“Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi”*
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Premessa ricostruttiva. - 2. L’esigenza di un sistema per “riparare” l’errore giurisdizionale per violazione del diritto UE. - 3. La (vana) ricerca di “indicazioni” sui limiti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. - 4. Gli ultimi arresti ripropongono la strada della revocazione. - 5. Conclusioni.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto complimentarmi con l’amico e collega Marco Magri e con i colleghi dell’Università di Ferrara per l’organizzazione di questo incontro e ringraziarli per avermi invitato ad aprire la sessione dei rapporti tra rinvio pregiudiziale alla CGUE e diritto amministrativo, dandomi l’occasione per tornare a riflettere su un tema sempre interessante, che, come dimostra anche la più recente giurisprudenza, è oggi più che mai attuale.
Come cerco di rappresentare ai nostri studenti sin dalla prima lezione del corso di Diritto amministrativo progredito, l’impatto del diritto dell’Unione europea sulla nostra materia è particolarmente forte. Anche una rapida e superficiale rassegna degli atti (fonti normative, raccomandazioni, interventi della Commissione, decisioni giurisprudenziali) delle istituzioni dell’Unione consente agevolmente di percepire come essi interessino in larghissima parte l’esercizio dei poteri pubblici, a tutela delle garanzie dei valori affermati dai Trattati. Lo vediamo, evidentemente, in modo più frequente e immediato nella gestione dei servizi pubblici e nelle materie di rilevanza economica, per i profili inerenti alla tutela della concorrenza, ma lo vediamo anche per le materie trasversali, come la tutela dell’ambiente o dell’effettività della giustizia.
È noto, per fare solo un esempio, il dibattito tra l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e la Corte di Giustizia sulle condizioni per l’azione giurisdizionale.
Mai come in questi ultimi mesi anche i non giuristi hanno peraltro percepito l’importanza delle regole dell’esercizio dei poteri pubblici e l’incidenza del diritto euro-unitario nel nostro ordinamento, consentendo anche a chi abbia solo rudimentali cognizioni giuridiche di comprendere il senso del cd “primato” di tale diritto sulle fonti interne. Gli esempi di più immediata percezione sono stati quelli legati alle misure di prevenzione anti-covid e di risposta alla crisi determinata dall’emergenza pandemica, e alla proroga delle cd concessioni balneari.
Ricorderete che i principali quotidiani hanno dato immediata e ampia notizia delle sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, con le quali l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dichiarato la non applicabilità, per diretto contrasto con il diritto eurounitario, delle leggi che nel 2018 e nel 2020 avevano disposto la proroga generalizzata delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per uso turistico-ricreativo, qualificando tamquam non essent le proroghe disposte in base ai loro articoli (mi si consenta il richiamo, per tutti, al fascicolo monotematico n. 3/2021 di Diritto e società, consultabile in open access sul sito della rivista). Sono state sentenze molto commentate e spesso criticate, per le modalità, più che per i contenuti, ma sono certa che, più di mille lezioni e discorsi, hanno dato a tutti il senso dell’impatto del diritto UE nel nostro ordinamento. Così come evidentemente lo dà il susseguirsi di norme per garantire il rispetto degli impegni assunti con il PNRR.
A questo proposito, dal momento che siamo in un’assemblea di studiosi del diritto, ricordo che non possiamo non guardare con preoccupazione alle ultime norme iper-acceleratorie dei processi amministrativi, coniate l’estate scorsa per i giudizi relativi a provvedimenti finanziati in tutto o in parte dal Piano (il riferimento è evidentemente all’art 3 d.l. n. 85/2022, poi inserito come art. 12-bis nel precedente d.l. n. 68, per assicurarne la conversione agostana), che impongono un nuovo improvvido sacrificio all’effettività della tutela e alla giustizia nell’amministrazione (cfr. la nota della redazione e il commento critico di F. Volpe su Giustiziainsieme)
Per i giuristi, e in particolare per gli studiosi di diritto processuale, l’ultimo lustro è stato poi, come noto, molto stimolante anche per il dibattito esploso tra le Supreme Corti sui rimedi processuali avverso le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), che, in spregio al suddetto primato del diritto UE e disattendendo l’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia imposto dall’art 267 TFUE, avessero di fatto negato tutela a posizioni riconosciute dal diritto dell’Unione. Con riferimento alle controversie che involgono rapporti con le pubbliche amministrazioni (e i soggetti a esse equiparati), la questione dei rapporti con il diritto UE si è andata infatti intrecciando con quella dei limiti al sindacato della Corte di cassazione ex art 111, co 8, Cost, sostanziandosi, più nello specifico, nella possibilità di individuare nella violazione del diritto UE un “motivo inerente alla giurisdizione”.
Per comprendere un’importante angolazione della questione, è utile preliminarmente ricordare che, all’esito delle modifiche introdotte nel 2015, la l. n. 117/1988, sulla responsabilità civile dei magistrati, nel disporre che chiunque può agire in giudizio contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni ingiusti patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali derivanti da un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, riconduce, tra l’altro, espressamente alla “colpa grave” foriera di effetti risarcitori “la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea”, e, oltre all’obbligo dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato ai sensi dell’art. 7, configura, all’art. 9, un obbligo di azione disciplinare per i fatti che hanno dato luogo all’azione risarcitoria, specificando che a tali fini non è neppure richiesta la colpa grave.
