Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”
di Marco Magri
Sommario: 1. Homo sine pecunia est imago mortis: l’esclusione di chi non può conseguire il “bene della vita” nella giurisprudenza del Consiglio di Stato - 2. Mera obbiettività dell’accertamento compiuto dal giudice amministrativo per estromettere il ricorrente “assimilato” al quivis de populo - 3. La teoria dell’Adunanza Plenaria sulla legittimazione ad agire come “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” (e i suoi limiti) - 4. Argomenti in favore dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., delle sentenze d’inammissibilità del Consiglio di Stato basate esclusivamente sulla “teoria della norma di protezione” (Schutznormtheorie).
1. Homo sine pecunia est imago mortis: l’esclusione di chi non può conseguire il “bene della vita” nella giurisprudenza del Consiglio di Stato.
La vivace discussione intorno alla sentenza della Corte di giustizia UE, 21 dicembre 2021, C-427/20 (Randstad Italia S.p.A. c. Azienda USL Valle d’Aosta e altri) ha toccato a più riprese il tema della legittimazione al ricorso[[1]] e, con ciò, l’importante profilo teorico dell’interesse legittimo che, secondo parte della dottrina, concerne la sua “individuazione”[[2]].
I riferimenti a questa fondamentale problematica sono emersi, com’era inevitabile, tra altre questioni poste dal caso Randstad, che ora non è il caso di riportare in dettaglio: a partire dalle prospettive sui rapporti e sui possibili conflitti tra le diverse giurisdizioni [[3]], ad altre più legate alla specificità della disciplina comunitaria della questione sollevata dalla Cassazione [[4]].
È innegabile peraltro che l’intera area di confine tra l’interesse legittimo e l’interesse non qualificato (semplice, di fatto, diffuso, popolare, di pura amministrazione, amministrativamente protetto, ecc.) si appresti a registrare una scossa piuttosto violenta, già per il fatto stesso che le Sezioni Unite, chiusa la parentesi della Corte di Giustizia, siano chiamate a statuire sull’accesso alla giustizia amministrativa di quel tipo d’interesse materiale cosiddetto “strumentale”, poiché non aspira al conseguimento del “bene della vita” (nel caso di specie, l’aggiudicazione del contratto), ma tende a un’utilità accidentale, costituita dalla probabilità di conseguirlo ad esito del nuovo esercizio del potere amministrativo (sempre nella vicenda Randstad, la ripetizione della gara).
Il problema dell’interesse strumentale, sia pure trasferito e in parte nascosto nella questione della pregiudizialità dell’ordine di esame tra il ricorso principale e il ricorso incidentale escludente[[5]], era in realtà già da tempo all’attenzione delle Sezioni Unite. Ma nella vicenda Randstad la maggior semplicità dell’oggetto del processo porta tutto direttamente in discussione; è possibile pertanto guardare al caso “dal basso”, cioè dal punto di vista del cittadino utente[[6]].
Non sfugge, certo, che il “cittadino” del cui interesse legittimo si trattava nel caso Randstad non fosse esattamente il prototipo nazionale, giacché la lesione lamentata riguardava una situazione soggettiva conferita e finanche regolata dall’ordinamento comunitario.
Ma, a parte che proprio sotto la spinta del diritto comunitario hanno iniziato a sgretolarsi schemi, come quello della non risarcibilità del danno da lesione d’interessi legittimi, ampiamente sedimentati nel nostro modo di rappresentare gli interessi e le modalità della loro protezione, l’abitudine del Consiglio di Stato di voltare le spalle in limine litisall’interesse strumentale non è un trattamento riservato agli operatori economici esclusi dalle gare europee. L’inammissibilità per carenza di qualificazione è un tipo di pronuncia che il giudice amministrativo usa quasi quotidianamente, in guisa del tutto indifferente alla materia entro la quale ricade la controversia, con una sempre più accentuata tendenza alla sentenza dottrinale o all’intervento nomofilattico.
Per stare solo al breve arco di tempo degli ultimi due mesi, due pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ne hanno fatto applicazione ai fini della soluzione di questioni di legittimazione: la sentenza n. 22 del 2021, che ha concluso per l’insufficienza della semplice vicinitas a radicare nel ricorrente un interesse legittimo, tale da consentirgli l’impugnativa dei titoli edilizi del terzo (così in sostanza arrivando a prospettare, per un’azione di annullamento, condizioni simili a quelle di un’azione negatoria servitutis, art. 949 c.c.); e la sentenza n. 3 del 2022, che ha sancito l’inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso proposto da alcuni ex amministratori contro l’interdittiva antimafia comminata alla società di cui erano rappresentanti – tra l’altro, per sospetti di infiltrazioni della criminalità organizzata riferiti proprio alla loro persona – presupponendo che nel nostro ordinamento non possano «esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, (pre)configurato normativamente»[7].
Pronunce che hanno confermato quanto sia forte, oggi, la tendenza del Consiglio di Stato a difendersi dal quivis de populo o, meglio, dal ricorrente assimilabile al quivis de populo (giacché un ricorrente che si “affermi popolare” è una storia più raccontata che empiricamente constatabile).
Se poi si spazia oltre la Plenaria, gli ultimi tempi hanno visto l’emergere di altri casi significativi. La sesta sezione ha ritenuto, ad esempio, che una promissaria acquirente di un immobile sia priva di legittimazione a impugnare il titolo edilizio (condono) rilasciato al promissario venditore, malgrado nel caso di specie la ricorrente avesse allegato, non contraddetta dall’amministrazione, che l’annullamento le avrebbe consentito di dimostrare, in un giudizio civile nel frattempo incardinato contro il promissario venditore, che l’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita era interamente abusivo, donde il diritto ad ottenere il doppio della caparra versata[8]. «Si tratta di questioni indubbiamente conoscibili dal giudice civile», aveva affermato il giudice di primo grado, «ma che in questa sede rilevano per affermare la sussistenza di un interesse a contestare i provvedimenti impugnati, al fine di far valere in quella sede il loro annullamento»[[9]]. Al che il Consiglio di Stato ha ribattuto, richiamando la propria giurisprudenza, che, non avendo la promissaria acquirente «mai acquistato il possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, non si è radicata in capo ad essa alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto».
Ancora, allungando lo sguardo fino alla giurisprudenza di primo grado, sembra degna di attenzione una recente sentenza del TAR Lazio, nella quale è stato confermato che il datore di lavoro, già regolarmente autorizzato (dallo sportello unico per l’immigrazione) all’assunzione del lavoratore straniero (art. 24 D.lgs. n. 286 del 1998), non è legittimato a impugnare il diniego di visto d’ingresso adottato dal Consolato nei confronti del lavoratore[[10]]. I due procedimenti, pur essendo, anche ad avviso del giudice amministrativo, «collegati (nel senso che il secondo presuppone l’avvenuta definizione del primo in senso positivo), restano tuttavia strutturalmente e funzionalmente autonomi». Caratteristiche che «si riflettono sul piano processuale nel senso di escludere la legittimazione del potenziale datore di lavoro (il cui interesse all’assunzione di un lavoratore straniero è preso in considerazione nell’iter autorizzatorio presupposto) a impugnare il diniego di visto adottato nei confronti dello straniero, che con la presentazione della relativa domanda ha palesato il suo interesse a entrare nel territorio nazionale». Ciò non vuol dire, precisa il TAR, «che non sussista un concorrente interesse del potenziale datore all’ingresso in Italia di un suo, altrettanto potenziale, dipendente, ma si tratta di un interesse di mero fatto, non azionabile né in sede procedimentale (come risulta dalla disciplina di riferimento) né in sede giurisdizionale»[[11]].
