1. L’atto politico e l’atto di alta amministrazione, Costituzione e ruolo del GA.
L’atto politico è un’idea limite.
Un concetto con il quale è utile confrontarsi per saggiare la tenuta del sistema giuridico complessivamente inteso.
Un rovescio della medaglia rispetto al tema della sindacabilità dell’atto del pubblico potere postulata dal moderno diritto pubblico al fine di garantirne la generale ragionevolezza nelle forme di esplicazione.
Esso ha qualcosa di mitologico, di pregiuridico, di a-giuridico, si tratterebbe di un atto introvabile, o comunque di carattere metagiuridico (riporta la nozione alla mitologia giuridica di romaniana memoria G. Tropea Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico in Dir. amm. 2012, 329 e ss.).
È in fondo una soglia dalla quale inizia il terreno (una volta sconfinato) degli interessi non giustiziabili eppure sacrificabili o sacrificati in nome di interessi collettivi.
Il tema interessa il processo amministrativo perché è al giudice amministrativo che è lasciato il compito – nella congerie degli interessi che reclamano – a fronte di atti amministrativi – un controllo di legittimità, di stabilire cosa sia un atto politico.
Il giudice amministrativo è quindi il giudice della politicità dell’atto.
Con ciò è anche il giudice che stabilisce il limite della sua giurisdizione.
Soggetto – sul punto – al controllo della Corte di Cassazione sui limiti esterni del potere giurisdizionale (art. 111 ult. comma Cost.).
La nozione di atto politico è anche un residuo di altre epoche storiche non così connotate dal tema della centralità della giurisdizione e dell’effettività della tutela.
La Costituzione – con gli art. 24 e 113 – ha infatti introdotto delle disposizioni che hanno costantemente sottoposto ad erosione la nozione di atto politico, facendola diventare chimerica.
La decisione sulla politicità dell’atto è rilevante sia sulla definizione del concreto assetto della divisione dei poteri sia sul tema (conseguente) della giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive (non essendovi a fronte dell’atto politico altra possibilità che agire politicamente).
Discusso è se la nozione di politicità dell’atto rilevi anche per il giudice ordinario, posto che essa era nell’art. 31 del tu CdS ed è menzionata nell’art. 7 del c.p.a. mentre non risulta fra i limiti della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (tuttavia essendo tale ultima legge volta a stabilire i limiti di cognizione del giudice ordinario di fronte agli atti amministrativi per la contraddizione che non lo consente si deve ritenere che il limite dell’atto politico a fortiori riguardi anche i giudici ordinari che potranno disapplicare atti amministrativi illegittimi ma non potranno esercitare analogo potere sugli atti politici).
Va altresì ricordato che è esistita fino a tempi recenti (ed ancora dura anche se è contrastata dalle risorgenti visioni ideologiche tendenti a tornare alla sovranità ) una tendenza “forte” alla depoliticizzazione ( specie nella costruzione dell’ordinamento europeo ) sicché esistono ambiti sempre più ampi dell’azione pubblica nella quale la politica non ha cittadinanza ( a sua volta la tecnica non sempre accetta tuttavia una pienezza del sindacato giurisdizionale ; trovandosi sempre più spesso nella legislazione europea e nazionale in tema di regolazione norme limitative della cognizione giurisdizionale costruite nel dare prevalenza alla tutela risarcitoria in un’ottica di risultato o per l’esistenza di un preminente interesse nazionale; la tendenza si risolve a volte nello stabilire pregnanti limiti alla tutela cautelare ma talvolta nel limitare anche i poteri di merito; si tratta del fenomeno noto come arretramento della tutela reale a vantaggio di quella risarcitoria utilizzato non solo post stipula del contratto ma, nel caso di delicate procedure di aggiudicazione, anche prima della conclusione del contratto – e vedasi art. 1 comma 1037 della legge di bilancio 2018 legge n. 205 del 2017 - o nel settore bancario – vedasi art. 95 comma 2 del d.lgs. n. 180 del 2015 - o nell’ordinamento sportivo in tema di sanzioni disciplinari).
Politica anche questa, ma in forma tecnocratica: la più incisiva del nostro tempo.
Occorre poi distinguere ormai una politica del governo, una politica dell’amministrazione (specie se indipendente o adespota), una politica del giudice (e si pensi alla controversia e sempre aperta questione della sindacabilità degli atti del CSM, al frequente – direi fisiologico o strutturale - contrasto in questa materia fra Consiglio di Stato e Cassazione).
Tutti campi nei quali si viene a mettere in tensione il principio di giustiziabilità delle posizioni giuridiche soggettive di cui all’art. 24 Cost.
L’atto politico – come abbiamo detto - è un Limes.
Per individuarne la natura sarebbe necessaria una metodologia, ed in proposito si possono adottare numerose chiavi interpretative.
Si può registrare lo stato della giurisprudenza.