La riforma è, come noto, a sua volta significativamente frutto di interventi delle istituzioni UE. In particolare, il percorso trae origine dalla sentenza 13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo), in cui la Corte di giustizia ha affermato che “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale”.
La sentenza ha quindi osservato che “Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler”, secondo la quale, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria, nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, 3° comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia.
La medesima Corte di giustizia è stata poi investita di una procedura di infrazione (in C-379/10) promossa dalla Commissione europea al fine di ottenere una modifica della legge n. 117/1988 nel senso indicato dalla pronuncia del 2006 e, con sentenza del 24 novembre 2011 ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude(va) qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell'Unione.
La novella del 2015 ha dato linfa alla questione della ricorribilità in Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost. contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti in contrasto con il diritto UE.
Come noto, a differenza di quanto disposto per le sentenze dei giudici ordinari (di cui l’art 111, co 7, Cost impone sempre l’impugnabilità in Cassazione per violazione di legge), contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti l’art 111, co 8, Cost. ammette infatti il ricorso per cassazione soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione.
Ne consegue che, negli altri casi, l’unico rimedio (a parte l’opposizione di terzo) è quello, estremamente circoscritto, della revocazione.
Non è questa la sede per addentrarci nel dibattito generale sui limiti del sindacato della Corte di cassazione ex art 111, co 8, e sul percorso seguito dalle Sezioni Unite fino al famoso rinvio alla CGUE da parte dell’ordinanza Randstad Italia del 2020, sul quale mi permetto di rinviare al mio scritto “Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020”, pubblicato su Giustizia insieme.it e agli altri scritti nel volume a cura di A. Carratta, Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. un. n. 19598/2020, Roma TrE-Press, 2021.
Ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che mano a mano che si è andato sviluppando -e, mi sia consentito rimarcare, inasprendo- un certo contrasto di posizioni tra il Consiglio di Stato e la Corte di giustizia nelle controversie in tema di affidamento dei contratti pubblici -settore di grande rilevanza economica e tradizionale terreno di influenza del diritto UE-si è posto anche il problema della possibilità/necessità di utilizzare tali rimedi straordinari anche per evitare una responsabilità risarcitoria dello Stato per effetto di eventuali errori di diritto dei giudici amministrativi.
È così accaduto che, sviluppando un percorso avviato negli anni 2006-2008 con riferimento alla cd pregiudiziale di annullamento delle azioni di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, le SS. UU. della Corte di cassazione, con due importanti sentenze (2242 del 2015 e 31226 del 2017), hanno cassato le pronunce con le quali il Consiglio di Stato, disattendendo i principi di apertura alla tutela affermati in varie occasioni dalla Corte di Lussemburgo, aveva negato la legittimazione dei concorrenti non definitivamente esclusi da una gara per l’affidamento di contratti pubblici a contestare il possesso dei requisiti del ricorrente principale (la prima) e dell’aggiudicatario (la seconda), rilevando come tale restrizione, traducendosi in un’interpretazione delle norme europee in contrasto con quelle fornite dalla CGUE, così da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale, si sostanziasse in un “abnorme” diniego di giustizia, sindacabile ex art. 111, co. 8, Cost. La stessa Corte di cassazione rimarcava però l’eccezionalità di tale potere cassatorio sindacato (sintomaticamente esercitato solo due volte con richiamo al diritto UE e solo due volte con richiamo al diritto interno: una nei confronti del Consiglio di Stato, nel 2008, e una nei confronti della Corte dei conti, nel 2012) e precisando di non avere comunque il potere di sindacare la scelta ermeneutica del giudice amministrativo né la scelta di rinviare o meno la questione alla CGUE, come previsto dall’art. 267, co 3, del TFUE.
Le stesse SS.UU., peraltro, nell’aprile 2016, invocando una interpretazione evolutiva del limite esterno della giurisdizione, avevano analogamente riscontrato un vizio inerente alla giurisdizione con riferimento alla mancata considerazione da parte del Consiglio di Stato di una sentenza della Corte EDU e avevano ritenuto di potere di conseguenza direttamente rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità delle norme rilevanti ai fini della soluzione della controversia per contrasto con la Convenzione europea.
Alcune affermazioni di carattere più generale contenute nell’ordinanza nella parte in cui invocava la riferita interpretazione evolutiva avevano fatto però temere che essa tradisse un tentativo della Corte regolatrice di estendere il proprio sindacato per violazione di legge al di là dell’ambito, utilizzato come detto con estrema prudenza e ormai acquisito, del cd. “diniego di giustizia” (riconducibile a un eccesso in negativo del potere giurisdizionale), sì da far rientrare nell’ambito dell’art. 111, co. 8 -attraverso il passaggio dalla violazione del diritto UE- il sindacato sulla violazione di legge in materia di diritti di rilevanza eurounitaria, anche nelle materie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Questa preoccupazione ha indotto il Giudice delle leggi a un’estrema prudenza. Con la nota sentenza n. 6 del 2018, significativamente assunta all’esito di una camera di consiglio immediatamente successiva alla richiamata sentenza 31226 del 2017 della Corte di cassazione, infatti, la Consulta ha affermato che “la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, previsto dall’ottavo comma dell’art. 111 Cost. avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando ... non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale” (§11), aggiungendo che “L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU» giacché anche in tal caso si ricondurrebbe «al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso di tornare” (§14.1).