Ecco un caso davvero emblematico, giacché i passaggi sono chiarissimi: l’annullabilità del visto d’ingresso è un’antigiuridicità che non lede l’interesse del futuro datore di lavoro perché le norme sul visto d’ingresso (art. 5 D.lgs. n. 286 del 1998), a differenza di quelle sull’autorizzazione alla costituzione del rapporto di lavoro (art. 24 D.lgs. cit.) non sono scritte “per il datore di lavoro” (quindi non possono “proteggerlo”), ma “per il lavoratore”, unico legittimato a impugnare il diniego (per di più, da Islamabad, dove gli effetti ostativi del diniego lo avevano bloccato).
Così è accaduto anche per la Randstad: esclusa dall’aggiudicazione, dunque «divenuta», per il Consiglio di Stato, portatrice «di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque operatore economico del settore, non partecipante alla gara».
A ben vedere, il peccato d’origine dell’interesse “strumentale”, secondo il Consiglio di Stato, non è di non essere differenziato e neanche d’essere privo di collegamenti a norme giuridiche (in ciascuno dei casi testé menzionati lo si potrebbe facilmente dimostrare), ma d’essere qualificato solo soggettivamente, da una libera decisione del ricorrente su ciò che gli “spetta”, non collimante con la massima soddisfazione obbiettiva che il processo amministrativo di annullamento consentirebbe di ricavare ai formali destinatari del provvedimento impugnato[[12]].
Questo difetto di titolarità, dato dalla non pienezza del diritto sul bene della vita, nella gran parte dei casi viene avvalorato da un ragionamento controfattuale sulla non esclusività o, meglio, della mancanza di personalità dell’interesse ad agire. Sono altri infatti, per il giudice, i soggetti destinatari del provvedimento, che ne patiscono gli effetti lesivi e il cui ricorso sarebbe ammissibile, se fosse esperito: quasi a voler dedurre, da questa disomogeneità di condizioni, la trattabilità del caso alla stregua di un’ipotesi di sostituzione processuale fuori dai casi previsti dalla legge.
Lo scrutinio di ammissibilità dell’interesse strumentale finisce così per radicarsi in una logica di confronto che in qualche misura ricorda il criterio – anch’esso impostato sul binomio identità-diversità delle situazioni sostanziali affermate in giudizio rispetto al medesimo provvedimento amministrativo (e sulla esistenza o mancanza di conflitti d’interesse) – adottato dalla giurisprudenza per decidere sull’ammissibilità del cd. “ricorso collettivo”. Con la differenza che qui la presa d’atto di un conflitto d’interessi va tutta a protezione del legittimato teorico: quello individuato dal provvedimento, anche quando quest’ultimo non è – o con ogni probabilità, non sarà mai – parte del processo (quasi sempre, proprio a causa degli effetti del provvedimento illegittimo).
Si spiega così, tra le altre cose[[13]], la ragione per cui il giudice amministrativo, quando invece non vede nel destinatario del provvedimento un tertium comparationis, si dimostra più propenso a riconoscere la legittimazione del ricorrente. Se ne può avere la riprova pensando agli interessi “diffusi” rappresentati in giudizio da soggetti privati esponenziali (fuori ovviamente dai casi di sostituzione processuale), la cui “collettivizzazione” a mezzo di entificazione presuppone la mancanza di differenziazione e lascia pertanto quegl’interessi tutti egualmente adespoti[[14]]; oppure si pensi a quel tipo di interesse individuale che, pur mancando di collegamento giuridico al bene della vita, resta confinato nella sfera del ricorrente e conserva una rigorosa consistenza soggettiva, persino “assoluta”: alludo all’interesse (kantianamente inteso come) morale[[15]], al quale la giurisprudenza, discrezionalmente, ma tradizionalmente si presta a impartire tutela[[16]].
Ora, tornando alla questione dalla quale poc’anzi s’era partiti, anche il caso Randstad, pur avendo ad oggetto un diritto conferito dall’ordinamento comunitario, non nasce da un problema d’interpretazione del diritto (e del diritto comunitario in specie). La direttiva 89/665/CEE chiarisce quando l’operatore è «definitivamente escluso» (art. 2-bis) e, a termini di direttiva, la Randstad non lo era, avendo impugnato nei termini la propria esclusione dalla gara.
Il motivo della pronuncia di rito negativa deriva dall’applicazione di uno schema di giudizio ben più risalente e rigorosamente domestico, per cui l’interesse di fatto non ha altra spiegazione che il tendere a un bene impoverito rispetto alla categoricità voluta dalla norma. Quando l’interesse legittimo non ha più sotto di sé il diritto soggettivo assoluto, rimane agli occhi del Consiglio di Stato un simulacro, contornato dalla prospettiva di utilità minori o diverse, per le quali la giurisdizione amministrativa non si dichiara più disponibile. Homo sine pecunia est imago mortis[[17]]: se per il ricorrente sfuma l’intera posta in palio, il “bene della vita”, tanto vale «ch’ei si rassegni»[[18]].
2. Mera obbiettività dell’accertamento compiuto dal giudice amministrativo per estromettere il ricorrente “assimilato” al quivis de populo.
La scelta di alludere al “fatto”, per denominare l’interesse al quale il diritto (come ordinamento giuridico) rende inaccessibile la giustizia amministrativa, non è peraltro privo di causa.
L’invenzione dell’interesse di fatto, “assimilabile” a quello del quivis de populo, si spiega con un bisogno di dare, dell’interesse legittimo, una descrizione dotata di tutto il rigore logico necessario a dimostrare che il giudice amministrativo ha la stessa forma mentis del giudice ordinario, e si è oramai lasciato dietro le spalle il modello dell’organo “specializzato”, funzionale alla mera natura pubblica “dell’amministrazione” e non alla giustizia “nell’amministrazione”.
Il giudice amministrativo si trova così a ritessere continuamente la trama del collocamento dell’interesse legittimo tra le altre situazioni giuridiche soggettive, entro una piattaforma concettuale idonea a garantire imparzialità e basi sicure al ragionamento giuridico.
Dobbiamo allora parlare d’un approccio “metodologico”, fondato su uno strumentario privilegiato da molti studiosi del diritto amministrativo, non solo dalla giurisprudenza.
Ci si riferisce a quel giacimento di concetti giuridici che il diritto amministrativo, forse più di altre discipline, crede di poter trovare sulla via della “dogmatica” – una strada, in verità, ampiamente problematizzabile – comunemente definita “teoria generale del diritto”.
Quando il nostro giudice amministrativo ricorre a formule quali la «titolarità», il «rapporto giuridico di diritto pubblico», la «concezione soggettiva della tutela», per declassare il ricorrente a quivis de populo, vuol tributare la sua subordinazione a un “diritto comune dei rapporti giuridici” che, in ultima analisi, è principio legittimante del giudice stesso. Il rifiuto di erogare giustizia al quivis de populo, motivato sulla base del fatto che costui non avrebbe un interesse “qualificato”, significa infatti, per il giudice amministrativo, risalire a una radice comune, la teoria generale delle situazioni soggettive, adattabile sia all’interesse legittimo che al diritto soggettivo, per avvicinare concettualmente le due figure e dar prova di essere “giudice naturale degli interessi legittimi”, così come il giudice ordinario è “giudice naturale dei diritti soggettivi”[[19]].
