motivi geografici ovvero dalla vicinanza della sede di prima destinazione a quella di provenienza.
In magistratura, per il principio di cui all’art. 104 della Costituzione, non si nasce pubblici ministeri o giudici ma lo si diventa al momento dell’assegnazione della sede di prima destinazione, scelta che dipende dalla sede familiare e dalla posizione in graduatoria.
Tale scelta, come emerge dai dati statistici, segna poi il futuro del magistrato.
Molti magistrati provengono dall’avvocatura e la carriera degli operatori di giustizia, avvocati e magistrati, ha un’infinità di passaggi comuni.
La questione della separazione, a ragionare secondo logica e senza preconcetti è un problema mal posto, il frutto forse di un mantra che origina dal Gip di mani pulite – che peraltro mai nella sua carriera svolse le funzioni di pubblico ministero – un mantra vecchio di trent’anni di cui i giovani attori della giustizia, avvocati, giudici e pubblici ministeri del primo grado hanno perso memoria quanto all’origine.
Prima di mani pulite, vigente il codice Rocco, l’argomento della separazione non era in voga.
Diverso il rito, senz’altro minori le garanzie, ma nessuno, anche oggi, oserebbe dubitare della professionalità e terzietà dei giudici Falcone e Borsellino che, per la funzione esercitata, quella di giudice istruttore, sommavano, la funzione requirente a quella giudicante, facevano le indagini e rinviavano a giudizio.
2. Il pubblico ministero, questo sconosciuto.
“Il pubblico ministero è organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi” [2], questa la definizione offerta dalla Corte costituzionale in coerenza con l’etimologia del nome, dal latino minister, aiutante.
Il pubblico ministero ha un ruolo propulsivo essenziale, nella fase delle indagini preliminari, egli agisce in base al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, secondo la previsione di cui all’articolo 112 della Costituzione.
Il richiamato principio costituzionale al quale è sottoposta la sua azione, lo dovrebbe esimere dalle accuse di essere un persecutore – come lo descrivono invece i promotori del referendum –.
L’obbligatorietà dell’azione penale, della quale deve farsi carico il pubblico ministero, altro non è che la manifestazione del principio di uguaglianza che, nel processo, si declina, nella parità di trattamento davanti alla legge.
Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge è la frase scritta nelle aule dei Tribunali e si tratta di un monito che vale per tutta la magistratura in ragione dell’appartenenza a un unico ordine.
L’obbligatorietà non è espressione dell’essenzialità della persecuzione come enfatizzo e attualizzato dalla direttiva di cui al all’art. 1 n. 9 lett. a) della legge n. 134 del 2021 che delega il governo a modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l'archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna.
La delega conferma che il pubblico ministero, anche nella fase delle indagini preliminari, ha compiti che sono espressione dello ius dicere.
La direttiva rimette al pubblico ministero un giudizio prognostico più pregnante di quello richiesto al giudice per le indagini preliminari a legislazione vigente. Trattasi di disposizioni in linea con l’art. 358 cod. proc. pen. che rimette al pubblico ministero il compito di svolgere gli accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato.
La formazione del pubblico ministero, eventualmente anche attraverso il previo esercizio delle funzioni giurisdizionali, meglio predispone all’applicazione dell’art. 358 cod. proc. pen. e all’applicazione delle previsioni di riforma di cui all’art. 1, comma 9 lett. a) legge 137/2021. Un pubblico ministero, già giudice, meglio potrebbe contribuite al PNRR sotto il profilo dell’esercizio mirato dell’azione penale nell’obiettivo del contenimento delle risorse e della riduzione dei tempi della giustizia penale. Anche sotto tale profilo, come si dirà, la previsione di cui all’art. 12 del disegno di legge delega della riforma dell’ordinamento giudiziario appare incoerente con la situazione contingente e con gli obiettivi che dovrebbe prefiggersi la riforma della giustizia.
La separazione fondata sul principio della parità delle armi tra accusa e difesa guarda solo al pubblico ministero delle indagini e del dibattimento, e bypassa ogni considerazione in ordine alle diverse funzioni che il nostro ordinamento affida al pubblico ministero.
La parità delle armi è infatti manifestazione essenziale del processo accusatorio, relativa a un segmento significativo ma, al tempo stesso, parziale delle funzioni del pubblico ministero – quelle che svolgono 1800 magistrati in primo grado - ovvero quelle che riguardano il processo penale di primo grado, frazione minuta nell’ambito della ben più ampia e articolata declinazione di una funzione complessa preposta alla tutela della collettività e del vivere civile.
Chi rimane alla soglia del processo penale e guarda solo al dibattimento, per avere in aula un accusatore paritario al difensore, perché reso scevro dalla condivisioni con il giudice della comune appartenenza, rinuncia alla terzietà del magistrato requirente che si snoda nei gradi successivi di giudizio e - evaporata nelle fasi del processo la pulsione sottesa all’affermazione della tesi accusatoria - assurge nella fase del sindacato della legittimità a paladino dell’osservanza della legge, delle garanzie processuali e dei diritti.
Il pubblico ministero, al pari del giudice, esercita una funzione pubblica e partecipa alla giurisdizione. Per Costituzione si distingue dal giudice solo per la funzione che esercita, requirente in opposizione a quella giudicante, gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme di ordinamento giudiziario e ciò a differenza del giudice che è sottoposto solo alla legge.
È dunque “tecnicamente parziale” e “valoristicamente povera”[3] la definizione di pubblico ministero quale semplice portatore di un interesse punitivo.
Nei diversi gradi del processo penale il ruolo del pubblico ministero si caratterizza poi, al pari di quello del giudice, dal graduale distaccarsi dal fatto.
La funzione del pubblico ministero si trasforma nel corso del processo, da funzione essenzialmente accusatoria a funzione di garanzia del rispetto della legge, fino a trasformarsi, in sede di legittimità, in funzione nomofilattica, in tutto identica a quella del giudice di legittimità, funzione che si caratterizza per essere finalizzata al controllo dell’esatta osservanza e uniforme interpretazione della legge, scevra da pulsioni rappresentative di tesi proiettate verso esiti punitivi. Nel dibattito in tema di separazione è bene non dimenticare che il pubblico ministero in sede di legittimità ha il potere di ricorrere ex art. 363 c.p.c. nell’interesse della legge e che nel processo penale è organo propulsore, per il ruolo di garanzia che gli è assegnato, di approdi giurisprudenziali anche in favore dell’imputato.
2.1. Le funzioni civili.
Il pubblico ministero svolge un ruolo essenziale, fondamentalmente giurisdizionale, quale organo propulsore di provvedimenti del giudice civile in settori del vivere sociale che non possono essere lasciati alla mera disponibilità dei privati.
Si pensi alle funzioni che è chiamato a svolgere in materia di fine vita, di famiglia, di incapaci, di separazione e divorzio o nel settore economico della crisi e dell’insolvenza, funzioni che mettono in luce come, non solo nel settore penale, ma anche nel settore civile, è assegnatario dell’alto compito della tutela dei diritti fondamentali, della tutela della collettività e dell’osservanza della legge[4].
2.2. Le funzioni di appello.
Con riguardo all’esercizio del potere di impugnazione,[5] vale l’affermazione, secondo cui "il potere di impugnazione" del pubblico ministero, non è una proiezione del principio di obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, di cui all'art. 112 della Costituzione. Tanto evidenzia l’errore di prospettiva che focalizza un ruolo accusatorio del pubblico ministero anche nei successivi gradi di giudizio.
L’affermazione secondo cui il potere di impugnazione non è proiezione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è avvalorata dalla Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 280 del 1995 sino alla sentenza n. 26 del 2007[6].
Il principio che si rinviene nella giurisprudenza della Corte costituzionale è che il potere di impugnazione del pubblico ministero ha come copertura costituzionale il principio del giusto processo nella declinazione della parità delle parti e non già quello dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Se la scelta in ordine alla proposizione del ricorso per Cassazione non dipende dall’obbligatorietà dell’azione penale perché di mezzo c’è una decisione giurisdizionale – che ha in qualche modo disatteso l’assunto accusatorio, con riguardo all’accertamento del fatto o alla qualificazione giuridica – è evidente come il pubblico ministero che svolge funzioni di appello non esercita una funzione accusatoria in quanto è tenuto a ancorare la sua discrezionalità alla tenuta della sentenza, sotto il profilo della corretta applicazione della legge sostanziale e della legge processuale nonché della motivazione posta a sostegno della valutazione probatoria e delle determinazioni raggiunte, ciò costituisce conferma di quello che si è anticipato ovvero che si scolora nelle fasi di giudizio il ruolo del pubblico ministero come accusatore.
2.3. Le funzioni di legittimità.
I sostituti procuratori generali presso la Corte di cassazione svolgono sia funzioni civili che funzioni penali e, nell’uno come nell’altro caso, esercitano funzioni dirette alla corretta applicazione della legge, espressione dell’esercizio di funzioni nomofilattiche non dissimili da quelle svolte dalla Corte di cassazione. Il suo sindacato e le sue determinazioni sono rivolte esclusivamente a ciò che concerne la fondatezza o l’infondatezza del ricorso con esclusivo riferimento alle censure di legittimità proposte contro la sentenza, tanto che pensare al procuratore generale come pubblico accusatore fa sorridere.
3. La riforma in discussione al Senato: opzione di funzione entro termine perentorio.
L’art. 12 del D.D.L. S2595 Bonafede Cartabia, in discussione nei prossimi giorni al Senato propone la modifica dell’art. 13 d.lgs. n. 160/06, nella parte relativa al numero di passaggi.
L’emendamento in discussione prevede che il passaggio dalla funzione requirente alla giudicante, e viceversa, possa essere richiesto dall'interessato, per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera, entro il termine di sei anni dal maturare, per la prima volta, della legittimazione al tramutamento previsto dall’articolo 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, ovvero a conti fatti entro dieci anni dell’entrata in servizio.
In pratica, entro i sei anni dalla prima legittimazione al trasferimento, il magistrato sceglie se rimanere per sempre nella funzioni scelta da MOT o se cambiare la funzione, poi basta. Non è un passaggio ma un’opzione da esercitare entro un termine perentorio.
La previsione del secondo possibile cambio è uno specchietto per le allodole perché solo il giudice civile – che mai abbia svolto funzioni penali – potrà andare a fare il pubblico ministero e il pubblico ministero potrà andare a fare solo il giudice civile “in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro”.
La previsione, quanto al secondo passaggio, non prende in considerazione la distinzione tra gradi di merito e legittimità né si considerano le funzioni civili di legittimità.
Insomma la disciplina del secondo passaggio manca di logica giustificatrice. In realtà sembra che con la proposta si sia voluto mascherare il carattere di opzione della scelta da fare entro i sei anni dalla prima legittimazione, unico “assestamento” possibile dopo la scelta della prima sede.
Quali sono le ragioni della proposta di modifica dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 stante la l’indiscussa applicazione dei limiti – anche ultronei – e l’esiguo numero dei cambi di funzioni?
Quale l’utilità sotto il profilo del giusto processo o della ragionevole durata?
Come potrebbe migliorare il servizio giustizia con tale riforma?
L’impossibile risposta a queste domande e gli effetti della proposta di modifica illuminano sulla ratio legis: la previsione in discussione altro non è che uno step verso la separazione della magistratura requirente e dalla giudicante. Se l’emendamento sarà approvato si otterrà, con legge ordinaria, un risultato per cui sarebbe invece necessaria una riforma costituzionale: la magistratura requirente sarà separata dalla magistratura giudicante.
Ma per Costituzione, come proclama l’art. 104, “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni potere”, ordine a cui appartengono indifferenziatamente i giudici e i pubblici ministeri e ciò costituisce la legittimazione costituzionale al passaggio dei magistrati da una funzione all’altra, nel rispetto dei limiti di incompatibilità e terzietà.
4. La premessa del quesito referendario sulla separazione delle funzioni.
Su https://www.referendumgiustiziagiusta.it/ (Referendum Giustizia Giusta - Comitato promotore) nella premessa al quesito referendario sulla separazione delle carriere si legge “Ci sono magistrati che lavorano anni per costruire castelli accusatori in qualità di PM e poi, d’un tratto, diventano giudici. Con un sì chiediamo la separazione delle carriere per garantire a tutti un giudice che sia veramente “terzo” e trasparenza nei ruoli. Il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. Basta con le “porte girevoli”, basta con i conflitti di interesse che spesso hanno dato luogo a vere e proprie persecuzioni contro cittadini innocenti”.
Il prologo al quesito pone a fondamento della separazione l’assunto descrittivo di condotte delittuose (conflitto di interessi -persecuzione di innocenti), in relazione alle quali l’impedimento del passaggio da una funzione all’altra sarebbe ininfluente mentre, se fosse vero, ben altri dovrebbero essere i rimedi.
Quanto alla terzietà e trasparenza dei ruoli, sempre al fine di articolare un discorso aderente alla realtà della distinzione dei ruoli e delle funzioni, i promotori omettono di distinguere tra funzioni civili e funzioni penali nonché tra funzioni di merito e di legittimità. In ogni caso, bisognerebbe avvertire i cittadini che con la separazione delle funzioni nulla cambierà alla luce della percentuale dei pubblici ministeri che vanno a fare i giudici .
Per proseguire nella lettura del prologo al quesito referendario, quanto alla ragione della separazione compendiata nella necessità di impedire la “persecuzione di innocenti”, poiché la condotta descritta integra un reato – quello dell’abuso d’ufficio – a prescindere dal collegamento, azzardato, tra passaggio di funzioni e ipotesi di reato trattasi, all’evidenza, come si è detto, di obiettivo – la prevenzione del crimine – contro il quale l’impedimento del passaggio è privo di efficacia deterrente.
4.1. Il quesito referendario.
Il quesito referendario sulla separazione delle carriere propone l’abrogazione di un numero, non esiguo, di disposizioni per cui viene da domandarsi se chi parteciperà al referendum sarà effettivamente in grado di orientarsi nel labirinto delle disposizioni da abrogare. Per semplificare, volendo venire in aiuto dell’impavido votante si può sintetizzare che solo il comma 6 dell’art. 192 del regio decreto del 1941 è utile ai fini dell’abrogazione del passaggio. Si tratta di norma di epoca fascista che ancorché riguardasse un pubblico ministero sottoposto al Ministro della Giustizia (allora pure di Grazia) consentiva il passaggio quando in presenza di parere favorevole, originariamente del consiglio giudiziario, poi dopo l’entrata in vigore della Costituzione e dell’entrata in funzione dell’Organo centrale di governo autonomo della magistratura, del parere favorevole del Consiglio superiore.
Le altre disposizioni oggetto del quesito riguardano in realtà i limiti spazio-temporali ai passaggi di funzioni. Tra queste vi è e la norma di cui all’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 – attinto dalla proposta di riforma in discussione – che disciplina il passaggio agli uffici di altra regione, che lo consente decorsi cinque anni e che lo limita a quattro passaggi.
Comunque, a parte le premesse espositive del quesito referendario sopra riportate, una cosa è certa. Il “sì” non cambierà nulla per un motivo semplicissimo: l’ esiguo numero dei pubblici ministeri che vanno a fare i giudici, numero ininfluente nella realtà fattuale.
Nel 2021 la percentuale dei passaggi di pubblici ministeri è stata dello 0,6 per cento, percentuale che rende evidente che il referendum non cambierà nulla, ma soprattutto non cambierà la funzione requirente che continuerà ad essere esercitata secondo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e delle disposizioni del codice di rito.
5. Conclusioni.
L’esigua percentuale dei passaggi da una funzione all’altra non giustifica la rinnovata accesa attenzione del legislatore in tema di separazione delle funzioni.
Al tempo stesso l’esigua percentuale dei passaggi da una funzione all’altra, insieme alla scarsa propensione al cambio di funzioni, apparentemente nemmeno giustifica l’accorata manifestazione di dissenso della magistratura.
L’incidenza minima del passaggio di funzioni e la mancanza di argomenti concreti idonei a spiegare perché l’attuale articolo 13 d.lgs. n. 160/2006 non funziona svelano, in realtà, la ragione sottesa alla proposta contenuta nella legge delega.
La vera ragione, quella di principio, che si richiama quando non ci sono argomenti ostensibili, è che, scardinando l’appartenenza della magistratura requirente dall’unico ordine autonomo e indipendente, come voluto dalla Costituzione e consacrato all’art. 104, lo statuto della magistratura requirente potrebbe essere ridisegnato come meno autonomo e meno indipendente di quello del giudice, con possibili condizionamenti da parte del potere esecutivo.
Questa l’unica possibile ragione di una previsione normativa altrimenti inutile, questo il vero rischio.
Ciò allora spiega l’accorata manifestazione di dissenso della magistratura, come abbiamo visto non propensa al cambiamento di funzioni.
La magistratura non dissente dalla riforma per la conservazione di privilegi di casta. Di questo dovrebbero prendere atto i cittadini chiamati a partecipare al quesito referendario.
Le ragioni dell’accorato dissenso sono determinate dalla profonda consapevolezza che il migliore dei mondi possibili, per citare Voltaire, è quello in cui la magistratura requirente è autonoma e indipendente esattamente come la magistratura giudicante e che l’art. 104 della Costituzione, non dovrebbe essere surrettiziamente modificato.
Se si vuole modificare l’art. 104 della Costituzione ciò deve avvenire attraverso i presidi previsti per la modifica dei principi costituzionali ovvero con lo strumento della revisione costituzionale, previa accurata considerazione e adeguato bilanciamento da parte di maggioranza qualificata di tutte implicazioni derivanti dal privare la magistratura requirente dell’identica autonomia e indipendenza che la Costituzione ha riservato alla magistratura giudicante.
*I dati statistici sono stati forniti dall'Ufficio statistico del Consiglio superiore della magistratura a ciò autorizzato e che si ringrazia.
[1] Originariamente, infatti, l’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 precludeva ai magistrati di prima nomina, anteriormente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, la possibilità di essere destinati a svolgere talune funzioni: le funzioni requirenti, giudicanti monocratiche penali, di giudice per le indagini preliminari o di giudice per l’udienza preliminare. Il Ministro della giustizia Alfano, nell’audizione presso la Commissione giustizia della Camera del 9 dicembre 2009, evidenziava come tale scelta avesse di fatto posto fine alla prassi secondo la quale nelle sedi vacanti per difetto di aspiranti venivano mandati, come pubblico ministero o giudice per le indagini preliminari, i giovani vincitori di concorso. Tale preclusione ha nei fatti aggravato la c.d. scopertura delle sedi disagiate. Per fare fronte alle esigenze di copertura di tali sedi - che si concentrano specialmente nel Sud d’Italia, in regioni ad alta densità di criminalità organizzata – il Governo è allora intervenuto con il decreto legge n. 193/2009 (convertito dalla legge n. 26/2010). Il decreto-legge, pur mantenendo la sopra richiamata preclusione, consentiva una deroga in presenza di specifiche condizioni oggettive di scopertura delle sedi e con riferimento ai magistrati nominati con un decreto ministeriale del 2009. A questi ultimi, al termine del tirocinio,con provvedimento motivato il Consiglio superiore della magistratura, ove alla data di assegnazione delle sedi ai magistrati nominati con il decreto ministeriale sussista una scopertura superiore al 30 per cento dei posti, può attribuire le funzioni requirenti al termine del tirocinio, anche antecedentemente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, in deroga a quanto è previsto dalla normativa vigente. (https://leg16.camera.it/561?appro=661 Temi per l’attività parlamentare - Funzioni attribuibili ai magistrati di prima nomina).
[2] Corte cost., sent. n. 26 del 6 febbraio 2007.
[3] «Il pubblico ministero nel sistema disegnato dalla nostra costituzione, in quanto interprete dei valori della collettività e, al pari del giudice, della dignità umana e il suo ruolo non è tecnicamente accusatorio ma sostanzialmente difensivo di una comunità democratica e pluralistica» De Leo Francesco, Dalla prescrizione alle impugnazioni. Tempi dell'azione, tempi del processo e ideologie sul pubblico ministero, in Cass. Pen., fasc.7-8, 2007, pag. 31.
[4] Il pubblico ministero «agisce esclusivamente nell'intento di garantire l'osservanza della legge», tanto che - tra l'altro - deve svolgere anche gli «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini» (art. 358 cod. proc. pen.) e può proporre gravame «quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero» (art. 570, comma 1, cod. proc. pen.) (Sez. U, n. 6203 del 11/5/1993, Amato, Rv. 193743, Foro Italiano, anno 1993, fasc. 10 p. 556).
[5] Sono ormai superati gli orientamenti secondo cui dall’obbligatorietà dell’azione penale discende l’obbligatorietà dell’impugnazione e - in tal senso, è stato affermato che “il principio di obbligatorietà dell’azione penale ha come necessario corollario la predisposizione in favore del pubblico ministero degli strumenti per porre rimedio alla decisione errata che ha posto un ostacolo irragionevole all’esercizio dell’azione penale” - un orientamento intermedio, secondo cui l’obbligo è temperato da una discrezionalità necessitata dall’intervento di una decisione del giudice e dalla conseguente necessità del vaglio da parte del requirente quanto ai motivi della decisione, « Non può disconoscersi, tuttavia, come una affermazione siffatta presupponga in capo al pubblico ministero - nel momento in cui debba determinarsi, in concreto, all'esercizio o al non esercizio del potere di appello contro una sentenza di proscioglimento - uno spazio di discrezionalità "politica" difficilmente compatibile con il principio costituzionale che gli impone l'obbligo di "esercitare" (non, dunque, soltanto di "iniziare", stando alla distinzione lessicale desumibile dall'art. 74, comma 1, ord. giud.) l'azione penale, senza alcuna distinzione tra i diversi gradi del procedimento. Anche perché, se così fosse, ciò significherebbe riconoscere al pubblico ministero un potere di disponibilità - circa la sorte di una iniziativa d'accusa in ipotesi non condivisa dal giudice di primo grado - che, essendo riferibile anche a criteri di mera convenienza, risulterebbe di per sé inconciliabile rispetto all'esigenza di attuazione del principio di legalità su cui si fonda proprio l'art. 112 Cost. Al contrario, appare come conseguenza "naturale" ed imprescindibile di quest'ultimo principio che il pubblico ministero, di fronte ad una sentenza che abbia a suo avviso ingiustamente disatteso la "pretesa punitiva" (e sempreché non siano sopravvenute situazioni tali da escludere obiettivamente la permanenza del corrispondente pubblico interesse), debba proporre appello, non essendogli consentiti altri margini di valutazione discrezionale in ordine all'eventuale non esercizio del relativo potere». Vittorio Grevi in Appello del pubblico ministero e obbligatorietà dell'azione penale, Cass. pen., fasc.4, 2007, pag. 1414.
[6] Intervento della Corte costituzionale, quello di cui alla sentenza n. 26/2007, seguito alle modifiche introdotte all'art. 593, comma 2, c.p.p. per effetto dell'art. 1 l. 20 febbraio 2006, n. 46, che aveva sostanzialmente eliminato (salva l'ipotesi eccezionale di sopravvenienza di una nuova prova "decisiva") il potere d'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento l'art. 1 l. 20 febbraio 2006, n. 46. E’ stato dichiarato incostituzionale l’art. 593 c.p.p. nella parte in cui “esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, c.p.p., se la nuova prova è decisiva”, in ragione della violazione del principio del giusto processo del quale è espressione il principio della parità delle armi. Il principio affermato dalla Corte cost. è che “Il principio di parità delle parti nel processo penale non significa necessaria omologazione di poteri e facoltà, anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni. Infatti, il potere del pubblico ministero di impugnare nel merito la sentenza di primo grado presenta margini di "cedevolezza" più ampi del simmetrico potere dell'imputato, in quanto, mentre il primo trova copertura costituzionale solo entro i limiti della parità delle parti, non potendo essere configurato come proiezione necessaria della obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, il secondo si correla al valore espresso dal diritto di difesa. Le eventuali limitazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa devono comunque rappresentare soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità. - Sul fatto che la garanzia del doppio grado di giurisdizione , non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale, v., citate, ex plurimis , sentenza n. 280/1995 e ordinanza n. 316/2002. - Sulla impossibilità di configurare il potere di impugnazione del pubblico ministero quale proiezione necessaria della obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, v., citate, sentenza n. 280/1995 e ordinanze n. 165/2003, n. 347/2002, n. 421/2001, n. 426/1998. - Sulla correlazione tra potere di impugnazione dell'imputato e diritto di difesa, v., citata, sentenza n. 98/1994. - Sulla compatibilità con il principio di parità delle parti della norma che esclude l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse in sede di giudizio abbreviato v., citate, sentenza n. 363/1991, ordinanze n. 46/2004, n. 165/2003, n. 347/2002, n. 421/2001, n. 305/1992, e n. 373/1991.)
