La giustizia tra verità inventate e storie parziali
C’erano una volta un mugnaio, il re di prussia e un barone. Mulini contesi, giudici “disonesti” e sovrani “illuminati”.
Maurizio Bozzaotre
Sommario: 1. Prologo: storia vera di una frase inventata - 2. Atto primo: dove si racconta di un mulino “scomodo” che tante angosce recò al bellissimo palazzo “senza pensieri” - 3. Atto secondo: dove si racconta dell’indomito mugnaio che andò a infarinare giudici, cancellieri, principi e monarchi - 4. Atto terzo: dove si dimostra che la sovranità appartiene al sovrano e non al “nome” che altri ne fanno - 5. Appendice: dove mulini e verità si moltiplicano ma unico e assoluto (per quanto “illuminato”) rimane il sovrano - 6. Titoli di coda: sovranità popolare, stato costituzionale, potere giudiziario… per finir con un barone che ci dà una conclusione.
1. Prologo: storia vera di una frase inventata
Questo è il racconto di una frase e (forse) della storia che vi sta dietro. La frase, celeberrima quanto ormai incontrovertibile, è quasi certamente inventata. La storia, invece, è quasi certamente vera, ma questa “certezza” è ben lungi dall’essere inconfutabile.
È il racconto di un mugnaio e del suo re, che alla fine si concluderà con l’entrata in scena… di un barone. Una storia che sembra svolgersi in tempi e luoghi a noi lontanissimi, ma che in realtà ci parla molto da vicino.
La rappresentazione si svolge in tre atti e un epilogo. A chiudere, titoli di coda.
Si levi il sipario.
2. Atto primo: dove si racconta di un mulino “scomodo” che tante angosce recò al bellissimo palazzo “senza pensieri”
L’aneddoto, nei suoi tratti generali, è assai noto nelle terre di lingua tedesca e tra i cultori della scienza giuridica.
Si racconta che, dopo la costruzione della reggia di Sanssouci (dal francese sans souci, “senza preoccupazioni”) in quel di Potsdam, il re Federico II di Prussia (1712-1786), noto storicamente per il suo dispotismo “illuminato” (non per niente verrà chiamato Federico il Grande) ([1]) avesse ordinato la demolizione di un mulino che gli guastava la visuale (ma, secondo un’altra versione, il re sarebbe stato infastidito dal rumore delle pale); siccome però il gestore del mulino non era d’accordo, fra i due iniziò una controversia nel corso della quale il mugnaio avrebbe appunto “minacciato” il re con il celebre ammonimento: «Ci sarà pure un giudice a Berlino».
La frase, quasi certamente frutto di invenzione letteraria, viene erroneamente attribuita a Bertold Brecht a causa di uno «scherzo» del drammaturgo tedesco Peter Hacks (1928-2003), di dichiarate simpatie marxiste, che dichiarò di essersi ispirato all’autore di Vita di Galileo nello scrivere “Der Müller von Sanssouci: ein bürgerliches Lustspiel” (Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese) nel 1958. Dalla vicenda è stato tratto anche un film muto “Die Mühle von Sanssouci” del 1926, diretto da Siegfried Philippi e Frederic Zelnik.
Se, come si diceva, la frase del mugnaio è quasi certamente inventata, la storia, però, è vera: se ne trova traccia nelle cronache giurisprudenziali del Regno di Prussia, ed è raccontata in E. Broglio, Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande, 2 volumi, Civelli, Roma, 1879-1880. Si trattò di una vicenda che ebbe un lungo e complicato dispiegarsi. Anche dal punto di vista giuridico, visto che furono a vario titolo coinvolti ben 14 (!) gradi/istanze di “giudizio” dinanzi a varie autorità amministrative e giudiziarie. Una storia che merita di essere raccontata, anche per il suo finale a sorpresa...
In realtà, come vedremo, della storia che si sta per narrare esistono più varianti, solo parzialmente coincidenti.
