ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contrasto delle cessioni dei crediti bancari deteriorati con la normativa antiriciclaggio
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori l’ordinanza con la quale il 22 ottobre 2024 il Tribunale di Brindisi ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione della omessa iscrizione nell'albo ex art. 106 Tub, tenuto dalla Banca d'Italia, delle plurime società – anche costituite all'estero e in contesti extra Ue – che proliferano con finalità di acquisire e gestire i crediti deteriorati. Società che, in difetto di iscrizione, si sottraggono agli obblighi di adozione dei presidi antiriclaggio e alle prescrizioni imposte dalla B.d.I, in sede di vigilanza ispettiva.
Si affronta il problema sotto il profilo della compatibilità con la normativa unionale di tale circolazione massiva del credito che reca in sé il chiaro rischio di alimentare il fenomeno del riciclaggio; prefigurando, in chiave innovativa per il panorama intepretativo, la categoria del "contratto anticomunitario".
Sintesi della questione e quesiti posti al vaglio della Corte di Giustizia
A) Il limite della normativa antiriciclaggio
Alla luce dell’articolata normativa di fonte euronitaria, evolutasi nel tempo per fronteggiare anche le nuove insidie poste dal fenomeno del riciclaggio, è evidente la volontà dell’ordinamento comunitario di imporre agli Stati ogni misura che si renda necessaria e, al contempo, proporzionata al fine di contrastare sia tale modalità di operare della criminalità organizzata.
Ciò sia con prescrizioni di scopo, contenute nelle direttive, invero, in parte dotate di immediata operatività per il loro carattere chiaro e incondizionato; sia con norme puntuali e immediatamente operative, quali sono, di norma, quelle regolamentari.
Anche per quanto concerne le direttive in materia, è evidente che gli Stati membri, per quanto dotati di una certa discrezionalità nella scelta dei mezzi, non possano prescindere, nella loro azione politica, dal raggiungimento delle finalità imperative, prescritte dalla disciplina comunitaria.
Peraltro, la prospettiva di una violazione (rectius di una elusione) della disciplina unionale appare aggravato dall’assenza, in materia di cessioni in blocco, della previsione, da parte dell’ordinamento interno, di un obbligo di forma scritta, anche solo ad probationem (nelle forme della scrittura provata autenticata), né tanto meno del ricorso al rogito notarile, tal ultimo, presidiato dalle garanzie che contornano l’atto pubblico, in particolare, sotto il profilo dei controlli antiriciclaggio.
Dunque, il quadro regolatorio è fitto e si va arricchendo di regole sempre più rigide che cercano di assecondare il passo di un’incessante evoluzione delle forme giuridiche e delle tecniche elaborate per eludere la normativa antiriciclaggio.
Accettando tali premesse, la normativa italiana sarebbe disapplicabile se interpretata in senso anticomunitario, ovvero se intesa come inidonea ad assicurare un effettivo e sostanziale contrasto del fenomeno del riciclaggio nell’ipotesi della cessione fra soggetti non iscritti nell’albo vigilato dalla Banca d’Italia.
Dunque, devono ritenersi in contrasto con l’ordinamento eurounitario non solo l’esegesi delle norme nazionali che pervenga a ritenere che alla cessione in blocco siano legittimate anche le società prive di iscrizione nell’albo ex art. 108 tub, così come dei requisiti legittimanti alla stessa, ma anche lo stesso contratto di cessione in blocco fra soggetti non iscritti.
Contrasto da ritenersi, più esattamente, non diretto, ma mediato, data la finalità dell’operazione economica, sostanzialmente e oggettivamente elusiva.
Dunque, l’articolato e crescente apparato rimediale in materia di contrasto del riciclaggio, specie di provenienza sovranazionale, pone anche il problema della sorte del contratto di cessione di grandi quantità di crediti a fronte di corrispettivi di particolare entità, specie, quando intervenga fra due soggetti entrambi non iscritti nell’albo ex art. 106 tub e, dunque, non qualificati, né vigilati, né conformati nel proprio assetto organizzativo.
Nel caso di specie, si tratta, dunque, di chiarire quali conseguenze giuridiche discendano in relazione alle cessioni in blocco dal predetto quadro regolatorio, ogniqualvolta le stesse, per effetto dei soggetti partecipanti ai negozi traslativi, violino o, meglio, eludano le predette norme antiriclaggio.
A sommesso avviso del giudice remittente, il principio di effettività del diritto comunitario dovrebbe imporre la più radicale delle sanzioni, ovvero la nullità o, comunque, la neutralizzazione degli effetti del contratto, mediante l’istituto della disapplicazione degli effetti prodotti dallo stesso.
Diversamente, l’effetto utile del diritto unionale, che si estrinseca in materia anche tramite regolamenti e principi generali (come quello di trasparenza), sarebbe totalmente frustrato.
D’altronde, è noto come, nella logica del sistema di tutela delle posizioni di rilevanza comunitaria, acquisti valenza primaria la tutela in forma specifica, ovvero idonea ad assicurare il conseguimento del bene della vita agognato o di un’utilità, succedanea.
Per contro, il ristoro per equivalente costituisce forma di tutela del tutto residuale e ammissibile solo quando la prima non sia garantibile.
Come già evidenziato, l’esegesi – che fa discendere dalla violazione dell’obbligo di iscrizione e della connessa vigilanza conseguenze sul solo piano amministrativo – è inidonea ad assicurare il principio di effettività della tutela in una materia di sicuro rilievo sovranazionale e comunitario, anche in considerazione dei noti fenomeni di globalizzazione.
D’altronde, ritenere che un così articolato apparato normativo, fondato su una pluralità di livelli di intervento, in costante evoluzione, possa essere aggirato da una mera operazione economica volta alla traslazione dei crediti deteriorati fra soggetti non qualificati e non vigilati, rappresenterebbe una evidente e macroscopica contraddizione in termini.
A sommesso avviso del giudice remittente, l’interesse tutelato deve, invece, individuarsi, nell’arco della plurioggettività della fattispecie, proprio nell’esigenza, di indubbio rilievo comunitario, di contrastare il riciclaggio del denaro di provenienza illecita, oltre che nelle già evidenziate ragioni di garanzia della stabilità dei mercati finanziari.
Come noto, infatti, gli intermediari, iscritti nell’albo ex art. 106 Tub, sono soggetti alla predisposizione di una serie di misure, tra cui l’adozione di sistemi di vigilanza interna, preordinati a impedire che le attività, da essi poste in essere, possano essere piegate a fini di riciclaggio.
Deve, invece, ritenersi che i superiori obblighi comunitari possano essere soddisfatti solo dalla «neutralizzazione» degli effetti delle transazioni economiche cui sia sotteso il rischio di riciclaggio; rischio che può essere oggettivamente contenuto solo se si riserva la negoziazione in blocco dei crediti ai soggetti iscritti e se si presidia, con la sanzione della nullità, gli atti in contrasto con i predetti obblighi.
B) Il limite della normativa consumeristica, nonché dei principi di effettività della tutela, di buona fede oggettiva con i suoi corollari in punto di obblighi informativi.
Altrettanto evidente è la volontà del legislatore comunitario di apprestare un’adeguata tutela in favore del consumatore, quale soggetto debole sotto il profilo della sua forza contrattuale e del suo bagaglio informativo e, come tale, bisognevole, di una particolare protezione.
Tale tutela non può attuarsi senza la neutralizzazione di ogni forma di opacità dei meccanismi negoziali in danno della figura del consumatore, così come degli stessi fenomeni di circolazione del credito che avvengano con modalità non trasparenti.