Di Letizia e della fotografia
di Tullio Fortuna
Fotografare è niente, quel che conta è lo sguardo (Bresson)
I fotografi non muoiono mai, i loro occhi non si chiuderanno mai, restano nei loro scatti, nel tempo, per sempre
Sommario: 1. Letizia e la fotografia - 2. La rappresentazione della crudeltà: meglio un’immagine che cento parole - 3. L’importanza della fotografia crudele: il “purchè se ne parli” - 4. Still life e Lamborghini - 5. L’Uomo, l’Artista e il suo doppio - 6. Riflessioni conclusive: anche le campagne di informazione vanno a mode.
1. Letizia e la fotografia
Di lei e delle sue fotografie si è scritto, detto e visto tanto, ma come si fa a riassumere in una cartella la sua eredità senza spendere ancora qualche parola per coloro, invero pochi, che non si sono mai interessati alla fotografia?
Letizia è stata immensa, impregnante, dissacrante, straripante. È stato l’occhio dei ciechi, la voce dei muti. È stata maestra, mentore, ispiratrice, le va quindi detto grazie per aver sottolineato l’importanza della fotografia nel percorso della nostra vita e dello sguardo critico nei confronti della società.
La sua vita movimentata ha rianimato il mondo dell’immagine, ha trasformato l’azione in fotografia, suscitando in chi vede le sue opere quel senso di smarrimento che prova chi all’improvviso si trova collocato in un contesto che non gli appartiene.
2. La rappresentazione della crudeltà: meglio un’immagine che cento parole
I suoi detrattori dicono che se non ci fosse stata la mafia, Letizia non sarebbe esistita.
Costoro dimenticano, da un canto, l’importanza della sua produzione dedicata ai volti dei poveri, alle rivolte di piazza, alle realtà emarginate, alla condizione dei pazienti dell’Ospedale psichiatrico, alle sue lucide provocazioni nei confronti delle connivenze d’apparato, dall’altro, il valore della fotografia come denunzia.
Per quanto riguarda tale aspetto, non può farsi a meno di ricordare, a chi storce il naso guardando i suoi “morti ammazzati”, non coperti dal classico lenzuolo, che solo la rappresentazione della crudeltà innesca negli osservatori una reazione di segno opposto: si pensi, tanto per fare degli esempi, alla foto di Kim Phúc in Vietnam che fugge dal Napalm [1], a quella di George Floyd sotto il ginocchio dell’agente Derek Chauvin [2], all’immagine dello studente che negli anni di piombo spara ad altezza d’uomo [3], alla distruzione di Mariupol [4].
Queste foto e non centinaia di parole hanno dato vita, corpo e sostegno alla crescita del dissenso in America, con il rifiuto massiccio del servizio militare e al ripensamento sull’utilità della guerra in Vietnam [5], alla nascita del movimento Black lives matter [6] per contrastare il persistente razzismo nella polizia e nella società americana, alla ri-nascita del nostro Paese con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori per chiudere la pagina dello spontaneismo anarcoide, al fiorire della legislazione sociale e dei movimenti antimafia, al rinnovato consolidamento delle coscienze contro i crimini di guerra ed all’impellenza di riforma di tale frammentata normativa che trovi un consenso generale [7].
3. L’importanza della fotografia crudele: il “purchè se ne parli”.
Ancora.
Andando più indietro nel tempo, per sottolineare l’importanza di tale aspetto della fotografia, si pensi al disdegno che aveva suscitato la foto fatta da Theresa Frare di David Kirby [8], malato terminale di AIDS, circondato e abbracciato dai suoi genitori, poi utilizzata a fini commerciali da Toscani per Benetton [9]: quale miglior messaggio al mondo dei giovani e della scienza per denunciare la scarsa attenzione che in quegli anni veniva data a questa malattia, per combattere l’ipocrisia del far finta di nulla, mentre le persone morivano come mosche? Quale miglior appello ai giovani ed ai ricercatori per combattere uno dei maggiori flagelli del nostro secolo?
Si pensi, ancora, a quell’immagine, invero (tristemente) raccapricciante, della ragazza anoressica [10]: quale miglior stimolo per far convergere sui consultori i genitori di questi ragazzi e sulla politica per favorirne la moltiplicazione di queste strutture?
Tutte questa produzione fotografia ha favorito la riflessione sulla vera violenza che non consiste nel mostrare al pubblico immagini scioccanti, ma nel fare credere alle anime belle che sono quel che consumano, nell’illuderle che diventeranno quel che consumeranno [11]: se non usi quel profumo, se non guidi quella macchina, se non indossi quel paio di scarpe, non sei alla moda, sei un escluso, non esisti.
La fotografia di documentazione ha lavorato e continua a lavorare a fianco della storia, assumendosi il compito di rappresentare la buona (o la cattiva) coscienza della nostra società, senza tener conto del nostro grado di tolleranza nei confronti della crudeltà: “la fotografia fa emergere aspetti che l’occhio nudo non sarebbe in grado di cogliere e ne potenzia i tratti, la conoscenza fotografica del mondo è crudele» [12].
4. Still life e Lamborghini.
Nel 2020 Letizia è diventata trend topic sui social per la sua campagna pubblicitaria per la Lamborghini.
Vale la pena di registrare, prima di passare al nostro sentire, perché i lettori possano esprimere senza influenze il loro giudizio, le posizioni assunte su questo lancio pubblicitario dal nostro Major, dall’Art Directors Club italiano (che riunisce i professionisti del mondo della pubblicità e della comunicazione), dalla Lamborghini e dalla stessa Battaglia.
La campagna “With Italy, for Italy”, in cui la fuoriserie di Sant’Agata Bolognese appariva, spesso sfocata ed in secondo piano, con delle bambine in varie zone della città, è stata rimossa su richiesta di Orlando per aver “dovuto… con grande sofferenza e amarezza…manifestare dissenso”, vieppiù per “aver dovuto chiedere alla Lamborghini la sospensione della campagna di promozione”.
Le ragioni di questo “dovere”, direi ovviamente, non sono state rese pubbliche (anche se non è difficile collegarlo ad una malcelata torsione moralista), ma sono state diluite nel corso dell’intervista, pubblicata su corriere.it [13], con melliflue manifestazioni di stima, di affetto e di scuse verso la Battaglia.
I veri motivi di tali ragioni sono trapelati dalle parole di Stephan Winkelmann, Ad di Lamborghini, il quale, su richiesta del sindaco, ha ritirato la campagna per aver le immagini “potuto urtare la sensibilità dei cittadini palermitani”.
Durissima è stata la posizione assunta sul lancio pubblicitario da Vicky Gitto, presidente dell’Adci, ritenendo che la Battaglia “per questi scatti (avesse) inseguito un’idea che era nella sua mente, la Palermo-bambina senza rendersi conto (di aver) restituito tutt’altro…(un) misero leitmotiv donne, motori e soldi. L’unica cosa che qui le donne sono bambine».
Il reale spirito della campagna emerge dalle stesse dichiarazioni della Battaglia “per me Palermo è una bambina con lo sguardo innocente che cresce” e dalle valutazioni dell’Ad della Casa del Toro secondo cui “ritratti di giovani figure femminili…per lei rappresentano una visione di sogno e di speranza di rinascita. In uno spirito di continuità al suo stile fotografico la Battaglia ha così deciso di interpretare la sua amata Palermo insieme a una Lamborghini, elemento accessorio e non protagonista degli scatti, e bambine, quali simbolo di speranza di un mondo nuovo, lo stesso inseguito dall’artista durante tutti gli anni del suo importante impegno fotografico”.
Al di là di tali posizioni, ritornando sull’aspetto puramente fotografico, ritengo che Letizia, pur avendo affrontato un progetto certamente insidioso, lo abbia accettato, per la sua voglia di cimentarsi in un campo ad essa nuovo, quale lo still-life, coinvolgendo la sua anima candida in un settore segnato da feroci logiche di impresa, da un linguaggio destinato ad ingenerare negli osservatori il facile consenso o una violenta disapprovazione.
Campagna realizzata, a mio avviso, senza pensarci due volte, per pura curiosità intellettuale, sicura del mantello di intangibilità che la ricopriva e derivantele dal suo impegno civile, dalla carriera e dai riconoscimenti universalmente ricevuti, con la in-coscienza di una possibile disapprovazione.
Il lancio Lamborghini-Palermo verosimilmente ha fatto eco proprio perché firmato da Letizia Battaglia; diversamente, ove fosse stata realizzata da un soggetto sconosciuto alle intelighenzie ed ai mass media, in un mondo abitato da donne e motori, da ombrelline e car washers, sarebbe passato del tutto inosservato.
Ma torniamo al punctum pruriens della vicenda.
Come osservato da Angela Azzaro [14] “Il problema non è, o meglio non dovrebbe mai essere, l’esibizione dei corpi ma il modo in cui questa esibizione viene fatta. Lo sguardo. Il modo con cui si racconta.”
Come diceva Roland Barthes, nel suo celebre saggio La Camera chiara [15], ogni foto ha due livelli: lo studium che appartiene al fotografo, cioè il modo in cui ha voluto costruire quel frame, e il punctum, ovvero ciò che l’osservatore riconosce per sé pregnante, che non si può spiegare razionalmente essendo estremamente soggettivo.
Ecco, chiedo e vi chiedo: nel caso Lamborghini, come può l’osservatore smaliziato non rendersi conto, del vero intento di Letizia (lo studium), come può lasciarsi condizionare dalla sindrome di Lewis Carrol (il punctum), anziché lasciarsi prendere da un’emozione autentica?
Non è necessario essere docenti di fotografia o avere studiato alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, per rendersi conto che nella foto della campagna non vi era alcuna volontà oggettivizzante e che lo sguardo delle bambine, in primo piano rispetto alla macchina, non era ammiccante, ma quello di chi voleva dire je m'en fous della Lamborghini e del mondo che essa rappresenta.
Da qui, la mente corre facilmente al monito di Egon Schiele [16] che tutti i moralisti della fotografia dovrebbero imparare a memoria che “nessuna opera d’arte erotica è una porcheria, quand’è artisticamente rilevante, diventa una porcheria solo tramite l’osservatore, se costui è un porco”!.
Ma.
Ma vista l’eco che ha suscitato il pressochè - immediato e gratuito - ritiro della campagna da parte della Lamborghini, a seguito delle forbite rimostranze del nostro Sindaco; la critica sul progetto realizzato dalla Battaglia, amplificata da tutti i media, all’uomo della strada vien da chiedersi, se il fallimento sia stato, o meno, frutto di una finissima e concertata orchestrazione, essendo stato lo scalpore dell’insuccesso sicuramente superiore al clamore che avrebbe ottenuto il tam-tam pubblicitario ove fosse stato portato a termine.
Nessuno saprà mai la risposta.
5. L’Uomo, l’Artista e il suo doppio
Vale la pena di accennare, per meglio comprendere le ragioni che possano aver convinto Letizia ad accettare l’incarico della Lamborghini, al dualismo che regna incontrastato ed accettato, nella maggior parte di noi e, specialmente, negli artisti, per sperimentare se stessi.
In ogni fotografo, come in ogni individuo, coabitano spesso felicemente due anime, senza necessità che vengano condivise entrambe.
Per non scomodare Letizia, si pensi ai due Toscani: il fotografo (si fa per dire) della giovinezza spostata sul versante del sonnambulismo sociale, della spensieratezza, della gioiosità rappresentata, con foto di nuovi arlecchini di tutte le razze felici e contenti, e l’autore delle campagne realizzate - pur di vendere maglioni, - con immagini altrui: oltre al ritratto del malato terminale di cui si è appena detto, si pensi al mercenario con il femore dietro la schiena o a quello dei 28 assassini condannati a morte, nel nobile intento di denunciare la generale indifferenza verso problemi come l’AIDS, la pena di morte e la guerra.
Focalizzando lo sguardo: nessuno dei condannati a morte trasmette, infatti, qualcosa di disumano, ma lascia all’osservatore il dubbio che qualcuno di essi sia innocente, anche se non è possibile stabilire chi, morirà egualmente; il mercenario non v’è chi non vede come possa essere identificato in uno dei tanti siriani arruolati, come carne da macello, dalla Russia per combattere (al posto dei propri figli) la guerra in Ucraina [17].
6. Riflessioni conclusive: anche le campagne di informazione vanno a mode
Da quando c’è la fotografia esiste la verità: la sua traduzione è un’altra cosa.
In questo momento va di moda l’Ucraina: la guerra all’Ucraina viene intesa come una guerra ai valori dell’Occidente.
Nessuna parola viene spesa, quanto meno al momento, dai media per i bambini soldato della Sierra Leone, per i conflitti in corso in Liberia, Congo, Somalia, Ruanda, Uganda, Sudan, Etiopia, Bosnia, Siria, Irak Cecenia, Afghanistan, Pakistan e via discorrendo. [18]
Si pubblicano le fotografie della Russia che distrugge Bucha e Odessa, ma si tengono nel cassetto quelle degli aguzzini egiziani che hanno ucciso e torturato Giulio Regeni e sbattuto in cella Patrick Zaki, senza nulla dire che continuiamo a fare soldi con questo Stato vendendogli le nostre armi, che poi spenderemo per acquistare il suo gas.
Plaudiamo la Polonia quando accoglie i profughi ucraini (simili a noi: ma il nostro non è un malcelato razzismo?), ma non la condanniamo quando respinge i pakistani, i siriani e compagnia bella (diversi da noi); biasimiamo lo stupro commesso da un russo su un’ucraina, ma facciamo finta di non sapere delle violenze perpretate dai libici sulle migranti, ci commuoviamo vedendo un bambino ucraino ucciso, ma voltiamo subito lo sguardo quando vediamo quello annegato.
Tutto ciò - allo stato - non viene rivelato, nulla viene detto: esistono vittime di serie A, da mostrare con compiacimento morboso in una sorta di pornografia della guerra, e vittime di serie B da non esibire, né in televisione né sulla carta stampata, per non far calare l’attenzione sulle prime (simili e vicine a noi) e sulla martellante necessità che solo la fornitura di armi possa fermare la guerra in Ucraina.
Da qui un appello ai mass media, agli organi di informazione, alle agenzie di stampa: pubblicate le immagini di tutte le guerre e di tutti i reporter, che rischiano la vita per introdurre nei nostri occhi - di forza e con forza – frames di realtà in un sistema che ha l’imperativo categorico di nasconderla, con l’invito ad essi, ove ve ne fosse bisogno, di non smettere mai di documentarne la crudeltà [19] perchè solo essa può generare, in un mondo sonnacchioso e distratto, emozioni e possibili auspicabili reazioni.
Abbiamo il dovere di imparare da queste fotografie e da quelle che verranno; abbiamo bisogno di non dare per scontato che il mondo civile sia sempre teso in direzione di libertà e giustizia e di lottare, con lucidità e coraggio, contro ciò che noi esseri umani abbiamo fatto e continuiamo a fare del nostro mondo.
È proprio per questo che da più parti si dice che la fotografia documentaristica deve essere rivoluzionaria, poiché essa, avendo in sé natura libertaria, è in grado di sfidare tutti i poteri [20].
Diversamente, quale sarebbe la nostra comprensione del mondo se non ci fossero le fotografie?
Sino ad oggi i fotografi, come i pittori dell’800, hanno documentato guerre, morte, malattie, sono stati e sono testimoni di battaglie, dove una delle due parti ha ovviamente perso con il sacrificio incalcolabile di vite umane, senza che si sia riusciti ad estirpare il male alla radice.
Non per questo però dovrà mai cessare e/o attenuarsi la battaglia di una informazione a 360° gradi, per additare al mondo l’orrore, il disgusto o la disapprovazione non della guerra in Ucraina, ma di tutte le guerre.
Forse un giorno, turbati se non scioccati dalla documentazione di questi orrori, i grandi della terra, proveranno, se non a fermarsi, a fare un passo indietro verso un mondo migliore, prima però che si faccia un deserto che venga chiamato pace [21].
[1] http://www.lefotochehannosegnatounepoca.it/2017/04/27/kim-phuc-la-nuova-vita-della-bambina-bruciata-dal-napalm/
[2] https://www.osservatoriorepressione.info/usa-iniziato-processo-la-morte-george-floyd/
[3] https://www.focus.it/cultura/storia/terrorismo-rosso-anni-di-piombo
[4] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2022/04/16/mariupol-i-russi-stanno-rastrellando-i-nostri-uomini_34f7330f-b304-4ed1-923f-550d8ba024a0.html
[5] https://geo.tesionline.it/geo/article.jsp?id=13682
[6] https://www.tulliofortuna.com/artworks#bwg40/4943: “I can’t breathe: a new America Flag” (remembering Jasper Jones).
[7] https://www.rivistailmulino.it/a/il-diritto-e-la-guerra.
Sontag, (On photography, New York, Anchor books-Doubleday, 1990) ritiene, invece, che “il trauma delle atrocità fotografate svanisce vedendole ripetutamente…in questi ultimi decenni, la fotografia “impegnata” ha contribuito ad addormentare le coscienze almeno quanto a destarle”.
[8] http://www.lefotochehannosegnatounepoca.it/2017/05/16/david-kirby-lo-scatto-cambiato-volto-dellaids/
[9] Condannato dalla Corte federale di Karlsruhe per aver sfruttato cinicamente sentimenti e compassione a fini commerciali.
[10] https://phehinothatemiyeyelo.wordpress.com/2018/12/04/manifesta-inferiorita-un-essere-misero/
[11] Toscani, Ciao Mamma, Mondadori, 1995, 37.
[12] Pierre Mac Orlan, Scritti sulla fotografia , Medusa Edizioni, 2020
[13] https://www.corriere.it/cronache/20_novembre_21/lamborghini-rimuove-social-foto-letizia-battaglia-le-proteste-sindaco-palermo-2320033e-2bcc-11eb-b3be-93c88ba49aa1.shtml
[14] https://www.ilriformista.it/letizia-battaglia-dalla-bimba-col-pallone-alla-pubblicita-lamborghini-arte-confusa-con-pedofilia-293615/?refresh_ce
[15] Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, 2003.
[16] Egon Schiele, Ritratto d'artista, Abscondita, 2007.
[17] https://expoitalyonline.it/toscani-interessa-caschi-un-ponte/13137402.
[18] https://www.atlanteguerre.it
[19] Susie Linfield, La luce crudele, Contrasto, Roma, 2013, 11.
[20] Bresson, Vedere è tutto, Roma, 2014, 58.
[21] Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant , locuzione tratta dall'Agricola di Publio Cornelio Tacito.
L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 25 febbraio 2022, n. 1342)
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Il diritto di accesso ai sensi della l. n. 241/1990: osservazioni minime. – 2.1. segue: simmetrie (e contrasti) con l’accesso civico semplice e generalizzato. – 3. Analisi critica della sentenza n. 1342/2022: portata e limiti dell’accesso c.d. “difensivo”. – 3.1. segue: l’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021: quali scenari? – 4. Conclusioni.
1. La vicenda
La vicenda, in sintesi, trae origine dal ricorso (n. r. g. 55/2021) con cui un operatore economico inoltrava all’ASL 1 Avezzano-Sulmona-L’Aquila, ai sensi della l. n. 241/1990, istanza di accesso ad un serie di atti, deliberazioni, determinazioni e provvedimenti adottati dall’amministrazione, ivi puntualmente elencati, e relativi a procedure di gara e a contratti di fornitura stipulati tra le parti tra il 2005 e il 2015, asseritamente necessari «per valutare l’esattezza degli adempimenti contrattuali» e porli «a sostegno di azioni giudiziarie» avverso la stazione appaltante (in specie, per farsi vedere riconosciuto il pagamento su fatture per interessi su prestazioni e/o merce rese nel corso degli anni a favore della S.A. medesima). Ebbene, contro il silenzio dell’amministrazione, la società istante proponeva ricorso innanzi al T.A.R. Abruzzo, per l’accertamento dell’inadempimento e l’ostensione degli atti richiesti. Il giudice di prime cure, respingeva, quindi, le doglianze della ricorrente[1], evidenziando come l’ostensione documentale «non può essere finalizzata all’esercizio di un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, allo scopo di verificare eventuali e non ancora definite forme di lesione della sfera dei privati», ciò in quanto l’interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi deve essere comparato con gli altri interessi rilevanti, tra cui quello dell’amministrazione a non subire eccessivi intralci nella propria attività gestoria presidiata anche a livello costituzionale.
Ebbene, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato, nell’accogliere le doglianze dell’appellante, si inserisce e rimarca il tracciato giurisprudenziale formatosi recentemente in materia di c.d. “accesso defensionale”, confermando l’interpretazione - pure accolta dall’Adunanza plenaria[2] - su un istituto dotato, di fatto, di peculiarità proprie e di valenza del tutto autonoma e meglio perimetrando il potere valutativo attribuito alla P.A. in sede di disamina delle istanze di accesso difensivo sottoposte alla sua cognizione.
Come noto, infatti, prima dell’intervento della citata A.P., il dibattito pretorio in materia è stato caratterizzato da una rigida polarizzazione tra due orientamenti tra loro confliggenti. Ed infatti, (i) un primo filone interpretativo[3] riteneva sufficiente, ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso, che la documentazione richiesta avesse “attinenza” con il processo, non potendo la P.A. disquisire sulla fondatezza o meno delle pretese azionate, sulla concreta utilità del documento richiesto rispetto alle difese addotte ovvero sulla validità della strategia processuale prescelta; (ii) un secondo indirizzo, de contrario, propendeva per una valutazione più rigorosa dell’istanza di accesso, tanto da imporre al richiedente di dimostrare - eccezion fatta per le sole ipotesi di connessione evidente tra diritto all’accesso ed esercizio proficuo del diritto di difesa - la specifica connessione con gli atti di cui ipotizza la rilevanza ai fini difensivi e ciò anche ricorrendo all’allegazione di elementi induttivi, ma testualmente espressi, univocamente connessi alla “conoscenza” necessaria alla linea difensiva e logicamente intellegibili in termini di consequenzialità rispetto alle deduzioni difensive potenzialmente esplicabili[4].
Ebbene, anticipando quanto meglio si dirà nel seguito, i giudici di Palazzo Spada hanno ribadito, in estrema sintesi, come la fondatezza dell’eventuale “futura” iniziativa giudiziaria cui è collegata l’accesso non può essere tout courtsindacata dalla pubblica amministrazione e, conseguentemente, dal giudice dell’accesso[5]. Ed infatti, la P.A. detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241/1990.
2. Il diritto di accesso ai sensi della l. n. 241/1990: osservazioni minime
Il diritto di accesso ai dati, alle informazioni e ai documenti in possesso dell’amministrazione - rappresenta uno degli istituti fondamentali in cui si estrinseca il principio di trasparenza[6]. Come evidenziato in dottrina[7], questo legame si riflette pure sulla fisionomia dell’accesso amministrativo, che presenta nel nostro ordinamento una natura multiforme. Ed infatti, plurime sono le forme di accesso previste, ciascuna caratterizzata da uno specifico percorso evolutivo (normativo e giurisdizionale) e da tratti giuridici almeno in parte originali[8]. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce, in sintesi, un principio generale dell’ordinamento giuridico e si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell’amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi[9]. Con riferimento all’accesso disciplinato dalla l. n. 241/1990 (artt. 22-27), ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l’esercizio di tale diritto, deve esistere: (a) un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, ma comunque giuridicamente tutelato, e (b) un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione, nesso di strumentalità che deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere “mezzo utile” per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante[10].