Dopo la suddetta pronuncia, la giurisprudenza delle Sezioni Unite si è andata consolidando nel senso che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali nazionali o dei principi del diritto europeo da parte del giudice amministrativo, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione, così da giustificare il ricorso previsto dall'art. 111, co. 8, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione (così SS.UU., nn. 32773/2018; nello stesso senso, tra le tante, le pronunce nn. 8311/2019, 27770/2020, 29653/2020, 36899/2021, 183/2022).
Tale orientamento espressamente include anche gli errores in procedendo nell’area dell’insindacabilità delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ex art. 111, co. 8, Cost. (tra le tante, SS.UU., nn. 7926/2019, SS.UU. 29082/2019, SS.UU. 34470/2019, SS.UU. 27546/2021, non massimata).
Nell’ambito di detto indirizzo, si è anche affermato che il contrasto delle decisioni giurisdizionali del Consiglio di Stato con il diritto europeo non integra, di per sé, l’eccesso di potere giurisdizionale denunziabile ai sensi dell'art. 111, co. 8, Cost., atteso che anche la violazione delle norme dell’Unione europea o della CEDU dà luogo ad un motivo di illegittimità, sia pure particolarmente qualificata, che si sottrae al controllo di giurisdizione della Corte di cassazione, né può essere attribuita rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio (SS.UU., n. 29085/2019; nello stesso senso, SS.UU., n. 6460/2020). Con l’ulteriore precisazione che la non sindacabilità, da parte della Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost., delle violazioni del diritto UE ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali (nella specie, il Consiglio di Stato) è compatibile con il diritto dell'Unione, come interpretato della giurisprudenza costituzionale ed europea, in quanto correttamente ispirato a esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai principi del giusto processo ed idoneo a garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione (SS.UU., n. 32622/2018).
Nella sentenza n. 1454/2022 le SS.UU. ribadiscono così ancora significativamente che il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla CGUE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione.
Con buona pace delle garanzie di effettività della tutela e delle conseguenze economiche derivanti dalla responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE.
Il problema era evidentemente avvertito dalla stessa Consulta, che, nella richiamata sentenza n. 6/18 aveva giustamente rimarcato che “rimane il fatto che, specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'art. 395 cod. proc. civ., come auspicato dalla stessa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU nella sentenza n. 123 del 2017”.
In quest’ultima sentenza, come si ricorderà, la Corte costituzionale aveva dichiarato parzialmente inammissibili e parzialmente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni (art. 106 cpa e 395 e 396 cpc), nella parte in cui non prevedono un ulteriore diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Consulta lasciava però emergere l’esigenza di una sollecita soluzione del problema da parte del legislatore nazionale, laddove rileva che “nel nostro ordinamento, la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell'art.24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore”. Esigenza ribadita, appunto, dalla sentenza n. 6/2018.
Nella legge delega per la riforma del processo civile (l. 26 novembre 2021, n. 206), il Parlamento ha espressamente delegato il Governo ad ampliare il ventaglio di motivi revocatori tassativamente indicati all’art. 395 c.p.c., prefigurando l’introduzione di una nuova ipotesi di revocazione straordinaria del giudicato che, a seguito di una successiva pronuncia resa dalla Corte EDU, risulti in violazione della CEDU o di quanto previsto nei Protocolli addizionali. Ipotesi introdotta nello schema di D.lgs. all’art 391-quater.
La novella, ancora non approvata, non tocca comunque il rapporto con il diritto UE.
2. L’esigenza di un sistema per “riparare” l’errore giurisdizionale per violazione del diritto UE.
In attesa di un intervento del legislatore, il problema di fondo -come rimediare processualmente all’errore del g. a. di ultima istanza ed evitare la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno- restava quindi irrisolto.
Entrambe le magistrature supreme, pur ovviamente da posizioni opposte, sono tornate sul tema.