Se volessimo poi interrogarci sulla consistenza dell’operazione, dovremmo ricercare le sue radici, chiaramente, non nella giurisprudenza, bensì nella dottrina. «Quand’è che – nel vasto mondo degli interessi che sono prevalentemente interessi di fatto – si è in presenza di un interesse legittimo?»[[20]]. La risposta secondo la quale un interesse è legittimo soltanto se “qualificato” dalla norma, trasferisce il problema sul significato di quest’ultima espressione, la qualificazione.
Secondo M. Nigro, qualificazione normativa si avrebbe «quando (e solo quando) l’ordinamento giuridico conferisce una qualche particolare rilevanza giuridica ad un interesse materiale, quando l’ordinamento giuridico lo prende in considerazione», includendolo «nella norma organizzativa insieme con l’interesse pubblico alla cui soddisfazione è rivolto il potere».
Di conseguenza, «l’individuazione dell’interesse legittimo dev’essere compiuta esclusivamente alla luce della norma regolatrice del potere e delle altre norme che ad essa si collegano», cosicché la qualificazione di “legittimi” compete soltanto agl’interessi materiali che «che il potere amministrativo doveva tenere presenti nel momento del suo esercizio»[21].
In questo modo la tecnica d’individuazione dell’interesse legittimo si coordina, da un lato, con la definizione dell’interesse legittimo in termini di “interesse al bene” e ricalca quindi le coordinate teoriche del diritto soggettivo; su di un altro versante, tuttavia, produce un macroscopico effetto deviante proprio rispetto alla problematica della individuazione del diritto soggettivo: il Consiglio di Stato, nel momento stesso in cui presuppone che gli interessi legittimi meritevoli di tutela siano solo quelli presi in considerazione dalle norme, sta inavvertitamente richiamando la vecchia teoria della “tipicità” dell’illecito civile, il cui carattere precipuo era non distinguere tra la culpa e l’iniuria,assommando quest’ultima «nell’elemento soggettivo e cioè nel fatto colposo, nell’idea che, essendo la colpa la violazione di una norma predisposta a tutela dei diritti dei singoli, solo in presenza di un comportamento colposo poteva darsi la lesione di un diritto e quindi un danno ingiusto»[[22]].
Affermare che gli interessi legittimi tutelabili dalla giurisdizione amministrativa sono solo quelli «che il potere amministrativo doveva tenere presenti nel momento del suo esercizio», perché qualificati dalla «norma regolatrice del potere», mentre gli altri sono interessi di fatto, assimilabili alle generiche aspettative del quivis de populo, è come dire che l’azione di annullamento nel processo amministrativo è ammissibile solo se il ricorrente non si limita ad affermare che il provvedimento impugnato ha leso un suo diritto, ma ha l’onere di chiedere un annullamento colposo, che restringe l’illegittimità entro una precisa sfera d’imputazione. E’ come dire che la lesione dell’interesse legittimo non ha un autonomo elemento d’ingiustizia o di antigiuridicità obbiettiva, riferibile alla lesione in quanto tale (anziché alla sola condotta dell’amministrazione). Ed è come dire che il giudice amministrativo, nella verifica della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso, non ha la stessa capacità (in senso buono) creativa del giudice civile. Ciò che prende consistenza è complessivamente una visione dell’interesse tutelabile, radicalmente antitetica a quella della Cassazione, per cui «Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori»[[23]].
L’atteggiamento divergente del giudice amministrativo rispetto al giudice civile, in punto di legittimazione attiva, non sta quindi solamente sul piano processuale. In dottrina si è puntualmente dato atto che «la legittimazione a ricorrere viene interpretata dalla giurisprudenza amministrativa non come affermazione della titolarità della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso (…), ma come effettiva titolarità di tale posizione»[[24]]. Le differenze con il processo civile si trovano però anche più a fondo, nel modo in cui il giudice amministrativo si rappresenta il concetto di norma, di interesse, di protezione dell’interesse da parte dell’ordinamento giuridico.
3. La teoria dell’Adunanza Plenaria sulla legittimazione ad agire come “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” (e i suoi limiti).
La “titolarità” dell’interesse, come situazione acquisita a mezzo di una volontà normativa “qualificante”, è considerata in giurisprudenza tra le condizioni dell’azione di annullamento. Il Consiglio di Stato lo afferma, nelle decisioni sulle controversie in materia di aggiudicazione di contratti pubblici, almeno dall’Adunanza plenaria n. 4 del 2011. Ancor più esplicitamente l’Adunanza Plenaria si è espressa nella sentenza n. 9 del 2014: dove si legge che «l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni fondamentali che, valutate in astratto con riferimento alla causa petendi della domanda e non secundum eventum litis, devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione; tali condizioni sono: I) il c.d. titolo o possibilità giuridica dell’azione – cioè la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero, come altri dice, la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo –; II) l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (o interesse al ricorso, nel linguaggio corrente del processo amministrativo); III) la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva/passiva, discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo)»[[25]].
Rispetto alle caratteristiche di questa mappa concettuale, i problemi non nascono dalle enunciazioni di cui ai punti II (interesse ad agre) e III (legitimatio ad causam). L’azione di annullamento, come tutte le azioni proponibili davanti al giudice amministrativo, non è un’azione popolare. Non lo è, almeno, in quel senso convenzionale del termine popolare, che sottende il potere di agire in giudizio da parte di chiunque; e questo il Consiglio di Stato lo ha sempre tenuto ben fermo. Si ricorderà la celebre sentenza del 1970 in cui furono considerati applicabili i principi sulle condizioni generali dell’azione di annullamento persino di fronte a una disposizione di legge ordinaria che, in materia edilizia, espressamente prevedeva che “chiunque” potesse proporre il ricorso[26]. Oggi peraltro le cose sono ancora più chiare, e basterebbe forse il rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., per far ritenere applicabili, nel processo amministrativo, le disposizioni del Codice di procedura civile sull’interesse a ricorrere (art. 100) e sul divieto di far valere in nome proprio un diritto altrui, salvi i casi di sostituzione processuale espressamente previsti dalla legge (art. 81)[[27]].
Tutto ciò, dicevo, non è discutibile; e una grave stortura si produrrebbe, se la porta della giurisdizione amministrativa restasse davvero “aperta a tutti”.
Resta ciononostante da chiarire la fondatezza della “terza condizione” (la prima delle tre enunciate dall’Adunanza plenaria). Nessun dubbio sul fatto che l’interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione debba essere affermato come interesse fondato su norme giuridiche e che di conseguenza trovi spazio anche nel processo amministrativo, sulla falsariga di ciò che accade nel processo civile, una terza condizione chiamata possibilità giuridica.
Non è la stessa cosa, tuttavia, pretendere che l’interesse legittimo affermato dal ricorrente nei confronti della pubblica amministrazione sia qualificato in astratto da una norma, se si soggiunge, come fa il Consiglio di Stato, l’occorrenza di una speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo «rispetto all’esercizio del potere amministrativo».
In tal modo si evoca infatti un criterio diverso, imperniato sul potere della legge e della pubblica amministrazione di determinare direttamente gli interessi coinvolti, e di lasciare il ricorrente inappagato se esce dall’orbita della protezione accordatagli dall’ordinamento; se non “obbedisce”, appunto, alla “teoria della norma di protezione” (Schutznormtheorie).