In buona sostanza, dunque, la l. n. 241 cit. - allo scopo di abbattere il tradizionale schermo del segreto amministrativo - ha disciplinato il diritto di accesso ai documenti amministrativi quale strumento finalizzato alla tutela di colui che ne abbia interesse avverso atti e provvedimenti della pubblica amministrazione incidenti sulla sua sfera soggettiva[11] (la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce, ovviamente, che l’accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di “controllo generalizzato” sulla legittimità degli atti dell’amministrazione pubblica). Il diritto di accesso rappresenta, quindi, una situazione giuridica che: (i) ex se non garantisce l’acquisizione o la conservazione di beni della vita e, dunque, non assicura al suo titolare il conseguimento di utilità finali; (ii) è strumentale, piuttosto, al soddisfacimento (o al miglior soddisfacimento) di altri interessi giuridicamente rilevanti (diritti o interessi), rispetto ai quali si pone in posizione ancillare. La conoscenza dei documenti amministrativi, quindi, deve essere correlata - in modo “diretto, concreto e attuale”[12] - ad altra “situazione giuridicamente tutelata”: non si tratta, dunque, di una posizione sostanziale autonoma, ma di un potere di natura procedimentale, funzionale alla tutela di situazioni stricto sensu sostanziali, abbiano esse consistenza di diritto soggettivo o interesse legittimo. In tal guisa, la stessa nozione di legittimazione all’accesso - come prefigurata dall’art. 22 della l. n. 241/1990, che richiede, per l’appunto, la titolarità di un interesse diretto, concreto e attuale - vale a rivelare la ontologica natura strumentale del diritto di accesso rispetto ad altra, effettiva, posizione sostanziale (che non può ridursi ad un mero “diritto all’informazione”), nonché a precludere che un tale potere si risolva in un controllo generalizzato, anche di natura meramente esplorativa o emulativa, sull’agere amministrativo[13].
Oltre la qualificazione dell’interesse, per quanto qui di precipuo interesse, vale la pena soffermarsi brevemente anche sul concetto di “utilità” dell’accesso. A tal proposito non può non evidenziarsi come l’amministrazione (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, sia tenuta soltanto a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata[14]. La P.A., in sintesi, non è tenuta a verificare l’effettiva utilità dei documenti in vista della difesa delle ragioni dell'istante né, tanto meno, la strategia difensiva dallo stesso articolata, ma solo la non manifesta inutilità della visione degli atti stessi. In buona sostanza, occorre valutare unicamente l’inerenza del documento richiesto all’interesse dell’istante, non anche l’utilità dei documenti al fine del soddisfacimento della pretesa correlata: è quindi sufficiente una valutazione in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, non potendo la legittimazione all’accesso essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante[15]. In definitiva, il diritto di accesso rappresenta espressione non solo del principio di informazione (ravvisabile nell’art. 21 Cost.) e in tutti i principi cui essa è ispirata, ma anche del principio di difesa (art. 24 Cost.) nonché dei valori di buon andamento e imparzialità (fissati all’art. 97 Cost). Partecipazione e trasparenza, quindi, si presentano come un binomio imprescindibile per garantire l’imparzialità della P.A. e delle sue attività, ivi incluso il corretto esplicarsi del diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto dalla legge ai soggetti privati. Nell’accesso documentale convivono, de facto, due anime: una legata al concetto di trasparenza e l’altra legata più propriamente alla sfera giuridica dell’interessato consentendogli una migliore difesa degli interessi vantati[16]. Il diritto di accesso documentale non è tout court un diritto autonomo, ma è un diritto “strumentale” all’esercizio di un altro diritto: non si procede con l’accesso agli atti unicamente per il vezzo di esaminare i documenti di un procedimento amministrativo, ma, diversamente, perché si vanta un interesse diretto, concreto e attuale all’ostensione di quella specifica documentazione e quindi alla conoscenza dei documenti amministrativi - in via strumentale - per la partecipazione procedimentale o per la difesa in giudizio, ciò ogniqualvolta venga allegata la sussistenza di un interesse alla tutela di situazioni giuridicamente rilevanti[17].
2.1. segue: simmetrie (e contrasti) con l’accesso civico semplice e generalizzato
Separato, seppur sintetico, cenno merita, poi, il rapporto tra il diritto di accesso come contemplato dalla l. n. 241/1990 e l’accesso civico ex d.lgs. n. 33/2013[18]. Partendo dalla disamina delle simmetrie tra i due istituti, si evidenzia come il primo importante elemento in comune rilevi con riferimento alla delimitazione dell’ambito soggettivo di legittimazione passiva. Benché con alcune differenze di dettaglio, infatti, in tutti i casi la richiesta di accesso può essere presentata non solo alle pubbliche autorità in senso stretto, ma anche ai soggetti formalmente privati limitatamente allo svolgimento da parte loro di attività di pubblico interesse[19]. Altro profilo di simmetria attiene alla previsione di un’ampia gamma di limiti, posti a tutela sia di alcune forme di segreto “di rilevanza pubblicistica”, sia del diritto alla riservatezza dei terzi (o di alcune sue manifestazioni settoriali)[20]. Ancora, si guardi al tema della completezza dell’istruttoria e del contraddittorio nella triade di accessi (documentale, civico e generalizzato)[21]. Infine, l’accesso generalizzato e quello documentale presentano una importante convergenza di carattere “rimediale”: essi sono accomunati, infatti, dalla previsione espressa della possibilità di praticare meccanismi risolutivi, “a monte” dell’eventuale conflitto con le esigenze di segretezza e riservatezza[22].
Maggiori, tuttavia, si appalesano le differenze tra gli istituti sopra richiamati. Innanzitutto, l’accesso civico, di cui all’art. 5 del d. lgs. 33/2013, nonostante alcuni punti di contatto di tipo “testuale”, si pone su un piano diverso rispetto all’accesso documentale, che rimane caratterizzato da un rapporto qualificato del richiedente con i documenti che si intendono conoscere, derivante proprio dalla titolarità in capo al soggetto richiedente di una posizione giuridica qualificata tutelata dall’ordinamento. Ed infatti, accanto all’accesso tradizionale, collegato alle specifiche esigenze del richiedente e caratterizzato dalla connotazione strumentale agli interessi individuali dell’istante, posto in una posizione differenziata rispetto agli altri cittadini che legittima il diritto di conoscere e di estrarre copia di un documento amministrativo, si è dapprima introdotto l’accesso civico c.d. “semplice”, imperniato su obblighi di pubblicazione gravanti sulla pubblica amministrazione e sulla legittimazione di ogni cittadino a richiederne l’adempimento; poi, l’accesso civico “generalizzato”, azionabile da chiunque, senza previa dimostrazione circa la sussistenza di un interesse concreto e attuale in connessione con la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e senza alcun onere di motivazione della richiesta (vale a dire senza necessità di puntuale motivazione)[23]. Dunque, l’accesso documentale non rappresenta uno strumento di controllo ispettivo sull’attività dell’amministrazione, mentre l’introduzione del d.lgs. n. 33/2013 ha determinato la considerevole estensione della gamma dei dati e degli atti conoscibili, a prescindere dall’esigenza di proteggere il proprio patrimonio giuridico.
A tal proposito, le differenze fra le diverse tipologie di accesso sono desumibili pure dagli obiettivi sottesi alle rispettive previsioni normative, in quanto: (i) con l’accesso ai documenti (art. 22 l. n. 241/1990) è possibile ottenere l’ostensione dei documenti richiesti puntualmente dall’interessato; (ii) con l’accesso civico, semplice e generalizzato, si assicura una conoscenza più estesa ma meno approfondita da parte del cittadino a documenti e informazioni, fermi restando i limiti posti a salvaguardia di interessi pubblici e privati suscettibili di essere lesi[24].
Le differenze tra gli accessi sopra citati si possono riscontrare anche sul piano procedurale[25], in quanto nei casi di diniego parziale o totale all’accesso o in caso di mancata risposta allo scadere del termine per provvedere, contrariamente a quanto dispone la l. n. 241/1990, non si forma silenzio rigetto, ma il cittadino può attivare la speciale tutela amministrativa interna davanti al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza formulando istanza di riesame, alla quale deve essere dato riscontro entro i termini normativamente prescritti (le decisioni sulle istanze di accesso civico semplice e generalizzato si presumono espresse e, in caso di inerzia della P.A., questa si qualifica come silenzio inadempimento)[26]. La disciplina maggiormente garantista dell’accesso civico generalizzato tende e consente, quindi, l’esercizio di un controllo diffuso sul “perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. Da ciò una decisiva considerazione: sebbene la disposizione introdotta dall’art. 5 del d. lgs. n. 33/2013 non richieda particolari legittimazioni, potendo essere attivata da “chiunque” e anche in assenza di una espressa motivazione, allo stesso tempo la richiesta avanzata dal cittadino deve comunque essere riconducibile al soddisfacimento di un interesse che abbia una valenza pubblica e non resti confinato ad un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo che, lungi dal favorire la consapevole partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, si traduca in una elusione delle diverse finalità e dei limiti dettati dall’accesso documentale ex l. n. 241/1990. Su quest’ultimo punto, giova, poi, evidenziare come la finalità soggettiva che spinge il richiedente a presentare istanza di accesso civico non è sindacabile: anche richieste di accesso civico presentate per finalità “egoistiche” possono favorire un controllo diffuso sull’amministrazione, se queste consentono di conoscere le scelte amministrative effettuate. Il controllo diffuso di cui parla la legge, infatti, non è da riferirsi alla singola domanda di accesso ma è il risultato complessivo cui “aspira” la riforma sulla trasparenza la quale, ampliando la possibilità di conoscere l’attività amministrativa, favorisce forme diffuse di controllo sul perseguimento dei compiti istituzionali e una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi democratici e al dibattito pubblico. Infine, è distinta la ratio complessiva degli accessi sopra menzionati. Ed infatti, l’accesso documentale punta, in concreto, ad assicurare ai singoli - secondo una concezione dialettica e antagonista del rapporto fra soggetti pubblici e privati - la possibilità di proteggere adeguatamente il proprio patrimonio giuridico; diversamente, il controllo diffuso sull’attività amministrativa (la c.d. “vigilanza diffusa”, concetto meno legato alla sola protezione individuale) rappresenta la funzione primaria dell’accesso civico semplice e di quello generalizzato.
In definitiva, appare evidente che il legislatore, pur introducendo l’istituto dell’accesso civico (semplice e “generalizzato”, espressamente volto a consentire l’accesso di chiunque a documenti e dati detenuti dai soggetti indicati nell’art. 2 bis del d.lgs. n. 33/2013), permettendo quindi l’accesso (ai fini di un controllo) diffuso alla documentazione in possesso delle amministrazioni (e degli altri soggetti indicati nella norma appena citata) e privo di un manifesto interesse da parte dell’accedente, ha però voluto tutelare interessi pubblici e interessi privati che potessero esser messi in pericolo dall'accesso indiscriminato. Il legislatore ha quindi operato per un verso mitigando la possibilità di conoscenza integrale e indistinta dei documenti detenuti dall'ente introducendo dei limiti all’ampio accesso (art. 5 bis, commi 1 e 2, del d.lgs. 33/2013) e, per altro verso, mantenendo in vita l’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi e la propria disciplina dettata dalla l. n. 241/1990 (evitando accuratamente di novellare la benché minima previsione contenuta nelle disposizioni da essa recate), anche con riferimento ai rigorosi presupposti dell’ostensione, sia sotto il versante della dimostrazione della legittimazione e dell’interesse in capo al richiedente sia sotto il versante dell’inammissibilità delle richieste volte ad ottenere un accesso diffuso[27].
3. Analisi critica della sentenza n. 1342/2022: portata e limiti dell’accesso c.d. “difensivo”
Dato il perimetro normativo/giurisprudenziale brevemente esaminato nei paragrafi precedenti, nonché per meglio comprendere ed esaminare l’istituto dell’accesso defensionale per come richiamato e applicato dai giudici di Palazzo Spada nella sentenza in commento, pare doveroso, innanzitutto, ribadire come dalle previsioni della l. n. 241/1990 risulta una disciplina dell’accesso ispirata ai seguenti principi: (a) esigere la sussistenza del solo nesso di necessaria strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici [cfr. art. 24, comma 7, della l. n. 241 cit.]; (b) ricomprendere, tra i destinatari, tutti i soggetti privati, ivi compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, senza alcuna ulteriore esclusione [art. 22, comma 1, lettera d), l. n. 241 cit., con formula pure replicata dall’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 184 del 2006]; (c) circoscrivere le qualità dell’interesse legittimante a quelle ipotesi che - sole - garantiscono la piena corrispondenza tra la situazione (sostanziale) giuridicamente tutelata ed i fatti (principali e secondari) di cui la stessa fattispecie si compone, atteso il necessario raffronto che l’interprete deve operare, in termini di pratica sussunzione, tra la fattispecie concreta di cui la parte domanda la tutela in giudizio e l’astratto paradigma legale che ne costituisce la base legale.
Orbene, come pure chiarito dall’A.P.[28], siffatto giudizio di sussunzione, che costituisce la base fondante dell’accesso difensivo, è regolato in ogni suo aspetto dalla legge (e dal rispettivo regolamento di attuazione), mostrandosi privo di “tratti liberi” lasciati alla interpretazione discrezionale dell’autorità amministrativa ovvero alla prudente interpretazione del giudice. Più in particolare, la legge ha proceduto a selezionare, tra i canoni ermeneutici in astratto possibili, quelli della immediatezza, della concretezza e dell’attualità [art. 22, comma 1, lettera d), cit.], in modo tale da ancorare il giudizio sull’interesse legittimante a due parametri fissi, rigidi e predeterminati quanto al loro contenuto obiettivo. La “corrispondenza”, in buona sostanza, circoscrive esattamente l’interesse all’accesso agli atti in senso, per l’appunto, “corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”.
In sintesi, dunque, l’unico interesse legittimante all’accesso difensivo sarà quello che corrisponderà in modo diretto, concreto ed attuale alla cura o anche difesa in giudizio di tali predeterminate fattispecie, in chiave strettamente difensiva. Tale ultimo aspetto, più in particolare, è chiarito dal secondo dei parametri al quale si è fatto cenno, e cioè quello riguardante il c.d. “collegamento”. Il legislatore ha, infatti, ulteriormente circoscritto l’oggetto della situazione legittimante l’accesso difensivo rispetto all’accesso “ordinario”, esigendo che la stessa, oltre a corrispondere al contenuto dell’astratto paradigma legale, sia anche collegata al documento al quale è chiesto l’accesso [art. 24, comma 7, della l. n. 241 cit.], in modo tale da evidenziare in maniera diretta ed inequivoca il nesso di strumentalità che avvince la situazione soggettiva finale al documento di cui viene richiesta l’ostensione, e per l’ottenimento del quale l’accesso difensivo, in quanto situazione strumentale, fa da tramite. Tale esigenza è soddisfatta, sul piano procedimentale, dal successivo art. 25, comma 2, della l. n. 241 cit., ai sensi del quale la richiesta di accesso ai documenti deve essere debitamente motivata[29]. In questa prospettiva, dunque, non paiono sufficienti generici riferimenti a “esigenze probatorie e difensive”, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché - come detto - l’ostensione del documento passa attraverso un rigoroso vaglio circa l’appena descritto nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa; ciò, peraltro, senza dimenticare (rectiusadombrare) il bilanciamento tra interesse all’accesso difensivo dell’istante e la tutela della riservatezza del controinteressato[30]. Proprio ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo, preordinato all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale in senso lato, e la tutela della riservatezza, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. “supersensibili”)[31], ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza, a condizione del riscontro della sussistenza dei presupposti generali, di cui si è detto, dell’accesso documentale di tipo difensivo. È chiaro, quindi, che il collegamento tra la situazione legittimante e la documentazione richiesta impone un’attenta analisi della motivazione che la P.A. ha adottato nel provvedimento con cui ha accolto o, viceversa, respinto l’istanza di accesso. Soltanto attraverso l’esame di questa motivazione è infatti possibile comprendere se questo collegamento, nel senso sopra precisato, esista effettivamente e se l’esigenza di difesa rappresentata dall’istante prevalga o meno sul contrario interesse alla riservatezza nel delicato bilanciamento tra i valori in gioco.
In tale contesto, la P.A. detentrice del documento e il giudice amministrativo adito nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere alcuna ultronea valutazione sulla influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato[32], poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione o allo stesso giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso[33].
Tanto è confermato dal fatto che, come anche evidenziato dall’Adunanza Plenaria[34], un diverso ragionamento reintrodurrebbe nella disciplina dell’accesso difensivo e, soprattutto, nella sua pratica applicazione limiti e preclusioni che, invece, non sono contemplati dalla legge, la quale ha già previsto, come si è detto, adeguati criteri per valutare la situazione legittimante all’accesso difensivo e per effettuare il bilanciamento tra gli interessi contrapposti all’ostensione del documento o alla riservatezza. Se l’istanza di accesso sia poi motivata unicamente, ai sensi dell’art. 25, comma 2, della l. n. 241 cit., con riferimento ad esigenze difensive di un particolare giudizio e il giudice di quella causa si sia già pronunciato sull’ammissibilità o, addirittura, sulla rilevanza del documento nel giudizio già instaurato, la P.A. e, in sede contenziosa ai sensi dell’art. 116 c.p.a., il giudice amministrativo dovranno tenere conto di questa valutazione, sul piano motivazionale, ma sempre e solo per valutare la concretezza e l’attualità del bisogno di conoscenza a fini difensivi e non già per sostituirsi ex ante al giudice competente nella inammissibile e impossibile prognosi circa la fondatezza di una particolare tesi difensiva, alla quale la richiesta di accesso sia preordinata (salvo, ovviamente, il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241/1990). In sintesi, quindi, l’accesso difensivo ha una sua identità caratteristica, pure prevalente sulla tutela della riservatezza, che tuttavia richiede una motivazione dell’istanza di accesso che ne dimostri la “necessità” per la cura di un interesse giuridico protetto. Al cospetto di un tale accesso, la P.A. è chiamata, con certosina attenzione, a valutare - per consentire o meno l’ostensione dell’atto - il legame tra gli atti oggetto di accesso e la possibilità di una tutela giurisdizionale, senza però giudizi prognostici sull’effettiva utilità rispetto alla tutela del bene della vita[35].
Applicando al caso di specie le coordinate interpretative sopra richiamate, dunque, il Consiglio di Stato, pure ricalcando i principi espressi dall’Adunanza Plenaria sul punto, ha evidenziato che, innanzitutto, l’istanza di accesso agli atti formulata dalla società ricorrente in primo grado «non è un’istanza di accesso civico, ma di accesso difensivo, volto all’ostensione di atti relativi a rapporti contrattuali tra essa ricorrente e l’amministrazione». In particolare, il Collegio ha desunto la finalità difensiva, peraltro dichiarata nella stessa istanza e nella corrispondenza che ne è seguita con l’amministrazione, dalla necessità dell’appellante di valutare la proposizione di azioni giudiziarie per il pagamento delle somme asseritamente dovute dalla S.A. a titolo di ritardo nel pagamento di forniture. Ebbene, a fronte di tale specifica individuazione e della presenza di un interesse difensivo in capo all’istante, l’amministrazione ha, quindi, l’obbligo di procedere all’ostensione, non assumendo rilievo «nemmeno la possibile prescrizione dei diritti di credito per la cui difesa in giudizio l’istante chiede l’ostensione», e ciò in quanto «anche a prescindere dal rilievo che la prescrizione paralizza il credito solo se eccepita in giudizio e può essere oggetto di atti interruttivi, la fondatezza dell’eventuale futura iniziativa giudiziaria non può essere sindacata dalla pubblica amministrazione e, conseguentemente, dal giudice dell’accesso»[36].
3.1. segue: l’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021: quali scenari?
Come evidenziato in premessa, la sentenza del Consiglio di Stato in commento si innesta su un sentiero giurisprudenziale lineare (rectius conforme) rispetto all’interpretazione fornita dall’Adunanza Plenaria sull’accesso defensionale. Muovendo le mosse dall’A.P. sopra citata, è possibile quindi sostenere che l’istituto dell’accesso amministrativo non si “appiattisce” sulla sola prospettiva della partecipazione, dell’imparzialità e della trasparenza, ma che esistono, all’interno della fattispecie giuridica generale dell’accesso, due anime che vi convivono, dando luogo a due fattispecie particolari, di cui una (e cioè quella relativa all'accesso “difensivo”) può addirittura operare quale eccezione al catalogo di esclusioni previste per l’altra (l’accesso “partecipativo”), salvi gli opportuni temperamenti in sede di bilanciamento in concreto dei contrapposti interessi[37]. A tal proposito, si può, quindi, rilevare, in primo luogo, come l’accesso difensivo sia costruito come una fattispecie ostensiva autonoma, caratterizzata (dal lato attivo) da una vis espansiva capace di superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi; e connotata (sul piano degli oneri) da una stringente limitazione, ossia quella di dovere dimostrare la necessità della conoscenza dell’atto o la sua stretta indispensabilità, nei casi in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari. In secondo luogo, la conoscenza dell'atto non è destinata a consentire al privato di partecipare all’esercizio del pubblico potere in senso “civilmente” più responsabile, ossia per contribuire a rendere l'esercizio del potere condiviso, trasparente e imparziale, ma rappresenta il tramite per la cura e la difesa dei propri interessi giuridici[38].
Conseguentemente, da quanto sopra emerge una disciplina dell’accesso difensivo nel senso di esigere la sussistenza del solo nesso di necessaria strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici[39] e di ricomprendere, tra i destinatari, tutti i soggetti privati, ivi compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, senza alcuna ulteriore esclusione, circoscrivendo le qualità dell’interesse legittimante a quelle ipotesi che garantiscono la piena corrispondenza tra la situazione (sostanziale) giuridicamente tutelata ed i fatti (principali e secondari) di cui la stessa fattispecie si compone[40]. L’interesse all’accesso difensivo, quindi, laddove sia stato dimostrato il “nesso di necessarietà” (e non anche di “indispensabilità”, che concerne solo i documenti che recano al loro interno dati sensibili e giudiziari, nella scelta espressiva ancora presente nell’art. 24, comma 7, secondo periodo, l. n. 241/1990) tra i documenti richiesti e la potenziale utilizzazione degli stessi nell’ambito di un giudizio ovvero per garantire la tutela della posizione soggettiva dell’accedente, è dimostrato (e comprovato) dalla attinenza dei documenti richiesti con la tutelabilità potenziale, all’esito di una verifica ex ante, della posizione soggettiva rispetto alla quale l’interessato intende chiedere tutela[41]. All’accedente deve imporsi, quindi, al fine dell’ottenimento della documentazione, di dimostrare la “necessità” della richiesta di acquisizione dei documenti, ma certamente non anche la dimostrazione della effettiva detenzione del documento in capo alla P.A. nel momento in cui la richiesta è formulata, atteso che spetta all’amministrazione di assumersi la responsabilità di dichiarare formalmente ed espressamente l’eventuale assenza dei documenti oggetto di accesso presso i propri archivi o banche dati cartacee o digitali[42]. Come pure evidenziato in via pretoria[43], peraltro, la riconducibilità del documento alle ipotesi normate dall’art. 24, comma 1 della l. n. 241/1990 deve ritenersi da sé sola insufficiente per negare l’ostensione, dal momento che quando l’accesso viene esercitato con finalità difensive l’esclusione non è sempre assoluta, ma è solo “tendenziale”, tanto più se l’istante ha dato prova del fatto che la necessità di difendere i propri interessi non deriva da una lesione connessa alla possibile adozione dell’atto finale e non è neppure connotata da profili di carattere pubblicistico connessi all’esercizio del potere pubblico, ma è collegata a un giudizio nel quale i rapporti intercorrenti tra le parti assumono un autonomo rilievo. In sintesi, dunque, l’accoglimento dell’istanza di accesso agli atti non rende il dato acquisito liberamente trattabile dal soggetto richiedente, il quale, viceversa, è rigorosamente tenuto a trattare e a utilizzare tale dato per le sole finalità difensive per le quali ne ha chiesto l’ostensione, pena il rischio di incorrere nelle sanzioni amministrative ed, eventualmente, anche penali (a seconda della condotta illecita) previste per il trattamento illegittimo dei dati personali riservati[44] e fatta altresì salva la riconducibilità dell’illecito trattamento alla responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. Si prospetta, quindi (pure in via pretoria[45]), il totale riconoscimento - e sdoganamento - delle peculiarità e dell’autonoma valenza dell’accesso difensivo, che richiede certo un interesse diretto, concreto ed attuale collegato all’ostensione dell’atto, ma senza che la P.A. possa addurre giudizi prognostici sull’utilità di tale atto nel processo instaurato o da avviare[46]. Circostanza, da ultimo, confermata (recentemente) pure dalla Sesta sezione del Consiglio di Stato[47], laddove, nel sintetizzare le coordinate interpretative dell’Adunanza Plenaria, chiarisce, in definitiva, come l’accesso difensivo presuppone: a) la sussistenza del solo nesso di necessaria strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici; b) la verifica della sussistenza di un interesse legittimante, dotato delle caratteristiche della immediatezza, della concretezza e dell’attualità. La sussistenza di un nesso di necessaria strumentalità impone, quindi, al richiedente di motivare la propria richiesta di accesso, rappresentando in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione elementi che consentano all’amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione “finale” controversa.