3. Atto secondo: dove si racconta dell’indomito mugnaio che andò a infarinare giudici, cancellieri, principi e monarchi
Secondo una versione ([2]), alcuni anni dopo la vicenda della reggia di Sanssouci, il mugnaio Arnold venne a trovarsi in una situazione di ristrettezza economica, non essendo più in grado di pagare l’affitto che doveva al proprietario del mulino, conte di Schmettau. Fu pertanto citato in giudizio. Arnold tentò di difendersi sostenendo il mulino non poteva più lavorare per colpa del proprietario del fondo a monte, barone von Gersdorf, accusato di aver deviato il corso d’acqua che consentiva il funzionamento del mulino per costruire una peschiera.
Ma il giudice feudale Schlecker dichiarò che il tribunale non poteva farci nulla: se non pagava l’affitto del mulino era giusto che fosse sfrattato e condannato a pagare il dovuto. Non essendo in grado di farlo, il mugnaio fu costretto a vendere all’asta l’attività e a cedere il mulino. Siamo nell’anno 1778.
Il mulino fu acquistato da un esattore di nome Kuppisch, che lo rivendette a sua volta a quello stesso barone Gersdorf che era stato la causa della rovina economica del mulino di Arnold. Contro la sentenza del giudice Schlecker venne proposto appello dinanzi alla Corte governativa (Regierung) di Custrin, ma la sentenza di primo grado fu confermata.
A questo punto entrò in gioco la moglie di Arnold, Rosina, che rivolse al re Federico di Prussia una petizione per ottenere la nomina di una Commissione che riesaminasse il caso. Era il 1° maggio 1779. Appena tre giorni dopo, il 4 maggio, Federico II inoltrò l’istanza al Ministero della Giustizia per una revisione del caso, ma gli uffici del Ministero non trovarono nulla da obiettare sulla correttezza delle decisioni giudiziarie.
Non doma, Rosina ricorse al Cancelliere von Furst, il quale però respinse le sue doglianze. I coniugi si rivolsero allora al Principe Leopoldo di Brunswick, cognato di Rosina, affinché intercedesse presso il Cancelliere perché questi rivedesse la sua decisione. Tutto inutile, von Furst respinge nuovamente.
Arnold e Rosina decidono quindi di interpellare direttamente il re Federico con una petizione presentata tramite la madre del Principe Leopoldo, sorella del monarca, ove si chiedeva l’istituzione di una Commissione mista (militare e civile) che riesaminasse il caso. Il re accoglie la richiesta e fa pervenire al Regierung di Custrin, un ordine in tale senso.
Nella Commissione così istituita vengono nominati il giudice Neumann ed il colonnello Heucking. Si registra subito una spaccatura: mentre il militare si convince che gli Arnold abbiano ragione, il Consigliere Neumann riferisce alla Corte di Custrin che non v’è ragione di cambiare le sentenze emesse. Il colonnello Heucking, invece, fa direttamente rapporto al re in senso opposto. Federico II inoltra quest’ultimo atto in via informale al Tribunale Supremo di Berlino (Kammergericht), ordinando contemporaneamente che la Corte di Custrin si pronunci nuovamente sul caso, ritenendo insoddisfacente la relazione del Consigliere Neumann. Viene allora nominata un’altra Commissione, ma anche quest’ultima conclude che nei precedenti giudizi tutto sia stato fatto correttamente.
Ma Rosina non si arrende e inoltra un’ennesima petizione al re; quest’ultimo la rimanda alla Corte di Custrin, che però - con il solo voto contrario del Consigliere Scheibler - replica di non poter riformare la sua precedente sentenza, a meno che non vi sia il pronunciamento di un giudice di grado superiore. Federico II investe allora formalmente il Kammergericht di Berlino di decidere sul caso. Siamo nel novembre del 1779. Avendo il sovrano richiesto sollecitudine nella risposta, viene immediatamente nominato - il 7 dicembre - relatore il Consigliere Rannsleben acché riferisca al Collegio «quam primum». L’8 dicembre il Kammergericht, ritenendo giusta la pronuncia della Corte di Custrin, la conferma «in nome del Re».