Tornando, con una rapida mossa d’obiettivo, al caso Randstad, si noterà che il problema della legittimazione venga risolto, dal Consiglio di Stato, con la postulazione di una precedenza tra l’esame dei vizi sollevati dall’operatore economico contro la propria esclusione dalla gara e l’esame dei vizi sollevati invece, dal medesimo soggetto, contro l’aggiudicazione.
Il fondamento di questa pregiudizialità dell’ordine delle censure è presto spiegato: le norme che governano l’ammissione alla gara possono assicurare alla Randstad, attraverso il processo, il “bene della vita”; le norme che disciplinano l’aggiudicazione invece no, essendo state “pensate” per soggetti già ammessi alla valutazione comparativa delle offerte.
Ora si dovrebbe aprire un lungo discorso sull’affidabilità di questa impostazione e – si diceva – dell’ordine concettuale “dogmatico”, che ne è il presupposto.
Ci si può tuttavia limitare qui ad alcune osservazioni, riducibili a tre obiezioni. La prima riguarda la capacità altamente suggestiva, ma scarsamente persuasiva, della Schutznormtherorie, che come tutte le teorie necessita di una giustificazione; tanto più difficile, nel nostro caso, quanto più si pone l’accento sul suo essere fortemente e tradizionalmente relativizzata ai canoni dell’ordinamento tedesco, in particolare all’interpretazione del § 42, comma 2 VwGO[[28]].
Nessun principio del diritto pubblico italiano, né sostanziale, né processuale, autorizza a ritenere che le norme di diritto amministrativo, regolando l’esercizio di un pubblico potere, implicitamente stabiliscano chi sono i loro destinatari, tanto da far ritenere questi ultimi investiti, ad esclusione di altri, del potere di far valere in giudizio la loro violazione[[29]].
Egualmente, non è un assioma, ma solo una tesi, l’idea che la garanzia del diritto di agire dinanzi alla giurisdizione amministrativa abbia, quale logica conseguenza, che al dovere dell’amministrazione di eseguire le legge facciano sempre puntuale riscontro situazioni soggettive di vantaggio del cittadino, non esistendo, si sostiene, doveri propriamente “irrelati”[[30]].
In questa visione geometrica e rigorosamente correlativa dei rapporti giuridici con la pubblica amministrazione, è agevole rilevare i termini di una riproposizione, entro il binomio interesse legittimo-interesse di fatto, della vecchia teoria secondo la quale uno dei caratteri distintivi delle norme giuridiche rispetto a quelle sociali sarebbe dato dalla “bilateralità”, come «simmetrica corrispondenza tra l’obbligo di un soggetto e il diritto (in senso soggettivo, come situazione derivante dal diritto oggettivo) di un altro, sempre e necessariamente risultante dalla norma giuridica».
«Facile, pertanto, e fondato il rilievo, tante volte avanzato a critica di questa tesi, che essa non fa se non ipostatizzare in termini che pretenderebbero avere assoluto valore logico un particolare fenomeno di un particolare e limitato settore dell’esperienza giuridica, qual è appunto il «rapporto giuridico» nel diritto privato, se non addirittura lo schema del rapporto obbligatorio civilistico (esempio paradigmatico: quello tra creditore e debitore)»[[31]].
Come minimo, dunque, l’impostazione del problema della legittimazione in termini di relazioni tra la norma, l’ordinamento, il potere, l’effetto, la protezione degl’interessi, imporrebbe una paziente opera di confronto con un universo teorico assai più ampio e complicato.
Il normativismo d’ispirazione Kelseniana, ad esempio, avrebbe forse non poco dire sulla teoria della qualificazione normativa degli interessi, tutta basata sulla “volontà” del legislatore come criterio di “rilevanza” e quindi schiacciata sul dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, che un postulato tipico della teoria “istituzionale” del diritto[[32]].
Comunque sia, e facendo subito ammenda di schematizzazioni in questa sede inevitabilmente inappropriate, l’impressione è che nessuna teoria generale nella sua assolutezza possa valere quale fonte di verità indiscutibili. Assumerne le risultanze a motivo di individuazione dell’interesse legittimo, e, ancor più, quali referenti essenziali dell’accertamento della legittimazione a ricorrere, è una scelta che espone la giurisdizione amministrativa a forti tensioni.
Non si tratta, s’intende, di questione nuova. La riprova la si può avere rileggendo alcune pagine di V.E. Orlando[33], nelle quali, soffermandosi sulla relazione che «deve correre tra la illegalità del provvedimento e la lesione dell’interesse», Orlando considera «affatto ingiustificata» l’impressone che «il far valere, in via di ricorso, una illegalità di un atto amministrativo spetti solo a colui, in difesa del cui interesse era scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata», perché «l’interesse che rende ammissibile un ricorso in via di giustizia amministrativa verrebbe così ad essere ristretto soltanto a quello riconosciuto e difeso dalla legge in un subbietto determinato; donde la conseguenza che solo questo subietto avrebbe la facoltà di ricorrere». Nell’argomento «tutto speciale del contenzioso amministrativo», conclude Orlando, pur non nascondendosi le gravissime questioni che sorgono quando si tratta di determinare l’indole giuridica della Sezione IV del Consiglio di Stato, «il dire che chi propone ricorso debba averci interesse e che quest’interesse debba essere personale, con esclusione di forme analoghe alle azioni popolari, non implica affatto (…) che fra la lesione dell’interesse e la violazione della legge debba esservi una tale intima correlazione».
Può essere interessante notare altresì la precisazione soggiunta da Orlando, ovverosia che «L’ipotesi di un nesso fra l’interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi, è necessariamente implicita nell’esercizio di una giurisdizione vera e propria, appunto perché vi si decide di diritti subbiettivi, dove quel nesso è immancabile».
Tanto basta per escludere che possano essere trasportati nell’ambito della giustizia amministrativa «quei principii che ordinano il modo in cui sono riconosciuti e dichiarati i diritti subbiettivi».
«Giurisdizione vera e propria», quella del Consiglio di Stato, lo è poi diventata. Non, però, giurisdizione nella quale «si decide di decide di diritti subiettivi».
Ci si potrebbe allora chiedere, per un verso, se la presunta evoluzione in senso soggettivo della giurisdizione amministrativa giustifichi l’atteggiamento complessivo del Consiglio di Stato, favorevole all’applicazione della teoria della norma di protezione.
Ma, con eguale fondamento e pari “copertura” – anche costituzionale – ci si potrebbe domandare se la mancanza di quel «nesso, tra interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi», non possa essere visto come uno dei principali elementi caratterizzanti l’autonomia del ricorso giurisdizionale amministrativo rispetto all’azione dinanzi al giudice ordinario.
In fondo, si tratterebbe solo di portare alle logiche conseguenze la ragione che lo stesso Orlando deduceva, ben più ampia della questione sulla natura della Sezione IV del Consiglio di Stato: «mentre è inconcepibile che il medesimodiritto possa competere a più persone, non ripugna affatto che una medesima violazione di legge possa ledere molteplici interessi».