4. Conclusioni
Alla luce di quanto sopra esposto, si evince come l’istituto dell'accesso ai documenti amministrativi, ai sensi dell’art. 22 e ss. della l. n. 241/1990, è oramai fortemente caratterizzato dal principio della massima ostensione, salve le limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare il suddetto interesse con altri interessi meritevoli di tutela (si veda in particolare l’art. 24, comma 7, l. n. 241 cit.). A tal riguardo, va, quindi, accolta una nozione ampia di “strumentalità” del diritto di accesso, nel senso della finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale e non meramente emulativo o potenziale, connesso alla disponibilità dell’atto o del documento del quale si richiede l’accesso, ammettendo - quindi - che la richiamata “strumentalità” va intesa in senso ampio in termini di utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante. A tal fine, come pure evidenziato in via pretoria, il legame tra la finalità dichiarata e il documento richiesto è rimessa alla valutazione della P.A., in sede di amministrazione attiva e del giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva. Valutazione che, come detto, va effettuata in astratto, senza apprezzamenti diretti (e indebiti) sulla documentazione richiesta. L’accesso, in tal senso, assume, quindi, una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale, ma anche dall’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe proporre. Ed infatti, il diritto di accesso ai documenti amministrativi costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico, il quale si colloca in un sistema ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell'azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità della funzione pubblica da parte dell'amministrato, basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi. In quest’ottica, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse. Sul punto, sono doverose almeno due considerazioni:
(i) la prima, muove dal dato normativo. L’art. 24, settimo comma, della l. n. 241 cit. è cristallino nel prevedere che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. In buona sostanza, se l’interesse alla conoscenza del documento è “strumentale” all’esigenza di protezione di una situazione giuridica soggettiva individuale, la disposizione normativa de qua - di fatto “sovraordinata” - non lascerebbe dubbi circa la sua portata applicativa immediata, sintetizzabile in questi termini: (a) in generale, nessun bilanciamento degli interessi da parte dell’amministrazione sarebbe necessario - o potrebbe, pure in astratto, essere esperito - in quanto effettuato, già a monte (in termini di regola di composizione del conflitto), dal legislatore[48]; (b) le possibilità in cui, effettivamente, un bilanciamento (rectius una situazione discrezionalmente apprezzabile) da parte della P.A. parrebbe possibile è limitata dal legislatore stesso a quei casi in cui si contrapponga un interesse “di pari rango”[49];
(ii) la seconda, è di ordine sistematico. Come evidenziato nei paragrafi precedenti, chiarito lo spettro di azione dei diversi accessi (procedimentale e civico, nelle sue declinazioni), ed evidenziato come il secondo assolva pure pienamente alle “curiosità civiche” dei richiedenti, l’accesso defensionale assurge, di fatto, a ipotesi tipica della l. n. 241/1990, nelle sue - tutte - peculiarità già sopra evidenziate[50].
Orbene, volgendo nuovamente lo sguardo verso le osservazioni preliminari in incipit, si è detto come la legittimazione all’accesso non può essere valutata facendo riferimento alla fondatezza della pretesa sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma (strumentale all’esercizio del diritto di difesa in giudizio, sebbene si possa prescindere dalla pendenza attuale di una causa), mentre residuerebbe all’amministrazione il vaglio sul nesso di strumentalità della richiesta rispetto alle esigenze ad essa sottese[51]. Su quest’ultimo aspetto, tuttavia, pare doveroso evidenziare - peraltro proprio in virtù delle considerazioni di cui ai punti (i) e (ii) sopra esposti - che il “vaglio” su tale nesso potrebbe essere addirittura del tutto escluso, dal momento che, come detto, il giudizio di prevalenza è effettuato direttamente dalla legge a favore dell’interesse alla conoscenza, senza lasciare margini, di fatto, ad alcun intervento valutativo da parte della P.A. (nemmeno sulla necessaria strumentalità della conoscenza per la difesa giudiziale della situazione soggettiva), salvo i casi degli interessi c.d. “super sensibili” (i.e. dati relativi alla salute, alla vita o all’orientamento sessuale)[52].
In sintesi, quindi, l’accesso ai documenti va consentito anche quando la relativa istanza è preordinata alla loro utilizzazione in un giudizio, senza che sia possibile operare alcun apprezzamento in ordine all’ammissibilità ovvero alla fondatezza della domanda o della censura che sia stata proposta o che si intenda proporre, la cui valutazione spetta soltanto al giudice chiamato a decidere[53], salvo il caso - non privo di mende, come sopra detto, ma anzi potenzialmente rubricabile come del tutto irragionevole[54] - di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241/1990. Sul punto, l’Adunanza plenaria n. 4/2021 si sofferma, inter alia, proprio sulla rilevanza della motivazione dell’istanza di accesso procedimentale, che deve dimostrare la necessità dell’atto per la tutela del diritto, lasciando così, di fatto, all’amministrazione e al giudice un ampio margine di valutazione tra opposti interessi[55]; con ciò confermando, quindi, un approccio “ingessato” (rectiusparziale) alla questione, quantomeno sul profilo della valutazione da parte della P.A. del nesso di strumentalità della richiesta, come detto pure censurabile in virtù del tenore normativo di riferimento (art. 24, comma 7, cit.) che, in ogni caso, sembrerebbe non militare nel senso di una “traslazione” della valutazione discrezionale della P.A. dal bilanciamento degli interessi a quello, diverso ma concorrente, della effettiva necessaria strumentalità della conoscenza per la difesa in giudizio della situazione soggettiva. In buona sostanza, la motivazione dell’istanza di accesso - “rilevante” e qualificata dall’A.P. come “necessaria” - tutt’al più potrebbe consistere (in medio stat virtus) in una mera prospettazione delle ragioni che rendono la documentazione oggetto dell’accesso necessaria a tutela della posizione giuridica tutelanda[56] (diversamente opinando, potrebbe sorgere il rischio di chiedere all’istante pure una probatio diabolica in termini di utilità).
In conclusione, al di là dell’intervento nomofilattico dell’A.P. - e della conseguente “stabilizzazione” delle regole, quantomeno sul fronte giurisprudenziale - permangono ancora diversi dubbi circa la legittimazione nei vari tipi di accesso[57] o sul potere dell’amministrazione di valutare l’istanza di ostensione dell’atto: perplessità che, allo stato, restano sullo sfondo dell’affidamento sui “nuovi” principi interpretativi.
[1] T.A.R. Abruzzo, sez. I, 22 aprile 2021, n. 214 in giustizia-amministrativa.it.
[2] Cons. Stato, Ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4, in giustizia-amministrativa.it. Sul punto, si rinvia, amplius, ai recenti scritti riuniti nel fascicolo a cura di V. Parisio, I diritti di accesso davanti al giudice amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2022, 1, 199 ss., passim.
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 novembre 2018, n. 6444, in Foro amm., 2018, 11, 1953 ss., ove si legge che «a fronte della chiara indicazione – così come formulata dalla parte istante – sia della documentazione richiesta sia delle esigenze connesse all’esercizio del diritto di accesso ex art. 24 comma 7 cit., oltre che coerente coi termini indicati dalla giurisprudenza sovranazionale sopra esaminata, all’Amministrazione non è consentito andare oltre una valutazione circa l’esistenza della situazione soggettiva da tutelare e di una concreta necessità di tutela, non potendo la stessa apprezzare nel merito la fondatezza della pretesa o le strategie difensive dell’interessato»; Id., sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 461, in Dir. e Giust., 2014.
[4] Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2472, in Red. Giuffrè, 2014. In termini, Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1568, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 3, 801 ss.
[5] Sul punto, v. T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 20 marzo 2020, n. 533, in Foro amm., 2020, 3, 449 ss. ove si chiarisce che «non compete all’Amministrazione effettuare una valutazione circa l’effettiva utilità degli atti richiesti, dovendo quest’ultima limitarsi a verificare l’attinenza tra tale documentazione e l’interesse che l’istanza intende tutelare. Allo stesso modo, il giudice amministrativo non può spingersi, in sede processuale, a verificare in che modo la parte intenda utilizzare nel processo civile la documentazione oggetto dell’istanza di accesso, rimanendo tale profilo riservato alla valutazione del titolare dell’interesse, unico soggetto competente a definire le proprie strategie di difesa».
[6] L’accesso, inteso nella sua dimensione generale, è una species del più ampio genus della trasparenza. Come evidenziato in dottrina (M.A. Sandulli), non sono figure coincidenti, in quanto la trasparenza rispetto all’accesso documentale, ha un ambito applicativo più ampio, perché riguarda l’organizzazione amministrativa in generale e non solo il procedimento amministrativo.
[7] A. Simonati, Gli accessi “a contenuto generale” e la trasparenza amministrativa, in V. Parisio (a cura di), I diritti di accesso davanti al giudice amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2022, 1, 201 ss. e l’amplia bibliografia ivi richiamata. Si veda anche A. Simonati, La ricerca in materia di trasparenza amministrativa: stato dell’arte e prospettive future, in Dir. Amm., 2018, 311-336, ove l’Autrice rileva che la tendenza a considerare i diritti di accesso quali istituti “totemici” della trasparenza amministrativa è diffusa non solo nella dottrina italiana, ma anche in quella straniera; Id., La trasparenza amministrativa e il legislatore: un caso di entropia normativa?, in Dir. Amm., 2013, 749-788; F. Manganaro, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Dir. amm., 2019, 743 ss.; V. Parisio, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale, in federalismi.it, 2018, 11.
[8] In particolare: (i) il diritto di accesso documentale o informativo, disciplinato dal Capo V della l. n. 241/1990 qui in esame e che ha per oggetto i documenti amministrativi nei confronti dei quali l’istante ha un interesse diretto, concreto e attuale (ii) il diritto di accesso “partecipativo”, esercitabile solo nel corso di un procedimento amministrativo disciplinato dall’art. 10 della l. n. 241 cit. in quanto consiste nel diritto dei soggetti destinatari della comunicazione dell’avvio del procedimento di prendere visione degli atti del procedimento al fine di presentare memorie e documenti all’interno del procedimento stesso; (iii) il diritto di accesso civico “semplice”, previsto dall’art. 5, comma 1, del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, che obbliga le P.A., in forza della specifica normativa vigente, a rendere pubblici documenti, informazioni e dati a prescindere da un’apposita istanza di accesso; (iv) il diritto di accesso “generalizzato”, introdotto dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013 cit., avente ad oggetto tutti quei dati e documenti detenuti dalla pubblica amministrazione per i quali non sussiste uno specifico obbligo di pubblicazione. In dottrina, A. Simonati, M. Calabrò, L’accesso dei privati alle informazioni e agli atti amministrativi: la multiforme applicazione del principio di trasparenza, in F. Astone, M. Calderara, F. Manganaro, F. Saitta, N. Saitta, A. Tigano (a cura di), Studi in memoria di Antonio Romano Tassone, Napoli, 2017, 2513 ss.; A. Simonati, L’accesso alle informazioni ambientali nell’ordinamento italiano: fra trasparenza amministrativa e deflazione del contenzioso, in M. Passalacqua, B. Pozzo (a cura di), Diritto e rigenereazione dei brownfields. Amministrazione, obblighi civilistici, tutele, Torino, 2020, 549-569; I.A. Nicotra, Dall’accesso generalizzato in materia ambientale al “Freedom of information act”, in federalismi.it, 2018, 1-21; G. Pizzanelli, Il contributo dell’accesso alle informazioni ambientali alla tutela del patrimonio pubblico, in Nuove Autonomie, 2020, 71 ss.; A. Paiano, I casi speciali di accesso: le interazioni con l’accesso civico generalizzato, in federalismi.it, 2020, 4, 146 ss. e V. Varone, La trasparenza fuori dal d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 tra giungla disordinata e universi paralleli, in federalismi.it, 2021, 11, 253 ss.
[9] Più in generale, il diritto di accesso costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di «favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza (art. 22, comma 2, l. n. 241/90), afferente a livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione (art. 29, comma 2 bis, l. n. 241/90)» (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 23 dicembre 2019, n. 2716, in giustizia-amministrativa.it). La dottrina sul diritto di accesso è sterminata: si vedano, ex plurimis, V. Parisio, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale, in federalismi.it, 2018, 11; Id., Il diniego di accesso ai documenti amministrativi nella normativa di attuazione della l. 7 agosto 1990 n. 241 prima indicazioni, in Giust. civ., 1995, 6, 305 ss.; M.A. Sandulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 2000, 1; F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia
effettiva e non una mera declamazione retorica, in federalismi.it, 2019; E. Carloni, La «casa di vetro» e le riforme. Modelli e paradossi della trasparenza amministrativa, in Dir. pub., 2009, 3, 779 ss.; M. Clarich, Diritto d'accesso e tutela della riservatezza: regole sostanziali e tutela processuale, in Dir. proc. amm., 1996, 3, 43 ss.; R. Maramma, La pubblica amministrazione tra trasparenza e riservatezza nell'organizzazione e nel procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 1989, 416 ss.; F. Patroni Griffi, La trasparenza della pubblica amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza, in federalismi.it, 2013, 8; A. Pajno, Il principio di trasparenza alla luce delle norme anticorruzione, in Riv. giust. civ., 2015, 2, 213-246; F. Manganaro, L'evoluzione sul principio di trasparenza amministrativa, in Scritti in memoria di Roberto Marrama, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012. Sia consentito pure il richiamo a G. Delle Cave, Il diritto di accesso alla luce delle - più recenti - pronunce dei Tribunali Amministrativi Regionali della Lombardia, in V. Parisio (a cura di), I diritti di accesso davanti al giudice amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2022, 1, 231 ss. e bibliografia ivi indicata.
[10] Ex aliis, Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2007, n. 55, in Foro Amm.-C.d.S., 2007, 1, 122 ss., ove si specifica che «l’interesse all'accesso ai documenti va valutato in astratto, senza che possa essere operata, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso e quindi la legittimazione all'accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante». Sul punto, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 26 aprile 2005, n. 1896, in Foro Amm.-C.d.S., 2005, 4, 1178 ss.; Id., sez. V, 07 settembre 2004, n. 5873, in Dir. e Giust., 2004, 36, 71 ss.; Id., sez. VI, 22 ottobre 2002, n. 5814, in Foro Amm.-C.d.S., 2002, 4, 2572 ss.
[11] Si veda la prevalenza dell’accesso c.d. “difensivo”, di cui all’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, sulle ipotesi di esclusione concernenti la necessità di tutela della riservatezza di terzi. Per un approfondimento sull’interpretazione dell’art. 24, comma 7, citato: Cons. Stato, Sez. VI, 07 febbraio 2014, n. 600, in giustizia-amministrativa.it, per cui: «L’eccezione del secondo periodo si occupa solo dei dati personali sensibili e sensibilissimi (coperti dal c.d. nocciolo duro del diritto alla riservatezza) sul presupposto, non esplicitato ma comunque evidente, che la regola del primo periodo valga, a sua volta, solo per i documenti che contengono dati personali (e non per qualsiasi ipotesi di esclusione dal diritto di accesso)». A proposito della prevalenza dell’accesso c.d. “difensivo”, ex multis: T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 06 marzo 2020, n. 446, in giustizia-amministrativa.it, relativa all’accesso al dato consistente in una utenza telefonica; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 20 marzo 2020, n. 533, in Foro Amm.-T.A.R., 2020, 3, 449 ss., in tema di accesso alla documentazione finanziaria, economica e patrimoniale detenuta dall’Agenzia delle Entrate, nonché, sempre in tema, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 26 settembre 2018, n. 2151, in giustizia-amministrativa.it.
[12] Si tratta quindi di un interesse: (i) diretto, cioè correlato alla sfera individuale e personale del soggetto richiedente, dovendosi con ciò escludere una legittimazione generale, indifferenziata ed inqualificata, che darebbe la stura ad una sorta di azione popolare; (ii) concreto, e quindi specificamente finalizzato, in prospettiva conoscitiva, alla acquisizione di dati ed informazioni rilevanti ed anche solo potenzialmente utili nella vita di relazione, palesandosi immeritevole di tutela la curiosità fine a se stessa, insufficiente un astratto e generico anelito al controllo di legalità, precluso un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni; (iii) attuale, cioè non meramente prospettico od eventuale, avuto riguardo alla attitudine della auspicata acquisizione informativa o conoscitiva ad incidere, anche in termini di concreta potenzialità, sulle personali scelte esistenziali o relazionali e sulla acquisizione, conservazione o gestione di rilevanti beni della vita; (iv) strumentale, avuto riguardo sia, sul piano soggettivo, alla necessaria correlazione con situazioni soggettive meritevoli di protezione alla luce dei vigenti valori ordinamentali, sia, sul piano oggettivo, alla specifica connessione con il documento materialmente idoneo a veicolare le informazioni. Sul punto, F. Gaverini, Accesso (e accessi) ai documenti amministrativi: linee-guida per le p.a. a garanzia del diritto alla privacy, in Il Foro amm.-TAR, 2005, 7, 2283 ss.; S. Tenca, Diritto di accesso e tutela della privacy, in Il Foro amm., 2000, 7, 2938 ss.
[13] Si veda T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 17 marzo 2020, n. 510, in giustizia-amministrativa.it, ove si chiarisce, tra l’altro, che tali conclusioni non «mutano per effetto della nuova disciplina in tema di accesso civico, in cui la posizione sostanziale tutelata è comunque altra rispetto al mero interesse o diritto alla informazione o trasparenza, concretandosi nello status di cittadino e nel correlato interesse, di “valenza metaindividuale” al controllo sull’utilizzo delle risorse pubbliche e alla partecipazione al dibattito pubblico»; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 14 dicembre 2019, n. 2672, in giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 27 agosto 2018, n. 2024, in Foro Amm.-T.A.R., 2018, 12, 2208 ss.
[14] T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. III, 12 aprile 2019, n. 347, in giustizia-amministrativa.it.
[15] Il soggetto richiedente deve poter vantare un interesse che, oltre ad essere non emulativo, rivesta carattere personale e concreto, ossia ricollegabile alla persona dell’istante da uno specifico rapporto, dimostrando che, in virtù del proficuo esercizio del diritto di accesso agli atti e/o documenti amministrativi, verrà inequivocabilmente a trovarsi titolare di poteri di natura procedimentale, volti in senso strumentale alla tutela di altri interessi giuridicamente rilevanti. Si veda, in particolare, T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 20 settembre 2019, n. 828, in giustizia-amministrativa.it.
[16] Per completezza, si evidenzia pure che l'istanza di accesso agli atti deve avere a oggetto una specifica documentazione in possesso dell'Amministrazione (indicata in modo sufficientemente preciso e circoscritto) e non può riguardare dati e informazioni generiche relativi a un complesso non individuato di atti di cui non si conosce neppure con certezza la consistenza, il contenuto e finanche l'effettiva sussistenza, assumendo pertanto un sostanziale carattere meramente esplorativo (così, da ultimo, T.R.G.A. Trentino - Alto Adige Trento, 20 novembre 2020, n. 195 in giustizia-amministartiva.it). E, invero, la disciplina della l. n. 241 del 1990 non può essere invocata allorché l'interessato non chieda all’amministrazione di esibire documenti di cui sia certa l'esistenza, ma piuttosto di provare se determinati atti esistono o meno; cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 04 marzo 2022, n. 1456, in giustizia-amministrativa.it.
[17] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20 aprile 2019, n. 2737, in giustizia-amministrativa.it.
[18] Come evidenziato in dottrina, detto chiarimento “di campo” si appalesa necessario in quanto «la confusione, ad esempio, può portare a riferire anche all’accesso civico, e non solo all’accesso procedimentale, l’affermazione per cui il diritto di accesso non si sostanzierebbe in un’azione popolare e neppure potrebbe tradursi in un controllo generalizzato sulla legittimità dell’azione amministrativa, con l’effetto di consentire la introduzione di filtri della più varia natura finalizzati a circoscrivere, comunque sotto il profilo soggettivo, l’interesse ad agire nelle forme dell’accesso civico» (F. Francario, Op. cit.). L’Autore sottolinea come - anche con riferimento all’accesso procedimentale - detta confusione può avere l’effetto di depotenziare l’accesso che sia fondato sull’esigenza di protezione di uno specifico interesse individuale. Ed infatti, «se viene appiattito sulla tutela riservata all’accesso civico, anche l’accesso procedimentale finisce con il diventare recessivo al cospetto di altri interessi pubblici o privati e il suo soddisfacimento viene fatto dipendere dall’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione cui è rivolta l’istanza, rinunciando a vedere se il bilanciamento con altri interessi sia stato già effettuato a livello normativo a favore dell’interesse alla conoscenza».
[19] Sulle “convergenze” e le “divergenze” tra gli accessi in esame, si rinvia nel dettaglio a A. Simonati, Gli accessi “a contenuto generale” e la trasparenza amministrativa, Op. cit. In giurisprudenza, T.R.G.A. Trentino-Alto Adige, Bolzano, sez. I, 18 giugno 2020, n. 139; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 13 giugno 2019, n. 1212 in giustizia-amministrativa.it.
[20] Questo aspetto coinvolge senza ombra di dubbio l’accesso documentale. Concerne, poi, l’accesso generalizzato, che può essere negato per evitare “un pregiudizio concreto” alla tutela di una serie assai nutrita di interessi pubblici e privati. In giurisprudenza, si veda T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 18 febbraio 2020, n. 2174 in giustizia-amministrativa.it ove si specifica che «nelle disposizioni sui limiti all’accesso generalizzato, la regola della ‘conoscenza diffusa’ dell’attività amministrativa è temperata dalla previsione di alcune eccezioni, ma queste non si devono trasformare in limiti tout court alla trasparenza, dovendo essere calibrati anche alla luce dell’interesse all’accessibilità delle informazioni, dei dati e dei documenti richiesti»; Cons. Stato, sez. V, 4 gennaio 2021, n. 60, Id., sez. IV, 13 maggio 2020, n. 3012, tutte in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato: tecniche e problemi applicativi, in Dir. amm., 2019, 861 ss.; M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettive, in federalismi.it, 2019, 17, 22 ss.; A. Corrado, Il tramonto dell’accesso generalizzato come “accesso egoistico”, in federalismi.it, 2021.