4. Atto terzo: dove si dimostra che la sovranità appartiene al sovrano e non al “nome” che altri ne fanno
A questo punto, il re Federico comincia ad averne abbastanza. Il 10 dicembre vengono convocati a corte d’urgenza il Cancelliere von Furst e i tre Consiglieri che avevano emesso l’ultima sentenza. Il re si rivolge a loro in termini molto duri, come risulta da verbale redatto e pubblicato, per suo ordine, il 14 dicembre 1779. Innanzi tutto, Federico provvede a sostituire il Cancelliere von Furst. Ma non si ferma a questo. Fa rinchiudere i Consiglieri del Kammergericht e della Corte di Custrin e dà incarico al Ministro della Giustizia von Zedlitz di farli condannare ad almeno un anno di fortezza nonché a risarcire agli Arnold del danno subito.
Ma il Ministro von Zedlitz si rifiuta di condannare i giudici dichiarando, in coscienza, di non poter dare esecuzione alla volontà del re ([3]). Quest’ultimo, definitivamente spazientito, si vede costretto a… pronunciare la condanna da solo. È il 1° gennaio 1780. Vengono tutti - compreso il Ministro! - destituiti e condannati a un anno di carcere nella fortezza di Spandau, nonché al risarcimento del danno agli Arnold (per «1.358 talleri, 11 groschen e 1 pfennig», precisano le cronache). Scampano alla condanna soltanto il Consigliere Scheibler della Corte di Custrin (l’unico ad avere votato a favore di Arnold) e il Consigliere Rannsleben del Kammergericht (come “premio” per avere istruito la causa in due giorni e in modo imparziale). Ovviamente, il mulino viene sottratto al barone von Gersdorf e restituito in integrum all’Arnold. (Con tante scuse, è lecito a questo punto supporre.)
Di notevole interesse sono le motivazioni della decisione del re, riportate nel citato verbale del 14 dicembre 1779. Dopo aver gentilmente concesso in premessa che «…un mendicante è anch’egli un essere umano come il Re, tutti eguali dinanzi alla legge e alla giustizia…», il sovrano, a causa della «manifesta ingiustizia della pronuncia» - per di più resa abusando del suo nome -, assume i provvedimenti che abbiamo visto (destituzione e incarcerazione dei giudici) in forza della considerazione che «un tribunale ingiusto è più pernicioso d’una banda di ladri, [perché] contro questi potete difendervi, non così contro quello».
Sipario? Non ancora.
5. Appendice: dove mulini e verità si moltiplicano ma unico e assoluto (per quanto “illuminato”) rimane il sovrano
Non ci è dato di sapere con certezza se il sovrano abbia agito in buona fede e fosse realmente convinto delle ragioni del mugnaio ([4]). Saremmo dunque in presenza di una giustizia sostanziale che in (lieto) fine prevale sulla iniqua “verità” processuale? Secondo lo storico Alessandro Barbero, non sarebbe andata così: «L’aspetto affascinante dell’intera faccenda è che, dopo la morte di Federico, si scoprì che il mugnaio era davvero un imbroglione e non c’era mai stata perdita d’acqua» ([5]). Ma in realtà, per l’illustre medievista piemontese, l’intera vicenda appena narrata sarebbe solo parzialmente coincidente con la verità storica (disgiunta o meno che sia dalla verità processuale), distanziandosene per un aspetto nient’affatto secondario: la tortuosa vicissitudine del mugnaio Arnold in realtà nulla avrebbe a che fare con la storia del mulino che il re avrebbe voluto espropriare senza riuscirvi. Una storia, quest’ultima, di totale invenzione ([6]).
C’erano quindi una volta… due storie, con due mugnai e due mulini. La prima storia, quella del povero (?) Arnold sfrattato dal suo mulino, è quella vera (almeno secondo quanto emerge dalle fonti dell’epoca); la seconda, quella dello sconosciuto mugnaio che avrebbe minacciato Federico il Grande con il celebre ammonimento «Esiste un giudice a Berlino!», per quanto universalmente nota, sarebbe invece nient’altro che una leggenda. Una leggenda che, ripetuta infinite volte, si è fatta verità, tanto da mescolarsi nei racconti con la storia vissuta (che però appartiene ad altro mugnaio ed altro mulino). Quasi a conferma del famoso motto in base al quale una menzogna ripetuta innumerevoli volte cessa di essere tale per divenire incontrovertibilmente vera - motto di reputata origine teutonica anch’esso, guarda caso, e però tanto (tristemente) noto quanto (ugualmente) incerto nella sua attribuzione ([7]).