Ciò, può avvenire mediante l’apprestamento di adeguati obblighi informativi, in capo agli attori delle descritte vicende circolatorie, trovanti fondamento nei generali principi di buona fede e di effettività della tutela.
Peraltro, poiché i cessionari, nel contesto previgente al recepimento della direttiva 2167 del 2021, non soggiacevano all’obbligo d’iscrizione in alcun elenco, tenuto dall’autorità di vigilanza di settore, e al correlato monitoraggio, gli stessi non erano sanzionabili e, dunque, doveva ritenersi violato il principio di una tutela effettiva, in via sanzionatoria, degli interessi di rilievo anche comunitario.
Per quanto concerne la normativa interna di fonte secondaria, deve ritenersi un evidente vulnus rispetto ai superiori dettami comunitari nella parte in cui sottrae alla nozione di attività di finanziaria, seppur alle richiamate condizioni, la fattispecie della cessione in blocco.
Dunque, il dubbio di conformità all’ordinamento euronitario non è limitato alla singola norma ma si estende all’intero microsistema normativo delle cessioni in blocco dei crediti deteriorati, il quale, allo stato, può divenire agevole strumento di concretizzazione della finalità della criminalità organizzata di celare la provenienza del denaro investito.
A sommesso giudizio di questo remittente, è la combinazione della disefficienza delle singole scelte di disciplina nazionali che ineriscono a profili diversi (cessione dei crediti, inesistenza dell’obbligo d’iscrizione ecc.) ma correlati allo stesso fenomeno, a ingenerare il predetto contrasto, concorrendo a delineare un quadro di anticomunitarietà per così dire «sistemica», in quanto affliggente non tanto le singole norme, ma il micro-sistema nel suo complesso.
Sembra, dunque, prefigurabile un vizio di legittimità c.d. di sistema, specie, per quanto concerne il periodo anteriore all’approvazione del decreto attuativo della dir. 2167 del 2021.
E ciò rende, a sommesso avviso di questo remittente, ancora più stringente la necessità di un intervento nomofilattico del giudice sovranazionale.
L’approccio sistemico appare utile anche sotto altro e diverso profilo, essendo evidente che l’anticomunitarietà della disciplina nazionale nasce, a sua volta, dal raffronto con l’insieme delle norme comunitarie, sia in termini di disposizioni puntuali sia di principi.
Ed è indubbio che potrebbe profilarsi un’ipotesi di sopravvenuta anticomuniarietà della disciplina non solo per il carattere postumo del parametro comunitario, e per l’introduzione di regole sempre più stringenti (anche in virtù del passaggio dallo strumento della direttiva a quello del regolamento), ma anche perché è stato il mutare del quadro fattuale ed, in particolare, il proliferare delle cessioni anche in favore di soggetti non iscritti, a porre il problema della eurocompatibilità di tale statuto normativo.
A modesto parere del remittente, potrebbe essere un esito comunitariamente imposto quello di vietare la cessione fra soggetti non iscritti e di presidiare tale violazione con la sanzione della nullità o altra idonea forma rimediale.
Sorge il dubbio a questo remittente, se fra le suesposte plurime opzioni esegetiche, debba ritenersi che l’unica comunitariamente conforme, perché idonea ad assicurare il rispetto del principio di trasparenza sia quella rigorosa della radicale nullità della cessione, almeno quando a venire in rilievo sia la cessione di un contratto al consumatore.
Per quanto concerne la forma dei contratti di cessione, verrebbe un’ipotesi di forma scritta imposta, non da una norma interna, bensì dal generale principio euronitario di trasparenza, inteso come conoscibilità delle vicende giuridiche e degli effetti che ineriscono alla propria sfera giuridica e ciò al fine di approntare i rimedi giurisdizionali o anche stragiudiziali in maniera consapevole e, dunque, effettiva.
Dunque, il contrasto dell’ordinamento italiano parrebbe sussistere anche rispetto al principio di effettività della tutela, di buona fede oggettiva con i suoi corollari in punto di obblighi informativi.
P.Q.M.
Il Tribunale così provvedendo, rimette all’ill.ma Corte di Giustizia dell'Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali:
A) "Se e a quali condizioni il diritto unionale ed, in particolare, la normativa antiriciclaggio, così come i generali principi di effettività della tutela, di trasparenza, di buona fede oggettiva con i suoi corollari in punto di obblighi informativi, debbano considerarsi o meno ostativi ad una normativa interna in materia di cessioni in blocco (o cumulative) dei crediti deteriorati – quella applicabile alla fattispecie concreta e anteriore all’approvazione del DECRETO LEGISLATIVO 30 luglio 2024, n. 116, entrato in vigore il 13-8-2024, attuativo della dir. UE 2167 del 2021 – che presenta le seguenti caratteristiche:
a) non prevede una forma scritta ad substantiam o ad probationem, in particolare nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o, comunque, modalità di confezionamento idonee a assicurarne la data certa. Ciò, in particolare, quando il contraente ceduto sia un consumatore;
b) non contemplava, fino all’entrata in vigore del predetto decreto, alcun obbligo di iscrizione in albi vigilati per soggetti che svolgono attività di cessione in blocco, in quanto non svolgenti attività finanziaria, come stabilito dalla Suprema Corte e che, dunque, sono automaticamente sottratti anche, per via dell’assenza di un obbligo di atto pubblico, alle regole in materia di antiriciclaggio;
B) Laddove la Corte ravvisi l’evidenziato contrasto, se la normativa unionale, cosi come descritta, imponga o meno, a tutela dell’effettività degli interessi comunitari, la radicale sanzione della nullità:
a) delle cessioni perfezionatisi nella vigenza del quadro anteriore all’approvazione del decreto attuativo della dir. 2167 del 2021”;
b) delle procure all’incasso rilasciate a soggetti non iscritti ad un albo vigilato dall’autorità indipendente di settore e incaricate della verifica dell’osservanza della normativa di contrasto del riciclaggio;
2. sospende il procedimento sino alla restituzione degli atti da parte della Corte di Giustizia, successivamente alla definizione della questione;
3. manda alla Cancelleria per l’immediata trasmissione della presente ordinanza e degli atti del fascicolo processuale alla Corte di Giustizia, per le comunicazioni alle parti e per gli ulteriori consequenziali adempimenti.
Così deciso in Brindisi, il 22 ottobre 2024.
L’imparzialità del magistrato e l’uomo di vetro
di Federica Resta
Il dibattito recente sui dossieraggi ha, almeno in parte, trascurato le forme di profilazione di alcuni magistrati tali da screditarne la persona e, ad un tempo, delegittimare la magistratura. Se apparire imparziali è, per chi eserciti funzioni giudiziarie, determinante tanto quanto esserlo, dove tracciare il confine tra diritto di critica delle decisioni giudiziarie e indebita ingerenza nella vita privata del loro autore?
I fenomeni di dossieraggio di cui ha dato notizia la cronaca recente hanno avuto, se non altro, l’effetto di favorire un dibattito pubblico ampio sul senso e sul valore della privacy, anche nella sua moderna declinazione di protezione dei dati personali.
Le “schedature” realizzate, in ambito privato e pubblico, ai danni di singoli cittadini o di titolari di incarichi istituzionali hanno dimostrato plasticamente come la privacy sia condizione di libertà e, a un tempo, di democrazia. È apparso, infatti, chiaro come il potere informativo sottenda una capacità di condizionamento delle scelte del singolo e, quindi, ov’egli ricopra un incarico istituzionale, dell’esercizio della funzione, con rischi rilevanti per la tenuta delle garanzie democratiche. Non a caso, la legge 124 del 2007 ha configurato come delitto il dossieraggio svolto da appartenenti ai Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica, nella consapevolezza dei rischi suscettibili di derivare da un utilizzo “infedele” del patrimonio informativo cui essi possano accedere, in ragione della loro funzione. La gravità dell’effetto non muta, del resto, quando la profilazione della persona sia realizzata utilizzando fonti aperte: se non illecita nella raccolta, quella profilazione può divenirlo nel suo utilizzo, ritorsivo o delegittimante che sia.