Sulla medesima falsariga, in occasione degli ottant’anni del discorso di S. Spaventa sulla giustizia nell’amministrazione, la denuncia di A.M. Sandulli[34], in difesa degli interessi «sforniti di protezione giuridica», non «presi in speciale considerazione dalle norme», che i meccanismi di accesso al sistema italiano di giustizia amministrativa rendono vittime di una «evidente incongruenza»: «mentre esistono garanzie giurisdizionali idonee ad assicurare l’osservanza del procedimento di nomina di un netturbino o di un becchino del più modesto comune montano, non ne esiste alcuna per assicurare che non venga superata la durata della gestione commissariale». E di seguito – in una sorta di preconizzazione, alla lontana, del caso Randstad – una serie di considerazioni sulla tutela dell’interesse meramente partecipativo rispetto ai concorsi pubblici, elusi dall’amministrazione col meccanismo dalla chiamata diretta, là dove «pur essendo le illegalità di carattere macroscopico, manca (…) la lesione di interessi soggettivi particolarmente qualificati (tali non essendo quelli degli aspiranti a partecipare a un concorso non bandito)». Di qui la correlazione, tratteggiata da Sandulli, tra il potenziamento dell’azione popolare e la «più piena realizzazione dello Stato di diritto».
Allargando poi la prospettiva, non pare difficile rintracciare la medesima istanza garantista, più o meno espressamente enunciata, nello spirito di chi, tra la dottrina, ha esattamente osservato la difficoltà di distinguere, in concreto, la legittimazione dall’interesse al ricorso[[35]].
Di sicuro, questi pochi richiami, volutamente privi di un ordine preciso, dovrebbero essere portati a una ben più articolata analisi, che dimostrerebbe quanto profondamente e costantemente la cultura italiana del diritto pubblico abbia avvertito l’ingiustizia di una troppo razionalizzata riduzione dell’interesse non qualificato a interesse non protetto e “di mero fatto”[[36]].
Quanto detto sin qui sembra però sufficiente alla critica che, in primo luogo, si voleva sollevare: la teoria della norma di protezione non è un coerente sviluppo dell’ordinamento interno, tanto meno dell’ordinamento comunitario; è un esperimento che toglie di peso dalla dottrina tedesca l’interpretazione della norma sul il diritto di ricorrere all’autorità giudiziaria, da parte di chi sia «offeso nei suoi diritti da parte dell’autorità pubblica» (art. 19 comma 4 GG), per farne una chiave di lettura del sistema italiano di tutela degli interessi legittimi (artt. 103 Cost.)[[37]].
Contro la teoria della titolarità come condizione di ammissibilità del ricorso, gioca poi una seconda obiezione d’ordine logico, cui conviene far cenno sommariamente.
È un’obiezione della quale si dà carico lo stesso M. Nigro, la cui dottrina è stata, in questo contributo, oramai più volte richiamata, in funzione per così dire di manifesto della tesi della qualificazione normativa dell’interesse. Se è vero, «in linea di principio», che questa tesi sia «la sola che si accordi» con la nozione d’interesse legittimo come interesse al bene della vita – precisa l’Autore – «non ci si può nascondere la grave difficoltà di riconoscere i casi in cui esiste una qualificazione normativa», giacché, prosegue, citando dottrina tedesca (H. Rupp), «soltanto raramente dalla sola lettura di una legge amministrativa è possibile desumere se la disciplina in essa instaurata abbia per scopo anche la protezione di interessi individuali e quali in concreto siano tali interessi».
In una legislazione amministrativa ancora largamente dominata dalla «concezione obiettiva del principio di legalità», «solo di rado (…) la legge amministrativa regola i conflitti di interesse tra gli amministrati in modo tale che dalla stessa norma o gruppo di norme attributive del potere si posa immediatamente desumere l’esistenza di interessi di specifica rilevanza. (…) Più spesso la legge tace e allora occorre utilizzare elementi indiretti (…), ampliare il campo d’osservazione ricorrendo ad altre norme connesse e utilizzando i princìpi ai quali si ispirano i ‘blocchi normativi’ così formati» – ed è d’attualità, che a questo punto Nigro citi una sentenza del Consiglio di Stato del 1970 in materia di identificazione degli interessi ad opporsi a una licenza edilizia – «ma in tal caso sussiste il problema del modo come vanno formati i blocchi normativi (dove ci si deve fermare nell’opera di ‘aggregare’ alla norma attributiva del potere altre norme?)».
Il problema della «collocazione dell’interesse nel raggio d’azione della norma» resta così irrisolto, aperto a soluzioni empiriche – si può procedere per elementi sintomatici, a volte determinati dallo stesso vantaggio o svantaggio di fatto: «i dubbi spuntano ad ogni momento» – quindi in ultima analisi affidato al ruolo della giurisprudenza, per l’inevitabile arbitrarietà delle soluzioni. Al punto da far dubitare Nigro che soltanto il valore dei diritti propriamente intesi sia veramente «predeterminato dal sistema giuridico in vigore», mentre, all’opposto, l’individuazione dell’interesse sia il risultato di un «giudizio di valore operato dal giudice in ogni caso particolare».
A temperare questa irresolutezza, all’epoca in cui scriveva Nigro, c’era una giurisprudenza amministrativa «di manica larga» (erano gli anni del dibattito sugli interessi diffusi e del caso Italia Nostra); esattamente l’elemento che, via via, è venuto a mancare.
Nei decenni che ci separano da quel tempo e da quel dibattito, inoltre, la legge amministrativa non si è affatto allontanata dalla concezione obiettiva del principio di legalità, quanto meno nel senso di essersi richiamata a un modello organizzativo, per più aspetti ricollegabile ai principi di cui all’art. 97 Cost., dell’amministrazione non mera esecutrice delle leggi.
In un simile contesto, la tesi per cui l’azione di annullamento, nel processo amministrativo, è condizionata alla titolarità dell’interesse qualificato, finisce quindi per sviluppare un modello di giurisdizione amministrativa frequentemente incline a esiti surreali, in cui la giustizia tocca soltanto l’amministrazione a cui nessuno pensa più, quella che può essere «valutata e controllata come se conservasse i caratteri della esecutività»[[38]], protetta dal “cittadino” per mano di un giudice che rifiuta la sua giurisdizione e, così facendo, finisce per porre sotto tutela, piuttosto degli interessi legittimi e del principio di legalità, l’autoritarietà dell’atto illegittimo.
E’ il momento di soggiungere una terza obiezione, che in realtà costituisce il naturale sviluppo della seconda, ma che sembra essere, almeno concettualmente, distinguibile.
Si può tranquillamente fingere che la legge, nel dettare le norme di organizzazione del potere amministrativo, “intenda” proteggere alcuni interessi e non altri.
Si può prendere atto, ad esempio – per stare al caso Randstad – della circostanza che le norme sulla composizione o sul funzionamento della commissione giudicatrice di un appalto pubblico siano emanate in vista della legittimità dell’aggiudicazione, dunque, in questo senso, siano scritte nell’interesse degli offerenti che all’aggiudicazione possono aspirare; non di quelli che, essendo stati o dovendo essere esclusi dalla gara, sono legittimamente fuori gioco.
Ancor più ampiamente, si può dire che, per il giudice amministrativo, sia normale non trovare “identificato”, nelle norme giuridiche evocate dal ricorrente a propria difesa, l’interesse legittimo. Vi si rintraccerà un intento protettivo di interessi astrattamente compartecipi della funzione amministrativa, secondo la norma che il ricorrente assume violata e che, semplificando all’estremo, chiameremo la norma A. Ora il giudice, interpretando la domanda contenuta nel ricorso, potrà dedurre che la norma A non “vuole” tutelare gl’interessi che il ricorrente allega come propri. Si vedrà, se questi sono astrattamente tutelati da norme B, C, D, ecc. Ma non si può negare, intanto, che il ricorrente affermi un bisogno di tutela connesso alla violazione della norma A.