La giurisprudenza, di fatto, non appare del tutto omogenea e risolve situazioni in parte analoghe in modi diversi (è stato notato da Chiara Cudia Considerazioni sull’atto politico in Dir. amm. 2021, 621 e ss).
L’autrice menzionata con acume nota che “non sono considerati atti politici le nomine di alti vertici dell'amministrazione ma è riconosciuto carattere politico alla nomina dei componenti di una commissione tecnica che opera in materia di giochi e monopoli di Stato. Non sono politici gli atti di pianificazione territoriale né il piano sanitario regionale ma (sia pure saltuariamente) sono considerati tali il piano delle farmacie e il piano delle infrastrutture e degli insediamenti strategici. È escluso dalla categoria di atto politico l'atto di indizione di elezioni regionali, ma non la decisione di concentrare in un'unica data le elezioni amministrative ed europee.”
Si possono cercare quindi – al di là dell’approccio casistico problematico - più profonde prospettive ricostruttive.
E qui si incontra come prima opzione metodologica la possibilità di una ricostruzione politologica dell’atto politico.
In questa ottica politica è l’attività libera nei fini (a differenza di quella amministrativa che è soggetta ai fini stabiliti dalla legge) che cura la polis.
Ma politica è anche – schmittianamente - l’attività connotata dal gioco mortale amico/nemico: nel tempo presente ogni decisione sulla pace e sulla guerra (interna ed esterna).
Esiste anche – ed è la seconda opzione metodologica - una ricostruzione giuridica della nozione di atto politico.
Qui si incontrano varie concettuologie : la teorica delle funzioni di Governo, il rapporto quindi dell’atto impugnato con dette funzioni ( tra l’altro costituzionalmente definite ); ed ancora la separatezza fra politica ed amministrazione; la discrezionalità come ambito sindacabile in modo più o meno intenso, il merito amministrativo ( come ulteriore limite dove si tocca all’opposto della politica ciò che appartiene in via esclusiva all’amministrazione ; il terreno anche esso “mitologico” della riserva di amministrazione ).
Tutto il tema si innesta nella teorica della separazione dei poteri, che tuttavia oggi lega i poteri, una volta distinti, nel continuum temporale della loro azione, connotata dal collante della leale collaborazione e dalla presenza di tratti spesso fortemente commisti ( evidenti nella concezione che li distingue per aspetti formali e sostanziali : e così abbiamo l’autodichia attività formale di organi costituzionali ma di natura sostanzialmente giurisdizionale, la volontaria giurisdizione attività di natura formalmente giurisdizionale ma di natura sostanzialmente amministrativa, l’attività di regolazione delle amministrazioni indipendenti di natura formalmente amministrativa ma con tratti di normatività; l’attività degli organi di autogoverno delle magistrature che ha carattere amministrativo ma rilevanza costituzionale; l’attività del PM che ha molti tratti in comune con l’attività amministrativa pur essendo promanante da un organo giudiziario; le gare ad evidenza pubblica espletate dai capi degli uffici giudiziari o dalle Camere; l’attività trasversale del Presidente della Repubblica che partecipa della vita di tutti i poteri; la sentenza additiva della Corte Costituzionale che integra l’ordinamento giuridico a guisa di Legislatore impolitico sulla base del tratto a rime obbligate del precetto costituzionale ).
Cruciale e di ausilio nella individuazione dell’atto politico è la nozione di indirizzo politico.
Tale essendo ogni attività di fissazione dei fini della comunità.
Dovendosi poi distinguere un indirizzo politico costituzionale ed un indirizzo politico di Governo, il primo espresso nell’attività del Presidente della Repubblica (quale viva vox constitutionis) e della Corte Costituzionale (quale giudice – come tale voluto “impolitico” a parte alcuni tratti dovuti ai procedimenti di nomina - della politica) il secondo espresso nella relazione pregnante fra organi di Governo (nazionale e locale) ed amministrazioni.
Torniamo un momento sull’atto politico individuato con metodo politologico.
In tale prospettiva l’atto politico:
- Non è in alcun modo un atto amministrativo, non ha carattere gestionale.
- Non è in alcun modo sindacabile dal giudice.
- Si risolve in una nozione aperta – non individuabile sulla base di alcun parametro normativo.
- Può farsi coincidere con l’attività costituzionale e di Governo espressiva dell’indirizzo politico.
- Si manifesta come atto per sua natura non lesivo di alcuna posizione giuridica soggettiva (poi dovendosi valutare a valle, nella catena di atti legati da presupposizione, la concreta lesività ed a quel punto valutarne i tratti lesivi che potranno essere sindacati solo ove si risolvano in violazioni di norme costituzionali).
Nella logica amico/nemico siamo sul piano degli “atti identitari di diritto costituzionale”, essenziali per l’interesse nazionale, per la cura della comunità tutta intera, gli atti di formazione/ composizione di un Governo, la relazione alle Camere del Presidente del Consiglio dei Ministri, la nomina dei sottosegretari, come organi non menzionati in Costituzione ma ricorrenti nella prassi della composizione dei Governi.