È il caso, ad esempio, di alcuni magistrati, oggetto di una campagna di stampa volta a utilizzare in maniera distorsiva dettagli della loro vita privata, per delegittimare la loro persona e la funzione che esercitano, con l’intento (o, comunque, l’effetto) di screditare un potere neutro come quello giudiziario (è il counter-majoritarian paradox!). Recentemente, ad esempio, le scelte sulla gestazione per altri compiute, legittimamente all’estero da un magistrato sono state, da alcuni giornali, riferite a decisioni processuali quali il rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE della disciplina dell’immigrazione, ritenendo così di poterne inferire l’orientamento politico e, quindi, l’assenza d’imparzialità. Trascendendo i suoi limiti, la critica si sposta così dalla sentenza alla persona, scandagliata fino in quell’inner world che sono gli affetti, senza peraltro alcuna connessione tra le scelte di vita privata descritte e il contenuto del provvedimento assunto. La decisione giudiziaria sgradita diviene, dunque, il pretesto per un “webscraping” o, comunque, per “scavare” nella vita privata del suo autore delegittimando lui e, con esso, la categoria professionale di appartenenza.
Non è, del resto, la prima volta: risale a molti anni fa la campagna di delegittimazione, spinta sino al dileggio, di cui è stato vittima il giudice di un processo civile che aveva riguardato anche l’allora presidente del Consiglio, deriso addirittura per le proprie scelte di abbigliamento (i “calzini azzurri”), dopo essere stato pedinato. La totale irrilevanza di questo aspetto rispetto all’esercizio della funzione, che rendeva del tutto pretestuosa la campagna di stampa mossa contro lui (sanzionata, infatti, dall’Ordine dei giornalisti) chiarisce bene il confine tra (legittimo) diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dileggio del magistrato. Quando cioè alla contestazione di una decisione o di una tesi si sostituisce l’argomento ad hominem, è evidente come si stia trascendendo la libera manifestazione del pensiero, per screditare la persona e, con essa, appunto, la credibilità della magistratura.
Si tratta di un profilo non irrilevante, in quanto – come scrive Luciano Violante su Questione giustizia –“nella crisi della capacità regolatoria della legge e nella moltiplicazione dei conflitti politici, l’imparzialità diventa il fondamento di una moderna legittimazione” della magistratura tutta. Ogni ombra gettata o apparsa sulla capacità, di chiunque eserciti funzioni giudiziarie, di essere tanto quanto apparire imparziale, può determinare una delegittimazione dell’intero ordine giudiziario. Ma l’imparzialità può essere l’oggetto di una verifica condotta con ogni mezzo, sul presupposto della sua insussistenza?
La Corte costituzionale (sent. 81/1995) ha chiarito che il “sospetto di parzialità” da cui dev’essere esente il magistrato, ai fini dell’applicazione d’istituti quali l’astensione e la ricusazione, presuppone l’effettiva individuazione di un interesse attuale e concreto rispetto all’esito del processo, laddove le convinzioni personali e ideali del magistrato non possono come tali costituire ragione di pericolo di deficit dell’imparzialità (che, peraltro, è presunta, secondo la Corte Edu).
Se, dunque, per chiunque eserciti funzioni giudiziarie, apparire imparziali è determinante tanto quanto esserlo, tuttavia non si può legittimare qualunque ingerenza nella vita privata del magistrato, alla ricerca di elementi che ne confermino una supposta parzialità. E questo tanto più in un’epoca, quale quella attuale, in cui la “datificazione” della vita e la potenza di calcolo dell’i.a. rendono possibili forme di profilazione penetranti e invasive capaci, esse sì, di “infliggere ciecamente destino”: capacità che, all’opposto, Walter Benjamin ascriveva al giudice. È, del resto, significativo che la disciplina francese dell’utilizzo dell’I.A. in ambito giudiziario (Loi Numerique) contenga anche norme di tutela dei magistrati dal rischio di profilazione realizzabile sulla base dei provvedimenti assunti. Questa previsione sottende la consapevolezza dei rischi potenzialmente propri di un’analisi ad ampio spettro – quale quella consentita dalle neotecnologie – delle scelte processuali o interpretative dei magistrati. Rischi che, ovviamente, aumentano esponenzialmente laddove oggetto di questa profilazione non siano le sentenze (necessariamente pubbliche perché adottate nel nome del popolo), ma la vita privata del magistrato, anche nei suoi aspetti più intimi.
Di fronte a queste derive, si dovrebbe forse tornare a riflettere sulla funzione extraprocessuale della motivazione e su un’idea di imparzialità che non sta tanto e non solo nel giudice, quanto nel suo giudizio”, come ricordato recentemente da Nello Rossi sulle pagine de L’Unità.
Il rischio più grande dell’assuefazione a più o meno invasive profilazioni è l’accettazione sociale dell’idea del non avere nulla da proteggere per non avere nulla da nascondere. Quella dell’uomo di vetro – ricordava Stefano Rodotà – è, infatti, una pericolosa metafora totalitaria.
Questo articolo riflette le opinioni personali dell’autrice e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Immagine: Craig Robertson, “The Filing Cabinet,” Places Journal, May 2021. Accessed 04 Nov 2024.
In tema di autonomia e indipendenza della magistratura, si vedano anche: Il magistrato senza idee politiche di Paolo Mancuso, In difesa dell'esercizio della giurisdizione di Angela Arbore, L'ordine giudiziario va difeso di Giuseppe Santalucia, Il tempo della profilazione: le ultime sul caso Apostolico di Vittorio Gaeta, Il dovere di manifestare il non pensiero (il giudice in una stanza) di Riccardo Ionta, I magistrati nell’era dei social tra libertà di espressione ed esigenze d’imparzialità di Francesco Dal Canto, L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive di Roberto Romboli, “Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto” di Simone Pitto.
L’imparzialità del magistrato e l’uomo di vetro
di Federica Resta
Il dibattito recente sui dossieraggi ha, almeno in parte, trascurato le forme di profilazione di alcuni magistrati tali da screditarne la persona e, ad un tempo, delegittimare la magistratura. Se apparire imparziali è, per chi eserciti funzioni giudiziarie, determinante tanto quanto esserlo, dove tracciare il confine tra diritto di critica delle decisioni giudiziarie e indebita ingerenza nella vita privata del loro autore?
I fenomeni di dossieraggio di cui ha dato notizia la cronaca recente hanno avuto, se non altro, l’effetto di favorire un dibattito pubblico ampio sul senso e sul valore della privacy, anche nella sua moderna declinazione di protezione dei dati personali.
Le “schedature” realizzate, in ambito privato e pubblico, ai danni di singoli cittadini o di titolari di incarichi istituzionali hanno dimostrato plasticamente come la privacy sia condizione di libertà e, a un tempo, di democrazia. È apparso, infatti, chiaro come il potere informativo sottenda una capacità di condizionamento delle scelte del singolo e, quindi, ov’egli ricopra un incarico istituzionale, dell’esercizio della funzione, con rischi rilevanti per la tenuta delle garanzie democratiche. Non a caso, la legge 124 del 2007 ha configurato come delitto il dossieraggio svolto da appartenenti ai Servizi d’informazione per la sicurezza della Repubblica, nella consapevolezza dei rischi suscettibili di derivare da un utilizzo “infedele” del patrimonio informativo cui essi possano accedere, in ragione della loro funzione. La gravità dell’effetto non muta, del resto, quando la profilazione della persona sia realizzata utilizzando fonti aperte: se non illecita nella raccolta, quella profilazione può divenirlo nel suo utilizzo, ritorsivo o delegittimante che sia.