La Corte di cassazione, con la richiamata ordinanza Randstad Italia, ha così addirittura chiesto alla Corte di giustizia se fosse compatibile con il diritto unionale (e, segnatamente, con l’art. 1, par. 1 e 3 della direttiva 89/665 letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) l’art. 111, co. 8, Cost., per come interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza 6 del 2018, nella parte in cui non consente di ricorrere ad un organo giurisdizionale supremo dello Stato membro per annullare una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato che abbia negato la tutela di diritti in violazione del diritto dell’Unione, e/o abbia disatteso l’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE. L’ordinanza ha suscitato un accesissimo dibattito sul quale si sono tenuti numerosi webinar e incontri in presenza e sono stati scritti fiumi d’inchiostro, ai quali evidentemente si rinvia per ogni utile approfondimento[i]. Merita qui particolarmente rimarcare che le SS. UU. avevano avuto buon gioco nel ricordare, che la stessa Corte costituzionale, nella menzionata sentenza n. 6 del 2018, “riconosce che «specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste», ma aveva osservato che esso «deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione [quindi, di quella amministrativa per le sentenze dei giudici amministrativi], eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'articolo 395 cod. proc. civ.»”; e nel rappresentare (criticamente) al Giudice sovranazionale che “Tale rimedio, tuttavia, non è previsto dal legislatore nazionale come strumento ordinario per porre rimedio alle violazioni del diritto dell'Unione che siano addebitate agli organi giurisdizionali” e che “La stessa Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93); in altra decisione, ha dichiarato inammissibile una analoga questione sollevata dai giudici amministrativi (Corte cost. 2 febbraio 2018, n. 19)”. Aggiungeva peraltro, e correttamente, la Corte di cassazione che “Tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell'istituto della revocazione (sub paragrafo 15, in relazione all'art. 395 cod. proc. civ.) e, specialmente, quando le sentenze delle Corte sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. È comunque dubbio che esso sia idoneo a paralizzare l'ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione”.
La VI Sezione del Consiglio di Stato, dal canto proprio, prestando doverosa attenzione al tema della responsabilità, nella controversia Hoffman – La Roche, con ordinanza n. 2327 del 18 marzo 2021 aveva rimesso alla Corte di Lussemburgo di pronunciarsi sulla compatibilità degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395 cod. proc. civ. nella misura in cui non consentono di usare il rimedio revocatorio per impugnare sentenze del giudice amministrativo di appello confliggenti con una sentenza della stessa Corte di giustizia e in particolare con i principi che questa abbia affermato a seguito di precedente rinvio pregiudiziale.
In estrema sintesi, in entrambi i casi la Corte di giustizia era dunque chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del sistema processuale interno con il diritto eurounitario in punto di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti conferiti da disposizioni che attuano tale diritto.
La prima sentenza è stata resa dalla Grande Sezione il 21 dicembre 2021 e la seconda dalla IX Sezione il 7 luglio scorso.
Come evidenziato dalla V sezione del Consiglio di Stato in una recentissima ordinanza su cui torneremo infra, per dar risposta alle questioni pregiudiziali sollevate nelle due sentenze, la Corte svolge sostanzialmente il medesimo ragionamento che può essere così esposto in sintesi:
- fatta salva l’esistenza di norme dell’Unione europea in materia, per il principio dell’autonomia procedurale spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto unionale il rispetto del loro diritto ad una giurisdizione effettiva;
- se l’ordinamento interno assicura un rimedio giurisdizionale che sia equivalente a quello con il quale è garantita la tutela di situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non renda in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività) va escluso ogni contrasto delle disposizioni del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea;
- resta fermo che i singoli che siano stati eventualmente lesi dalla violazione del loro diritto a un ricorso effettivo a causa di una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che si ponga in contrasto con il diritto dell’Unione europea possono far valere la responsabilità dello Stato membro se la violazione ha carattere sufficientemente qualificato e in caso di esistenza di nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito dal soggetto leso.
In base a tale ragionamento i Giudici di Lussemburgo hanno quindi ritenuto l’insussistenza dei profili di contrasto del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea paventati nel primo quesito della ordinanza Randstad Italia e nel terzo quesito dell’ordinanza Hofman-La Roche.
La Corte non ha invece affrontato il quesito (secondo dell’ordinanza Randstad Italia): “Se l’art. 4, par. 3, art. 19, par. 1 TUE e art. 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ostino alla interpretazione applicazione dell’art. 111 Cost., comma 8, art. 360 c.p.c, comma 1, n. 1 e art 362 c.p.c., comma 1, e art 110 del codice processo amministrativo, quale si evince dalla prassi giurisprudenziale nazionale, secondo la quale il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per “motivi inerenti alla giurisdizione”, sotto il profilo del cosiddetto “difetto di potere giurisdizionale”, non sia proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit, C-238/81) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell’Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento del)l’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell’Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione: profilo su cui la Cassazione, nel chiudere in rito la controversia, non ha evidentemente mancato di esprimere perplessità.
Nella prima pronuncia successiva alla pubblicazione dell’ordinanza Randstad I. (ordinanza n. 1454 del 2022), riprendendo sostanzialmente il ragionamento della Corte di giustizia, la Corte di cassazione ha, come visto, ribadito il principio di diritto che “Il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla Corte di giustizia UE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione”.
Nella motivazione, le Sezioni unite estendono però il principio anche all’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza, sul quale, come detto, la CGUE non si è invece mai pronunciata.