In sostanza ogni atto che consenta di strutturare una guida politica stabile di un ordinamento interno (stasis – lato amicale della politica).
All’opposto vi sono gli atti dell’ordinamento interno che hanno riflessi esterni (le attività diplomatiche ed internazionali volte ai negoziati dei Trattati, le attività dei servizi segreti, alcune rilevanti attività del mondo della difesa, e si tratta del lato del polemos rivolto al nemico in politica ).
Torniamo ora, utilizzando le stesse coordinate interpretative, alla nozione giuridica di atto politico (quella ricavata con metodo giuridico).
Qui si incontra l’indirizzo politico come attività rivolta all’amministrazione.
Si tratta delle attività di indirizzo politico amministrativo definite dall’art. 4 del t.u. del pubblico impiego ( d.gs. n. 165 del 2001 ).
Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento ditali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Sono tutti insindacabili gli atti dell’art. 4 del t.u.p.i ?
Forse l’intento del legislatore era di sancirne l’insindacabilità e comunque di distinguerli dagli atti amministrativi tout court lasciati alla responsabilità dei dirigenti.
Ciò si potrebbe ipotizzare sulla base dell’art.4 commi 2 e 3 che così recitano: "2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché' la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attivita' amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. 3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative".
Ma la distinzione fra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e atti amministrativi dell’art. 4 a bene vedere non comporta affatto l’insindacabilità degli atti espressivi di funzioni di indirizzo politico amministrativo da parte del giudice ai sensi degli articoli 24 e 113 Cost.
La giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato la nozione di atto di alta amministrazione per sindacare tali funzioni che da una parte si raccordano alla politica costituzionale dall’altra si proiettano nel concreto dell’attività amministrativa.
Ben si può affermare che la nozione di atto di alta amministrazione – quale clavis universalis per lo svuotamento della politica - erode la nozione di atto politico.
Erosione che arriva al punto di far ritenere inesistente l’atto politico ( Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra atti « politici » e atti « di alta amministrazione », in Dir. pubbl., 2009, 121, auspicava l'abolizione espressa dell'art. 31 t.u. Cons. Stato; Garcia de Enterria e altri in Spagna Così A. EMBID IRUJO , La justiciabilidad de los actos de gobierno (de los actos políticos a la responsabilidad de los poderes públicos , in AA. VV., Estudios Sobre la Constitución Española ,.E.García de Enterría (a cura di), Civitas, Madrid, 1991, vol. III, p. 2702 ss. ) alla luce dell’art. 24 Cost. e dell’art. 113 Cost.
Gli atti dell’art. 4 del tupi – per eterogenesi dei fini – essendo normativamente regolati non si sottraggono al sindacato giurisdizionale, si pongono come atti di indirizzo politico – amministrativo.
Amplissima discrezionalità li caratterizza ma non certo insindacabilità.
Il punto di partenza della nozione di atto politico, sul piano storico, è stato in Francia – lo ricorda Tropea – una nascita del concetto éminemment prétorienne , e risale al 1822 (arrêt Lafitte), allorché un concessionario della principessa Borghese reclamò il pagamento suppletivo di una rendita in dotazione conferita da Napoleone alla principessa. Il Consiglio di Stato si dichiarò incompetente «considérant que la réclamation tient à une question politique, dont la décision appartient exclusivement au gouvernement». In seguito, il campo si estese agli “actes de guerre”, ai “traités diplomatiques”, alle rivendicazioni di antiche dinastie.
Strumento di politica giurisprudenziale (l’espressione è ancora di Tropea e si concorda), a sua volta, l’atto politico è stato sin dall’inizio utilizzato dal giudice per definire i limiti della propria azione .
Rilevano in questa chiave, storicamente, i motivi politici dell’atto ( eminentemente soggettivi ) o la natura politica dell’atto (eminentemente oggettiva).
Di volta in volta, ragion di Stato, forza maggiore, interesse pubblico preminente, interesse nazionale, conseguenze politiche delle decisioni giurisprudenziali (e si pensi alla giurisprudenza costituzionale sull’ art. 81 Cost.) divengono oggetto di discussione preliminare sulla ammissibilità dell’azione, sulla giustiziabilità della posizione giuridica ma anche sulla sua fondatezza.
La separazione dei poteri ed il pluralismo delle giurisdizioni sono – nello Stato di diritto liberale – una garanzia per la legalità ma anche per l’autonomia dell’Esecutivo dal giudiziario.
L’atto politico è uno strumento di politica giurisprudenziale che stabilisce il mobile confine fra giudice dell’amministrazione deputato alla funzione di garanzia che concretizza lo Stato di diritto e le ragioni della politica che l’amministrazione la guida con le sue ragioni politiche legittimate dal gioco democratico.