È il caso, ad esempio, di alcuni magistrati, oggetto di una campagna di stampa volta a utilizzare in maniera distorsiva dettagli della loro vita privata, per delegittimare la loro persona e la funzione che esercitano, con l’intento (o, comunque, l’effetto) di screditare un potere neutro come quello giudiziario (è il counter-majoritarian paradox!). Recentemente, ad esempio, le scelte sulla gestazione per altri compiute, legittimamente all’estero da un magistrato sono state, da alcuni giornali, riferite a decisioni processuali quali il rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE della disciplina dell’immigrazione, ritenendo così di poterne inferire l’orientamento politico e, quindi, l’assenza d’imparzialità. Trascendendo i suoi limiti, la critica si sposta così dalla sentenza alla persona, scandagliata fino in quell’inner world che sono gli affetti, senza peraltro alcuna connessione tra le scelte di vita privata descritte e il contenuto del provvedimento assunto. La decisione giudiziaria sgradita diviene, dunque, il pretesto per un “webscraping” o, comunque, per “scavare” nella vita privata del suo autore delegittimando lui e, con esso, la categoria professionale di appartenenza.
Non è, del resto, la prima volta: risale a molti anni fa la campagna di delegittimazione, spinta sino al dileggio, di cui è stato vittima il giudice di un processo civile che aveva riguardato anche l’allora presidente del Consiglio, deriso addirittura per le proprie scelte di abbigliamento (i “calzini azzurri”), dopo essere stato pedinato. La totale irrilevanza di questo aspetto rispetto all’esercizio della funzione, che rendeva del tutto pretestuosa la campagna di stampa mossa contro lui (sanzionata, infatti, dall’Ordine dei giornalisti) chiarisce bene il confine tra (legittimo) diritto di critica dei provvedimenti giudiziari e dileggio del magistrato. Quando cioè alla contestazione di una decisione o di una tesi si sostituisce l’argomento ad hominem, è evidente come si stia trascendendo la libera manifestazione del pensiero, per screditare la persona e, con essa, appunto, la credibilità della magistratura.
Si tratta di un profilo non irrilevante, in quanto – come scrive Luciano Violante su Questione giustizia –“nella crisi della capacità regolatoria della legge e nella moltiplicazione dei conflitti politici, l’imparzialità diventa il fondamento di una moderna legittimazione” della magistratura tutta. Ogni ombra gettata o apparsa sulla capacità, di chiunque eserciti funzioni giudiziarie, di essere tanto quanto apparire imparziale, può determinare una delegittimazione dell’intero ordine giudiziario. Ma l’imparzialità può essere l’oggetto di una verifica condotta con ogni mezzo, sul presupposto della sua insussistenza?
La Corte costituzionale (sent. 81/1995) ha chiarito che il “sospetto di parzialità” da cui dev’essere esente il magistrato, ai fini dell’applicazione d’istituti quali l’astensione e la ricusazione, presuppone l’effettiva individuazione di un interesse attuale e concreto rispetto all’esito del processo, laddove le convinzioni personali e ideali del magistrato non possono come tali costituire ragione di pericolo di deficit dell’imparzialità (che, peraltro, è presunta, secondo la Corte Edu).
Se, dunque, per chiunque eserciti funzioni giudiziarie, apparire imparziali è determinante tanto quanto esserlo, tuttavia non si può legittimare qualunque ingerenza nella vita privata del magistrato, alla ricerca di elementi che ne confermino una supposta parzialità. E questo tanto più in un’epoca, quale quella attuale, in cui la “datificazione” della vita e la potenza di calcolo dell’i.a. rendono possibili forme di profilazione penetranti e invasive capaci, esse sì, di “infliggere ciecamente destino”: capacità che, all’opposto, Walter Benjamin ascriveva al giudice. È, del resto, significativo che la disciplina francese dell’utilizzo dell’I.A. in ambito giudiziario (Loi Numerique) contenga anche norme di tutela dei magistrati dal rischio di profilazione realizzabile sulla base dei provvedimenti assunti. Questa previsione sottende la consapevolezza dei rischi potenzialmente propri di un’analisi ad ampio spettro – quale quella consentita dalle neotecnologie – delle scelte processuali o interpretative dei magistrati. Rischi che, ovviamente, aumentano esponenzialmente laddove oggetto di questa profilazione non siano le sentenze (necessariamente pubbliche perché adottate nel nome del popolo), ma la vita privata del magistrato, anche nei suoi aspetti più intimi.
Di fronte a queste derive, si dovrebbe forse tornare a riflettere sulla funzione extraprocessuale della motivazione e su un’idea di imparzialità che non sta tanto e non solo nel giudice, quanto nel suo giudizio”, come ricordato recentemente da Nello Rossi sulle pagine de L’Unità.
Il rischio più grande dell’assuefazione a più o meno invasive profilazioni è l’accettazione sociale dell’idea del non avere nulla da proteggere per non avere nulla da nascondere. Quella dell’uomo di vetro – ricordava Stefano Rodotà – è, infatti, una pericolosa metafora totalitaria.
Questo articolo riflette le opinioni personali dell’autrice e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Immagine: Craig Robertson, “The Filing Cabinet,” Places Journal, May 2021. Accessed 04 Nov 2024.
In tema di autonomia e indipendenza della magistratura, si vedano anche: Il magistrato senza idee politiche di Paolo Mancuso, In difesa dell'esercizio della giurisdizione di Angela Arbore, L'ordine giudiziario va difeso di Giuseppe Santalucia, Il tempo della profilazione: le ultime sul caso Apostolico di Vittorio Gaeta, Il dovere di manifestare il non pensiero (il giudice in una stanza) di Riccardo Ionta, I magistrati nell’era dei social tra libertà di espressione ed esigenze d’imparzialità di Francesco Dal Canto, L’indipendenza della magistratura. Storia, attualità, prospettive di Roberto Romboli, “Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto” di Simone Pitto.
Prolegomeni alla "riforma della riforma" della giustizia tributaria: dalla revisione (geopolitica) della geografia delle corti a un nuovo assetto della magistratura
di Enrico Manzon
Sommario: 1. Prologo 2. I numeri sono “argomenti testardi”: alla base della revisione della geografia giudiziaria (ma al netto della sua geopolitica) 3. Sulla ragionevolezza del “modello di giustizia” scelto dalla legge 130/2022 4. segue Le ragioni di un “sistema ordinamentale” alternativo 5. Per un “modello ordinamentale misto”: giudice professionale e giudice onorario nella nuova giurisdizione tributaria 6. Conclusioni.
1. Prologo
Entro il mese di agosto 2025 (art. 1, comma 1, legge 111/2023) il Governo deve (meglio, dovrebbe) esercitare la delega relativa alla c.d. “geografia” delle Corti di giustizia tributaria ossia rivederne la distribuzione territoriale con riguardo alle Corti di primo grado ed alle Sezioni staccate di quelle di secondo grado, con relativa riassegnazione del personale giudicante e di segreteria (art. 19, comma 1, lett. l-m, legge 111/2023).
Difficile pensare che i dieci mesi che mancano possano bastare a tale fine.