[21] Per l’accesso civico generalizzato, si veda l’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 33/2013; per l’accesso documentale, il d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184. Per un approfondimento, si veda A. Simonati, Art. 116, in F. Cortese, G. Falcon, B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 902 ss. Quanto all’individuazione dei controinteressati all’accesso, come evidenziato dall’Autrice, si tratta comunque dei titolari del diritto alla riservatezza sui dati oggetto dell’istanza. Questa scelta, dapprima introdotta con riferimento all’accesso documentale nella l. n. 241/1990 e poi reiterata nel d. lgs. n. 33/2013 con riferimento all’accesso generalizzato, restringe in parte nel settore specifico il concetto di controinteressato nel procedimento amministrativo, poiché si debbono ritenere controinteressati solo coloro che vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza in caso di accoglimento della richiesta ostensiva.
[22] Cfr. A. Simonati, Gli accessi “a contenuto generale” e la trasparenza amministrativa, Op. cit. Il riferimento va, evidentemente, all’accesso parziale e al differimento dell’esercizio dell’accesso, che vanno praticati compatibilmente con i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Inoltre, è in parte comune la previsione di strumenti giustiziali, quali il coinvolgimento dei difensori civici, della Commissione per l’accesso e del Garante per il trattamento dei dati personali.
[23] Ciò, peraltro, al precipuo scopo di consentire una pubblicità diffusa ed integrale in rapporto alle finalità esplicitate dall’art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 33/2013. In dottrina, si veda anche P. Algeri, Il diritto di accesso civico alla luce del nuovo «Decreto Trasparenza», in dirittoamministrativo.it, 2016, ma anche S. Foa, La nuova trasparenza amministrativa, in Dir. amm., 2017, 3, 67 e ss.
[24] La diversa natura dei due istituti e i diversi limiti ad essi sottesi è rilevabile anche solo osservando come nel normare l’accesso documentale, l’art. 22 della l. n. 241/90 sottolinei che detto mezzo non può essere utilizzato ai fini di un controllo generalizzato dell’azione amministrativa, mentre il diritto di accesso generalizzato è riconosciuto proprio allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.
[25] Differenti sono anche le modalità di esercizio del diritto. L’accesso civico si realizza mediante la pubblicazione del documento, del dato o dell’informazione nel sito istituzionale dell’ente, in applicazione del principio “digital first”. All’accedente ex l. n. 241/1990, invece, è garantita la possibilità di prendere visione o, a sua scelta, estrarre copia dell’atto che aspira a conoscere.
[26] Tale procedura di tutela amministrativa interna trova radice proprio nell’esigenza di assicurare al cittadino una risposta, chiara e motivata, attraverso uno strumento rapido e non dispendioso, con il coinvolgimento di un soggetto, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, che svolge un ruolo fondamentale nell'ambito della disciplina di prevenzione della corruzione e nell'attuazione delle relative misure.
[27] Si veda, in argomento, Cons. Stato, sez. VI, 31 gennaio 2018 n. 651, in giustizia-amministrativa.it.
[28] Ad. plen., n. 4/2021, cit.
[29] Si veda A. Simonati, M. Calabrò, Le modalità di esercizio del diritto di accesso e la relativa tutela, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1320 ss. 18.1. La volontà del legislatore, in sintesi, è di esigere che le finalità dell’accesso siano dedotte e rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione, e suffragate con idonea documentazione (ad es. scambi di corrispondenza; diffide stragiudiziali; in caso di causa già pendente, indicazione sintetica del relativo oggetto e dei fatti oggetto di prova; ecc.), così da permettere all’amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione “finale” controversa.
[30] Sul punto, l’art. 24 della l. n. 241/1990 prevede: (i) al comma 1, una tendenziale esclusione diretta legale dall’accesso documentale per le ipotesi ivi contemplate; (ii) al comma 2, un’esclusione demandata ad un regolamento governativo, con cui possono essere individuati casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi, tra l'altro e per quanto qui interessa, nella lettera d) «quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono»; (iii) al comma 7 un’esclusione basata su un giudizio valutativo di tipo comparativo di composizione degli interessi confliggenti facenti capo al richiedente e, rispettivamente, al controinteressato, modulato in ragione del grado di intensità dei contrapposti interessi ed improntato ai tre criteri della necessarietà, dell'indispensabilità e della parità di rango.
[31] Sono “dati sensibili” quelli definiti dall’art. 9 del Regolamento n. 2016/679/UE e, cioè, dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché i dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica; sono dati “giudiziari” quelli di cui al successivo art. 10 e, cioè, i dati personali relativi alle condanne penali e ai reati o a connesse misure di sicurezza. Si definiscono, invece, dati “supersensibili” quelli di cui all’art. 60 del d. lgs. n. 196/2003 (cioè i dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona).
[32] Come evidenziato in dottrina (V. Parisio), anche sul piano strettamente processuale il giudice amministrativo ha dato prova di interpretare al meglio le esigenze di semplificazione e accelerazione poste alla base del rito speciale disciplinato all’art. 116 c.p.a., senza trascurare di evidenziare la natura composita dell’“actio ad exhibendum”; quest’ultima, infatti, «nasce come azione di impugnazione, con tutti i relativi caratteri, confluisce in un’azione di accertamento della sussistenza del diritto di accesso e si conclude, in caso positivo, con un ordine di esibizione e/o pubblicazione dei documenti - se così previsto, entro un termine di norma non superiore a trenta giorni – rivolto al soggetto detentore dei documenti stessi».
[33] Per un commento, A. Simonati, Art. 116, in G. Falcon, F. Cortese, B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al codice del processo amministrativo, Milano, 2021, 902 ss.; V. Parisio, La tutela dei diritti di accesso, Op. cit.; C. Pagliaroli, Il potere valutativo della P.A. in materia di accesso difensivo: la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4/2021, in V. Parisio (a cura di), I diritti di accesso davanti al giudice amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2022, 1, 219 ss.
[34] Ad. plen., n. 4/2021, cit.
[35] In dottrina, F. Manganaro, La funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria, Op. cit.
[36] Cons. Stato, sez. III, 25 febbraio 2022, n. 1342, in giustizia-amministrativa.it.
[37] Nondimeno la disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi, siccome regolata dalla l. n. 241/1990 (oramai da inquadrare quale istituto speciale della nuova configurazione della trasparenza dell’azione amministrativa, come precipitato di previsioni eurounitarie quali l’art. 15, comma 1, TFUE che espressamente sancisce il principio in virtù del quale «al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione alla società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione operano nel modo più trasparente possibile») deve coniugarsi con l’attuale interpretazione giurisprudenziale (che costituisce il diritto vivente in materia di accesso documentale), di talché accanto all’interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa deve stagliarsi, nitido, un rapporto di “necessaria strumentalità” tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione, in quanto l’interesse all'accesso, seppure attualmente (e, più correttamente) concepito in una ottica di “ampia strumentalità” tra la conoscenza del documento e la tutela della posizione soggettiva vantata (che, peraltro, può manifestarsi caleidoscopicamente in ambiti non sempre giudiziali, ma in ogni altra manifestazione che costituisca, giuridicamente, soddisfazione della posizione vantata dall'accedente), deve pur sempre configurarsi come diretto, concreto, attuale e corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 24 ottobre 2018, n. 651 in giustizia-amministrativa.it).
[38] Così Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2021, n. 8327; Id., 28 maggio 2021, n. 4103 e Id., sez. II, 28 aprile 2021, n. 3426, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[39] Sul piano della logica “difensiva”, il legislatore, in buona sostanza, inserisce all’interno di una norma di natura sostanziale uno strumento di valenza tipicamente processuale, fornendo “azione” alla “pretesa”, anche in senso derogatorio in concreto rispetto ai classici casi di esclusione procedimentale. Ciò, naturalmente, come già illustrato, entro gli stringenti limiti in cui la parte interessata all’ostensione dimostri la necessità (o la stretta indispensabilità per i dati sensibili e giudiziari), la corrispondenza e il collegamento tra la situazione che si assume protetta ed il documento di cui si invoca la conoscenza. Per un approfondimento, Cons. Stato, Ad. plen., 25 settembre 2020, n. 19; Cons. Stato, sez. V, 20 gennaio 2022, n. 369, in giustizia-amministrativa.it. In dottrina, F. Manganaro, La funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria in materia di accesso agli atti amministrativi, in federalismi.it, 2021, 20, 159 ss.; M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale (nota a Adunanza plenaria n. 19/2020), in Giustizia Insieme, 2020.
[40] A ciò si aggiunga (per quanto qui di interesse) che la previsione, nell’ordinamento processualcivilistico, di strumenti di esibizione istruttoria di documenti (anche) amministrativi ai sensi degli artt. 210, 211 e 213 c.p.c., non esclude l'esperibilità dell’accesso documentale difensivo. Infatti, sulla base di una lettura unitaria e integratrice tra le singole discipline, nonché costituzionalmente orientata a garanzia dell'effettività del diritto alla tutela giurisdizionale da intendere in senso ampio e non ristretto al solo momento processuale, il rapporto tra l'istituto dell'accesso documentale difensivo e i menzionati istituti processualcivilistici non può che essere ricostruito in termini di complementarità delle forme di tutela.
[41] Non essendo necessaria anche la dimostrazione della idoneità dei documenti oggetto di ostensione a rendere possibile una favorevole coltivazione di quel giudizio, da parte del richiedente l’accesso, nel quale detti documenti debbono essere “utilizzati”. Si veda C. Colapietro, Il complesso bilanciamento tra il principio di trasparenza e il diritto alla “privacy”: la disciplina delle diverse forme di accesso e degli obblighi di pubblicazione, in federalismi.it, 2020, 14, 64 ss.; M. Ippolito, L’ultima frontiera nella trasparenza amministrativa: l’accesso civico nei recenti arresti giurisprudenziali, in Dir. proc. amm., 2020, 565 ss.
[42] In giurisprudenza, v. Cons. Stato, sez. VI, 28 febbraio 2022, n. 1387, in giustizia-amministrativa.it, ove si chiarisce che l’onere della prova anche dell’esistenza dei documenti, rispetto ai quali si esercita il diritto di accesso, incombe sulla parte che agisce in giudizio. Tuttavia una volta indicati puntualmente per categoria i documenti rispetto ai quali è formulata la domanda ostensiva e aver dimostrato che detti documenti, in virtù di obiettive ragioni collegate alle competenze dell’amministrazione, costituiscono ordinariamente patrimonio dell’archivio dell’ente, l’onere della prova può dirsi assolto dalla parte interessato, incombendo in capo all’amministrazione il dovere di assumersi la responsabilità di dichiarare la mancata detenzione o custodia dei documenti richiesti.
[43] Così T.A.R. Veneto, sez. I, 01 aprile 2021, n. 427, in Foro amm., 2021, 4, 659. I giudici amministrativi hanno pure precisato che «risulta parimenti inidoneo a supportare il provvedimento di diniego assunto anche il passaggio motivazionale con cui l’Amministrazione afferma che il nuovo atto di pianificazione in fieri non potrebbe fornire alla parte ricorrente elementi utili per la definizione del contenzioso civile pendente che ha ad oggetto eventi e situazioni passate»; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 22 ottobre 2021, n. 427, in giustizia-amministrativa.it. Cfr. C. Pagliaroli, Il potere valutativo della P.A., Op. cit.
[44] T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 8 maggio 2021, n. 249, in giustizia-amministrativa.it. Secondo i giudici amministrativi, l’accesso difensivo non presuppone necessariamente la già avvenuta instaurazione e la pendenza in concreto di un giudizio, attesa la priorità logica della conoscenza degli elementi che occorrono per decidere se instaurare un giudizio e come costruire a tal fine una strategia difensiva.
[45] Si veda anche T.A.R. Roma, sez. II, 13 aprile 2021, n. 4301, in giustizia-amministrativa.it, ove si legge che, alla luce dei principi stabiliti dall’Adunanza Plenaria n. 4/2021, «si deve rilevare che le difese svolte da Roma Capitale circa l’infondatezza della tesi difensiva che la società ricorrente vorrebbe sostenere attraverso l’acquisizione della documentazione di cui chiede l’accesso, sono del tutto ultronee rispetto alle valutazioni che sono rimesse alla discrezionalità della pubblica amministrazione in sede di delibazione dell’istanza di accesso difensivo», dovendola P.A. limitarsi a valutare la sussistenza della necessaria strumentalità tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende tutelare, senza svolgere giudizi prognostici sulla fondatezza delle azioni che nella fattispecie l’interessato potrà decidere di intraprendere.
[46] In senso parzialmente difforme, Cons. Stato, sez. VI, 07 marzo 2022 e Id., sez. V, 03 agosto 2021, n. 5712, in giustizia-amministrativa.it che ha evidenziato come la natura strumentale dell’accesso difensivo comporta che la necessità del documento vada valutata verificando se esso sia effettivamente il necessario tramite per acquisire la prova «e ciò mediante un giudizio prognostico ex ante»; a tal fine, quindi, l’istanza dell'interessato deve essere puntuale e specifica e non limitarsi a dedurre un’incertezza soggettiva sulla situazione controversa oppure un generico riferimento a esigenze difensive.
[47] Cons. Stato, sez. VI, 11 aprile 2022, n. 2655, in giustizia-amministrativa.it.
[48] Sul punto, si rinvia alle ampie riflessioni di F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia, Op. cit., 18 ss. Secondo l’Autore, sul punto specifico, «in claris non fit interpretatio», nel senso che l’utilizzo da parte del legislatore della formula “deve comunque” (art. 24, comma 7, cit.) implica, oltre quanto sopra detto, che «se l’interesse alla conoscenza non è strumentale ed è espressione di un puro e semplice interesse alla conoscenza, la norma applicabile è recata dal comma sesto, il quale rimette all’amministrazione il bilanciamento dell’interesse alla conoscenza con gli altri interessi contemplati dal medesimo comma sesto». Viceversa, nel caso del comma 7 sopra richiamato, «l’Amministrazione non ha più il potere discrezionale di stabilire essa quale sia l’interesse prevalente nel caso concreto».
[49] Il riferimento è ancora all’art. 24, comma 7, cit., ove si legge che “Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
[50] Cfr. F. Francario, Ibidem, in spec. 19, ove si evidenzia come «la regola è quindi che l’accesso, strumentale […] al soddisfacimento di un bisogno di tutela proprio di una situazione giuridica soggettiva, prevalga. L’eccezione è che rimanga insoddisfatto».
[51] Invero l’accesso difensivo e i poteri processuali di acquisizione probatoria, come detto, sono istituti essenzialmente diversi, ponendosi il primo come strumento complementare, e non alternativo, all’acquisizione processuale, da ciò dovendo conseguire che l’accesso non è precluso nel momento in cui il giudice della causa pendente abbia respinto richieste istruttorie con lo stesso contenuto. Il rimedio dell’accesso documentale, tutelabile innanzi al giudice amministrativo, è dunque concorrente e aggiuntivo rispetto agli altri strumenti azionabili presso plessi giurisdizionali di ordine diverso, ed è rafforzativo della protezione dei diritti individuali ai sensi dell’art. 24 Cost. Lo stesso opera, di fatto, su un piano differente rispetto all’azione che può essere promossa in giudizio e prescinde dall’effettivo esperimento di quest’ultima e dal momento in cui la causa viene intentata (sia quest’ultima cioè precedente, concomitante o successiva alla formulazione dell’actio ad exibendum; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, 26 settembre 2016, n. 1230, in giustizia-amministrativa.it).
[52] Ed infatti, quandanche fossero in discussione documenti che riguardano i casi previsti dall’art. 24, comma 6, della l. n. 241/1990, “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”. In giurisprudenza, T.A.R. Lazio, sez. III, 15 dicembre 2014 n. 12583 e T.A.R. Catania, sez. IV, 27 novembre 2015, n. 2785, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[53] Cons. Stato, sez. II, 28 aprile 2021, n. 3426, in giustizia-amministrativa.it. F. Manganaro, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso, Op. cit.; G. Tropea, Forme di tutela giurisdizionale dei diritti d’accesso: bulimia dei regimi, riduzione delle garanzie?, in Il Processo, 2019, 1, 71 ss.; V. Parisio, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi, Op. cit.
[54] L’irragionevolezza, come evidenziato in dottrina (F. Francario, Op. cit.), risiederebbe proprio in questo “scivolamento” della valutazione discrezionale dal profilo del bilanciamento degli interessi a quello della effettiva necessaria strumentalità della conoscenza per la difesa giudiziale della situazione soggettiva; e ciò «sia perché l’art. 24 settimo comma parla non solo di difesa, ma anche semplicemente di cura di un interesse proprio, e i due termini non sono affatto sinonimi sì che la cura possa ritenersi interamente risolta nella difesa; sia perché, anche rimanendo sul piano della sola difesa strettamente intesa con riferimento al momento giudiziale, è parimenti irragionevole pretendere di anteporre il momento della costruzione della strategia difensiva a quello della conoscenza degli elementi necessari per la sua elaborazione».
[55] Cfr., recentemente, Cons. Stato, n. 2655/2022 cit.
[56] In altri termini, la motivazione non dovrebbe mai spingersi nel senso di offrire elementi per un’indagine da parte dell’amministrazione o del giudice sull’utilità ed efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale.
[57] F. Manganaro, Trasparenza e digitalizzazione, in Dir. proc. amm., 2019, 25 ss.; M. Trapani, Il diritto di accesso generalizzato e l’emergenza: rischi ed opportunità in uno Stato tecnologico, in DPCE online, 2020, 3, 4347 ss.
Misure urgenti e delega in materia di esecuzione forzata (legge 206 del 2021) - Parte II
di Alberto Tedoldi
Sommario (segue): 8. L’ennesima riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (comma 12, lettere f e h) - 9. Il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita in un anno, a pena di sostituzione (comma 12, lett. i) - 10. Il controllo sugli atti del professionista delegato ex art. 591 ter c.p.c.: reclamo al g.e. entro venti giorni e successiva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. (comma 12, lett. l) - 11. Approvazione anche tacita del progetto distributivo, dichiarazione di esecutività e pagamenti demandati al professionista delegato, in assenza di contestazioni (comma 12, lett. m) - 12. Le norme antiriciclaggio (comma 12, lettere p e q) - 13. La vendita forzata secondo Salvatore Satta - 14. La vente privée, ovvero «l’inutile precauzione» (comma 12, lett. n) - 15. Limiti quantitativi e temporali alle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (comma 12, lett. o).
8. L’ennesima riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (comma 12, lettere f e h)
La lett. f) del comma 12 si propone di intervenire nuovamente sull’art. 560 c.p.c., prevedendo che «il giudice dell’esecuzione ordin[i] la liberazione dell’immobile pignorato non abitato dall’esecutato e dal suo nucleo familiare ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura al più tardi nel momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni e che debba ordinare la liberazione dell’immobile abitato dall’esecutato convivente col nucleo familiare al momento dell’aggiudicazione, ferma restando comunque la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti governativi presentati suo tempo si legge quanto segue: «La proposta modifica è volta ad ottenere la liberazione anticipata degli immobili occupati sine titulo o da soggetti diversi dal debitore convivente col nucleo familiare, conformemente a quanto già ritenuto, sulla base del previgente articolo 560 del codice di procedura civile, dalle “Buone prassi” (delibera CSM 2017). Una maggiore tutela è data all’esecutato che abiti l’immobile staggito con la propria famiglia, prevedendo che la liberazione possa essere disposta soltanto in esito all’aggiudicazione del bene, sempre che l’esecutato non ostacoli lo svolgimento della procedura o non arrechi danni all’immobile o pregiudizio agli interessi del futuro aggiudicatario».
La lett. h) del comma 12, art. 1 l. delega 206/2021, demanda al Governo di «prevedere che sia il custode ad attuare il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano». Criterio questo francamente superfluo, ché la già vigente versione del tormentato art. 560 c.p.c. già lo prevede in uno dei suoi numerosi periodi.
Il quale art. 560 c.p.c., rubricato «Modo della custodia», è stato malgré soi oggetto di continue, ondivaghe e contraddittorie novelle nel giro di pochissimi anni, alle quali faceva da sfondo una contrapposizione ideologica tra chi si schierava ex parte creditoris – soprattutto banche, società veicolo (SPV in acronimo) e servicers nelle cartolarizzazioni dei crediti deteriorati, gestite da fondi di private equity e da grandi istituti di credito internazionali – e chi volgeva, invece, ex parte debitoris, incline a riconoscere a ognuno la possibilità di permanere sino all’ultimo nell’immobile pignorato od anche – ricorrendo a una procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento ex lege n. 3/2012 (e, a venire, ai sensi del CCI), della quale dare avviso sin dal precetto, a mente dell’art. 480, comma 2, ultima frase, c.p.c. – una second chance e una fresh start, esdebitandosi una volta per tutte, recuperando il “merito creditizio” mercé cancellazione del nominativo dalla Centrale rischi e rientrando così nel circuito economico, consumistico e finanziario che si assume oggidì come virtuoso e che manda innanzi il mondo nel secolo XXI[10].
Così, l’art. 560 c.p.c., ch’era nel testo originario disposizione neutra e, tutto sommato, anodina, è divenuto campo di scaramucce tra i due schieramenti ideologici, «l’un contro l’altro armati». Era parso al conditor legum utile e opportuno, per favorire le vendite, anticipare congruamente la liberazione dell’immobile staggito, in modo da trasmettere all’aggiudicatario (o all’assegnatario) non soltanto la proprietà del bene con il decreto di trasferimento, ma anche la detenzione materiale, come usa avvenire nelle vendite volontarie mediante la consegna delle chiavi e la traditio ficta contestuale al rogito notarile, sì da garantire piena corrispondenza temporale tra acquisto del diritto e possesso del bene.
In tale ottica e con queste finalità il testo dell’art. 560 c.p.c., dedicato alla custodia del bene immobile pignorato, era stato novellato pro creditoribus nel 2014 e poi ancora nel 2016. Successivamente, con novella vigente dal 2019, l’art. 560 c.p.c. è stato nuovamente modificato, invertendone l’ispirazione e il segno pro debitore, salvo ancora intervenire nel 2020, in parziale rettifica, al fine di assicurare all’aggiudicatario la sollecita liberazione dell’immobile acquistato sine strepitu ac figura executionis (si fa ovviamente per dire…).
Il non breve testo che ne è sortito, neppure diviso in separati commi bensì unicamente in periodi secondo attuale malvezzo, prevede che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdano la detenzione dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, a meno che ostacolino le visite da parte di potenziali acquirenti interessati a partecipare alla vendita o l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare oppure il debitore violi altri obblighi che la legge pone a suo carico o, ancora, l’immobile non sia abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare.
Qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salvi i casi di violazione degli obblighi dianzi indicati, il giudice dell’esecuzione non può mai disporne la liberazione prima del decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c., che peraltro costituisce titolo esecutivo per il rilascio a favore dell’assegnatario o dell’aggiudicatario. Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento il custode, su istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario e in mancanza di spontaneo adempimento da parte degli occupanti, provvede all’attuazione dell’ordine di rilascio contenuto nel decreto di trasferimento, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dall’istanza, senza l’osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c. e con autorizzazione a valersi della forza pubblica e a nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68 c.p.c. In mancanza di istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario, saranno questi a dover procedere nell’esecuzione forzata per rilascio di immobile, avvalendosi del decreto di trasferimento quale titolo esecutivo, previe l’intimazione del precetto e la notifica dell’avviso di sloggio, seguendo le forme di cui all’art. 608 c.p.c. con l’intervento dell’ufficiale giudiziario. Quando invece sia stata ordinata la liberazione dell’immobile prima del decreto di trasferimento per violazioni ascrivibili al debitore o ai suoi familiari, sarà il custode a curarne l’attuazione coattiva (ex littera su istanza dell’aggiudicatario, quindi dopo che l’aggiudicazione sia avvenuta: il che non pare compatibile con la ratio della novella del 2020, ma tant’è), sempre secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione e senza l’osservanza delle formalità dettate dagli artt. 605 ss. c.p.c. per l’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile.