Il riflesso processuale di questa concezione può porsi anche sul piano dei presupposti processuali (legittimazione) e delle condizioni dell’azione (interesse ad agire) , l’atto politico così individuato non è sindacabile perché al quisque de populo non è dato sostituirsi ai decisori politici legittimati dalla Costituzione e non c’è interesse diretto ed attuale all’impugnazione, non è un atto lesivo (l’atto politico è un non atto, c.d. teoria negativa dell’atto politico come atto non amministrativo solo perché non lesivo essendo tutti gli atti pubblici sindacabili in astratto ma solo in presenza di presupposti e condizioni processuali).
La Corte di Giustizia dell’UE pare usare la legittimazione per frenare alcuni entusiasmi ed alcune illusioni sulla c.d. giustizia climatica, ossia la proposizione di azioni giudiziarie miranti a fare valere i limiti pattizi degli accordi internazionali alle emissioni nocive derivanti dal nostro stile di vita clima alterante.
Nel caso People’s Climate del 25 marzo 2021 la Corte Ue infatti un’interpretazione restrittiva dell’art. 263.4 del Trattato per il funzionamento dell’Ue (TFEU), che definisce le condizioni secondo cui un cittadino può fare appello alla Corte: questo dovrebbe dimostrare di aver subito in modo esclusivo e peculiare danni a causa delle disposizioni regionali (come il Pacchetto Clima). Dichiarando irricevibile il ricorso di Carvalho, la Corte ha quindi constatato l’inesistenza di tali requisiti.
La decisione cristallizza anche la pronuncia del caso Plaumann v. Commissione della Comunità Economica Europea del 1963. Qui, la CGUE affermò che un individuo per avere accesso ai tribunali Ue deve dimostrare che un suo interesse individuale sia stato leso. Nel caso Carvalho, secondo la Corte, ciò non si è verificato; al contrario, gli effetti negativi del cambiamento climatico hanno colpito tutti in modo generalizzato.
La questione non è facilmente risolvibile per i fautori dei diritti umani che tendono a ritenere azionabili le pretese al rispetto dei limiti di emissione sanciti dai Trattati internazionali.
Qui si pone una questione delicata ossia l’esistenza di un grado di dettaglio sufficiente per l’esperibilità di un’azione in giudizio.
Un’azione che non abbia solo tratti risarcitori dipendenti da inerzie ma che voglia spingersi fino alla sostituzione dell’amministrazione per via giudiziaria.
Il punto è questo: possono considerarsi, ove non siano state fatte le indispensabili scelte politiche sulle modalità del perseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni, esistenti i presupposti di un’azione amministrativa legalmente autorizzata ?
Se per aversi tale azione legalmente autorizzata e definita occorre una norma che stabilisca un potere e se tale norma non si ravvisa nei Trattati che pongono meri obiettivi da implementare attraverso un mix di politiche nazionali che devono essere decise e finanziate dai Parlamenti nazionali è ammissibile una tutela in forma specifica dei diritti fondamentali connessi all’ambiente ?
Questo sembra il ragionamento di merito finora mancato sulla giustizia climatica che può superare l’arroccamento della Corte Ue sulla questione di legittimazione (in sé e per sé la legittimazione ci sembra non decisiva quasi una linea Maginot destinata prima o poi ad essere scavalcata).
Va rilevato che anche nel merito l’atto politico è insindacabile (ove se ne ammetta pure l’impugnabilità) per mancanza di un parametro normativo di controllo della discrezionalità politica, discrezionalità che si pone come discrezionalità assoluta, per il fatto che la politica è attività libera nei fini, non normata.
Ecco perché l’art.4 T.U.P.I. – norma che stabilisce parametri quali ad esempio la necessità di un budget sufficiente per svolgere le funzioni dirigenziali - diviene l’innesco della sindacabilità dell’atto politico piuttosto che della sua distinzione dall’attività dirigenziale (certo essendo differenti i regimi di responsabilità).
Ma vanno registrati anche nuovi campi di rilevanza della politicità dell’atto per effetto di guerre e pandemie: stato di urgenza, staro di crisi, poteri di emergenza, sono nuovi terreni di politicità inedita, di ritorno del politico a fronte dei processi di depoliticizzazione e desoggettivazione pure tenacemente ancora in corso (si pensi ai poteri nuovi dei mercati e delle autorità legittimate dalla scienza e dalla tecnica).
L’atto di governo tuttavia può essere regolato dalla legge, ledere concreti interessi ed in tal caso richiede l’intervento della giurisdizione come forma generalizzata ed universale di tutela nello Stato di diritto.
Si tratta del controllo di legittimità e proporzionalità dei c.d. poteri emergenziali (poteri che sono dettagliatamente disciplinati nella costituzione spagnola mentre nella nostra Costituzione sono in fondo interamente consegnati al decreto legge) che avviene spesso su atti amministrativi generali o regolamenti (i famosi D.P.C.M.).