Chiunque abbia una minima conoscenza delle vicende storiche riguardanti le sedi giudiziarie, a qualsiasi giurisdizione esse appartengano, sa perfettamente che – prima e sopra tutto – la revisione della loro allocazione, che poi spesso significa soppressione di sedi, è una questione politico-legislativa ad “alto tasso di difficoltà”. In termini alpinistici, è un sesto grado superiore, con passaggi di settimo. Si rischia facilmente di cadere giù dalla parete oppure semplicemente nemmeno iniziare a salire.
Infatti, l’Italia è il “Paese dei campanili” e ogniqualvolta si discuta di eliminare un ufficio giudiziario i “campanili” si fanno sentire “chiaro e forte”. Perciò il decisore politico (plesso governo/parlamento) è tradizionalmente molto condizionato dalle spinte localistiche, tanto più pressanti quanto più rappresentative di comunità in qualche modo rilevanti ovvero rappresentate da forze politiche omogenee alla maggioranza pro tempore.
Questa materia legislativa può dunque essere definita geopolitica giudiziaria, poiché nelle scelte di distribuzione territoriale delle giurisdizioni è senz’altro preminente la discrezionalità politica (“orientata”) rispetto ai criteri oggettivi, di diretta derivazione costituzionale (buon andamento della PA, art. 97, Cost.), i quali peraltro – nel caso che ci occupa – sono chiaramente indicati dal relativo principio di delega (estensione del territorio, dei carichi di lavoro e degli indici di sopravvenienza, del numero degli abitanti della circoscrizione, degli enti impositori e della riscossione, art. 1, comma 1, lett. l, legge 111/2023).
L’evidente “flemma” con la quale il Governo procede all’attuazione di tale principio della legge 111/2023, assai diversamente che per gli altri, pressoché già tutti trasformati in decreti delegati, è un indizio “grave, preciso e concordante” della consapevolezza di questa immanente – rilevante difficoltà di gestione della problematica e induce quindi ad una prognosi negativa circa la possibilità che il principio medesimo diventi a sua volta normativa primaria delegata nel tempo ormai relativamente breve che rimane.
Da ciò che risulta infatti il MEF (motore primario e primo responsabile dell’attuazione della “delega fiscale”), previa elaborazione statistica degli indici di cui sopra, ha attivato la, doverosa, interlocuzione istituzionale con il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Allo stato, è però ignoto se tale “leale cooperazione” abbia prodotto, almeno in nuce, progetti concreti di revisione della geografia delle Corti tributarie.
Eppure la necessità dell’attuazione della delega in parte qua appare, allo stesso tempo, evidente ed urgente. Infatti, come di seguito si dimostrerà, l’attuale distribuzione territoriale degli organi di giurisdizione tributaria in diversi casi sfiora il limite della ragionevolezza ed in altri la supera.
Peraltro, tale necessità deriva anche direttamente dalla stessa scelta riformatrice della legge 130/2022 ossia dall’istituzione della quinta magistratura professionale. In particolare, la determinazione dell’organico complessivo a 576 giudici, di cui 128 destinati alle funzioni di appello, rapportata allo status quo della distribuzione territoriale delle Corti ne rende ancora più chiara l’irrazionalità, specifica e complessiva; in ogni caso si pone in netta, inestricabile, contraddizione con la stessa.
La scelta di un apparato ristretto infatti predica una “geografia” accentrata degli uffici giudicanti, in particolare di quelli di primo grado. Ed è questo un modello esattamente opposto a quello dell’ordinamento di giustizia che si va a sostituire, fondato – esclusivamente – sulla dimensione provinciale/regionale e quindi molto diffuso sul territorio.
L’attuazione delle lett. l-m, dell’art. 19, comma 1, legge 111/2023, perciò impone profonde riflessioni “di sistema” e “sul sistema” di giustizia che solo per “sommi capi” (purtroppo) è configurato dalla legge 130/2022 di riforma della giurisdizione speciale tributaria.
Di seguito si disserterà delle principali.
2. I numeri sono “argomenti testardi”: alla base della revisione della geografia giudiziaria (ma al netto della sua geopolitica)
In tema di scelte politico-amministrative, la valenza intrinseca, oggettiva, dei “numeri” dovrebbe essere la guida, la strada maestra. Infatti, parafrasando John Adams, padre fondatore e terzo presidente degli Stati Uniti d’America, i “numeri” sono “testardi” ossia difficilmente superabili con l’argomentazione retorica ossia para/quasi logica.
I dati delle relazioni annuali del MEF/Dipartimento della giustizia tributaria sullo stato del contenzioso e sull’attività delle Corti sono estremamente chiari. Emerge da quella per il 2023 che, nell’ultimo triennio, 34 Corti di primo grado (ex Commissioni tributarie provinciali) sul totale di 103, quindi il 33% o se si preferisce un terzo, ha ricevuto meno di 300 ricorsi all’anno. 12 di queste Corti (il 12%, un ottavo) ne hanno ricevuti meno di 150.
In questa media triennale la pandemia da Covid c’entra relativamente, in quanto vero che nel 2021 vi è stata una, generalizzata e marcata, flessione delle iscrizioni di nuovi ricorsi, tuttavia nel 2022/2023 le iscrizioni hanno ripreso a “correre” più o meno in linea con i flussi degli ultimi sette anni, stabilizzatisi dopo le “vette” degli anni precedenti.
Oltre ogni ragionevole dubbio, 300 ricorsi all’anno non possono giustificare la permanenza di un apparato di giustizia tributaria di primo grado, tantomeno nella prospettiva di una magistratura professionale molto ridotta nell’organico complessivo. È quindi piuttosto evidente, stando ai “numeri”, che le sedi in questione debbano essere chiuse ed accorpate alle sedi viciniori con un carico di lavoro che ne consente la “sopravvivenza”.
Ciò, almeno, secondo una logica pur minimale di “buona amministrazione”, giacché altrimenti si può – serenamente – parlare di spreco del denaro pubblico e della “risorsa giustizia”. Ma, va ribadito, sono proprio i “numeri” della futura magistratura professionale che inibiscono scelte alternative. Questi “numeri” sono davvero testardissimi e la moltiplicazione dei pani e dei pesci non è attributo umano.
E anche se – in Italia – la testardaggine forse non è considerata una virtù e sicuramente la razionalità dell’impiego delle risorse pubbliche non è una virtù particolarmente diffusa, tuttavia c’è un limite al “troppo poco” e quei flussi di affari in entrata paiono proprio concretizzarlo.
Quindi: meno 34 Corti di primo grado (per i noti vincoli giuridici non 36, perché Trento e Bolzano non si possono toccare con una legge ordinaria).
Passando alle Sezioni staccate delle Corti di secondo grado, sempre le medie triennali basate sui dati MEF/Dipartimento della giustizia tributaria per il 2023, dicono che tre di esse hanno ricevuto meno di 500 ricorsi nel triennio 2021/2023, una poco più di 500. Ed anche queste strutture giudiziarie appaiono – oggettivamente – in predicato di soppressione.
Per la verità qui si evidenzia una lacuna importante (implausibilmente involontaria) del principio di delega, posto che vi sono Corti di secondo grado, ex Commissioni tributarie regionali, che hanno “numeri” del tutto analoghi, la cui soppressione/accorpamento sarebbe da valutare molto seriamente, sempre in base al citato principio (costituzionale) di “buona amministrazione”. Infatti, nel triennio 2021/2023 le Corti di secondo grado di Friuli-Venezia Giulia, Basilicata, Molise, Umbria e Valle d’Aosta hanno ricevuto meno di 500 ricorsi per anno, ma il citato principio di delega non consente di intervenire sulle medesime. Si evidenzia pertanto l’opportunità che la delega fiscale venga integrata con una norma primaria che consenta di farlo.