In questo caso – dato per implicito che il ricorrente agisca in nome proprio, affermandosi titolare di un interesse legittimo – potrebbe verificarsi in primo luogo una carenza dell’interesse ad agire (mancanza di utilità pratica o di vantaggio conseguibile da di un’ipotetica sentenza di accoglimento). Se così fosse, palesemente non avrebbe ragione di porsi un problema di individuazione dell’interesse legittimo e di applicazione della teoria della “qualificazione” normativa.
Quando invece l’interesse ad agire sussiste – vale a dire che, dall’osservanza della norma A, un qualche vantaggio il ricorrente lo trae – e tuttavia il giudice amministrativo va oltre, argomentando di una carenza di “mera titolarità” dell’interesse legittimo, in base al fatto che la norma A non lo ha “preso in considerazione”, il giudice amministrativo sta ragionando soprattutto su altre norme (B, C, D, ecc. che invece lo prendono in considerazione), per escludere che queste si possano collocare nel medesimo sistema di cui fa parte la norma A. Non importa sondare quale operazione si compia in questo modo. Di certo non l’interpretazione, in senso proprio, della norma A.
Nel domandarsi quali interessi la norma invocata dal ricorrente abbia voluto tutelare e quali abbia voluto escludere, il giudice amministrativo sta compiendo, beninteso, un’attività di interpretazione, ma non delle norme poste a fondamento del ricorso. Le disposizioni che nel ricorso si affermano violate sono l’oggetto, piuttosto che il parametro, della decisione; decisiva è una regola superiore, diversa da tutte quelle che “qualificano” gli interessi in gioco.
Ci si dovrebbe ora chiedere quale sia questa regola; ma la domanda sarebbe retorica, perché la regola, sul piano normativo positivo, in senso stretto non esiste, è un semplice principio logico, cioè di pura e semplice irrilevanza dell’interesse non protetto[[39]].
Dobbiamo allora concludere che il giudice amministrativo, quando valuta il titolo o possibilità giuridica dell’azione, alla stregua dei principi ribaditi dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2014, decide, aprioristicamente, di far dipendere l’ammissibilità del ricorso da un assioma quale è la “volontà” del legislatore, che «serve non tanto per scegliere (in positivo) il significato di una disposizione, quanto piuttosto per scartare (in negativo) altri significati possibili»[[40]].
Sarebbe d’obbligo, se ve ne fosse il modo, proseguire nella critica che si leva contro questo modo di applicare il diritto. Giacché «le autorità normative (…) non hanno una “intenzione” nello stesso senso in cui può averla un individuo»; e l’intenzione delle autorità normative, «se mai esiste una cosa del genere – non è suscettibile di conoscenza empirica: può solo essere oggetto di congetture. Pertanto, l’ascrizione di una intenzione ad una autorità normativa può facilmente essere contestata, e persino squalificata in quanto tale (quale che sia, cioè, l’intenzione ascritta)».
Ci si dovrebbe domandare allora perché il giudice attribuisca un ruolo così trascendentale dell’interpretazione “teleologica”, ritenuta capace di svelare il fine, l’intenzione non semantica, ma pratica, della norma: non “cosa voleva dire”, ma “cosa doveva realizzare”: quali interessi voleva “prendere in considerazione” insieme al dovere dell’amministrazione di eseguire la legge.
Che le norme sull’aggiudicazione dei contratti pubblici abbiano il fine di tutelare gli offerenti ammessi e non quelli esclusi (benché non «definitivamente»); che le norme sull’interdittiva antimafia abbiano il fine di tutelare la società e non gli amministratori responsabili; che le norme sulle distanze tra le costruzioni abbiano il fine di tutelare le proprietà danneggiate, non i diritti di chi è semplicemente vicino: a tutto questo sarebbe agevole replicare che «l’osservanza o l’applicazione di una norma produce normalmente una pluralità di effetti pratici, e ciascuno degli effetti che una norma può produrre può essere considerato come fine della norma in questione»[[41]]. La possibilità di conseguire un risultato utile dall’annullamento, assieme all’affermazione di un interesse fondato su norme, concreto e attuale, non realizza forse già il “fine” della norma?
Ma la verità è che vanum disputare de potestate[42]: il giudice amministrativo, nel disconoscere dignità d’interesse legittimo all’interesse fondato sulla norma A – e nel disconoscerla perché l’interesse non gli appare qualificato dalla norma A – non sta propriamente affermando il contrario di quanto ora osservato. Sta solo dicendo, e ribadendo, che il processo amministrativo è a disposizione delle sole figure soggettive classificate dalle leggi di organizzazione, e che l’interesse legittimo è individuabile solo quale riflesso dell’imperatività o della supremazia speciale della norma.
Il dubbio che, con questo, il giudice amministrativo si stia pronunciando sull’inesistenza della propria potestas iudicandi, non è semplice da rimuovere. Non depone certo in contrario, anzi, il fatto che la giurisprudenza amministrativa, quando constata la carenza di legittimazione, motivi frequentemente la pronuncia di rito (negativa) con argomenti che si rifanno alla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa[[43]], la quale non è istituita per garantire l’interesse generale alla legittimità del pubblico potere, bensì per «tutelare la situazione soggettiva del ricorrente»[[44]].
4. Per l’annullamento, ai sensi dell’art. 111 Cost., delle sentenze d’inammissibilità del Consiglio di Stato basate sulla “teoria della norma di protezione”.
Torniamo, per terminare, al nodo del problema. Sta davvero accertando il difetto di una condizione dell’azione, il giudice amministrativo, quando, nonostante il ricorrente affermi di agire per un interesse proprio (art. 81 c.p.c.) e bisognevole di tutela (art. 100 c.p.c.), dichiara il ricorso inammissibile per carenza di “legittimazione”, sulla base di un autonomo accertamento di natura teorico-generale sulla “protezione” di quell’interesse da parte dell’ordinamento?
Certo si può sostenere – e lo si è argomentato, non senza ragione – che la risoluzione della questione della “legittimazione” del ricorrente debba rimanere interna al perimetro del giudice amministrativo e non possa dar luogo a una questione di giurisdizione[[45]].
Nondimeno, su quella “terza condizione” andrebbe svolto un accurato approfondimento. Che essa sia stata assunta dal Consiglio di Stato per finalità di tipo deflativo, o per dare risalto all’idea della giustizia amministrativa “risorsa scarsa”[[46]], è piuttosto evidente, per il fatto stesso che la ricerca del giudice amministrativo sulla ratio legis nelle norme poste a fondamento del ricorso, quando porta all’esito squalificante, si tramuta immediatamente in una pronuncia di rito attestante la sussistenza di una ragione ostativa ad una pronuncia sul merito (art. 35 c.p.a.).
Altrettanto percepibili sono tuttavia le conseguenze: la sproporzionata concentrazione delle energie processuali del giudice amministrativo nella soluzione di questioni di rito; l’uso della figura dell’interesse legittimo in chiave assolutoria per l’amministrazione, giacché per ogni ricorrente che non trova accesso al giudizio di merito, v’è un provvedimento illegittimo che rimane non giustiziato, cosicché a soffrirne è anche il principio di legalità dei poteri amministrativi.
Peggio ancora si dovrebbe dire di quelle “zone franche” ove maggiore dovrebbe essere il controllo giurisdizionale: mi riferisco di nuovo ai casi, e sono molti, in cui la legge non delinea per l’amministrazione uno statuto organizzativo definito, quindi non consente l’emergere di rapporti giuridici e situazioni soggettive di “titolarità” che risultino precisamente correlate al potere.