Negli Stati Uniti la political question doctrine viene affermata per la prima volta nellanotissima pronuncia Marbury v. Madison, ma la dottrina assume più precisi contorni solo nel 1962, nel caso Baker v. Carr (sempre si trovano illustrate le basi di tale dottrina nel saggio di Tropea).
Ci sono sei indici - nella dottrina Backer - di politicità della questione posta al giudice.
«Prominent on the surface of any case held to involve a political question is found
[I.] a textually demonstrable constitutional commitment of the issue to a coordinate political department; or
[2.] a lack of judicially discoverable and manageable standards for resolving it; or
[3.] the impossibility of deciding without an initial policy determination of a kind clearly
for non-judicial discretion; or
[4.] the impossibility of a court's undertaking independent resolution without expressing lack of the respect due coordinate branches of government; or
[5.] an unusual need for unquestioning adherence to a political decision already made; or [6.] the potentiality of embarrassment from multifarious pronouncements by various departments on one question ».
Quindi va valutata la politicità della questione se: 1) l’aspetto del caso involve questioni politiche che la Costituzione demanda ad entità politicamente ordinate e coordinate; 2) sono mancanti standards per risolvere la questione sul piano giudiziario ossia mancano norme; 3) è impossibile decidere il caso senza un indirizzo politico; 4) è impossibile agire da parte di una Corte senza ledere il principio di separazione dei poteri; 5) vi è un inusuale necessità di aderire concordemente ad una decisione politica già presa; 6) vi è un imbarazzo per la molteplicità dei pronunciamenti a fronte della necessità di mantenere unità di indirizzo politico.
Tutto significa forte self restraint del giudice di fronte alla politica: una caratteristica ben nota del mondo giudiziario americano connotato da una sicura preminenza della politica sul giudiziario (che non conosce la separazione delle carriere fra Pm e giudici, fatto che sta determinando una crisi profonda con l’incriminazione parallela dei due candidati alla Presidenza frutto della politicità dei meccanismi del giure penale americano).
Ma è indubitabile l’esistenza di una vasta area di situazioni non giustiziabili, sicuramente più ampia della nostra.
È saggio averla?
In qualche misura un’area di insindacabilità è necessaria, non tutto è sempre giustiziabile.
Ma su questo argomento non contano i modelli astratti, contano le culture. E conta il ritorno della sovranità in tempi instabili.
Andando oltre l’art. 7 ed andando oltre la casistica giurisprudenziale occorre dire che la decisione su cosa sia un atto politico è una decisione politica a sua volta, decisione politica presa dal giudice (giudice che può usare un più ampio o più ristretto self restraint).
Ma decisione politica non significa decisione arbitraria.
Richiamando una certa politicità della nozione di atto politico certo potrebbe notarsi che il Re è nudo (e che lo Stato di diritto poggia su basi fragili), ma il sistema non cortocircuita necessariamente, vedere oltre il velo non comporta mettere in crisi il sistema ma solo divenire più rigorosi nella impostazione delle possibili soluzioni al problema.
Intanto occorre notare che il legislatore ponendo norme alla politica, come l’art. 4 TUPI, per eterogenesi dei fini, amplia l’ara degli atti politici riconducibili all’alta amministrazione e quindi sindacabili e rafforza lo Stato di diritto.
All’opposto il mondo giudiziario, per leale collaborazione, dovrebbe divenire più consapevole dei pericoli nei quali l’ordinamento può incorrere senza limiti (proporzionati) alla generale giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive.
Si torna qui su quanto sta avvenendo sulla giustizia climatica, con le azioni proposte da singoli cittadini per vedere rispettati dagli Stati i limiti poste dai Trattati internazionali sul cambiamento climatico questione che incrocia in modo paradigmatico la problematica in esame: non è necessario soffermarsi oltre sulla sua decisività per il futuro di tutti ma anche per la “buona salute” (metaforica) della separazione dei poteri.
Spetta alla politica o al giudice attuare le politiche climatiche internazionalmente stabilite?
Vanno anche ricordate la giurisprudenza della Corte Costituzionale sul tema e le riflessioni della più recente dottrina.
Per essa il tenore dell’art. 113 della Costituzione e la circostanza che esso espressamente vieti che la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, sempre ammessa, possa essere “esclusa o limitata…per determinate categorie di atti” hanno da subito indotto la dottrina ad interrogarsi sulla sopravvivenza stessa della nozione di “atto politico” come atto amministrativo insindacabile.
Così come la collocazione nel sistema degli “organi costituzionali” politici ha aperto la riflessione alla necessità di distinguere tra loro l’atto di governo in senso proprio come “atto costituzionale”, da una parte; e l’atto politico quale categoria appartenente al più ampio genere degli atti formalmente amministrativi, forse distinto (ma forse no) dai c.d. atti di “alta amministrazione”, dall’altra.