Avevo affrontato la questione in senso fortemente dubitativo nella richiamata Guida alla letturadell’ordinanza Randstad I., osservando, in sintesi, che, se da un lato è innegabile che la decisione sulla necessità o meno del rinvio impatta sulla “riserva” di interpretazione della Corte di giustizia, tanto che il mancato rinvio è causa di responsabilità per gli Stati e di conseguenza per gli stessi giudici, sembra tuttavia difficile disconoscere che, nell’esercizio del potere di interpretazione, che è proprio di ogni giurisdizione, ci sia anche quello di ritenere che il quadro normativo e giurisprudenziale non dà adito a dubbi. Se così è, l’eventuale errore commesso in tale valutazione non sembra riconducibile ai “motivi di giurisdizione” neppure invocando lo sconfinamento nella potestas della Corte di giustizia, che, non solo non è propriamente qualificabile come giurisdizione, ma, soprattutto, è chiamata solo a “risolvere” i dubbi, laddove il giudice del caso concreto ne abbia rilevati (come dimostra il rigore con cui i Giudici di Lussemburgo valutano la ricevibilità dei quesiti che vengono loro rivolti). Concludevo dunque nel senso che “Il fatto che il Giudice interno abbia l’obbligo di rimettere i dubbi interpretativi sulla portata delle norme UE al Giudice sovranazionale non sembra invero sufficiente ad affermare che esso non abbia il potere di valutare in autonomia si ricorra o meno un’ipotesi di dubbio, non diversamente da quanto si ritiene per la rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale. Sicché, peraltro, ancora una volta, l’effetto dell’allargamento del compasso prospettato dalle Sezioni Unite sarebbe più ampio, aprendo il varco al sindacato della Corte di cassazione anche con riferimento alle mancate rimessioni alla Corte costituzionale. Non sembra infatti che l’esigenza di evitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, pur indubbiamente importante e potenzialmente utile, sia argomento sufficiente per trasferire l’ultima parola interpretativa sulla configurabilità di dubbi di compatibilità eurounitaria al Giudice delle questioni di giurisdizione, né, qualora gli si riconoscesse tale potere, può fondare il discrimine tra questa interpretazione e quella che sta alla base del mancato rinvio alla Corte costituzionale”.
La soluzione più coerente continuava -e continua- quindi, a mio avviso, a essere, quando ne ricorrano i presupposti, quella dell’eccesso di potere giurisdizionale per aprioristico e astratto diniego di giustizia.
3. La (vana) ricerca di “indicazioni” sui limiti all’obbligo di rinvio pregiudiziale.
Al di là di tale profilo (che resta quindi aperto), come è stato da più parti immediatamente rimarcato, dalle suddette sentenze -e in particolare dalla risposta della sentenza CGUE in causa Randstad I. al terzo quesito, che stigmatizza la lettura restrittiva espressa ancora una volta dal Consiglio di Stato in punto di legittimazione ad agire- dal quadro sopra delineato emerge che ogni vicenda giudiziaria che si sia definitivamente conclusa, stante l’esaurimento dei rimedi interni, con un assetto di interessi contrastante con il diritto dell’Unione europea è suscettibile di innescare un correlato e complementare giudizio nel quale discutere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea al fine di accertare se sussistano le condizioni per la condanna al risarcimento del danno a beneficio del cittadino che in ragione di tale violazione abbia subito pregiudizio ai propri diritti.
E i conseguenti rischi di responsabilità degli stessi giudici in via di “rivalsa” e in via disciplinare.
La soluzione non soddisfa né l’interesse pubblico, né l’interesse privato.
Quanto al primo, perché la tutela risarcitoria non è mai satisfattiva della “giustizia nell’amministrazione” che costituisce irrinunciabile corollario e presupposto del rispetto dei principi e delle regole dell’azione e dell’organizzazione amministrativa[ii]. Quanto al secondo perché, come evidenziato dall’Avvocato generale Hogan nelle conclusioni rassegnate nella causa Randstad (pt 82), vi è il forte rischio che l’azione per risarcimento dei danni, e dunque “un rimedio del tipo Francovich [possa rimanere] un’illusione piuttosto che una realtà”.
Per non parlare della preoccupazione dei magistrati, frequentemente esposti alla pressione della “minaccia” di azioni di responsabilità in caso di mancato rinvio pregiudiziale. Come ebbi già a evidenziare in uno scritto sulla riforma della legge sulla responsabilità civile dei giudici (Riflessioni sulla responsabilità civile degli organi giurisdizionali, in Federalismi, 2012) si tratta di un rischio che è evidentemente opportuno evitare.
Ne è testimonianza la serie di ordinanze di rinvio emesse dalla IV Sezione del Consiglio di Stato nella causa Consorzio Italian Management e Catania Multi Servizi c. RFI in tema di revisione prezzi. Dopo la dichiarazione di irricevibilità delle questioni formulate con una prima ordinanza[iii], nel 2019 la Sezione, con una seconda ordinanza[iv], ha chiesto, in via preliminare, alla CGUE “[S]e, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Con la nota sentenza del 6 ottobre 2021 (battezzata come “Cilfit II”), la Grande Sezione della Corte, dopo un ampio excursus sulle condizioni di ammissibilità del rinvio, ha risposto alla prima questione dichiarando che “l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione. Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività”.