Non è quindi del tutto ingiustificato ritenere che il giudice amministrativo, quando rivendica una potestà di escursione teorico-generale finalizzata a capire se si è in presenza di un interesse legittimo o di un interesse di fatto, e quando declassa l’interesse (affermato dal ricorrente come legittimo) a interesse del quivis de populo, per mancanza di titolarità, non stia accertando la carenza d’una condizione dell’azione, ma rifiutando la propria giurisdizione[[47]].
Aggiungerei, per inciso, che la disponibilità delle Sezioni Unite a decidere questioni di legittimità dell’interesse come questioni di giurisdizione non è – a parte l’eventum litis – un sovvertimento di schemi consolidati, né corrisponde a una parentesi storica della giurisprudenza della Cassazione. Fatta la debita parte all’importanza della problematica attorno all’interesse diffuso, si ricorderanno, proprio nella stagione del caso Italia Nostra, gli indirizzi (là, favorevoli agli attori) delle Sezioni Unite sulla proponibilità della domanda volta alla tutela del diritto all’ambiente salubre e di altri diritti fondamentali della persona nei confronti della pubblica amministrazione (in un confronto serrato tra il diritto soggettivo e interessi sociali, appunto, non qualificati)[48].
Che si trattasse di “diritto soggettivo” e non di “interesse legittimo”, non cambia il dato fondamentale, cioè la competenza delle Sezioni Unite a riportare nell’alveo delle questioni di giurisdizione profili che attengono alla protezione dell’interesse da parte dell’ordinamento; e forse neppure si può escludere che, sotto le ordinarie questioni di riparto, si siano, più spesso di quanto si possa immaginare, dissimulate questioni di “qualificazione”.
Ciò che, piuttosto, si può prendere a riferimento, è il consolidato indirizzo delle Sezioni Unite per cui, nel sindacato sui imiti esterni della giurisdizione amministrativa, le condizioni dell’azione «sono cosa diversa dalla giurisdizione»; «anche la declaratoria d’inammissibilità della domanda postula l’affermazione implicita del potere giurisdizionale dell’organo che l’ha emessa (…) sicché non costituisce diniego di giurisdizione l’esclusione (…) della legittimazione ad agire»[[49]]. La contestazione della mancata decisione nel merito del ricorso per difetto di legittimazione o interesse ad agire resta insomma nell’ambito degli errores in iudicando, per la Cassazione.
Ma allora è bene chiarire: in iudicando, riferito alle condizioni dell’azione, è l’errore che cade sul profilo del richiedere tutela in nome proprio (legitimatio ad causam) o dell’interesse a ricorrere come conseguimento di un’utilità o di un vantaggio. Forse si può concedere che l’accertamento sul divieto di sostituzione processuale e sul bisogno di tutela dell’interesse debbano sottostare a un giudizio più rigoroso, ritagliato sulle esigenze del processo amministrativo (pressappoco come – anche se può sembrare un paragone azzardato – nel giudizio sulla validità delle leggi si configura il giudizio di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata dal giudice a quo, inclusa l’interpretazione che ha permesso alla Corte di aprirsi la strada nelle cosiddette “zone grigie” del sistema).
Comunque sia, la “terza condizione dell’azione”, come la concepisce il Consiglio di Stato, non sembra poter trovare cittadinanza nel sistema italiano di giustizia amministrativa.
Non si sta auspicando qui, beninteso, un meccanico aumento delle sentenze di merito, né una maggiore propensione – fine a sé stessa – a superare i filtri di ammissibilità, come se fosse sempre dovere del giurista predicare in favore di un “allargamento” del canale di accesso alla giustizia da parte del cittadino. Il punto deve restare fermo all’esistenza e all’applicazione delle regole sulle condizioni dell’azione nel processo amministrativo di annullamento.
Ma se intanto le Sezioni Unite incominciassero, a partire dal caso Randstad, a stabilire che, nel giudizio amministrativo, la ricerca del «titolo, o possibilità giuridica dell’azione» non va fatta discriminando tra chi è qualificato e chi è quivis de populo, ma accogliendo un concetto di ingiustizia della lesione ancorato al principio di atipicità degli interessi protetti dall’ordinamento, non vedremmo, a me pare, una “vittoria” della Cassazione[[50]]. Sarebbe un beneficio per il dualismo del sistema italiano di giustizia amministrativa, per l’interesse legittimo, e per lo Stato di diritto: il probabile punto d’inizio di una giurisprudenza del Consiglio di Stato che avrebbe, oltre ai tanti meriti già acquisiti, il pregio di risultare più coerente ai princìpi del nostro ordinamento processuale.
Può darsi poi che l’auspicato abbandono della teoria della titolarità e della qualificazione normativa dell’interesse legittimo richieda un proporzionale incremento di elasticità del giudizio amministrativo, tale da far emergere a posteriori un’esigenza “deflativa”. Qui il discorso dovrebbe risolversi in una disamina ancora diversa, che non può essere utilmente effettuata; ma neppure forse è giusto che lo sia. Sommessamente, verrebbe da osservare, la connessione (pur indubitabile) tra i congegni di deflazione del contenzioso amministrativo e le condizioni dell’azione di annullamento non va supportata oltremisura: a tal fine occorrono strumenti legislativi[[51]], non surrogabili da un’impropria “dogmatizzazione” dei requisiti di ammissibilità del ricorso giurisdizionale.
[1] Argomento che ha riscosso nell’ultimo decennio notevole attenzione, con tesi di differente impostazione (limitandosi ad alcune monografie, C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012; B. Giliberti, Contributo alla riflessione sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2020; M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, Rimini, 2017; S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2018; G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, 2016, I. Piazza, L’imparzialità amministrativa come diritto, Rimini, 2021; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, Napoli, 2021).
[2] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 139.
[3] R. Bin, È scoppiata la terza 'guerra tra le Corti'? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in federalismi.it, 18 novembre 2020; A. Carratta, Limiti esterni di giurisdizione e principio di effettività, in Id. (a cura di), Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, Roma, 2021, 47 ss.; F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022; M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in questa Rivista, 16 marzo 2022; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020; A. Travi, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020;
[4] G. Tropea, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; B. Nascimbene, P. IVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020
[5] G. Tropea, Il ricorso incidentale escludente: illusioni ottiche, in Dir. proc. amm., 2019, 1083 ss.; R. Villata, Ricorso incidentale escludente ed ordine di esame delle questioni. Un dibattito ancora vivo, in Dir. proc. amm., 2012, 1, 363; Id., La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo quale figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., 2018, 347
[6] F. Francario, Il pasticciaccio parte terza, cit., 8.
[7] R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022), in questa Rivista, 6 aprile 2022.
[8] Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, 4 giugno 2021, n. 3721.
[10] TAR Lazio, sez. IV, 25 marzo 2022, n. 3381; TAR Lazio, sez. III-ter, 13 settembre 2016, n. 9697.
[11] TAR Lazio, n. 9697 del 2016, cit.
[12] E. Boscolo, Gli interessi legittimi strumentali e la selettività della legittimazione, in Giur. it., 2016, 1216.
[13] Oltre all’insistenza del Consiglio di Stato sulla pregiudizialità dell’esame del ricorso incidentale escludente: quando quel conflitto con il destinatario del provvedimento impugnato non è più virtuale, ma reale.
[14] Cons. St. Ad. plen., 20 gennaio 2020, n. 6.