Il superamento di questa sintesi, di questa confusione di atti un tempo riconducibili ad un unico tipo non è più plausibile nel regime costituzionale contemporaneo, e rende pertanto oggi non più utilizzabile a fini pratici la vecchia categoria di sintesi degli “atti di governo emanati nell’esercizio del potere politico” di cui al citato T.U. del 1924. Mentre appare ormai molto più funzionale alla comprensione dell’attuale regime costituzionale la diversa classificazione di tali atti in tipi distinti, a seconda che si tratti di atti amministrativi veri e propri – i c.d. “atti politici”, salvo quanto sopra richiamato con riferimento al problema della loro sindacabilità in sede giurisdizionale – e atti di governo in quanto “atti costituzionali”, non assimilabili ai primi in virtù della posizione del Governo, organo costituzionale, nel sistema dei poteri sovrani.
Giova ricordare – a ricordo di un mondo più semplice - la tradizionale e limpida posizione del Guicciardi secondo cui l’atto (amministrativo) politico sarebbe vincolato dalla sola norma sulla competenza e per il resto sarebbe necessariamente legittimo.
La tesi può forse avere ancora uno spazio di validità a proposito della questione dell’art. 4 tupi.
In tale chiave l’art. 4 tupi sarebbe solo una norma sulla competenza e tutti gli atti ivi menzionati non sarebbero da ritenersi mai illegittimi per ragioni di merito.
Ma ciò andrebbe bene – la legittimità presunta in modo assoluto - per atti di esercizio del potere politico come esercizio di attività libera nei fini, come libertà politica dei supremi organi dello Stato.
L’atto politico in questa chiave è l’atto di competenza di un organo costituzionale (supremo dello Stato) mentre l’atto di alta amministrazione è l’atto di prima attuazione successivo all’indirizzo politico ( atto dirigenziale o atto di indirizzo politico ).
E gli atti di indirizzo politico amministrativo ? In quale categoria collocarli?
Possono ritenersi atti amministrativi perché primi atti di attuazione della norme demandati al livello politico nella sua qualità di vertice dell’amministrazione ?
Ecco che la tesi di Guicciardi non regge più nel diritto amministrativo contemporaneo.
Il regime di atto politico come atto che si deve presumere legittimo in modo assoluto non è il regime costituzionale conseguente all’introduzione degli artt. 24 e 113 Cost.
La Costituzione ha eroso lo spazio dell’atto politico, ha determinato la qualificazione di molti atti prima riportabili alla sfera politica come atti di alta amministrazione.
Si pensi all’individuazione delle risorse per gli uffici dirigenziali generali, può dirsi assolutamente insindacabile quando le risorse conferite ad un’attività necessaria (ad es. bonifiche) siano insufficienti ed altre per attività facoltative (ad es. finanziamenti per associazionismo) siano più abbondanti?
Ne deriva un’ipertrofia del giudiziario, si estende l’alta amministrazione con la sua ampia ma sindacabile discrezionalità e si riduce l’atto politico.
Corte Cost. n. 81 del 2012 in un caso riguardante le nomine di assessori regionali ritiene che l’atto – pur soggettivamente o oggettivamente politico - sia sindacabile «nella misura in cui l'ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio…».
Si è così esclusa la politicità della nomina ad avvocato generale dello Stato di persona estranea all'amministrazione; delle deliberazioni della Cassa per il Mezzogiorno di diniego di concessione di contributi sugli interessi per finanziamenti industriali; dello scioglimento di associazioni politiche e la confisca dei loro beni; degli atti della Commissione statale di controllo sulle Regioni; della nomina dei membri del CNEL; del provvedimento col quale un ufficiale dei carabinieri in servizio presso il Sismi è stato restituito all'amministrazione di appartenenza; lo scioglimento dei consigli comunali e la rimozione del sindaco (per la casistica sempre cfr. Tropea ma anche V. Giomi L’atto politico nella prospettiva del giudice amministrativo : riflessioni sui vecchi limiti ed auspici di nuove aperture al sindacato sul pubblico potere in Dir. amm. 2022 , 21 e ss e C. Cudia Considerazioni sull’atto politico Dir. amm. 2021, 621).
Più di recente, ritenendo che si tratti di atti di “alta amministrazione”, si è escluso il carattere politico del decreto col quale il Ministro della giustizia concede l'estradizione; del decreto del Ministro dell'interno col quale si dispone “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” l'espulsione dello straniero ai sensi dell'art. 13 d.lgs. n. 286/1998; del decreto di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali per “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata” ex art. 143 t.u.e.l.; della determinazione con la quale il Ministero delle comunicazioni ha negato l'autorizzazione alla cessione, da parte della Rai, di azioni di una società controllata (Raiway); della revoca di assessori comunali, degli atti delle amministrazioni indipendenti; della nomina degli assessori in difetto dell’equilibrio di genere.
Ovunque vi sia una fattispecie legalmente predeterminata l’atto è sindacabile dal giudice, ove non vi sia tale predeterminazione ritorna – in qualche modo – ma residuamene la questione della natura dell’atto.