Ora il criterio direttivo in esame, dettato dalla lett. f) del comma 12, si propone di far liberare l’immobile non abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura sin dal momento in cui il g.e. abbia disposto la vendita, delegandone le operazioni. Quando invece l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salve le ipotesi di ostruzionismo o di violazioni, la liberazione dovrà essere disposta non appena sia avvenuta l’aggiudicazione, prima cioè del decreto di trasferimento, a seguito del quale si produce l’effetto traslativo della vendita forzata. Qualora l’aggiudicazione provvisoria venga meno (ad es., per inadempienza dell’aggiudicatario), cesserà ovviamente la necessità di procedere alla liberazione dell’immobile, sino a una nuova aggiudicazione, con il rischio insomma di qualche possibile andirivieni.
Come ben vedesi, i vari estensori e suggeritori dei testi dell’art. 560 c.p.c. imbandiscono ossessivamente una satura lanx, affetta da ‘analitico furore’, che riuscirebbe indigesta persino a Pantagruel, ripetendo anche il superfluo, come nella lett. h) del comma 12 che, come veduto, detta criterio direttivo per emanare una norma già esistente.
9. Il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita in un anno, a pena di sostituzione (comma 12, lett. i)
La lett. i) del comma 12 prevede che «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare abbia durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione, e che in tale periodo il professionista delegato debba svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi, nonché prevedere che il giudice dell’esecuzione debba esercitare una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per quelle stabiliti con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «Per un sollecito svolgimento delle operazioni di vendita delegate ai professionisti è necessario fissare un termine entro il quale le attività devono essere svolte, nonché determinare un numero minimo di esperimenti di vendita da svolgere nell’arco di un anno. Occorre poi stabilire esplicitamente l’obbligo del giudice dell’esecuzione di vigilare sulle attività dei professionisti e sul rispetto dei tempi concessi per gli adempimenti delegati, al fine di evitare che eventuali inerzie o ritardi vengano scoperti ad anni di distanza dalla delega e che solo con grave ritardo il professionista negligente venga sostituito».
Nulla v’è da aggiungere: al professionista delegato spetta il compito di esperire tempestivamente almeno tre tentativi di vendita l’anno, con eventuali ribassi predeterminati nell’ordinanza di conferimento della delega, entro il limite di un quarto del valore dell’immobile, ai sensi dell’art. 591, comma 2, c.p.c.; al giudice dell’esecuzione spetta di vigilare diligentemente, affinché i tempi siano rispettati e le procedure delegate di vendita siano esperite con regolarità e sollecitudine, sotto comminatoria di sostituzione del delegato, previa audizione delle ragioni del ritardo (ancorché l’emendamento taccia sul punto). Il quale professionista delegato, ove contesti il provvedimento di sostituzione, potrà chiederne sommessamente la revoca allo stesso giudice dell’esecuzione, le cui ordinanze sono sempre modificabili e revocabili finché non abbiano avuto esecuzione ai sensi dell’art. 487 c.p.c., e potrà spingersi sino a interporre opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. entro venti giorni dalla conoscenza legale del provvedimento: ma in questo caso, come è evidente, si alienerà comunque le simpatie di chi ebbe a nominarlo, pescandolo dall’elenco dei professionisti di cui all’art. 179 ter disp. att. c.p.c.
Basti poi ricordare che, quando l’immobile resta invenduto e non vi sono domande di assegnazione, il giudice dell’esecuzione (recte, il professionista delegato, sulla scorta dell’ordinanza di vendita che, come d’uso, già lo preveda) fissa una nuova vendita, sempre con procedura senza incanto, stabilendo eventualmente diverse condizioni e diverse forme di pubblicità, per un prezzo base inferiore al precedente fino al limite di un quarto e, dopo il quarto tentativo di vendita andato deserto, fino al limite della metà del valore dell’immobile, quale stimato con la perizia. Vi sarà, ovviamente, un nuovo termine (che la legge ottativamente indica in misura non inferiore a sessanta giorni e non superiore a novanta) entro il quale possono essere formulate le offerte d’acquisto (cfr. l’art. 591, comma 2, c.p.c.).
L’incanto potrà essere disposto soltanto qualora il giudice dell’esecuzione ritenga che la vendita con tale modalità possa aver luogo a un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, quale determinato nella perizia (art. 591, comma 1, ultima parte, c.p.c.): cioè, in pratica, mai.
Se anche dopo il quarto esperimento di vendita, con prezzo ridotto sino al limite della metà del valore di perizia, l’immobile resta invenduto, il giudice dell’esecuzione, previa audizione delle parti, potrà chiudere la procedura per infruttuosità, a norma dell’art. 164 bis disp. att. c.p.c. Misura questa che andrà adottata cum grano salis, quando risulti che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo. Le ingenti spese della procedura esecutiva immobiliare resterebbero, in caso di chiusura anticipata, a carico dei creditori che le hanno anticipate, i quali non solo non ottengono soddisfazione dei loro crediti, ma subirebbero in tal modo un pregiudizio assai grave. Perciò, la chiusura anticipata per infruttuosità presuppone l’estrema esiguità del realizzo, da stimare non soltanto in termini relativi, avendo riguardo alla percentuale del credito soddisfatto rispetto a quello azionato, ma anche in termini assoluti, avuto riguardo all’importo in concreto recuperabile, quantomeno a copertura delle spese affrontate per l’espropriazione.
10. Il controllo sugli atti del professionista delegato ex art. 591 ter c.p.c.: reclamo al g.e. entro venti giorni e successiva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. (comma 12, lett. l)
La lett. l) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista delegato ai sensi dell’articolo 591-ter del codice di procedura civile e prevedere che l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione decide il reclamo possa essere impugnata con l’opposizione di cui all’articolo 617 dello stesso codice».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «La proposta modifica è volta a rafforzare la stabilità del decreto di trasferimento. Infatti, in base al vigente articolo 591-ter del codice di procedura civile (così come interpretato da Cass. 12238/2019), il reclamo avverso l’atto del delegato (i cui atti non sono suscettibili di opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile) non costituisce un mezzo di impugnazione da esperire entro un certo lasso di tempo, decorso il quale l’atto si stabilizza; al contrario, eventuali vizi nell’attività del delegato possono essere fatti valere proponendo opposizione avverso l’atto esecutivo conclusivo della fase liquidativa e, cioè, avverso il decreto di trasferimento. Ciò determina una nociva instabilità del provvedimento traslativo della proprietà del cespite staggito, la quale può essere eliminata stabilendo un termine entro il quale dolersi degli atti del delegato (e decorso il quale eventuali vizi antecedenti non potrebbero più essere denunciati) innanzi al giudice dell’esecuzione, la cui ordinanza potrebbe essere impugnata entro il termine decadenziale ex articolo 617 del codice di procedura civile, evitando qualsivoglia ripercussione dei vizi sul decreto ex articolo 586 del codice di procedura civile».
In iure quo utimur e a norma dell’art. 591 ter c.p.c., quando, nel corso delle operazioni di vendita, insorgono difficoltà, il professionista delegato può rivolgersi al giudice dell'esecuzione, il quale provvede con decreto. Le parti e gli interessati possono proporre reclamo avverso il decreto nonché avverso gli atti del professionista delegato, con ricorso allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale provvede con ordinanza: il ricorso non sospende le operazioni di vendita, salvo che il giudice dell’esecuzione, concorrendo gravi motivi, disponga la sospensione. Contro l’ordinanza del giudice è ammesso reclamo al collegio entro quindici giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.: del collegio non può far parte il giudice dell’esecuzione.
Il soggetto interessato ha l’onere di proporre il reclamo previsto dall’art. 591 ter c.p.c. avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione abbia impartito istruzioni al professionista delegato, prima che le istruzioni reputate erronee o inopportune siano eseguite: in mancanza, è inammissibile il reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, una volta che le istruzioni abbiano esaurito la loro funzione, restando tuttavia impregiudicata la facoltà di qualunque interessato di proporre reclamo avverso gli atti successivi del delegato affetti da illegittimità derivata ovvero opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. avverso il primo atto del giudice dell’esecuzione conclusivo della relativa fase, ivi incluso il decreto di trasferimento, per vizi proprî o derivati da precedenti difetti della sequenza procedurale, compresi quelli già fatti valere mediante i reclami di cui all’art. 591 ter c.p.c., ancorché rigettati dal giudice dell’esecuzione e dal collegio.
Pertanto, secondo il sistema ricostruito dalla Corte di cassazione[11]:
- tutti gli atti del professionista delegato sono reclamabili dinanzi al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 591 ter c.p.c.;
- gli atti con i quali il giudice dell’esecuzione dia istruzioni al professionista delegato o decida sul reclamo avverso i di lui atti hanno contenuto meramente ordinatorio e non vincolano il giudice dell’esecuzione nell’adozione dei successivi provvedimenti della procedura;
- il reclamo al collegio avverso gli atti suddetti del giudice dell’esecuzione mette capo a un provvedimento che non ha natura decisoria e non è suscettibile di passare in giudicato e, come tale, non è soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.;
- eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c. potranno essere fatte valere impugnando, ai sensi dell’art. 617, comma 2, c.p.c., il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Un sistema assai articolato, per non dir labirintico, sul quale è certo d’uopo intervenire: l’emendamento opportunamente lo fa, imponendo un termine di venti giorni per proporre reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, eliminando la superfetazione del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. e assoggettando l’ordinanza del giudice dell’esecuzione sul reclamo avverso atti del delegato all’usuale rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., da proporre mediante ricorso depositato entro il termine di venti giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza. Si scandiscono, insomma, i rimedî relativi alla sottofase di vendita gestita dal delegato imponendo termini perentori, sì da evitare che i vizî che la inficino possano propagarsi per derivazione sino al decreto di trasferimento, caducando la vendita forzata in pregiudizio del terzo aggiudicatario e dei creditori, che rischierebbero di veder dilazionati ad kalendas graecas i tempi di soddisfazione dei loro crediti.
11. Approvazione anche tacita del progetto distributivo, dichiarazione di esecutività e pagamenti demandati al professionista delegato, in assenza di contestazioni (comma 12, lett. m)
La lett. m) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere che il professionista delegato proceda alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista lo dichiari esecutivo e provveda entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimetta le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge quanto segue: «La proposta, in conformità a quanto già previsto dalle buone prassi in materia esecutiva, estende il perimetro della delega al professionista. L’idea è quella di liberare il g.e. da incombenti meccanici, che gravano essenzialmente sulle cancellerie e che posso essere svolti dal delegato».
In effetti, l’emendamento intende ratificare ex lege le buone prassi già invalse nelle esecuzioni forzate immobiliari.
De iure condito il progetto distributivo del ricavato, dopo che il professionista delegato ha raccolto le osservazioni dei creditori concorrenti e del debitore e lo ha trasmesso al giudice dell’esecuzione, apportate da quest’ultimo eventuali variazioni, è depositato in cancelleria nel fascicolo telematico, affinché possa essere consultato da tutte le parti, in vista dell’udienza fissata dal giudice dell’esecuzione dinanzi a sé per la loro audizione, con la partecipazione anche del delegato. Tra la comunicazione dell’invito e l’udienza così fissata debbono intercorrere almeno dieci giorni (art. 596 c.p.c.). L’udienza per l’approvazione del progetto distributivo segna il termine ultimo per l’intervento dei creditori, anche se muniti di titoli di prelazione (artt. 565 e 566 c.p.c.).
La mancata comparizione all’udienza e in quella ulteriormente fissata dal giudice dell’esecuzione e comunicata alla parte non comparsa, se risulta o appare probabile che sia dipesa da cause non imputabili, importa approvazione tacita del progetto (art. 597 c.p.c.). Se all’udienza il progetto è approvato espressamente o tacitamente o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, se ne dà atto nel processo verbale e il giudice dell’esecuzione ordina il pagamento delle singole quote, disponendo che il cancelliere emetta i mandati di pagamento in favore dei creditori concorrenti, restituendo l’eventuale residuo all’esecutato (art. 598 c.p.c.).
Come detto, per consolidato usus fori, l’ordinanza di delega al professionista prevede già che le parti compaiano dinanzi a questo per l’approvazione del progetto e che il giudice dell’esecuzione intervenga solo quando sorgano contestazioni: dal (pur contraddittorio) combinarsi degli artt. 591 bis, n. 12, e 598 c.p.c. risulta che, se il progetto è approvato o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, può essere lo stesso professionista delegato a darne atto nel processo verbale e a disporre il pagamento delle singole quote ai creditori concorrenti, dietro ordine del giudice dell’esecuzione e una volta che siano decorsi venti giorni dalla data di approvazione del progetto senza che siano state proposte opposizioni. Se l’accordo sul progetto di distribuzione non è raggiunto e insorge controversia distributiva, il fascicolo verrà rimesso al giudice dell’esecuzione, che risolverà la controversia distributiva ai sensi dell’art. 512 c.p.c., con ordinanza soggetta al consueto rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. e a sospensione ex art. 624 c.p.c.
Va da sé che questa ulteriore attività ‘privatizzata’ ed ‘esternalizzata’ al delegato, ivi inclusi i pagamenti da effettuare ai creditori ad instar di un curatore fallimentare, dovrà essere controllata dal giudice dell’esecuzione con occhio assai vigile e pronto.
12. Le norme antiriciclaggio (comma 12, lettere p e q)
Le vendite forzate sono spesso ricettacolo di malintenzionati: un tempo si discorreva di una famigerata “Compagnia della buona morte”, usa frequentare i pubblici incanti per accaparrarsi beni altrui a poco prezzo, riciclando denaro di dubbia origine. Molte inchieste penali l’hanno dimostrato e il fenomeno perdura tutt’oggi, nonostante la progressiva e sempre più ampia apertura al mercato delle procedure esecutive immobiliari.
Per contrastare fenomeni di riciclaggio e di infiltrazione della criminalità organizzata, le lettere p) e q) del comma 12 impongono di:
«p) prevedere che, nelle operazioni di vendita dei beni immobili compiute nelle procedure esecutive individuali e concorsuali, gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi;
q) istituire presso il Ministero della giustizia la banca dati per le aste giudiziali, contenente i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, nonché le relazioni di stima. I dati identificativi degli offerenti, del conto e dell'intestatario devono essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale».
13. La vendita forzata secondo Salvatore Satta
Al cospetto di tali disposizioni ed anche per introdurre la maggiore tra le novità della legge 206/2021 – la “vendita privata” o, alla francese, vente privée di cui diremo nel successivo paragrafo – merita d’essere ricordata un’eterodossa lettura poetica della vendita forzata, offerta da Salvatore Satta nel capitolo XIII del romanzo postumo Il giorno del giudizio[12].
Narra Satta che il maestro di scuola don Ricciotti Bellisai si presentò di notte a casa del notaio don Sebastiano Sanna Carboni, invitandolo perentoriamente a restituirgliela, in quanto era appartenuta al padre ed era stata acquistata all’asta da don Sebastiano: «Ancora una volta io ti chiedo se vuoi restituirmi la casa di Loreneddu, prima che io me la riprenda con la forza». «Tu hai comprato all’asta quella casa, [...] questo vuol dire che mio padre non te l’ha venduta. L’hai comprata senza la sua volontà. È come se l’avessi rubata». Ma, replica don Sebastiano, «tuo padre era pieno di debiti con la banca, e nessuno voleva comprare la casa messa all’incanto. Venne piangendo da me perché mi presentassi alla gara, altrimenti gli avrebbero portato via anche la camicia». «Lo so bene, ed è questo che ti condanna. Se nessuno offriva, la casa restava a lui», esclamò don Ricciotti. Il notaio avrebbe voluto dargli del pazzo, ma poi rifletté: «Nella pazzia di quell’uomo c’era un fondo di verità [...] Il debitore che non paga è soggetto alla espropriazione dei beni: questo era scritto nel codice che gli stava davanti [...], ed era più che giusto: era il fondamento stesso del vivere. Ma era anche vero che il debitore non c’entrava per nulla, i suoi beni ritornavano per così dire alla comunità dalla quale erano usciti, che provvedeva alla vendita. Sotto questo aspetto, ogni esproprio era un furto, e per questo i compratori all’asta erano guardati di malocchio. Una persona amica non partecipava alle gare, e anch’egli aveva sempre rispettato questo pregiudizio. Uno dei motivi di dissenso con la moglie era anche questo». Don Sebastiano, fatto questo pensiero, replicò: «Tu potresti avere qualche ragione, alla lontana, rispose. Ma su quella stessa sedia su cui stai seduto tu, e a questa stessa ora, tuo padre mi scongiurò di concorrere, come ti ho detto. Io non volevo, e per contentarlo dovetti indebitarmi al suo posto. Questo avveniva venti anni fa».
Come noto, la vendita forzata, a differenza di quella volontaria, non è il risultato di un incontro fra volontà negoziali, ma di una volontà negoziale (dell’offerente resosi aggiudicatario) e di una disposizione coattiva (del creditore o dell’organo) in luogo del debitore inadempiente[13]. La separazione dell’effetto traslativo dal potere di disporre della res – cioè appunto la previsione che il bene del quale è proprietario il debitore possa essere alienato senza la sua volontà – comporta necessariamente la pubblicità della vendita forzata, nel senso che la libera scelta del titolare non può essere sostituita che da una partecipazione al trasferimento dell’intero gruppo, della comunità nel suo insieme. Sotto questo profilo si affianca all’interesse del titolare del bene un interesse dei terzi, cioè dei possibili partecipanti alla gara per aggiudicarselo: con la conseguenza che l’assoluto difetto di pubblicità dell’avviso di vendita rende invalida l’alienazione coattiva[14].
Questa è probabilmente la comunità alla quale pensa don Sebastiano: il pubblico, l’insieme dei potenziali offerenti all’incanto, come se il coinvolgimento della comunità nella vendita forzata e l’appartenenza di colui che risulterà effettivo acquirente a un’indefinita e illimitata pluralità di persone valessero a legittimare l’espropriazione forzata e, con questa, «il sacrificio del debitore, il distacco dalla sua cosa e in un certo senso da sé stesso»[15].
Don Sebastiano aveva concorso all’incanto e si era aggiudicato la casa solo perché il debitore lo aveva scongiurato di farlo. Il che dovrebbe eliminare a monte il problema, non solo di carattere morale, ma anche teorico e giuridico: nel suo caso la vendita, sebbene coattiva, era stata sollecitata spontaneamente dal debitore-proprietario all’offerente all’incanto, resosi poi aggiudicatario. Sennonché l’acquirente all’incanto forzoso, quali che siano le soggettive motivazioni all’acquisto, rischia comunque di apparire come qualcuno che profitta delle disgrazie altrui, destando quella stessa ripugnanza che suscitano la vista o anche solo il pensiero di mani sconosciute e rapaci che si posano, profanandole, sulle cose che fino a poco prima facevano parte della vita del debitore e della sua famiglia, del suo essere prima e più che del suo avere[16].
Il clima della vendita immobiliare è divenuto quanto mai asettico nella postmodernità liquida e digitale, tanto più nelle modalità telematiche oggi imposte dal codice di procedura civile, in luogo della fiammella e del fumo delle tre candele vergini accese dopo ogni offerta, prima che divenisse definitiva e desse così luogo all’aggiudicazione del bene al maggior offerente, come ancora avveniva sino a qualche lustro fa. Ma non è certamente meno drammatico né meno doloroso per il debitore «il distacco dalla sua cosa e in un certo senso da sé stesso», come scriveva Satta, sul piano sociale e psicologico, specialmente quando l’oggetto della vendita è la sua casa di abitazione.
Don Ricciotti non accusa il notaio di aver rubato la «casa di Loreneddu», bensì gli dice: «è come se l’avessi rubata». Dal canto suo, don Sebastiano non qualifica come furto l’acquisto all’incanto, bensì come «esproprio», cioè una procedura complessa, una fattispecie a formazione progressiva, alla quale concorrono, prima dell’aggiudicatario, il creditore procedente e gli organi esecutivi. «Il debitore che non paga è soggetto alla espropriazione dei beni»: questa è la regola (cfr. gli artt. 2740 e 2910 c.c.) che costituisce, prima e più che una norma del codice (che il notaio, infatti, non apre nemmeno), «il fondamento stesso del vivere». Ma questa soggezione e questa espropriazione del debitore hanno, in fondo, poco a che fare con i soggetti dell’obbligazione inadempiuta e della responsabilità patrimoniale. Sono, piuttosto, le conseguenze naturali e oggettive di un comportamento riprovevole e antisociale (non pagare i debiti) che, come tale, interessa soprattutto la comunità; la quale non acquista la proprietà dei beni del debitore esecutato, ma si trova investita – non come istituzione statale, ma come collettività – del potere di sostituirsi al debitore in quella ‘espiazione’ del debito e della colpa (alienando i beni per ricavarne il denaro necessario alla soddisfazione dei creditori), che egli non ha voluto o saputo compiere, come anticamente faceva il bonorum emptor nella bonorum venditio dell’intero patrimonio del debitore. È dunque la comunità che provvede alla vendita: non a chiunque, bensì a quello tra i suoi componenti che si sarà dichiarato disponibile all’acquisto e avrà presentato la migliore offerta.
14. La vente privée, ovvero «l’inutile precauzione» (comma 12, lett. n)
La lett. n) del comma 12 contiene la novità più eclatante delle proposte di novella, dopo quella contenuta nella lett. a) sull’abolizione della formula esecutiva. Si tratta della c.d. ‘vendita privata’, dichiaratamente ispirata al modello francese della vente privée, ma strutturata in modo assai articolato e complesso, prevedendo:
«1) che il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, può chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima, prevedendo che all’istanza del debitore deve essere sempre allegata l’offerta di acquisto irrevocabile per centoventi giorni e che, a garanzia della serietà dell’offerta, è prestata cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto;
2) che il giudice dell’esecuzione, con decreto, deve, verificata l’ammissibilità dell’istanza, disporre che l’esecutato rilasci l’immobile nella disponibilità del custode entro trenta giorni a pena di decadenza dall’istanza, salvo che il bene sia occupato con titolo opponibile alla procedura; disporre che entro quindici giorni è data pubblicità, ai sensi dell'articolo 490 del codice di procedura civile, dell’offerta pervenuta rendendo noto che entro sessanta giorni possono essere formulate ulteriori offerte di acquisto, garantite da cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto, il quale non può essere inferiore a quello dell’offerta già presentata a corredo dell’istanza dell’esecutato; convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti a un’udienza da fissare entro novanta giorni per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti;
3) che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione aggiudica l’immobile al miglior offerente devono essere stabilite le modalità di pagamento del prezzo, da versare entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile;
4) che il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, alla deliberazione sulle offerte e allo svolgimento della gara, alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta riscosso interamente il prezzo, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile;
5) che, se nel termine assegnato il prezzo non è stato versato, il giudice provvede ai sensi degli articoli 587 e 569 del codice di procedura civile;
6) che l’istanza di cui al numero 1) può essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «L’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione ‘virtuosa’ e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori. La correzione del testo originario dell’articolo 8 d.d.l. S-1662 è necessaria al fine di:
- evitare che lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive;
- impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione;
- assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti;
- rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile).