E però, a ben vedere, un elemento comune alle due vicende indiscutibilmente esiste, ed è… il re di Prussia. Anzi, da entrambe emerge un tratto tutto sommato costante nell’atteggiamento del sovrano: “illuminato” sì, ma parecchio a modo suo.
Per la verità, secondo il biografo, come altri regnanti del suo tempo, Federico di Prussia fu certamente favorevole ad introdurre riforme che fossero in linea con il nuovo spirito del tempo: l’illuminismo. Ad esempio, nel campo della giustizia, nel tentativo di eliminare particolarismi e privilegi, egli cercò di far approvare un nuovo codice unificato per tutto il regno di Prussia. Ma a volte accade che anche le migliori intenzioni vadano a cozzare contro le asperità caratteriali, come imbarcazioni contro le scogliere. Scrive Barbero: «La sua tendenza era di andare a mettere il naso nei processi e controllare quello che facevano i giudici. Anche in questo campo voleva sapere tutto, esaminava personalmente un’infinità di appelli e di suppliche, esattamente come un re medievale. Di solito partiva dal presupposto che tutti i giudici fossero corrotti e che bisognava proteggere i sudditi contro i giudici» ([8]). Come per l’appunto dimostra la storia di Arnold e del suo mulino (quella vera).
6. Titoli di coda: sovranità popolare, stato costituzionale, potere giudiziario… per finir con un barone che ci dà una conclusione
Giunti ai titoli finali del nostro racconto, quale morale (fra le tante) si può trarre da tutto ciò? Una morale, s’intende, che possa rivestire un qualche interesse per il giurista che si trova ad operare in un mondo (giuridico e non) assai diverso da quello di Federico e del suo mugnaio, un mondo che di lì a pochi anni transiterà fragorosamente dai fremiti dei Lumi ai sussulti della Rivoluzione. Possiamo senz’altro lasciare ai cultori delle discipline storiografiche il compito di approfondire l’investigazione in ordine all’autenticità delle vicende narrate; e possiamo altresì cedere agli studiosi dei fenomeni umani di fornirci le necessarie coordinate archeologiche di quel dispositivo socio-culturale in base al quale da una celeberrima “fake-sentence” si vengano, paradossalmente, a ricavare insegnamenti di profonda verità sulle cose della umana giustizia ([9]).
Noi, come giuristi, viviamo tutti i giorni quella tensione impareggiabile tra la verità delle vicende umane e quella frutto delle vicende processuali, tra la giustizia anelata e quella solennemente dichiarata «in nome del popolo italiano»; al tempo stesso, come cittadini, abbiamo (o dovremmo avere) la consapevolezza di vivere in un Paese dove per fortuna (ma non certo per caso) la sovranità non appartiene ad un monarca più o meno “illuminato”, ma a quel popolo nel cui nome si pronunciano le sentenze nei tribunali.
Ecco che allora quella lontana e (ai nostri occhi) bizzarra vicenda ci dice molto di quel che noi oggi siamo. E, soprattutto, di quel che abbiamo scelto di non voler più essere.