Nel merito, la Corte ha però reiterato la pronuncia di irricevibilità, rammentando che, secondo una sua costante giurisprudenza, “nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, la necessità di pervenire a un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo rispetti scrupolosamente i requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale e indicati in maniera esplicita all’articolo 94 del regolamento di procedura, i quali si presumono noti al giudice del rinvio (sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C‑152/17, EU:C:2018:264, punto 21, e giurisprudenza ivi citata). Tali requisiti sono inoltre richiamati nelle raccomandazioni della Corte all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GU 2019, C 380, pag. 1).
Pertanto, è indispensabile, come enunciato all’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, che la decisione di rinvio contenga l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui al procedimento principale” (con espresso richiamo alla propria precedente sentenza del 19 aprile 2018 e alla giurisprudenza ivi citata).
I Giudici di Lussemburgo hanno quindi osservato che, nel caso di specie, il giudice del rinvio non aveva rimediato alla lacuna rilevata al pt 23 della suddetta precedente sentenza, “nella misura in cui esso continua, in violazione dell’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, a non esporre con la precisione e la chiarezza richieste i motivi per cui ritiene che l’interpretazione dell’articolo 3 TUFE nonché dell’articolo 26 e l’articolo 101, paragrafo 1, lettera e), TFUE, gli sembri necessaria o utile ai fini per dirimere la controversia di cui al procedimento principale, e neppure il collegamento tra il diritto dell’Unione e la legislazione nazionale applicabile a tale controversia. Tale giudice non precisa neppure i motivi che l’hanno portato a interrogarsi sull’interpretazione delle altre disposizioni e degli atti menzionati nella seconda e nella terza questione sollevate, tra i quali figura, in particolare, la Carta sociale europea, che la Corte non è peraltro competente a interpretare (v., in tal senso, sentenza del 5 febbraio 2015, Nisttahuz Poclava, C‑117/14, EU:C:2015:60, punto 43), ma si limita, in sostanza, a esporre gli interrogativi a tal riguardo dei ricorrenti nel procedimento principale, come emerge dal punto 20 della presente sentenza, senza fornire la propria valutazione”.
Il problema della preoccupazione dei giudici amministrativi di ultima istanza di non incorrere in azioni di responsabilità per mancato rispetto dell’obbligo di rinvio pregiudiziale emerge con la massima nettezza anche in un’altra controversia.
Con sentenza non definitiva n. 6290 del 14 settembre 2021, la IV Sezione del Consiglio di Stato, a fronte di pressanti eccezioni di incompatibilità eurounitarie delle norme interne regolanti la fattispecie controversa, ha formulato alla Corte di giustizia i seguenti particolarissimi quesiti preliminari,
“A) se la corretta interpretazione dell’art. 267 TFUE imponga al giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, di operare il rinvio pregiudiziale su una questione di interpretazione del diritto unionale rilevante nell’ambito della controversia principale, anche qualora possa escludersi un dubbio interpretativo sul significato da attribuire alla pertinente disposizione europea - tenuto conto della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la relativa disposizione, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale – ma non sia possibile provare in maniera circostanziata, sotto un profilo soggettivo, avuto riguardo alla condotta di altri organi giurisdizionali, che l’interpretazione fornita dal giudice procedente sia la stessa di quella suscettibile di essere data dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di Giustizia ove investiti di identica questione”;
“B) se – per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi – sia possibile interpretare l’art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l’azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare”.
All’esito della richiamata sentenza “Cilfit II”, la cancelleria della Corte di giustizia, con nota del 13 dicembre 2021 ha però chiesto al giudice remittente se permanesse l’interesse a una decisione sulla questione rilevata con il rinvio pregiudiziale, tenuto conto dei principi ritraibili dalla suddetta sentenza del 6 ottobre 2021, sopravvenuta rispetto alla decisione di rinvio pregiudiziale. Senonché, il 19 febbraio 2022, la ricorrente produceva in giudizio la denuncia inviata il 24 gennaio 2022, alla Commissione europea, nella quale assumeva inter alia che con la suddetta sentenza non definitiva il Consiglio di Stato avrebbe in realtà esaminato e respinto tutti i motivi del ricorso di primo grado e che il rinvio pregiudiziale sarebbe stato effettuato al solo scopo di tutelare la posizione dei magistrati del Collegio decidente.
Con ordinanza n. 2545 del 6 aprile scorso, la IV Sezione ha però insistito nei quesiti, evidenziando che i principi elaborati dalla sentenza “Cilfit II” non appaiono rispondere ai quesiti sollevati con la sentenza non definitiva n. 6290 del 2021; in particolare, ha rilevato che le condizioni poste dalla Corte di giustizia per escludere l’obbligo di rinvio pregiudiziale gravante sul giudice di ultima istanza ex art. 267 TFUE, risultano comunque:
i) di difficile accertamento, nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto dell’U.E., rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte (in questo senso si condivide l’orientamento espresso dal medesimo Consiglio di Stato, successivamente alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, cfr. sez. VI, n. 2066 del 2022, §§ da 28 a 32);
ii) lesive del principio costituzionale (art. 111, comma secondo, Cost.) ed europeo (art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali U.E.) della ragionevole durata del processo, in quanto il giudice supremo nazionale italiano è costretto a disporre un rinvio pregiudiziale, allungando di molto i tempi di risoluzione della controversia, per prevenire, in assenza di qualsivoglia filtro preventivo, la proposizione dell’azione di risarcimento del danno ai sensi della norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, legge n. 117/1988, nonché la ragionevole certezza del coinvolgimento in un accertamento disciplinare, ai sensi della norma sancita dall’art. 9, comma 1, legge n. 117/1988 (pure dopo le precisazioni operate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 169 del 2021);
iii) lesive del principio del valore della indipendenza della magistratura, elemento costitutivo della declamata rule of law (art. 101, comma 2, Cost.; art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 6, comma 1, C.e.d.u.) in quanto, pure in presenza di una attività esegetica motivatamente svolta dal giudice nazionale (come nel caso di specie), quest’ultimo può essere attinto dalla minaccia della sanzione risarcitoria e disciplinare per gli esiti (non graditi) della interpretazione.