Per perseguire tali scopi, si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore l’1/3/2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte
Più in dettaglio, la proposta di modifica prevede che:
- il valore minimo per il quale può essere avanzata la proposta deve essere quello del prezzo base individuato dall’esperto stimatore nell’elaborato peritale: in tal modo si evitano sia accertamenti ulteriori (incongrui rispetto alla struttura del processo esecutivo), potenzialmente dilatori, sia un pregiudizio per il creditore (che potrebbe avanzare istanza di assegnazione, anche a favore di terzi, per il medesimo valore);
- l’esecutato che introduca una seria proposta di acquisto (ovviamente irrevocabile) garantita da cauzione deve altresì rilasciare l’immobile in un ragionevole lasso temporale, posto che la prosecuzione dell’occupazione costituisce di per sé indice di un’offerta “di comodo” e, inoltre, riduce l’appetibilità del bene sul mercato; fa eccezione il caso di immobile occupato con titolo di godimento opponibile alla procedura (al quale dovrebbe comunque soggiacere anche l’aggiudicatario);
- il giudice dell’esecuzione adotta con decreto (evitando, così, l’aggravio di un’udienza) i provvedimenti conseguenti alla presentazione dell’istanza: oltre alla verifica dell’ammissibilità dell’istanza e al controllo sullo stato di occupazione (ai fini della consequenziale liberazione spontanea da parte del debitore), l’offerta pervenuta deve essere adeguatamente pubblicizzata (sito internet autorizzato dal Ministero, PVP, eventuale pubblicità straordinaria) e posta in competizione con eventuali altre, solo così potendosi conseguire un prezzo di mercato (lasciar determinare al perito il valore di mercato sarebbe in contrasto con la giurisprudenza che esclude l’opposizione agli atti esecutivi avverso la perizia in quanto il valore ivi indicato è suscettibile di “correzione” nella gara; allo stesso modo, una determinazione giudiziale del valore attirerebbe defatiganti opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile);
- l’aggiudicazione può essere pronunciata all’esito di una eventuale gara tra plurimi offerenti o, in alternativa, all’unico originario offerente nel corso di un’udienza fissata subito dopo la scadenza del termine per la pubblicità; un provvedimento di formale aggiudicazione (anziché una mera individuazione dell’acquirente) è vantaggioso per l’offerente, stante il disposto dell’articolo 187-bis disp. att. del codice di procedura civile[17];
- la predeterminazione legislativa di un periodo temporale per il versamento del prezzo garantisce uniformità tra tutti gli interessati ed evita l’adozione di provvedimento discrezionali suscettibili di impugnazione;
- in caso di mancato versamento del prezzo deve trovare applicazione l’articolo 587 del codice di procedura civile;
- la vendita de qua non è soggetta al consenso dei creditori, né a provvedimenti del giudice dell’esecuzione volti a superare il loro dissenso: attribuire al giudicante valutazioni discrezionali, infatti, potrebbe attirare opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile, sia da parte dei creditori, sia (prevalentemente) da parte dei debitori che potrebbero sindacare il provvedimento di rigetto per non avere il giudice ritenuto superabile il dissenso dei creditori;
- nell’interesse del debitore e dell’acquirente, il trasferimento deve essere compiuto dal giudice dell’esecuzione col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile, col quale può disporsi la cancellazione dei gravami a spese della procedura (lo stesso onere deriverebbe in esito allo svolgimento della procedura ordinaria, ma in tal caso in tempi assai più lunghi); prevedere, al contrario, che i costi di trasferimento e cancellazione siano a carico dell’acquirente renderebbe meno vantaggiosa la partecipazione e incerta la spesa da sostenere, posto che non sarebbe anteriormente identificato il costo per l’eliminazione di eventuali gravami medio tempore iscritti o trascritti;
- la facoltà di delegare a un professionista le operazioni garantisce il rispetto della tempistica individuata, non risentendo degli altri impegni gravanti sul giudicante».
Ben poco v’è da aggiungere all’esauriente e dettagliata esposizione delle ragioni della novella contenute nella Relazione illustrativa, che fa proprî e mira a rendere ius positum i suggerimenti e le esperienze dei pratici, come avviene ormai da più di tre lustri a questa parte in materia di esecuzione forzata.
Vien solo fatto di osservare che il ‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative, qui persino dei principii e dei criterî direttivi della delega, già apparecchiati per i decreti delegati e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici che rampollano abbondanti da ogni eccesso di scrittura, dando sfogo a contestazioni, opposizioni, impugnazioni, reclami, e via dicendo, dei quali il genio italico è sempre stato maestro in ogni tempo all’orbe intero, sin dalle scuole dei sofisti che fiorirono nell’antica Magna Grecia. Sovviene la raccomandazione che Socrate dava a Fedro, nell’omonimo dialogo di Platone, evocando il mito del dio egizio Theuth sull’invenzione della scrittura, la quale impedisce agli uomini di trovare dentro di sé la risposta ai quesiti fondamentali e la vera sapienza, cercando risposta sempre e solo ab extra, con il richiamare alla memoria attraverso la frenetica consultazione di scritti che non appartengono loro, conoscitori di molte cose, ma dotati unicamente di soggettive opinioni anziché di vera epistème, e con i quali non sarà neppure possibile intavolare un confronto dialogico[18].
V’è, peraltro, da dubitare che sia necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vente privée, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 3/2012 e, poi, CCI di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale.
Insomma, non vorremmo che la disciplina della ‘vendita privata’ – o vente privée che dir si voglia – fosse «inutile precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
15. Limiti quantitativi e temporali alle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (comma 12, lett. o)
La lett. o) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’articolo 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non sia stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «La proposta interviene sull’istituto delle misure di coercizione indiretta disciplinato dall’articolo 614-bis del codice di procedura civile, attribuendo al legislatore delegato il compito di individuare dei criteri per la determinazione del quantum e del limite temporale della misura, di modo che la stessa non possa avere durata illimitata determinando l’insorgenza di obbligazioni sanzionatorie del tutto sproporzionate rispetto all’originaria obbligazione inadempiuta. La proposta, inoltre, attribuisce anche al G.E. il potere di imporre l’astreinte, misura particolarmente utile ove vengano in rilievo titoli esecutivi diversi da un provvedimento di condanna o nel caso in cui la misura di coercizione indiretta non sia stata richiesta al giudice della cognizione».
Quando la prestazione dovuta dal debitore sia infungibile, a causa del contenuto – in tutto o in parte – personale della stessa, o quando si tratti di obblighi di non facere, cioè di astenersi dal compimento di futuri atti lesivi, la sostituzione del debitore con l’attività dell’apparato giurisdizionale esecutivo non è possibile. In questi casi, per far conseguire al creditore l’utilità che gli è dovuta, occorre premere sulla volontà del debitore, affinché questi sia indotto ad adempiere per evitare di patire un pregiudizio superiore allo svantaggio che gli procura l’adempimento. L’esecuzione forzata è, dunque, indiretta, in quanto non si traduce in atti dell’ufficio esecutivo compiuti in sostituzione del debitore inadempiente, in modo da far ottenere al creditore la prestazione dovutagli, ma in misure coercitive idonee a premere sul debitore per spingerlo ad adempiere: «coactus voluit, sed voluit», come suol dirsi[19].
Il legislatore italiano, nell’art. 614 bis c.p.c., ha adottato come generale il modello delle misure coercitive civili mediante pagamento di somme di denaro a favore del creditore, secondo l’esperienza francese delle astreintes. Con la differenza, però, che mentre le astreintes francesi sono comminate nel provvedimento di condanna alla prestazione principale in via provvisoria e vengono poi irrogate in via definitiva soltanto dopo un sommario accertamento delle inadempienze all’ordine esecutivo commesse dal debitore, le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. vengono quantificate unilateralmente dal creditore, salvo contestazione del debitore mediante opposizione a precetto o all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. Sistema quello francese preferibile rispetto a quello adottato uno actu nel nostro art. 614 bis c.p.c., con riferimento ai soli provvedimenti di condanna e, dunque, in sede di cognizione e di dichiarazione dell’obbligo cui la misura coercitiva accede, anziché in sede esecutiva, per il caso in cui l’obbligo primario sia stato violato. Il che è dipeso da un equivoco sistematico di fondo del nostro legislatore: quello di riferire l’esecuzione forzata, anche indiretta, al provvedimento, anziché al diritto che ne forma l’oggetto e il contenuto. Con l’ulteriore deleterio effetto di impedire l’utilizzo delle misure coercitive in relazione ai titoli esecutivi stragiudiziali o, comunque, non decisori, come i verbali di conciliazione, che non contengono condanne di sorta.
Per rafforzare l’efficacia esecutiva dei provvedimenti di condanna l’art. 614 bis c.p.c., introdotto nel 2009 e novellato nel 2015, ha esteso le misure coercitive a tutti i provvedimenti di condanna a prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro, indipendentemente dal carattere fungibile o infungibile di tali prestazioni. Perciò, quando le misure coercitive assistono prestazioni fungibili (di consegna di beni mobili, di rilascio di beni immobili, di fare fungibile o di distruggere), il creditore può procedere sia con l’esecuzione diretta (in forma specifica, a seconda dell’utilità perseguita), sia con la c.d. esecuzione indiretta, esigendo la somma di denaro complessivamente dovuta per i giorni di ritardo del debitore nell’adempiere alla prestazione (fungibile) cui è stato condannato in via principale.
In iure condito le misure coercitive sono autorizzate dal giudice della cognizione o della cautela, su istanza di parte, nello stesso provvedimento di condanna, salvo che ciò non risulti manifestamente iniquo, ad es. per la natura strettamente personale della prestazione principale dovuta dall’obbligato (si pensi a una prestazione artistica o di ricerca scientifica o di scrittura di un libro o di un articolo, ecc.). L’imposizione di misure coercitive non può risolversi nella creazione di corvées irredimibili, degne della servitù della gleba di matrice feudale, dovendosi comunque salvaguardare il fondamentale principium libertatis insito nel brocardo del «nemo ad factum praecise cogi potest».
Stranamente e per evidente scelta politica, le misure coercitive non si applicano nel campo dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c. Scelta questa che appare del tutto irragionevole e affetta da evidente incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., avuto riguardo ai principii di ragionevolezza e di effettività delle tutele. Un’esclusione tanto più paradossale alla luce del dibattito che a suo tempo sorse intorno all’obbligo, parzialmente infungibile, del datore di lavoro di reintegrare nel posto e nelle mansioni il lavoratore illegittimamente licenziato, nel cui contesto si propose di rinvenire nell’ordinamento o, comunque, di introdurre misure coercitive affinché tale obbligo fosse integralmente e puntualmente adempiuto.
La misura coercitiva è stabilita nel suo ammontare discrezionalmente dal giudice della cognizione o della cautela, tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile, senza alcuna predeterminazione legislativa di un massimo edittale, suscitando per questo seri dubbi di legittimità costituzionale. Il problema si è posto anche per la condanna al risarcimento dei ‘danni punitivi’ per abuso del processo, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., che parimenti non predetermina l’entità della sanzione: tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto che ciò non violasse l’art. 23 Cost. sul divieto di imporre prestazioni personali o patrimoniali, può essere imposta se non in base alla legge[20].
Ed infatti, la delega interviene per porre un limite all’entità delle misure coercitive e alla loro durata, affinché non divengano strumento di ‘speculazione finanziaria’ del creditore, mediante accumulazione di crediti pecuniari verso il debitore.
Oltre a ciò – producendo anche in questo ad consequentias le critiche sollevate in dottrina, proprio dal presidente della commissione ministeriale, Francesco Paolo Luiso – l’adozione delle misure coercitive viene attribuita anche al giudice dell’esecuzione, quando si tratti di titoli esecutivi stragiudiziali che contengano prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro. Si tratterà, dunque, di atti pubblici per obblighi di consegna o rilascio (le scritture private autenticate valgono quali titoli esecutivi solo per crediti pecuniari), di verbali di conciliazione in esito a procedure di mediazione o di accordi raggiunti a seguito di negoziazione assistita da avvocati, sempre per le prestazioni diverse da quelle di pagamento di somme di denaro, alle quali sole si applicano le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c.
L’emendamento consente anche di sopperire alla mancata richiesta della misura al giudice della cognizione, chiedendola ex novo al giudice dell’esecuzione: in attesa di verificare quale sarà la disciplina che verrà introdotta nel testo dell’art. 614 bis c.p.c. dal decreto delegato, per le prestazioni di consegnare beni mobili, rilasciare beni immobili, di fare fungibile o di disfare par d’uopo che sia lo stesso giudice dell’esecuzione adìto per l’esecuzione in forma specifica, sì da compulsare il debitore renitente ad adempiere, onde evitare maggiori esborsi. Per le prestazioni di fare infungibile e di non fare, un giudice dell’esecuzione manca in apicibus, anche se pare difficile che le misure coercitive non siano state chieste al giudice della cognizione o della cautela, pena la pratica inutilità del provvedimento di condanna a un facere infungibile o a un non facere.
[10] Cfr., si vis, Tedoldi, Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, cit.
[11] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238, in Rass. esec. forz., 2019, 1179, con nota di M.L. Guarnieri; ivi, 2020, 917, con nota di Santagada.
[12] S. Satta, Il giorno del giudizio, Milano, 1979, 186 ss.
[13] Satta, L’esecuzione forzata, Torino, 1952, 5.
[14] Satta, Commentario al c.p.c., III, Processo di esecuzione, Milano, 1965, 181.
[15] Satta, Commentario, cit., III, 179.
[16] Cavallone, L’aggiudicatario come ricettatore, in Riv. dir. proc., 2014, 370.
[17] Come interpretato da Cass., sez. un., 28 novembre 2012, n. 21110, in Foro it., 2013, I, 1224, con nota di Longo; in Corr. giur., 2013, 387, con nota di Capponi; in Riv. dir. proc., 2013, 1551, con nota di Vincre.
[18] Cfr., si vis, Tedoldi, Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, cit., 88 ss.
[19] Si vis v. amplius Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 9 ss. e spec. 330 ss.
[20] Corte cost., 6 giugno 2019, n. 139, in Foro it., 2019, I, 2644 e in Giur. it., 2020, 578 (m), con nota di Ghirga.
Illegittima proroga ex lege della concessione balneare e reato di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”. Cronaca di un finale annunciato (nota a Cass. pen. 22 aprile 2022 n. 15676)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda penale. Sequestri e dissequestri - 3. La decisione della Cassazione - 4. Il rapporto con le Adunanze plenarie del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Alla vigilia di un nuovo intervento del legislatore che, ancora una volta, sembra ignorare la necessità di una compiuta riforma delle concessioni demaniali marittime, da troppo tempo solo preannunciata[i], la Cassazione penale, con la sentenza 22 aprile 2022, n. 15676 ha scritto un altro capitolo della saga dei “Bagni Liggia” di Genova.
Si tratta di un finale ‒ infausto per il concessionario, come meglio si dirà nel prosieguo ‒ che una parte della dottrina[ii] aveva preconizzato come possibile effetto delle sentenze c.d. gemelle dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in materia di concessioni balneari (nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021)[iii], nonostante le “rassicurazioni” date sul punto dal Supremo consesso della giustizia amministrativa.
La vicenda, che la stessa Cassazione non esita a definire “annosa”, trae origine da un provvedimento di sequestro preventivo sul tratto di arenile occupato dallo stabilimento balneare, fondato sull’ipotesi di reato di “abusiva occupazione di spazio demaniale” (art. 1161 cod. nav.) che punisce “chiunque arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo”.
Le considerazioni che seguono vengono rese a prima lettura, senza pretese di esaustività o completezza, al limitato scopo di fornire un immediato inquadramento delle questioni giuridiche più rilevanti che rivengono dalla recentissima decisione della Cassazione e che sono di sicuro interesse sotto il profilo non solo del diritto penale, ma anche amministrativo.
2. La vicenda penale. Sequestri e dissequestri
Per quanto è possibile ricostruire dagli atti di causa e dalla documentazione consultabile liberamente online, nel caso di specie l’imprenditore aveva ottenuto nel 1998 una concessione c.d. balneare con efficacia sino al 31 dicembre 2009. Il giorno prima dello spirare di tale termine era stato emanato il d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 (pubblicato il medesimo giorno) che aveva prorogato il termine di durata “delle concessioni in essere”, sino al 31 dicembre 2012[iv].
Il Comune di Genova aveva quindi comunicato all’interessato dapprima l’operatività della proroga ex lege (n. 25 del 2010) sino al 31 dicembre 2015 e, con atto successivo, la perdurante efficacia del titolo in forza del d.l. 194/2009[v].
Una prima richiesta di sequestro, formulata dalla Procura nel 2018 sul presupposto dell’inefficacia della concessione a seguito dello spirare del termine originariamente indicato nel titolo (31.12.2009), era stata rigettata dal Giudice per le indagini preliminari che aveva ritenuto sussistente ‒ anche in virtù degli atti adottati dal Comune ‒ un affidamento dell’imprenditore sulla perdurante validità del titolo concessorio[vi]. Anche il Tribunale del riesame aveva confermato il rigetto della misura cautelare reale ravvisando l’insussistenza del fumus in relazione all’elemento materiale della condotta in ragione della non disapplicabilità in malam partem delle disposizioni nazionali di proroga ex lege ancorché violative del diritto Ue[vii].
La decisione di riesame era però annullata con rinvio dalla Cassazione (sez. III, sentenza n. 25993 del 12 giugno 2019).
In primo luogo, secondo la Corte, la proroga sino al 31.12.2020 prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, poteva trovare applicazione esclusivamente per le concessioni nuove (e, dunque, per “quelle sorte dopo la legge 88 del 2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. 400 del 1993, come modificato dalla L. 88 del 2001, introdotta nel 1993 ed abrogata nel 2011”) e non anche per i provvedimenti ‒ come quello rilevante nel caso di specie – adottati prima di tale data.
La distinzione è frutto dell’interpretazione che il giudice penale propugna[viii] in relazione ad una norma che, al contrario, sembrava applicabile a tutte le concessioni efficaci alla data di entrata in vigore del d.l. n. 194/2009 (30 dicembre 2009)[ix].
In ogni caso, secondo la Cassazione, dalla disapplicazione della norma nazionale in contrasto con la disciplina europea, derivavano l’insussistenza di un titolo concessorio legittimamente prorogato e, dunque, la rilevanza penale della condotta del concessionario[x].
Ad avviso della Corte, tale soluzione interpretativa non dava luogo ad “una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi in ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”[xi].
Il Tribunale del riesame[xii], in funzione di giudice del rinvio, si uniformava a tali principi di diritto e disponeva il sequestro del tratto di arenile su cui insiste lo stabilimento balneare, sicché su tale decisione si formava un “giudicato cautelare”.
Con altro provvedimento del 2021[xiii], il GIP estendeva il vincolo anche all’immobile insistente sull’area demaniale oggetto del primo sequestro, ma revocava poi la misura cautelare, tanto sull’arenile, quanto sull’immobile, ritenendo che l’indagato fosse incorso in un errore incolpevole[xiv].
In particolare, nel provvedimento di dissequestro, il GIP, sebbene abbia ritenuto sussistente l’elemento oggettivo del reato contestato (in quanto il provvedimento concessorio originario non sarebbe mai stato legittimamente prorogato), negava la sussistenza dell’elemento psicologico del reato ipotizzato[xv].
Ma la decisione del GIP era annullata dal Tribunale del riesame con ordinanza impugnata dall’indagato ed oggetto del giudizio che ha dato luogo alla sentenza che brevemente si commenta.
3. La decisione della Cassazione
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha ripercorso e fatto proprio l’itermotivazionale del proprio precedente dianzi richiamato (sent. n. 25993/2019).
Esula dagli scopi di queste considerazioni l’analisi critica del percorso logico giuridico seguito dalla Corte nelle due decisioni. Ci si limita, tuttavia, ad osservare, che, secondo il Collegio, l’occupazione del bene demaniale in forza di una concessione legittimamente rilasciata e (ancorché illegittimamente) prorogata dalla legge e dall’autorità amministrativa (in forza di tale legge), è equiparabile alla condotta di chi “arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo” (art. 1161 cod. nav.). Nell’affermare tale principio, la Cassazione richiama un orientamento che tende ad accomunare la situazione in cui il soggetto occupi il bene in forza di una concessione dichiarata (dalla legge e dall’amministrazione) ancora esistente, ma la cui persistenza è ritenuta illegittima per violazione del diritto Ue, a quella in cui il titolo sia radicalmente assente o pacificamente scaduto.
Per tal via, dalla disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto Ue (o del provvedimento applicativo della norma interna), finiscono per derivare effetti pregiudizievoli, sotto il profilo della responsabilità penale, per il cittadino.
Tale opzione ermeneutica, tuttavia, è in contrasto con il principio enunciato dalla Cassazione pen. Sez. un. (n. 22225/2012) in forza del quale “non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato. (…) In definitiva, l'utilizzo della normativa sovranazionale va escluso allorquando gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale”.
In tale occasione le Sezioni unite ebbero modo di richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, secondo la quale, in ossequio ai principi generali del diritto, di “legalità della pena” e di “applicazione retroattiva della pena più mite” ‒ che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, sono parte integrante dei principi generali del diritto comunitario[xvi] ‒ “l’obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni”[xvii].
La Cassazione penale, nella sentenza n. 15676/2022, peraltro, propugna un’interpretazione che contrasta anche con il principio enunciato dalla Corte di giustizia ed in forza del quale gli effetti diretti di una direttiva ‒ non tempestivamente o non correttamente trasposta ‒ possono essere invocati solo dal singolo nei confronti dello Stato e non anche di altri individui (c.d. “effetto diretto verticale”); mentre, all’opposto, non possono essere fatti valere dallo Stato ‒inadempiente nel dare attuazione alla direttiva ‒ contro soggetti non tenuti alla sua applicazione (c.d. “effetto verticale inverso”)[xviii].
La sentenza che si commenta, dunque, si discosta dall’insegnamento della Corte di giustizia e delle Sezioni unite ed attribuisce al cittadino ‒ ancorché solo in relazione all’applicazione della misura cautelare ‒ una responsabilità penale in un contesto in cui il valore della certezza dell’ordinamento appare smarrito.
4. Il rapporto con le Adunanze plenarie del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021
A questo punto, qualche osservazione va svolta in relazione alla interessante lettura che la Suprema Corte ha fornito delle Sentenze gemelle nn. 17 e 18/2021 dell’Adunanza plenaria che il ricorrente aveva indicato quale “fatto sopravvenuto” idoneo a superare il giudicato cautelare (§ 9 e ss.).
Nell’argomentare della Cassazione, l’orientamento della giurisprudenza penale in forza del quale il giudice deve disapplicare le norme interne di proroga contrastanti con l’ordinamento Ue, con ogni conseguenza sotto il profilo della penale responsabilità del titolare della (illegittima) concessione, pare oggi trarre nuova linfa dall’autorevole ricostruzione operata dall’Adunanza plenaria.
Proprio a voler ulteriormente fondare, attraverso l’avallo del massimo consesso della giustizia amministrativa, gli approdi già (autonomamente) raggiunti, la Cassazione sunteggia alcuni passi delle sentenze gemelle[xix].
Ma da queste sentenze la Cassazione d’un tratto prende le distanze, quando giunge al cuore della questione: quali siano le conseguenze della illegittimità comunitaria della norma interna rispetto all’eventuale responsabilità penale del concessionario.
In proposito, l’Adunanza plenaria era pienamente avvertita dell’impatto sistemico che la propria decisione avrebbe potuto determinare sicché, sia pure a livello di obiter dictum, aveva ritenuto che non sussistesse un “rischio correlato alle possibili ripercussioni che una simile non applicazione potrebbe generare in termini di responsabilità penale dei concessionari demaniali, i quali, secondo una certa impostazione, venute meno le proroghe ex lege, si troverebbero privi di titolo legittimante l’occupazione del suolo demaniale, così incorrendo nel reato di occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo previsto dall’art. 1161 cod. nav. Tale timore è, infatti, privo di fondamento, atteso che ad una simile conclusione ostano incondizionatamente i principi costituzionali di riserva di legge statale e di irretroattività della legge penale. Detti principi, come riconosciuto anche dalla Corte di giustizia U.E., fanno parte delle tradizioni costituzionali degli Stati membri e come tali sono parte integrante dello stesso ordinamento comunitario (ed in ogni caso rappresenterebbero comunque controlimiti interni al principio di primazia). Ne discende che la descritta operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem” (§ 37).