Come ha notato C. Cudia in sintonia con gli orientamenti dottrinali tesi a valorizzare lo Stato di diritto, il punto di partenza non può essere la natura dell'atto astrattamente intesa, ma la sua effettiva sostanza verificata in relazione alla presenza di una base legale o costituzionale, in relazione alla esistenza di una disciplina giuridica e in relazione agli effetti che è capace di produrre sulle situazioni individuali.
Atti politici sono la nomina dei senatori a vita, l’elenco delle grandi opere, la richiesta di autorizzazione di un aiuto di Stato alla Commissione europea, la decisione di non negoziare con una gruppo sociale o una confessione religiosa una intesa.
Pochi atti sono quindi ormai politici per volontà della stessa politica che ha abdicato al suo ruolo, in un mondo che chiede al giudiziario di sopportare il peso di ogni conflitto di dare una risposta ad ogni bisogno.
La giustizia climatica incombe con le sue domande, inevase dalla politica, punta a mettere la politica sotto accusa scaricando sul giudiziario conflitti politici che determineranno inedite tensioni.
2. Considerazioni conclusive sulla necessità dell’atto politico in tempi di crisi della politica
La tematica dell’atto politico e del suo ridimensionamento è sintomatica non solo della crescita della cultura costituzionale ma può anche essere letta come un effetto non voluto della crisi della politica, della crisi del costituzionalismo, della crisi di istituzioni liberali come la giustizia amministrativa a fronte dell’emersione delle tematiche ambientali e dell’azione dei grandi soggetti imprenditoriali.
La separatezza liberale fra politica ed economia è venuta meno ed il liberalismo come arte di separare le sfere non è più effettivo.
L’economico domina sul politico.
Gli effetti sono molteplici a molti livelli.
Scomparsa del lavoro per effetto dei grandi mutamenti del capitalismo, dall’algoritmo al capitalismo della massima sorveglianza; la crisi del sistema dei partiti del Novecento e delle visioni del mondo e della loro funzione osmotica con la società civile ( la mancata attuazione dell’art. 49 Cost. è al centro di tale declino della politica ); la crisi dei sindacati che si radicano fra pochi tutelati a fronte di molti senza tutele ; l’esistenza di divari intergenerazionali divenuti rilevanti ex art, 9 Cost. nuovo testo; la crisi dei gruppi sociali (meno tragica di quella della politica per effetto della rinascita della solidarietà).
Le categorie giuridiche tradizionali del Novecento sono imperniate su una certa idea della soggettività che ha il “politico” al centro.
Cenni di Law and Literature illuminano il tema.
La letteratura dell’800 narra della pienezza del soggetto moderno nei grandi romanzi europei, la letteratura del ‘900 ( Proust Joyce) narra dell’indebolimento del soggetto, ridotto a flusso di coscienza.
La letteratura contemporanea è figlia delle visioni distopiche di Kafka, Orwell e Dick.
Il soggetto è perso in un mondo oggettivato ed impolitico o dominato da una politica assoluta ed inesplicabile.
Nel cinema Blade Runner dipinge un mondo figlio di 1984 di Orwell.
Che può fare il giurista in particolare il giuspubblicista?
Rileggere Santi Romano.
Difendere la soggettività.
La voce Autonomia dei Frammenti di un dizionario giuridico risolve l’autonomia nel soggetto che si dà un ordinamento. E se si danno più ordinamenti li coordina in un mondo ordinato.
La politica è ancora oggi idealmente lo spazio di questa soggettività autonoma.
Pur nella crescita della complessità, nella presenza di una crisi del soggetto moderno, di una crisi del pensiero causalistico, della emersione nel paradigma della contemporanea filosofia della scienza di una epistemologia della complessità, occorre pensare che possa svolgere un ruolo direttivo, ma non basta più il riferimento a Weber o ad Habermas.
Non è sufficiente più l’appello – irrelato - ai valori.
Ci vuole una critica culturale più profonda che non ignori la distanza che si è andata stabilendo fra costituzione formale e materiale (per cambiare quest’ultima dove va cambiata ).
Una critica all’altezza dei tempi potrebbe ripartire trovando le sue radici in Adorno e nella analisi sulla razionalità strumentale e sul suo lato oscuramente totalitario.
Occorrerebbe rileggere Todorov e sua moglie N. Houston (Contro i maestri dello sconforto) e metabolizzare il loro umanesimo positivo ed equilibrato ma preoccupato della deriva tecnocratica e totalitaria del liberismo.
I giuspubblicisti devono promuovere un lavoro collettivo sulla nozione di limes, sulla necessità degli sconfinamenti, sull’empatia, sul principio solidaristico, persino sull’eros come forza politica (non tanto presente solo in Marcuse ma anche nella gioia creativa intravista nel futuro del lavoro da De Masi (De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Torino 2018); occorre pensare mondi nuovi).
C’è il pericolo di una servitù volontaria generalizzata (pericolo antico come risalente è il pensiero di E. De la Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria).