Tornando alla situazione de jure condito, la norma delegante in esame prevede altri criteri di valutazione da utilizzare al fine della “ridefinizione” dell’assetto territoriale delle Corti quali l’estensione del territorio, i carichi di lavoro, il numero degli abitanti della circoscrizione, degli enti impositori e della riscossione.
È tuttavia piuttosto evidente che ampiezza territoriale, bacino dell’utenza e numero delle parti pubbliche non hanno una particolare incidenza sulla valutazione organizzativa di che si tratta, ma nemmeno i carichi di lavoro ossia gli stock, trattandosi del “passato” (magari nemmeno commendevole) dell’ufficio giudiziario, non del suo “futuro”, della sua prospettiva, ed essendo comunque “quantità” di attività giudiziaria che con gli accorpamenti vanno imputate all’organizzazione degli uffici accorpanti.
In altri termini non è seriamente discutibile che l’“indice primario” e di per sé dirimente (sul piano oggettivo) sono i flussi in entrata (flows) ossia la proiezione del carico di lavoro che una Corte dovrà espletare, sì che se ne possa operare una previsione di equa ed efficiente attribuzione pro capite al personale giudicante ed ausiliario. Tanto più nella logica organizzativa oggettivamente “accentratrice” immanente alla riforma introdotta dalla legge 130/2022.
Ma se così è, come pare, in base ai “numeri” di cui sopra, le misure di normazione delegata da prendere risultano dunque piuttosto chiare nell’ an, mentre sono tutte da definire nel quomodo ossia nei particolari, pur molto importanti, ma conseguenziali, delle “fusioni per incorporazione” (melius, accorpamenti, come dice la legge delega) delle Corti/Sezioni staccate. Tale secondo profilo non può essere approfondito in questa sede.
3. Sulla ragionevolezza del “modello di giustizia” scelto dalla legge 130/2022
Ancora numeri. La legge di riforma della giustizia tributaria ha fissato l’organico della nuova magistratura professionale a 576, 448 giudici in primo grado, 128 nel grado di appello (art. 1, comma 1, lett. b), legge 130/2022, che ha introdotto l’art. 1 bis, comma 3, d.lgs. 545/1992).
Il parallelo con l’organico dei giudici amministrativi risulta evidente: 427 magistrati di TAR, 84 magistrati addetti alle sei sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Quindi numeri pressochè identici per il primo grado, un po' diversi per il secondo grado, tenuto comunque conto che il Consiglio di Stato è una giurisdizione apicale a competenza unica nazionale, che svolge, allo stesso tempo, sia funzioni di appello che di legittimità.
Questi numeri “parlano” e dicono, chiaramente, che il legislatore della riforma ha scelto di assimilare la nuova magistratura tributaria professionale a quella amministrativa. In altri termini il “modello” di riferimento prescelto è senz’altro quello del plesso giurisdizionale CdS/TAR. Non è possibile una diversa interpretazione della scelta legislativa.
Vi è però da chiedersi se questo “modello” sia adatto alla materia contenziosa tributaria. La risposta non può che essere negativa ed ancora una volta sempre sulla base dei “numeri”, questi testardi.
Dalla relazione del Presidente del Consiglio di Stato per l’inaugurazione dell’anno giudiziario amministrativo 2024 emerge che negli ultimi cinque anni sono pervenuti nella media al CdS circa 10.000 ricorsi all’anno, ai TAR circa 48.000 ricorsi all’anno. Dalle appendici statistiche alla relazione annuale del MEF/Dipartimento della giustizia tributaria per l’anno 2023 emerge che negli ultimi cinque anni sono pervenuti nella media alle Corti di secondo grado circa 42.000 ricorsi all’anno, alle Corti di primo grado circa 122.000 ricorsi all’anno. Quindi il rapporto dei flussi GA/GT è di uno a quattro per l’appello, di uno a due e mezzo per il primo grado.
Allora i “conti non tornano” ed è piuttosto evidente che la scelta – apodittica, ma non inconsapevole – della legge di riforma della giustizia tributaria di un “modello di riferimento” non ha tenuto conto quantomeno di questo dato – pur meramente quantitativo, ma altamente significativo – piuttosto eclatante.
Prospetticamente, con la riforma a regime e trattandosi di flussi abbastanza consolidati, infatti ogni giudice di Corte di giustizia tributaria di secondo grado dovrà farsi carico di una media di 328 ricorsi all’ anno (un magistrato del Cds 119); ogni giudice di Corte di giustizia tributaria di primo grado riceverà una media di 272 ricorsi all’anno (un magistrato di TAR 119). La scelta del “modello GA” appare pertanto, quantomeno, discutibile e, per così dire, piuttosto “estemporanea”.
Ma proviamo a fare una “prova di resistenza” interna ai flussi delle Corti tributarie, sulla base della consistenza dell’organico predeterminata dalla legge 130/22, sempre con i dati MEF/Dipartimento della giustizia tributaria.
Nel 2023 le Corti di appello della Lombardia, del Lazio, della Campania e della Sicilia hanno ricevuto 22.581 ricorsi, pari al 56% del totale degli appelli (39.916). Fissando un rapporto equo con il numero complessivo (128) dei magistrati previsti per il secondo grado, a queste Corti dovrebbero quindi essere assegnati 71 magistrati. Con gli altri 57 magistrati si dovrà coprire l’organico delle restanti 15 Corti di secondo grado, una media di 3,8 per Corte.
Le Corti di primo grado di Milano, Roma, Napoli e Palermo nel 2023 hanno ricevuto 41.070 ricorsi, pari al 34% rei ricorsi introduttivi della lite (138.372). Dunque, a tali Corti dovrebbero andare 152 magistrati, a tutte le altre 99 Corti di primo grado i restanti 296, in media circa 3 giudici per Corte.
Insomma, senza voler proseguire in una pedantesca analisi dei “numeri”, la loro “testardaggine” evidenzia che il “modello” prescelto dal legislatore non potrà reggere.
La ragione, prima e fondamentale, è semplice: il “modello giustizia amministrativa” è accentrato: venti uffici di primo grado, uno solo di appello. Quello della giustizia tributaria, allo stato, al contrario, è diffuso: 103 uffici di primo grado, 21 di appello. Anche se venisse fatta una ragionevole (non draconiana) riduzione delle sedi giudicanti – che comunque, trattandosi di geopolitica giudiziaria, è operazione delicata, complessa e, allo stato, di là da venire, essendo tuttora nella “mente di Giove” – nemmeno si potrebbe avvicinare la struttura/distribuzione delle Corti tributarie a quelle amministrative.
Ed almeno questa è una ragione di riflessione profonda sulla (non)ragionevolezza di questa scelta – pur fondamentale – della riforma del ’22, che anche sotto questo profilo, si rivela quindi molto avventata e poco meditata.
4. segue Le ragioni di un “sistema ordinamentale” alternativo
La risposta più semplice alle problematiche evidenziate nel paragrafo che precede, sulla base di dati quantitativi elementari, è: bisogna aumentare l’organico della magistratura tributaria previsto dalla legge 130/22, magari raddoppiandolo, così avvicinando la giurisdizione tributaria a quella amministrativa, come nella scelta implicita della riforma.
È una risposta sbagliata, perché è sbagliata, ab imis, la scelta. Oltre alla incomprimibile diversità della allocazione territoriale degli uffici giudiziari di cui si è detto (modello accentrato/modello diffuso), è questione di “altri numeri”, ma non solo.