Come è noto, il principio di irretroattività della legge penale impedisce al legislatore di attribuire efficacia retroattiva ad una legge che contenga una nuova incriminazione (art. 25 Cost.), mentre l’articolo 2, comma 1 c.p. vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge di tale contenuto.
È pacifico, infatti, che non possa sorgere alcuna responsabilità penale per condotte realizzate nella vigenza di una norma extra penale (che integri il precetto della norma “in bianco” incriminatrice) successivamente dichiarata incostituzionale, anche qualora dalla dichiarazione di incostituzionalità astrattamente derivi la rilevanza penale della condotta pregressa[xx].
Nel caso che ci occupa, tuttavia, il contrasto della norma nazionale sussiste non già rispetto alla Costituzione (nel qual caso opera un sistema di controllo di legittimità accentrato in capo alla Corte costituzionale), ma rispetto al diritto Ue. In tale seconda ipotesi il contrasto non solo è oggetto di controllo diffuso anche da parte del giudice comune, chiamato a disapplicare la norma interna anticomunitaria; ma, come è noto, può – recte deve – essere accertato da qualunque soggetto dell’apparato dello Stato, compresa la p.A.
Proprio in ragione della immediata disapplicabilità della norma interna in contrasto con il diritto Ue, il vizio che affligge il provvedimento applicativo di tale norma non può considerarsi “sopravvenuto”: esso, infatti, è originario non solo quanto alla decorrenza, ma anche quanto alla sua riconoscibilità da parte dell’Amministrazione e, in seconda battuta, da parte del giudice.
L’illegittimità comunitaria di una norma di legge (o di un atto amministrativo) nazionale sussiste ab origine, sicché se la condotta, astrattamente lecita sulla base della norma o del provvedimento illegittimi, assume rilevanza penale alla luce di una preesistente norma incriminatrice, non può ritenersi che la declaratoria di illegittimità comunitaria della norma o del provvedimento e la conseguente disapplicazione, comportino direttamente una patente violazione del principio di irretroattività della legge penale.
Sembra alludere a questa dinamica concettuale la Corte di Cassazione allorché, nella sentenza n. 25993/2019 (che ha condotto alla formazione del giudicato implicito nella vicenda che ci occupa), afferma che dalla disapplicazione del diritto nazionale non deriva “una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi in ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”.
Gli è che da un lato il Consiglio di Stato ‒ per supplire all’inerzia di un legislatore sempre più assente e incapace di fornire risposte appaganti alla domanda di certezza proveniente dalla società civile e dal mercato ‒ ha provato ad indicare anche al giudice penale (non meno che al Parlamento ed alle Amministrazioni) la via maestra per una disciplina pretoria e (si spera) temporanea del settore, in attesa dell’auspicata organica riforma da introdurre secondo le regole previste dall’ordinamento per la produzione di diritto di origine legislativa; dall’altro lato, tuttavia, la Cassazione ha esercitato con pienezza l’autonomia che l’ordinamento le garantisce e ‒ in un ideale dialogo a distanza con il Consiglio di Stato, che da sempre contraddistingue il rapporto dialettico tra le due giurisdizioni ‒ si è discostata dal percorso suggerito, optando per una ricostruzione che ha come ineludibile approdo la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 1161 cod. nav.
Tuttavia, in questo percorso ermeneutico, la Cassazione si è discostata anche dai principi che meritoriamente le Sezioni unite avevano dettato per garantire che la primazia del diritto dell’Unione ‒ che nell’obbligo di interpretazione conforme e di disapplicazione trova uno dei suoi pilastri ‒ non comportasse un inaccettabile arretramento sul versante dei principi fondamentali di legalità, tassatività ed irretroattività della pena.
Ad una declaratoria di insussistenza del fumus per l’adozione della misura cautelare la Corte sarebbe potuta pervenire anche seguendo il diverso percorso dell’insussistenza dell’elemento psicologico, richiamando i criteri e i parametri rilevanti in punto di errore scusabile, enucleati dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza 24 marzo 1988, n. 364) per delineare i confini dell’ignoranza inevitabile della legge penale con effetti esimenti della relativa responsabilità[xxi].
Ma la Cassazione ha ritenuto che non sussistessero nel caso di specie né “un comportamento positivo degli organi amministrativi”, né “un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale” che potessero indurre nell’indagato “il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto”.
Tale affermazione non può essere pienamente condivisa.
Anzitutto avrebbe meritato ampia considerazione il susseguirsi di leggi di proroga, introdotte dall’ordinamento anche dopo che la Corte di giustizia in Promoimpresa [xxii] aveva dichiarato la contrarietà delle proroghe rispetto alle regole dell’Unione. Siffatta pervicacia del legislatore ‒manifestata da ultimo con l’art. 1, comma 682, l. n. 145/2018 ‒ non poteva non ingenerare nel cittadino, anche nel più avveduto ed informato operatore economico, il convincimento della piena legittimità della scelta ordinamentale adottata dal Parlamento, con la conseguenza che, in presenza di un titolo concessorio legittimo ed efficace, non sussistesse una situazione di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”.
Per altra via, è innegabile che, in riferimento alle concessioni balneari, la questione dell’obbligo per le Amministrazioni di disapplicare il diritto interno violativo di una direttiva europea self executing (oggetto proprio della rimessione all’Adunanza plenaria) risultava dibattuta non solo in dottrina, ma anche in giurisprudenza, realizzandosi per tal via quel “gravemente caotico (…) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari” che la Corte costituzionale considera idoneo a determinare l’errore scusabile.
Infine, la condotta tenuta dall’Amministrazione avrebbe probabilmente meritato una diversa valutazione da parte del giudice penale.
Nella sentenza in commento, infatti, la Corte richiama il proprio insegnamento secondo il quale “la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta”[xxiii]; ma ritiene tale principio non applicabile nel caso di specie (§15).
Ad avviso del giudice di legittimità, infatti, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo della colpa, deve ritenersi non sufficiente “un mero ‘atteggiamento acquiescente’ tenuto dall’Amministrazione nei confronti dell’indagato, atteso che in assenza di un fatto positivo dell’autorità amministrativa, idoneo a ingenerare uno scusabile convincimento di liceità del comportamento, la buona fede non può essere desunta da un mero fatto negativo, quale, appunto l’acquiescenza della p.A. nei confronti dell’indagato”.
Sembra, tuttavia, che la suprema Corte abbia valutato unicamente il provvedimento concessorio dell’11 giugno 2008 (la cui irrilevanza ai fini dell’errore scusabile era già stata delibata dalla Cassazione con sentenza n. 10218/2020), senza attribuire alcun rilievo alle successive note nelle quali il Comune (nel 2011 e nel 2016) dava atto del perdurare dell’efficacia della concessione per effetto delle sopravvenute proroghe ex lege[xxiv].
Non può, peraltro, escludersi che la Cassazione sarebbe potuta giungere ad un diverso approdo, qualora l’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 avesse riconosciuto efficacia autoritativa (e non, dunque “meramente ricognitiva dell’effetto prodotto dalla norma”) e natura provvedimentale agli atti con i quali le Amministrazioni hanno sovente (ed in modo ambiguo) comunicato agli interessati le proroghe perfezionate a seguito delle riforme legislative che si sono susseguite[xxv].
È innegabile, infatti, che dinnanzi ad un atto che costituisce manifestazione del potere (che, in una prospettiva istituzionale, l’ordinamento affida proprio all’Ente) di produrre, nel singolo caso concreto, l’effetto delineato, genericamente e per tutti i casi consimili, ex lege, difficilmente il giudice penale avrebbe potuto disconoscere la sussistenza di un comportamento positivo degli organi amministrativi (inverato in quel provvedimento) idoneo ad ingenerare l’errore scusabile dell’indagato.
In altri termini, qualora l’Adunanza plenaria, con minore sforzo “creativo”, avesse riconosciuto la natura provvedimentale della “proroga”, la posizione del concessionario ne sarebbe risultata rafforzata: certamente in sede amministrativa (per l’operare dei limiti introdotti dalla legge all’esercizio dell’autotutela, a quel punto necessario per rimuovere gli effetti della proroga), ma anche in sede penale, in virtù della rilevanza della condotta dell’Amministrazione in relazione alla configurabilità di un errore scusabile.
5. Osservazioni conclusive
Le considerazioni svolte portano a ritenere la decisione della Cassazione penale irragionevole nella misura in cui finisce per scaricare sul privato tensioni accumulate nel corso di anni in un settore in cui troppo a lungo l’interesse economico degli operatori nazionali ha ostacolato un’organica riforma che tenesse in debito conto da un lato le reiterate sollecitazioni provenienti dall’ordinamento Ue ‒ intento, come è naturale, a garantire il corretto dispiegarsi delle regole della concorrenza ‒ dall’altro l’interesse pubblico alla valorizzazione ed alla tutela del bene demaniale.
L’inerzia del legislatore è stata accompagnata dalla ritrosia delle Amministrazioni nella disapplicazione del diritto interno in favore delle regole pro-concorrenziali di derivazione europea e da una faticosa e meritoria opera del giudice amministrativo, chiamato a fornire risposte di giustizia in un quadro di estrema incertezza ordinamentale derivante (anche) dalla sovrapposizione di regole nazionali ed europee.
Se è vero che il giudice penale costituisce sovente l’ultimo baluardo per la tutela effettiva di interessi pubblici (si pensi, in via esemplificativa, alla protezione dell’ambiente, della salute, del patrimonio culturale, non meno che all’ordinato assetto del territorio), la cui cura troppo spesso è colpevolmente trascurata da quelle stesse Amministrazioni cui l’ordinamento affida il potere-dovere di farsene gelose custodi a beneficio della generalità dei consociati[xxvi], non può ammettersi che sia “il rigore della legge penale a favorire, a colpi di sanzioni inflitte ai privati”[xxvii] quella certezza giuridica negata da un’Amministrazione inerte, nel concorso con un legislatore distratto o, peggio, ostaggio di interessi di parte.
Né può ammettersi che il cittadino che abbia confidato nella piena legittimità dell’assetto di interessi delineato da un atto amministrativo ‒ che più correttamente si dovrebbe qualificare come provvedimento ‒ applicativo di una norma di legge pienamente vigente, si trovi esposto alle conseguenze sanzionatorie previste dall’ordinamento, massime quando si tratti di conseguenze rilevanti sul piano penale, per effetto da un lato di un esercizio dell’azione penale che ‒ a fronte di una situazione di conclamata illegittimità che riguarda migliaia di concessioni balneari in tutta Italia ‒ non può che essere episodico (e per ciò stesso afflittivo solo per i concessionari indagati); dall’altro lato di un’interpretazione che il giudice, volta a volta investito della controversia, fornisca della fattispecie, anche disattendendo gli insegnamenti dettati dagli organi di vertice dei plessi giurisdizionali nell’esercizio della propria funzione nomofilattica.
Ancora una volta, disposizioni introdotte nell’evidente intento di favorire gli operatori economici rischiano di rivelarsi vere e proprie trappole per questi, che paiono chiamati dall’ordinamento a ricercare sotto la propria esclusiva responsabilità, una certezza giuridica sempre vagheggiata ‒ ma troppo spesso smarrita nei sentieri tortuosi di una giurisprudenza che approda a soluzioni sempre diverse, mutevoli ed imprevedibili.
Sembra di poter concludere che abbiamo di fronte, anche in questo caso, gli effetti esiziali che la conclamata crisi della certezza giuridica produce sul piano della tutela dei diritti non meno che dello sviluppo dell’economia, in un ordinamento connotato dalla graduale recessività del diritto di origine “legislativa”, dalla pluralità ed atipicità delle fonti, dalla debolezza del legislatore, dalla troppo frequente inadeguatezza dell’Amministrazione ad assolvere alla propria funzione istituzionale e finanche da gravi aporie che si registrano all’esito di una deriva creazionista della giurisprudenza che, almeno nei suoi esiti più estremi, resta da scongiurare[xxviii].
In tale contesto occorre che il legislatore, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalla dottrina e dalla giurisprudenza più avveduta, eserciti ‒ nel settore delle concessioni balneari, ma non solo ‒ in modo pieno le proprie prerogative e si faccia carico del compito di individuare regole certe in grado di produrre quell’effetto di stabilizzazione nomica che concorre a governare la complessità della società post-moderna.
[i] Cfr., XVIII legislatura, d.d.l. di iniziativa governativa, AS 2469, “legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”attualmente all’esame delle commissioni. I contenuti essenziali di una legge generale sulle concessioni marittime ‒ che tenesse in debito conto le esigenze di gestione e valorizzazione del bene pubblico, gli interessi degli utenti, quelli dei concessionari e del mercato ‒ erano stati delineati da V. Caputi Jambrenghi, L’interesse pubblico nelle concessioni demaniali marittime, in D. Granara (a cura di), In litore maris. Poteri e diritti in fronte al Mare. Atti del Convegno di Sestri Levante, 15-16 giugno 2019, Torino 2019, 67 ss.
[ii] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Dir. soc., 2021, 355-356.
[iii] Le sentenze hanno immediatamente destato l’interesse della dottrina. Tra i primissimi commenti si segnalano quelli raccolti nel numero speciale di Diritto e società, n. 3/2021, nonché, per limitarsi a quelli apparsi in questa rivista, F.P. Bello,Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 24 novembre 2021; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, 30 dicembre 2021; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116), 27 gennaio 2022; F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 28 gennaio 2022; M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, 16 febbraio 2022.
[iv] Si riporta di seguito il testo originario dell’art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009: “il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2012 è prorogato fino a tale data”. A seguito della legge di conversione (26 febbraio 2010, n. 25) il termine della proroga era stato fissato al 31.12.2015; con d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito nella l. 17 dicembre 2012, n. 221, il termine è stato ulteriormente prorogato al 31 dicembre 2020.
[v] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018: “va puntualizzato che il Comune di Genova ha rilasciato in favore del Galli ben due provvedimenti successivi per legittimare la proroga dell’efficacia della sua concessione (entrambi presenti in copia fra gli atti allegati alla richiesta del P.M.): il primo in data 18 novembre 2011, con il quale la licenza (…) viene prorogata fino al 31.12.2015 in forza della l. 25/2010, e il secondo in data 29.11.2016, con il quale il medesimo titolo concessorio viene qualificato come ‘già instaurato e pendente in base all’art.1, comma 18, d.l. 194/2009’ (…) e ne viene pertanto riconosciuta la perdurante validità ‘non risultando ancora emanata la predetta normativa di revisione e riordino della materia’: con il che, nei fatti, l’efficacia del titolo viene differita fino al 2020”.
[vi] Tribunale di Genova, ufficio GIP, decreto del 2 ottobre 2018.
[vii] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018: “di fronte a uno Stato che, nonostante l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria per la vigenza di norme in contrasto con principi di rango sovranazionale, ha adottato plurime leggi con le quali ha protratto nel tempo l’efficacia di titoli concessori che dovrebbero considerarsi spazzati via dalla normativa comunitaria, occorrerebbe richiamare lo Stato alle sue responsabilità piuttosto che scaricare sul concessionario l’obbligo di uniformarsi spontaneamente, peraltro senza che nemmeno gliel’abbia intimato l’Autorità concedente, come nel caso in esame, alla normativa sovranazionale”.
[viii] Secondo Cass. pen. n. 25993/2019, “le disposizioni ex lege 194 del 2009 si riferiscono esclusivamente alle concessioni nuove, ovvero a quelle sorte dopo la legge 88 del 2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. 400 del 1993, come modificato dalla l. 88 del 2001, introdotta nel 1993 ed abrogata nel 2001. Una diversa ed inammissibile interpretazione porterebbe a ritenere che il legislatore abbia abrogato espressamente la disciplina della proroga automatica introdotta nel 1993, in quanto in contrasto con la normativa europea, salvaguardandone comunque gli effetti e, in tal modo, operando in contrasto con la disciplina comunitaria (Sez.3, n.29763 del 26/03/2014, Rv.260108)”.
[ix] Nel senso dell’applicabilità della proroga ex d.l. n. 194/2009, specie in relazione alla (non) configurabilità del reato di cui all’art. 1161 cod. nav., militano numerosi argomenti: a) anzitutto il tenore letterale della disposizione che, con formulazione assai ampia, faceva riferimento alle “concessioni in essere” alla data di entrata in vigore del decreto; b) un’interpretazione sistematica, considerato che successivamente il legislatore ha previsto una proroga generalizzata delle concessioni esistenti (art. 1, commi 682 e 683 l. n. 145/2018); c) il principio enunciato dalla Cassazione penale a sezioni unite ed in forza del quale, come a breve meglio si preciserà, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria possono conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (sentenza 8 giugno 2012, n. 22225).
[x] Cass. pen. n. 25993/2019, § 7: “va disapplicata la normativa di cui all’art. 24, comma 3-septies, d.l. 24 giugno 2016, n. 113, conv. in l. 7 agosto 2016, n. 160, laddove la stessa, stabilizzando gli effetti della proroga automatica delle concessioni demaniali marittime prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in legge 26 febbraio 2010, n. 25, contrasta con l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 (c.d. direttiva Bolkestein) e, comunque, con l’articolo 49 TFUE. (Sez.3, n.21281 del 16/03/2018, Rv.273222, cit.)”.
[xi] Cass. pen. n. 25993/2019, § 8.
[xii] Ordinanza del 12 luglio 2019.
[xiii] Tribunale di Genova, ufficio per le indagini preliminari, decreto dell’8 novembre 2021.
[xiv] Tribunale di Genova, ufficio per le indagini preliminari, ordinanza del 3 dicembre 2021.
[xv] Secondo quel Giudice, infatti, il concessionario “si era trovato ‘ostaggio’ di un pervicace e contrastante atteggiamento dei pubblici poteri”: da un canto il Comune nel 2011 aveva espressamente concesso la proroga ex d.l. 194/2009; dall’altro il legislatore, ancorché violando il diritto Ue, aveva disposto due successive ulteriori proroghe. Osserva il GIP che l’indagato era incorso in errore scusabile “generato dall’ingannevole informazione/disposizione prodotta da fonti qualificate”. Per altra via il giudice evidenzia l’irragionevolezza di una soluzione interpretativa secondo la quale “nonostante una pubblica amministrazione che l’autorizzava a proseguire nel rapporto concessorio, applicando non una ma addirittura due leggi statali di proroga” l’indagato avrebbe dovuto disattendere la proroga e rendersi ‒ dato questo non trascurabile ‒ inadempiente agli obblighi derivanti dalla concessione.
[xvi] Corte di giustizia Ue, grand. Sez., sentenza 3 maggio 2005, in cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02, Berlusconi; sentenza 16 giugno 2005, in causa C- 105/03, Pupino.
[xvii] Corte di giustizia Ue, sentenza 5 luglio 2007, in causa C-321/05 Kofoed, § 45.
[xviii] Sul punto, nell’ambito di una vasta dottrina, cfr., E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, cit.
D’altro canto, la Corte costituzionale, con sentenza 28 gennaio 2010, n. 28 aveva affermato il principio secondo il quale “l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale”.
[xix] Al § 11 della sentenza Cass. pen.15676/2022, si ripercorrono le argomentazioni sviluppate dall’Ad. plen., spec. ai § 14, 16, 24, 25 delle sentenze gemelle.
[xx] Addirittura, in deroga al principio per il quale l’efficacia retroattiva della sentenza della Consulta si arresta dinnanzi ai rapporti già regolati in via definitiva dalla legge incostituzionale, l’art. 30, comma 4, della l. n. 87/1953 dispone che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.
[xxi] Su questa linea si era attestato il GIP nel provvedimento di dissequestro del 3 dicembre 2021, ponendo in rilievo come l’indagato si fosse trovato di fronte “all’univoco atteggiamento di un legislatore che reiteratamente prorogava le concessioni demaniali e [ad] una p.A. che non dava corso alla richiesta di proroga dal medesimo presentata, proprio facendo applicazione delle proroghe legislative (…) confortato di essere nella medesima situazione di altri numerosi ‘colleghi’, la cui concessione scaduta non era prorogata in via amministrativa, al pari della sua, in virtù delle proroghe legali anzidette”. Si segnala, peraltro, che secondo il Tribunale del riesame (ord. del 9 novembre 2018) “il punto cruciale sembra essere proprio la connotazione ‘arbitraria’ o ‘abusiva’, in sostanza contra legem, dell’occupazione dell’area demaniale (…) profilo che, pur inerendo precipuamente all’elemento materiale del reato di cui all’art. 1161 cod. nav., si riflette pur sempre sul relativo elemento piscologico, trattandosi di dolo specifico che sorregge la condotta e che sembra prescindere, all’evidenza, da ogni possibile caratterizzazione della stessa in termini colposi; non si vede, per vero, come sia possibile commettere un atto qualificato dal legislatore come ‘arbitrario’ (nel precetto) e ‘abusivo’ (nella rubrica) serbando un atteggiamento psicologico indotto da un errore, per di più sulla normativa vigente e nemmeno sul fatto: la contravvenzione in parola sembra, dunque, dolosa per natura, apparendo una contraddizione insanabile quella tra ‘arbitrarietà’ della condotta ad essa sottesa e l’eventuale colpa nella relativa consumazione”.
[xxii] Corte di giustizia del 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa.
[xxiii]Cass. pen., sez. I, 15 luglio 2015 n. 47712. In quel caso la Corte aveva ritenuto scusabile l’errore dell’imputato, che, nel denunziare all’Amministrazione l’arma ereditata dal padre, non aveva indicato le munizioni in suo possesso, in ciò indotto da una nota dell'ufficio di p.s.
[xxiv] Cfr. supra nota 5 e la ricostruzione sul punto operata dal Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018.
[xxv] Per la tesi secondo la quale la volontà (di disporre la proroga) espressa dalle leggi che si sono susseguite negli anni necessitava di una concreta attuazione per il tramite di un atto amministrativo di natura provvedimentale (e per alcune considerazioni sulle conseguenze di siffatta impostazione in ordine ai limiti della necessaria autotutela da esercitarsi in relazione a tali atti), sia consentito il rinvio a P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela, in Dir. soc., 2021, 583 ss. Sulla “nuova autotutela” all’indomani della l. n. 124/2015, cfr., nell’ambito di una vasta dottrina, cfr. F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, n. 20/2015; M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli 2016, 125 ss.; Id., Autotutela, in Il libro dell’anno del Diritto 2016, Roma 2016.
[xxvi] È interessante osservare, in proposito, che nella vicenda che ci occupa, il Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 13 luglio 2019, convalidava il sequestro dando esecuzione alla sentenza Cass. pen. sez. III, n. 25993/2019, e tuttavia restitutiva gli atti al P.M. perché svolgesse accertamenti investigativi in ordine all’eventuale condotta penalmente rilevante (ex artt. 323, 328 e 361 c.p.) derivante dal “comportamento delle Autorità amministrative (Agenzia del Demanio, Capitaneria di Porto e Comune di Genova) che mostrano di aver tollerato per circa un decennio la consumazione dell’illecito penale in esame ad opera dell’indagato”.
[xxvii] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018.
[xxviii] Sul tema dell’incertezza delle regole e del creazionismo giurisprudenziale nell’ordinamento amministrativo moderno si v. per tutti M.A. Sandulli, Ancora sui rischi dell’incertezza delle regole (sostanziali e processuali) e dei ruoli dei poteri pubblici, in Federalismi.it, 23 maggio 2018; Id., I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, ivi, 21 novembre 2018; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.; Id., La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione giustizia, n. 1/2021, 38 ss. Il tema è stato oggetto di analisi ed approfondimento durante il convegno di studi sul tema “I materiali della legge nella teoria delle fonti e nell’interpretazione del diritto”, Roma, Palazzo Spada, 20 aprile 2022.
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