[15] Considerato cioè, dalla giurisprudenza amministrativa, come concretizzazione episodica di una legge morale che di norma non incontra il riconoscimento da parte del diritto. Le aperture del giudice amministrativo all’interesse morale ricordano da vicino il permesso di «querela» (quella che Kant chiama la «libertà di penna»), alla quale fa tuttavia da contrappunto la mancanza di una facoltà di disobbedire agli atti arbitrari dell’autorità. Si veda in proposito l’acuta osservazione di C. Mezzanotte, Il giudizio sulle leggi. Le ideologie del costituente, Milano, 1979, 2^ ed. Napoli, 2014, 60, secondo il quale, proprio da questa posizione di Kant, si desumerebbe che «già nelle grandi enunciazioni liberali siano presenti in embrione i fondamentali ingredienti di un sistema di giustizia amministrativa a giudice speciale: libetà individuale dei singoli, legalità dell’atto amministrativo, autoritarietà dell’atto illegittimo».
[16] M. Mazzamuto, op. cit., richiamando la tesi di E. Laferrière, Traité de la juridiction administrative et des recours contentieux, II, Paris, Berger-Levrault, 1888, 406. Anche senza negare lo spirito equitativo del Consiglio di Stato, e ferma naturalmente l’esattezza del rilievo di Mazzamuto, sembra doversi riconoscere che l’interesse “strumentale” pone, per ciò che qui si sta cercando di sottolineare, problemi più complessi dell’interesse morale. Quanto si sta per dire invece porta nella direzione opposta alla prospettiva di Mazzamuto, per cui «Uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa è l’ampiezza degli interessi ammessi alla tutela, rispetto all’elenco più ristretto di interessi giuridicamente rilevanti della tradizione privatistica».
[17] «Un’efficace iperbole per ricordare che, rispetto all’ambiente, per vantare un diritto soggettivo non basta esser persona fisica (…) ma occorre il particolare legame tra l’individuo e l’ambiente che si fonda sulla proprietà», così una nota (anonima, parrebbe) a Cass. civ., sez. I, 29 marzo 1996, n. 2959, in Foro. It., 1996, I, 2422.
[18] F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020.
[19] F. Francario, op. cit.
[20] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 139.
[21] M. Nigro, op. cit., 141
[22] G. Visintini, Atipicità dei fatti illeciti e danno ingiusto, in G. Conte, A. Fusaro, A. Somma, V. Zeno Zencovich (a cura di), Dialoghi con Guido Alpa,un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, Roma, 2018, 589 ss.
[23] Cass. civ., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 591. Sia consentito presumere noto e, limitandoci a questa citazione, omettere una più articolata serie di richiami, che pure sarebbe doverosa, al tema dell’atipicità dell’illecito civile.
[24] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021, 200.
[25] F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in Dir. pubbl., 2019, 511, ss.
[26] Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Foro. it., 1970, III, 201 ss. e commento di E. Guicciardi, La sentenza del chiunque, in Giur. it., 1970, III, 193; cfr. più di recente, in argomento, F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere, in LexItalia.it, n. 7-8.
[27] Casi, tra l’altro, nient’affatto marginali; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, Dir. proc. amm., 2014, 341 ss.
[28] S. Cognetti, Legge amministrazione giudice: Potere amministrativo fra storia e attualità, Torino, 2014, 76; in argomento anche A. Bartolini, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo. La nuova tutela del cd. interesse legittimo, Torino, 2005, 225.
[29] Altra questione è che legge abbia il potere di operare questa limitazione, prevedendola espressamente; ipotesi peraltro piuttosto rara (si veda ad esempio l’art. 8 comma 4 legge n. 241 del 1990).
[30] L. Ferrara, Giudizio di ottemperanza e processo di esecuzione, Milano, 2003.
[31] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1970, I, p. 27-29. Vero (ma non rilevante rispetto a quanto si vuole ora far notare) è che la confutazione crisafulliana della tesi della “bilateralità” ammette, in conclusione, che essa esprima «a suo modo, una giusta intuizione del fenomeno giuridico. (…) Ma dire questo equivale a dire, e a confermare, che il diritto è prodotto e condizione della vita associata, dalla più elementare alla più complessa e articolata; che l’esperienza giuridica è, essenzialmente, relazionale, intersoggettiva e dunque sociale».
[32] Per un’articolata speculazione concettuale, sviluppata da un punto di vista sostanzialmente riconducibile a questa impostazione, P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit.
[33] V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Id. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1914, 722-723.
[34] A.M. Sandulli, Per una più piena realizzazione dello Stato di diritto, in Stato sociale, 1960, I, 3 ss., anche in Scritti giuridici, V, Napoli, 1990, 277 ss.
[35] F. Volpe, Norme di azione e norme di relazione, Padova, 2004, 246; R. Villata, Legittimazione processuale – Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., Roma, 1990, vol. XXIV, 5; R. Ferrara, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto disc. pubbl., Torino, 1993, vol. VIII, 468 ss.
[36] La quale, sotto altro aspetto, è forse il risultato di una ipertrofia, se non di una vera e propria eterogenesi dei fini, della concezione soggettiva del processo amministrativo, se non altro in quella sua variabile estremizzata che culmina nel progetto di «liquidare ogni residua istanza oggettivistica dallo studio del processo amministrativo» (A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, 130).
[37] Che poi l’art. 103 Cost. consenta di riassumere nella figura dell’interesse legittimo una polarizzazione assimilabile a quella che contraddistingue la difesa di diritti assoluti nei confronti dell’autorità, è pure discutibile (L. Perfetti, I diritti sociali. Sui diritti fondamentali come esercizio della sovranità popolare, in Dir. pubbl., 2013, p. 61 ss.).
[38] G. Berti, L’interesse diffuso nel diritto amministrativo, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività, Atti del Convegno nazionale di Bologna, 5 dicembre 1981, Rimini, 1982, 18.
[39] Questi ultimi quattro capoversi (lo si segnala esclusivamente per obblighi di correttezza editoriale) sono tratti da M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, cit., 62-64.
[40] R. Guastini, Interpretare, costruire argomentare, in osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, 11 ss.
[41] R. Guastini, op. cit., 12.
[42] Usiamo liberamente l’espressione di E. Cannada Bartoli, Vanum disputare de potestate: riflessioni sul diritto amministrativo, recentemente citato da F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021, anche in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[43] In tema, F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
[44] Cons. St., Ad. plen. n. 3 del 2022, cit.
[45] M. Mazzamuto, Il dopo Randstad, cit.
[46] Per un caso emblematico della consapevolezza di questo criterio, v. l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria da parte di Cons. St., sez. IV, ord. 9 febbraio 2022, 945; cfr. Cons. St., Ad. Plen., 24 aprile 2015, n. 5.
[47] A. Travi, I motivi di giurisdizione nell’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598/2020, fra ruolo della Cassazione ed esigenze di riforma costituzionale dell’assetto delle giurisdizioni, in A. Carratta (a cura di), Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, cit., 171.
[48] Cass. civ., SS.UU., 9 marzo 1979, n. 1463, in Foro it., 1979, I, 939, con commenti di C.E. Gallo (ivi, in nota) e G. Berti, In una causa con l’Enel, la Cassazione mette in penombra lo Stato di diritto, ivi, 2909 ss.
[49] Cass. civ. SS.UU., 29 dicembre 2007, n. 31226.
[50] A sua volta, alle prese con questioni vere o presunte di scarsità della “risorsa giustizia” (P. Nappi, Riflessioni sul «rispetto della non illimitata risorsa giustizia» come principio processuale, in Il giusto processo civile, 2021, 659 ss.).
[51] M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in federalismi.it, 24 ottobre 2012.