Noi abbiamo scelto di darci uno Stato costituzionale, dove il diritto è prodotto dal legislatore e applicato dai giudici, ma entrambi sono a loro volta soggetti alle norme della Costituzione, la forma più alta ed efficace di garanzia per tutti. Dove diritti umani e libertà fondamentali non sono più considerati (soltanto) valori morali o politici, e men che meno gentili concessioni “ottriate” da un sovrano benevolo, ma diventano veri e propri limiti giuridici al potere, assurgendo a “diritti” nel senso vero e pieno del termine. Uno Stato che limita se stesso ed il proprio potere attribuendo ai cittadini (ma anche ai non cittadini) una sfera di intangibilità ed un fascio di facoltà, la cui compressione può essere “autorizzata” soltanto a certe condizioni e comunque “coperta” da una serie di garanzie. Ma noi ci siamo dati uno Stato che decide anche di perseguire attivamente e programmaticamente una serie di fini collettivi meritevoli di tutela perché ritenuti validi universamente: libertà, eguaglianza, pace, salute, lavoro, istruzione, ecc. ([10]).
Noi abbiamo scelto di darci un sistema giuridico che abbia tra i suoi pilastri fondamentali quello dell’autonomia e indipendenza dei giudici da ogni altro potere. Un sistema nel quale la legittimità degli atti normativi o amministrativi può essere sottoposta, da parte di chi si senta leso nei suoi diritti, al sindacato di un giudice (a seconda dei casi: costituzionale, ordinario, amministrativo, ecc.), il quale ha il potere (secondo i casi) di annullare o disapplicare quegli atti se dovesse riscontrare una violazione delle leggi o della Costituzione. Un sistema nel quale lo stesso potere giudiziario non è assoluto ma si esercita secondo i principi del contraddittorio e del “giusto processo”. Dove i diritti di difesa ed il rispetto delle procedure svolgono una fondamentale funzione di controllo del potere dei giudici; un controllo che riteniamo necessario contro il rischio sempre possibile di abusi… senza che per questo si debbano per forza condividere le pessime opinioni di Federico di Prussia nei confronti degli appartenenti all’ordine giudiziario!
Noi abbiamo scelto di darci uno Stato dove non c’è (più) un sovrano, più o meno “illuminato”, cui appellarci con petizioni e suppliche contro iniquità o ingiustizie, vere o presunte. E se pensiamo di aver subìto un torto noi ci rivolgiamo ad un giudice che applicherà le regole della legge e i principi della Costituzione. Non nel nome di un re, ma di quel sovrano chiamato “popolo”.
In fondo, per concludere con un’ultima suggestione letteraria, abbiano voluto fare di noi stessi quel che era solito fare un altro grande personaggio di lingua tedesca, il celebre Barone di Münchhausen: quello che, in barba alle leggi del mondo fisico, riusciva a tirarsi fuori dai guai da solo… prendendosi per il proprio codino ([11]). Un altro personaggio - l’ennesimo di questa storia - dove realtà e fantasia si avviluppano in modo inestricabile ([12]). Forse è proprio questa la morale di tutto il nostro racconto: la condizione umana come intreccio insolubile di verità parzialmente tali e finzioni universalmente evocative. Nel mezzo, come sempre, la giustizia.
([1]) Una biografia che ha il pregio di essere recente e assolutamente godibile è quella di A. Barbero, Federico il Grande, Sellerio, Palermo, 2007.
([2]) La si trova in L.A. Mazzarolli e D. Girotto, Elementi di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 2 ss.
([3]) Di Karl Abraham von Zedlitz (1731-1793), genuino spirito illuminista, vale senz’altro ricordare un dettaglio biografico tutt’altro che trascurabile: a lui furono dedicate da Immanuel Kant entrambe le edizioni della Critica della ragione pura, pubblicate nel 1781 e nel 1787.
([4]) Sembra ad esempio ritenerlo U. Eco, Il Cavaliere, il mugnaio, l’Italia, L’Espresso, 12 agosto 2013, che però riporta assai sommariamente i termini della vicenda.
([5]) A. Barbero, Federico il Grande, cit., p. 120.
([6]) Conviene senz’altro dare la parola direttamente a Barbero, op. cit.: «Però c’è anche un altro caso famoso, anzi leggendario, che riguarda un mugnaio, un altro mugnaio, e che ha ancora a che fare con Federico e con i giudici. La leggenda racconta che il re stava facendo costruire il suo palazzo vicino a Potsdam e aveva bisogno di espropriare un mulino, ma il mugnaio non voleva vendere e sosteneva che il re non aveva il diritto di espropriarlo. Federico cercò di cacciarlo con la forza e il mugnaio rispose a muso duro: “Io farò causa. Ci sono ancora dei giudici a Berlino”. Ecco, questo aneddoto - che è probabilmente falso, diciamolo - è interessante perché in realtà solo a prima vista il re ci fa una brutta figura. In realtà il messaggio che trasmette è che sotto il regno di Federico la giustizia era talmente rispettata che i giudici avrebbero difeso anche un povero diavolo contro il re. Noi prima abbiamo raccontato la storia del mugnaio Arnold, che al contrario di questa è vera, è documentata; e di qui si vede che le cose erano un po’ più complicate di così» (pp. 120-21, corsivi miei).
([7]) La frase, come si sa, viene attribuita a Joseph Goebbels, ma di tale paternità non v’è in realtà alcuna certezza documentale.
([8]) A. Barbero, op. cit., p. 119.
([9]) Sul triste fenomeno (nient’affatto contemporaneo nella sua natura, ma mai dirompente come oggi nei suoi effetti reali e potenziali) conosciuto come “fake news” c’è solo l’imbarazzo della scelta. Tra i tanti, si vedano almeno: M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna, 2017; A.M. Lorusso, Postverità, Laterza, Roma-Bari, 2018; W. Quattrociocchi e A. Vicini, Liberi di crederci. Informazione, internet e post-verità, Codice, Milano, 2018; M. Adinolfi, Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia, Astrolabio, Salerno, 2019.
([10]) Si veda G. Zagrebelsky, Diritto allo specchio, Einaudi, Torino, 2018, spec. cap. VIII, par. 12.
([11]) «Un’altra volta - così inizia una delle sue avventure più note - affrontai una palude che a prima vista non mi era parsa tanto larga come quando fui a metà del salto. Perciò, librandomi in aria, invertii la direzione verso il punto da cui ero venuto, per prendere una rincorsa più lunga. Ciononostante anche il secondo salto fu troppo breve e caddi dentro fino al collo nel fango, a poca distanza dall’altra riva. Senza fallo vi sarei dovuto morire, se la forza del mio braccio, afferrandomi per il codino, non mi avesse estratto dalla melma assieme al cavallo, che stringevo forte tra le ginocchia». Il famoso codino diviene a sua volta soggetto da cui trarre raffinate riflessioni sugli aspetti psicoanalitici dell’autoreferenza in P. Watzlawick, Il codino del Barone di Münchhausen. Ovvero: psicoterapia e “realtà”, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1989.
([12]) È noto, infatti, come lo scrittore Rudolf Erich Raspe (1736-1794) abbia tratto ispirazione ad un personaggio realmente esistito, il barone Karl Hyeronimus von Münchhausen (1720-1797). Nobile appartenente a una famiglia terriera del Brunswick, questi si era arruolato nelle file dell’esercito russo per combattere contro i turchi, per poi ritirarsi a tranquilla vita di campagna nei propri possedimenti. Pare che costui amasse conversare la sera con gli amici delle sue imprese passate e delle gesta compiute, esagerandole alquanto. Si diede il caso che tra gli avventori della locanda frequentata abitualmente da Münchhausen vi fosse anche Raspe, il quale, divertito dalle spacconerie del barone, ne propose prima la pubblicazione in una rivista tedesca, e poi la loro riunione in un volume. Le storie furono pubblicate in volume per la prima volta nel 1785 con il titolo Viaggi meravigliosi e campagne di Russia del Barone di Münchhausen narrati da lui stesso, riscuotendo un successo inaspettato. Da quel momento le Avventure furono tradotte e ritradotte in varie lingue, ampliate e aggiornate anche da altri, assumendo così l’opera il carattere paradossale che l’ha resa famosa tra i lettori di tutto il mondo. Da notare che il Raspe, forse per pudore, non rivendicò mai la paternità originaria dell’opera, nonostante la sua fama crescente. Traggo queste notizie da R.E. Raspe, Il Barone di Münchhausen, Peruzzo, Milano, 1986.