Prima di tutto processo tributario e processo amministrativo, secondo l’opinione della maggioranza degli autori e della giurisprudenza, sono entità giuridiche affatto diverse, hanno una ontologia, profondamente, diversa. Giurisdizione sui diritti (giusta imposta) e giurisdizione generale di legittimità (interessi legittimi), con ampie eccezioni di giurisdizione esclusiva (interessi/diritti); impugnazione/merito e impugnazione/annullamento, azioni costitutive-di accertamento/condanna ed azioni costitutive. [1]
Dunque il “lavoro” del giudice tributario è molto diverso da quello del giudice amministrativo, trattandosi di giudicare rapporti autorità/libertà molto diversamente configurati dalle norme primarie e financo costituzionali. Nel processo tributario, sia pure con i “filtri” dell’art. 19, d.lgs. 546/1992 (come peraltro estensivamente interpretato dalla Corte di Cassazione), si controverte – essenzialmente/esclusivamente – di determinazione del “dovuto” secondo le leggi d’imposta e sulla base del principio di capacità contributiva (art. 53, Cost.); in quello amministrativo, di regola, si tratta della mera legalità dell’azione amministrativa e perciò di tutela di interessi legittimi (nei casi codificati di giurisdizione esclusiva anche di diritti soggettivi), quindi solo di ciò che per il primo è il presupposto, il “veicolo di accesso”, del processo, mentre nel secondo, di norma, è l’oggetto essenziale del processo. In sintesi rapporto vs provvedimento: del primo si occupa, al fondo, nella parte “veicolata”, il giudice tributario, del secondo il giudice amministrativo.
Questi minimalisti cenni teorici sulla diversità, marcata, delle giurisdizioni in esame inducono a ritenere che è bene che ognuna segua il suo percorso storico, peraltro contrassegnato, univocamente, da discipline del processo molto diverse tra loro, quella speciale tributaria normativamente vassalla di quella processuale civile ex art. 1, comma 2, d.lgs. 546/1992, mentre quella speciale amministrativa è organicamente e del tutto autonomamente disciplinata dal cod. proc. amm.
È bene quindi che la struttura della magistratura tributaria sia congegnata in senso “originario” e non mediante un’implausibile analogia con quella amministrativa. A sostegno di questa affermazione vi sono tuttavia ulteriori argomenti basati sulle “quantità” del contenzioso fiscale, che peraltro ne mettono in luce la dimensione (qualitativa) socio-giuridica.
Ancora pochi dati, ma di rilevanza/significatività molto elevata, tratti sempre da quella “miniera” delle Appendici statistiche alla Relazione annuale 2023 del MEF/Dipartimento della giustizia tributaria sullo stato del contenzioso e sull’attività delle Corti: il 57,8% delle cause iscritte in primo grado nel 2023 ha un valore da 0 a 5.000 euro; il 16,7% ha un valore da 5.000 a 20.000 euro; le prime rappresentano lo 0,7% del valore totale delle iscrizioni, le seconde l’1,7%.
Quindi il 74,5% delle liti introdotte l’anno scorso, i tre quarti, hanno un valore pari o inferiore a 20.000 euro e rappresentano il 2,4% del valore totale del flusso del contenzioso annuale in primo grado. Fino a 50.000 euro c’è un altro 9,3% (2,3% del valore totale). Dunque nel 2023, l’83,8%, quattro quinti, dei procedimenti in primo grado ha un valore pari o inferiore a 50.000 euro, rappresentando il 4,7% del totale valore del contenzioso annuale.
Eppure il contenzioso tributario è tutt’altro che “bagatellare”, posto che nello stesso 2023 il valore medio dei ricorsi iscritti è stato di 103.767 euro, il valore totale di 14 miliardi e 358 milioni di euro. Una bella mezza manovra. Consultando le Appendici statistiche delle omologhe Relazioni MEF/Dipartimento della giustizia tributaria per gli anni precedenti, si può facilmente ed univocamente constatare che si tratta di “numeri” sostanzialmente stabili, che pertanto ci danno le caratteristiche del contenzioso nella materia fiscale.
In sintesi: i giudici tributari si occupano nella maggior parte dei casi di procedimenti il cui oggetto non ha un valore elevato, se non addirittura modesto, ma in un quarto/quinto dei casi invece le cause hanno una rilevanza economica anche notevole sia per gli Enti impositori/della riscossione sia per i contribuenti. Ed il valore della causa tributaria è la sua essenza giuridica “prima ed ultima” nel senso che le liti, di impugnazione d’atto ovvero di rimborso che siano, hanno esclusivamente come oggetto una pretesa economica controversa degli Enti impositori/della riscossione ovvero dei contribuenti. In sostanza, avanti al giudice tributario si litiga per soldi, non per altro, e quindi il parametro del valore assume un’importanza primaria per ogni ragionamento sulla struttura e sull’organizzazione della magistratura tributaria. Questo è il proprium che contraddistingue la giurisdizione tributaria speciale. Peraltro, il valore della causa ne rappresenta, di norma e salve eccezioni, la complessità tecnica, oltre che essere un indicatore preciso della sua rilevanza socio-economica.
5. Per un “modello ordinamentale misto”: giudice professionale e giudice onorario nella nuova giurisdizione tributaria
Traendo le fila delle considerazioni che precedono, è quindi necessario porsi la domanda seguente: sul piano del “buon andamento” (art. 97, Cost.) dell’amministrazione della giustizia tributaria è giusto che, nella prospettiva della riforma com’è, pochi, magistrati professionali a tempo pieno si occupino di tante cause, i tre quarti delle quali ha un valore pari a quelle che rientrano nel range di competenza del giudice di pace civile?
Non vi sono buoni argomenti per differenziare le due “competenze” (civile/tributaria) sul piano che ci occupa (organizzazione dell’attività di giustizia), certo non essendo sufficiente in tal senso la natura pubblicistica del rapporto di contribuzione, dato che fino alla riforma e per decenni le controversie fiscali sono state trattate e decise da giudici onorari part time, senza alcun limite di valore, il cui status giuridico ed economico non è affatto distante da quello dei giudici onorari ordinari; né, per la ragione suesposta, può ragionevolmente inferirsi che le cause di valore inferiore a 5.000 euro, nella norma, nascondano chissà quali complessità tecnico-giuridiche ovvero fattuali.
È chiaro che analoghe considerazioni non possono essere fatte per il contenzioso amministrativo, dove il valore della lite (che pure può raggiungere livelli molto elevati) non può mai essere considerato, in termini giuridici, il vero oggetto del processo, che è sempre un atto ovvero un comportamento della PA, sottoposto al vaglio generale di legittimità ovvero alla giurisdizione esclusiva del GA.
Ed è per questo – essenzialmente per questo – che la scelta del “modello-giudice amministrativo” effettuata dal legislatore della riforma, che, come detto, appare del tutto evidente dalla determinazione dell’organico della magistratura tributaria professionale, oltre che non attuabile (numeri chiaramente insufficienti, essendo irrealistico pensare ad una concentrazione della giustizia tributaria a livello regionale ossia passare da 103 uffici di primo grado a 20), risulta proprio sbagliata.
E dovrà essere corretta, prima o poi. Meglio se prima. Come farlo?
I 576 magistrati professionali full time sono in ogni caso pochi, al netto della “geografia giudiziaria”. In particolare, per le suesposte ragioni, è addirittura clamoroso l’errore di quantificazione dell’organico di appello. Ma si può e si deve evitare un eccessivo aumento di questo numero, semplicemente aggiungendo un, forte, contingente di giudici onorari, sulle cui competenze si può ragionare. Viene facile da pensare che potrebbero assumere un ruolo analogo a quello del giudice di pace ordinario e quindi essere destinati, almeno di regola, prevalentemente – ancorché non esclusivamente – alle cause (tante) di valore basso, con competenza monocratica, senza tuttavia escluderne la possibilità di partecipazione ai collegi, anche di appello.