Ma il futuro è sempre aperto, lo disegnerà la politica – come vuole la costituzione – o la tecnocrazia delle nuove forze dominanti il mondo economico?
Anche quelle sono forze politiche, gli ingegneri informatici plasmando l’IA svolgono un ruolo politico; saprà l’aspirazione umana alla soggettività dominare tali tendenze?
Tuttavia della travolgente evoluzione dell’informatica devono cogliersi i tanti significati e segnali positivi.
Ma per chiamare la politica ad occuparsene: come in fondo sta facendo nel quadro della regolamentazione europea sullo Stato digitale (Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, Bologna 2023).
Occorre regolare un mercato deregolato ed occorre farlo bene ed in modo proporzionato.
I problemi poi sono ancora una volta tematizzabili con approccio Law and Literature.
La cittadinanza digitale sfida i limiti tradizionali dell’empatia, la universalizza, pretende che la si provi per sventure lontane (H. Ritter, Sventura lontana. Saggi sulla compassione, Milano 2007).
Se in Balzac l’arrampicatore sociale poteva barattare il suo successo con la morte di un mandarino cinese (Balzac era già consapevole dell’effetto farfalla) oggi siamo empatici per effetto dei media con gli oppressi di tanti paesi lontani.
Rousseau era empatico, ma era – inconsapevolmente - anche totalitario (come sostiene Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 2000)?
Troppa empatia possiamo reggerla?
Il comunismo ed il nazionalsocialismo sono stati casi di empatia assoluta?
Sono di certo casi di politica assoluta in assenza di contrappeso giudiziario.
Ma all’inverso traslando la domanda sul giudiziario: può il giudiziario reggere il peso di tutto in assenza della politica?
Può essere il luogo del governo della crisi climatica?
Lascio queste domande volutamente in sospeso.
La politica è il sogno moderno di emancipazione del soggetto, il giudiziario è solo il limite alla sua (eventuale) prepotenza.
La politica che ci dona libertà è sempre un gioco sul confine; è libera nei fini; gioca sul confine (sul rapporto amico/ nemico e tornano le guerre in caso di crisi della politica).
È una questione di equilibrio, ogni cosa al proprio posto (come dice Massimo Luciani in Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano 2023).
Occorre mantenere le categorie tradizionali (anche l’atto politico) fino a quando non ne avremo di nuove che funzionino meglio.
Non occorre accelerare il caos a fronte di tante ragioni di crisi e si deve auspicare una rinascita dell’autonomia del politico (per quanto problematica e non assoluta essa sia ma su questo chi scrive avrà occasione di tornare commentando il libro di Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari 2022, discusso in un seminario fra giuristi e filosofi).
Sul piano giuridico ciò significa essere consapevoli della necessità di limiti alla giustiziabilità di ogni desiderio.
Le situazioni giuridiche soggettive sono normativamente predeterminate.
Nel frattempo soccorre anche Derrida.
Altro pensatore della complessità.
Derrida era un uomo buono, amante della singolarità, intento a scavare sempre in ogni concetto, percepiva ogni lingua come gabbia, lavorava sui confini, cercava con gli sconfinamenti gli scarti significativi del linguaggio, svolgeva un lavoro filosofico poetico, fatto di accostamenti inediti, di prospettive trascurate, per scoprire significati ulteriori.
Scopriamo – con Derrida , autore libertario come pochi - nell’atto politico non solo il segno della mentalità autoritaria ma il senso del limite del lavoro del giudice.
Il giudice ha bisogno del limite del politico, come il politico ha bisogno del limite come senso del sacro ( consapevolezza che l’uomo è un angelo caduto), come resto del teologico-politico in senso laico ed immanente.
Rifuggire da ogni assoluto è il messaggio inscritto in una lettura moderna dell’art. 7 cpa come nel pluralismo sociale ed istituzionale della nostra Costituzione.
Scoprire la ricchezza di nuove dimensioni della discrezionalità (come nella teorica degli atti di alta amministrazione).
Rispettare la cornice data dal decisore che pone la regola (anche limitando sé stesso).
Decidere solo sui diritti e gli interessi legittimi violati, all’interno della cornice (da restaurare e rendere più comprensibile riparando i danni determinati dalla crisi del politico).
Concludo con i versi di Juarroz che ci riportano alla necessità di un senso del limite (insito nella caducità / occasionalità dell’esistenza) e nello stesso tempo alla speranza nel futuro (ciò che non esiste):
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.[1]
[1] La poesia per intero è questa :
Così come non possiamo
sostenere a lungo uno sguardo,
neppure possiamo sostenere a lungo l’allegria,
la spirale dell’amore,
la gratuità del pensiero,
la terra sospesa nel canto.
Non possiamo nemmeno sostenere a lungo
le proporzioni del silenzio
quando qualcosa lo visita.
E ancora meno
quando niente lo visita.
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.
*Intervento al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione"