Il giudice Politico
Riflessioni a margine della decisione della Consulta sul caso Cappato
di Andrea Apollonio
Non è un caso che a propugnare le ragioni di Marco Cappato davanti alla Corte Costituzionale vi fosse Vittorio Manes, uno degli studiosi italiani più attenti alla law in action, al dover essere della legge nella sua cornice nazionale e internazionale, che appena qualche mese fa pubblicava (assieme a Valerio Napoleoni) "La legge penale illegittima", un contributo sul controllo di costituzionalità delle leggi innovativo, perché spinge lo sguardo sopratutto fuori i confini nazionali. Non è un caso, quindi, che a difendere Cappato sia stato l'autore de "Il giudice nel labirinto", che qualche anno or sono ha insinuato nella comunità scientifica profondi e necessari interrogativi: il primo tra tutti: come si deve porre il giudice (oggi al centro di un "labirinto" fatto di Carte e di Corti) di fronte alla legge, spesso retaggio storico, talvolta anacronistica?
La risposta che oggi più di ieri ci sentiamo di associare a questa domanda cruciale è: si deve porre in modo "politico", in una duplice accezione.
Nel senso di polis, di comunità - e questo vale per il giudice ordinario. Il giudice deve essere consapevole di stare dentro, e al centro di una comunità scientifica e - diremmo anche - giurisprudenziale che utilizza parametri di legittimità sostanziale, principi diversi da quelli con i quali abbiamo ragionato fino a ieri l'altro. Dietro la legge c'è la Costituzione, da qui poi l'ulteriore rinvio - sul piano interpretativo dei precetti - alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo ed ai Trattati dell'UE. Forse che la Corte d'Assise di Milano non ha seguito questo percorso oggi obbligato? L'ha seguito, nella misura in cui chiedeva al Giudice delle Leggi di verificare la costituzionalità del reato di aiuto al suicidio alla luce degli artt. 3, 13 e 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU, i quali sanciscono il diritto alla vita (e, a contrario, anche quello alla morte, a certe condizioni) e quello a "resistere" di fronte alle arbitrarie ingerenze delle pubbliche autorità. A Strasburgo, infatti, da tempo è stato acclarato il "diritto di un individuo di decidere il mezzo ed il momento in cui la sua vita debba finire" sempre che il soggetto sia in grado di assumere una decisione libera e pienamente consapevole (vd. Haas c. Svizzera, sentenza del 20.11.2011); mentre, paradossalmente, la nostra Carta Costituzionale - si sa, bella e imperfetta - non contempla neppure il diritto alla vita, impedendo così in radice lo sviluppo di una giurisprudenza costituzionale sul diritto a morire - sempre, meglio ribadire, a certe condizioni.
Ma questa vicenda (mediatica prima, giudiziaria dopo, costituzionale in ultimo) ha confermato che il giudice è politico, è costretto ad esserlo, anche in altro senso: perché in grado di fare delle scelte originariamente ed istituzionalmente appannaggio di organi rappresentativi (leggi: il Parlamento) - e questo vale per la Consulta.
In questo senso, la categoria del Politico, per dirla con le parole di Carl Schmitt, coincide con la categoria del Giudice, tutte le volte in cui la politica, pur chiamata in causa, si interessa d'altro. Perché la vera novità del modus decidendi dei giudici costituzionali sta nell'avere assegnato, circa un anno fa, un termine al Parlamento per superare l'empasse della norma penale illegittima; per la prima volta nella sua storia, attesa la rilevanza della questione (sociale, prima ancora che giuridica), aveva rinviato la decisione al fine dichiarato di rimettere alla politica il compito di intervenire sulla questione del fine-vita, in particolare nelle sue declinazioni penalistiche. Com'è giusto che sia. Nulla è stato fatto, il tema non è neppure entrato nelle agende dei partiti: così, la Corte ha deciso di decidere.
Ha deciso con una sentenza addittiva di regola degna - sotto il profilo tecnico-compilativo - del migliore e più illuminato legislatore, riuscendo a racchiudere in poche parole un canone di civiltà (giuridica, prima ancora che sociale) senza il quale, tanto per intenderci, Marco Cappato avrebbe rischiato fino a dodici anni di reclusione.
D'altronde, la Corte ci ha abituato ad interventi sullo jus scriptum che sono anche interventi - diciamolo chiaramente - su pubblici pregiudizi, che ci trasciniamo dietro da sempre. Proprio su questa Rivista appariva tempo addietro il commento ad una sentenza della Corte che, finalmente, bonificava una materia (quella delle misure di prevenzione) profondamente illiberale, priva di effettive garanzie per i suoi destinatari, riuscendoci grazie ai principi elaborati a Strasburgo. Quella delle misure di prevenzione era una materia che discendeva direttamente dal regime fascista; e non è, l'art. 580 del codice penale, un reato del quale il Guardasigilli scriveva, nei lavori preparatori del codice: "Era universalmente conclamata la necessità di perseguire, col massimo rigore, tutte le cause di un doloroso fenomeno, il quale ebbe, nell'immediato dopo-guerra, un impressionante sviluppo"? Il dopo-guerra a cui Alfredo Rocco si stava riferendo era quello successivo alla Prima Guerra mondiale, correva l'anno 1930; ed è in forza di questo reato che, nel 2019, Marco Cappato si trova imputato innanzi alla Corte d'Assise di Milano. Se questi sono gli strumenti regolativi del vivere comune di cui disponiamo, e di cui i giudici dispongono per decidere i casi concreti, allora è bene - è necessario - che questi si atteggino, nel doppio senso che abbiamo poc'anzi esplicitato, a giudici politici. Non è l'invasione di un potere nel campo di un altro: è, piuttosto, la certificazione dell'attuale, incapacità della politica parlamentare e governativa ad affrontare razionalmente, laicamente, senza i consueti strepiti di retorica, le questioni che la società fa emergere in una forma sempre più complessa. Chiamatela pure, se volete, supplenza giudiziaria, ma dalla tensione specific