Non sembra poi irrilevante ricordare che -dopo che con ordinanza dell’11 maggio 2022 il TAR di Lecce ha investito la Corte di giustizia di una serie di quesiti sulla compatibilità eurounitaria della soluzione accolta dalle richiamate sentenze dell’Adunanza plenaria sulle proroghe delle concessioni balneari[v]- con la recente ordinanza n. 8010 del 15 settembre 2022, la VII sezione del Consiglio di Stato, in un collegio sintomaticamente presieduto dal Presidente Giovagnoli, relatore di una delle suddette sentenze, ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire “se gli articoli 49 e 56 TFUE e i principi desumibili dalla sentenza Laezza del 2014, dove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l'articolo 49 del codice della navigazione, nel senso di imporre al titolare di una concessione rinnovata senza soluzione di continuità di cedere alla sua scadenza a titolo non oneroso e senza indennizzo le opere edilizie realizzate sull'area demaniale balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell'obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo”[vi].
4. Gli ultimi arresti ripropongono la strada della revocazione.
La strada più consona per la soluzione del problema sembra dunque, come evidenziato dalla stessa Corte costituzionale, quella della revocazione.
Sul punto, in ordine al quale, come detto, correttamente, la Corte di giustizia ha escluso la propria competenza e il legislatore non sembra ancora pronto a intervenire (dal momento che, come visto, la legge delega per la riforma della giustizia civile ha previsto l’estensione dell’azione revocatoria ai soli casi di contrasto con le sentenze della Corte EDU), il Consiglio di Stato -maggiore parte in causa- sta opportunamente, ma faticosamente, cercando una sua soluzione.
Con la sentenza 26 aprile 2018, n. 2530, la IV Sezione l’aveva invero rinvenuta nell’equiparazione all’omessa pronuncia su domande o eccezioni di parte della “omessa pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea, suscettibili di divenire oggetto (come nel caso all’esame) di una formale istanza di rimessione ad un plesso giurisdizionale (la Corte di Giustizia) diverso da quello adito, e competente in via esclusiva, per effetto delle limitazioni di sovranità cui hanno consentito gli Stati membri, ad interpretare esattamente e con uniformità di applicazione il diritto europeo”. Osservava in particolare la Sezione che “La conclusione, del resto, trova conforto in via interpretativa nell’identica ratio iuris sottesa alla nozione di domanda, altro non essendo - l’istanza di rimessione - che una domanda rivolta al giudice interno di rimettere la valutazione di una questione all’unico organo giurisdizionale deputato secondo il Trattato istitutivo a fornire l’esatta e uniforme interpretazione del diritto europeo. La rimessione, peraltro, per le Corti di ultima istanza (tale era il Consiglio di Stato nel caso de quo) rappresenta anche un preciso obbligo giuridico”. Nell’accogliere il motivo di revocazione la IV Sezione, peraltro, richiamando l’Adunanza plenaria n. 3 del 1997, aveva precisato che “siffatto errore è pur sempre di carattere senso-percettivo derivando da una lettura sbagliata (da intendersi: per errore sensoriale) del contenuto materiale dell’atto, per la quale si sostituisce una questione (quella effettivamente posta con l’istanza di rimessione) con un’altra (del tutto diversa) e ha aggiunto che l’errore deve essere caduto su un punto non controverso tra le parti, essere decisivo e di immediata rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche”.
L’orientamento è stato però disatteso dalla V Sezione, che, , nella più recente sentenza n. 834 del 2021, ha statuito che il rimedio revocatorio non è in alcun modo esperibile nei casi in cui il giudice – anche quello di ultima istanza, che ne è obbligato – “abbia omesso di formulare, anche a negativo od omesso riscontro alla istanza di parte, questione interpretativa e di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte europea, ai sensi dell’art. 234 del Trattato”. Posizione condivisa dalla VI Sezione nella sentenza n. 1088 del 2022.
All’esito dell’ultima pronuncia della Corte di Giustizia nel caso Hoffman-La Roche, la medesima V Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 8436 del 3 ottobre scorso, è peraltro tornata sul tema, osservando che “Sorge, però, un dubbio di ragionevolezza, poiché da una parte è preclusa la possibilità di emendare il vizio consistente nella violazione del diritto dell’Unione europea attraverso un rimedio di sicura efficacia e rapidità quale il rimedio revocatorio (da esperirsi in unico grado dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza) e, dall’altra, è ammessa l’introduzione di un giudizio risarcitorio, che per l’articolazione nei gradi ordinari è destinato in ogni caso a svilupparsi in un arco temporale più lungo con l’esito incerto dovuto all’accertamento delle condizioni per accedere al risarcimento”. Si legge quindi, ancora, nell’ordinanza che “L’intima coerenza dell’ordinamento – ciò che lo rende razionale – è in tensione ove lo stesso errore non è considerato a tal punto ingiusto da portare alla revoca, ma le sue conseguenze ingiuste meritevoli di essere rimediate in via risarcitoria”.
La Sezione ha pertanto investito del problema l’Adunanza plenaria, chiedendole di vagliare, anche alla luce di tali considerazioni, i seguenti quesiti:
a) se e a quali condizioni la condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.;
b) in particolare, se configuri l’omissione di pronuncia di cui sopra il caso in cui il giudice non si sia pronunciato sull’istanza di rinvio in conseguenza di un fraintendimento in cui è incorso in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello.
5. Conclusioni.
In conclusione di questa rapida ricostruzione, non si può non esprimere ancora una volta delusione e sconcerto per le “distanze” prese dal legislatore, che costringe i Giudici interni a chiedere “aiuto” a quelli sovranazionali e la Plenaria a intervenire su una questione “di casa propria”, trovandosi chiamata a cercare un bilanciamento tra l’esigenza di evitare che un eccessivo ricorso al rimedio revocatorio frustri gli sforzi verso una tutela più celere e alteri i delicati rapporti all’interno di un istituto con pochi componenti e quella di “riparare” un errore di diritto potenzialmente foriero di responsabilità per lo Stato e per gli stessi componenti dell’organo di cui è vertice e di evitare i condizionamenti che, indirettamente, tali responsabilità determinano nei decisori (stretti a loro volta tra la sollecitazione a chiudere i processi in tempi irragionevolmente brevi e quella di prevenire un rischio risarcitorio o disciplinare).
Una soluzione più opportuna sembrerebbe allora quella della rimessione del tema alla Corte costituzionale, nell’auspicio che, di fronte all’inerzia del legislatore, trovi un componimento dei diversi interessi costituzionalmente rilevanti a un livello superiore a quello dei diretti interessati.
*L’articolo riproduce il testo della relazione al Convegno del Dottorato di ricerca in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali, tenuto presso l’Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Giurisprudenza – Sede di Rovigo, 13-14 ottobre 2022).
[i] Senza pretesa di esaustività, cfr., oltre al volume di AA.VV., Limiti esterni di giurisdizione e Diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. Un. N. 19598/2020, a cura di A. Carratta, Roma, 2021 (e ivi anche la richiamata Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020), la “trilogia” di F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro, in Giustiziainsieme, 2020; Id, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 2020 e Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, ivi, 2022; M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, in Giustiziainsieme, 2022; M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, ivi, 2022; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 2020; B. Sassani, L’idea di giurisdizione nella guerra delle giurisdizioni. Considerazioni politicamente scorrette*, in Judicium –Il processo civile in Italia e in Europa, 2020; B. Sassani e B. De Santis, Diniego di tutela giurisdizionale e poteri delle Sezioni Unite alla luce del diritto unitario europeo. Riflessioni a caldo su una decisione annunciata., ivi, 2022; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 2020; E. D’Alessandro, Brevi riflessioni sul rinvio pregiudiziale interpretativo operato dalle Sezioni Unite in riferimento all’art. 111, 8 comma, Cost., in Il giusto processo civile, I, 2021, 153; E. Zampetti, Diritto dell’Unione europea e articolo 111 co. 8 Cost. Considerazioni a margine del caso Randstad sui profili problematici della nomofilachia differenziata, in Giustiziainsieme 2022; nonché le “interviste” su La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguenti” a Corte Giust., G.S., 21 dicembre 2021 – causa C-497/20, Randstad Italia? di R. Conti a F. Francario, G. Montedoro, P. Biavati e R. Rordorf, in Giustiziainsieme, 2022.
[ii] M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, n. 3/2018, pp. 45 ss.
[iii] 22 marzo 2017, n. 1297.
[iv] Cons. Stato, Sez. IV, 15 luglio 2019, n. 4949.
[v] Sull’ordinanza cfr. il commento di R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in Giustiziainsieme, 2022.
[vi] Appare interessante a tale riguardo osservare che, nel definire uno dei giudizi su cui era intervenuta la Plenaria, con sentenza del 23 maggio 2022, ma resa all’esito di una c c del 19 aprile, la Sezione, in collegio diverso, ma con il medesimo Presidente, dichiarando l’inammissibilità degli interventi successivi all’investimento dell’Adunanza plenaria (che, essendo stato disposto direttamente dal Presidente del Consiglio di Stato prima della scadenza dei termini per eventuali difese o interventi, non ne aveva consentito la presentazione) aveva ignorato l’identica eccezione prospettata dagli intervenienti!