Questa soluzione ha una praticabilità semplice ed immediata: c’è un serbatoio di oltre 2.000 giudici del ruolo unico, un po' più “togati”, un po' meno “laici”, ai quali si potrebbe offrire una soluzione di permanenza di questo tipo. Ciò al netto del, pure molto auspicabile, parziale transito dei “non togati” nei ranghi della nuova magistratura tributaria, mediante un concorso interno “semplificato”. A regime, tra un bel po' di anni, si vedrà come proseguire; le soluzioni, di continuità, certo non mancheranno, magari evitando gli errori (status, trattamento economico) del passato.
In tal modo si adotterebbe un “modello misto” – professionale/onorario – molto più aderente alle illustrate caratteristiche del contenzioso tributario, seguendo la strada dell’ analogia a quello civile, che ne è molto più omologo, per oggetto e dimensioni, di quello amministrativo, erroneamente scelto come modello di riferimento dalla legge 130/2022 (evoluzione, in negativo, del progetto di legge governativo, con “marchio MEF).
Con questa pianta organica “rafforzata”, secondo criteri di ragionevolezza e “buona amministrazione”, la geopolitica delle Corti tributarie, soprattutto quelle di primo grado, diventerebbe un esercizio di normazione delegata molto più “realistico”, aumentando di tanto la fattibilità attuativa del principio di delega in esame. Ché altrimenti è –semplicemente, allo stato – geopoliticamente inattuabile ed infatti con ogni probabilità destinato ad una sorte infausta (o fausta, a seconda dei punti di vista).
Certo, bisogna riconoscere l’errore ed emendarlo. Ma non è poi così difficile. Al fondo è solo una questione di “intelligenza” del problema, di ascolto delle critiche argomentate e di volontà politica. Se la scelta dell’agosto 2022, a Parlamento sciolto e di corsa, come detto, sulla scia di un ddl governativo con chiaro “marchio MEF”, è un dogma, allora bisognerà soltanto assistere alla non attuazione della delega fiscale in parte qua e, nel medio-lungo periodo, ad una crisi dagli esiti imponderabili ed imprevedibili del, già farraginoso, meccanismo di attuazione dell’intera riforma della giustizia tributaria.
Infine, sul punto, due considerazioni ulteriori, per nulla di secondo piano.
La prima. Tra le – tante – sue lacune la legge 130/2022 indica – grossolanamente – il numero totale dei magistrati professionali, con unica distinzione per quelli da assegnare alle funzioni di appello. E i direttivi (presidenti di Corte) ed i semidirettivi (presidenti di Sezione)?
La legge di riforma se li è semplicemente dimenticati ed è questa un’anomalia, grave, ulteriore (le altre leggi di ordinamento giudiziario, ordinario e speciali, ovviamente contengono le relative previsioni). Inevitabile colmare la lacuna nella prospettiva con disposizioni ad hoc, ma il problema è attuale e di medio-lungo periodo.
Impensabile che i vincitori dei tre concorsi previsti (quello in corso, quelli del 2026-2029) possano ricoprire incarichi direttivi/semidirettivi prima di un tempo congruo di esercizio delle funzioni giudiziarie, la domanda allora è: medio tempore, chi farà il presidente di Corte ovvero di sezione? E l’altra connessa domanda è: può ragionevolmente ipotizzarsi che, almeno, le principali Corti di primo o secondo grado possano essere, medio tempore, rette da dirigenti part time?
Tali quesiti hanno una risposta unica: bisogna riaprire l’opzione per i giudici del ruolo unico che siano appartenenti alle altre magistrature professionali, allo specifico – esclusivo – fine di dare direttivi già formati alle Corti tributarie. All’edificanda magistratura professionale, nella – lunga – transizione dal “vecchio” al “nuovo” sistema, servono infatti dirigenti a tempo pieno. Finché non saranno pronti i magistrati tributari, questi non possono essere che i magistrati professionali del ruolo unico appartenenti alle altre giurisdizioni.
La seconda. Il nuovo ordinamento della giurisdizione speciale tributaria deve essere completato con un organo di giustizia centrale che produca nomofilachia in house. La scelta riformatrice del ’22 implica che la giustizia tributaria venga equiparata a quella amministrativa e contabile, mediante la revisione dell’art. 111, ottavo comma, Cost., prevedendo che avverso le sentenze di una istituenda Corte di giustizia tributaria a competenza nazionale possa proporsi ricorso per cassazione solo per «motivi inerenti alla giurisdizione».
Ma di questo si è già scritto ed a quanto scritto si rinvia. [2]
6. Conclusioni
La geopolitica giudiziaria è un’arte fine, che, oltre ad una gran dose di fantasia, richiede in quantità “industriali” senso pratico, capacità di mediazione e determinazione. In ogni caso non può andare contro i “numeri” né contro la legge di gravità. I “numeri” più rilevanti della giustizia tributaria dicono che, allo stato, vi è incompatibilità pratica assoluta tra la legge 130/2022 (riforma della giustizia tributaria) e la legge 111/2023 (delega fiscale nella parte relativa alla “geografia” delle Corti), ma danno una soluzione possibile, che si basa sulla modifica/integrazione della prima, quale presupposto attuativo della seconda.
Non si tratta di fare un piccolo aggiustamento quantitativo dell’organico, sbagliato, dei magistrati tributari ossia di perseverare nell’errore, ma di scegliere un diverso “modello” di strutturazione/organizzazione del personale giudicante. Bisogna dunque mettere in atto un intervento normativo ed amministrativo nonché di autogoverno (che è il perno costituzionale di qualsiasi riforma e che pertanto va assolutamente potenziato in tutti i suoi aspetti, a partire dalla garanzia della disponibilità operativa dei componenti del CPGT e dall’autonomia delle strutture ausiliarie) di un certo respiro, che appare tanto necessario, quanto di non troppo complessa attuazione, nemmeno sul piano finanziario. Un intervento che oltre che configurare un’organizzazione giudiziaria più congruamente adattata alle caratteristiche “storiche” del contenzioso tributario, regoli in modo chiaro ed efficace la –lunga – transizione tra il “vecchio” ed il “nuovo” sistema di giustizia tributaria e che renda funzionalmente autonoma la giurisdizione tributaria speciale.
Allo stato, questa regolazione normativa complessiva manca del tutto. La via più opportuna è quella di una legge delega – finalmente organica – che la realizzi. I danni della “legislazione diretta” in questa delicatissima ed invero complessa materia sono evidenti nella legge 130/22. Le riforme ordinamentali richiedono una elaborazione fine e meditata, non compatibile con i tempi ed i modi dell’iter legislativo parlamentare. È per tale ragione che si sono sempre fatte mediante decreti delegati. Tale normazione primaria va tuttavia necessariamente accompagnata da una legge di revisione costituzionale, pur limitata, ma essenziale, nel senso appena sopra indicato.
Ecco dunque che – in un quadro più ampio e ragionato – risulterebbe possibile la “riconciliazione” tra la legge di riforma della giustizia tributaria e la delegazione normativa sulla revisione territoriale degli uffici giudicanti ossia tra i due “sistemi organizzativi” che tali fonti legislative – in piena, chiara, contraddizione – prefigurano, ma che, proprio per questo, danno l’opportunità di risistemare e di riequilibrare il nuovo sistema giurisdizionale.
Bisogna capirlo. E poi volerlo.
[1] In questo senso, v. per tutti P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, p.36 ss.; contra, v. per tutti, F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 1997, p. 322 ss.; inutile citare la giurisprudenza di legittimità trattandosi di principi di diritto del tutto consolidati e tralatizi.
[2] E. Manzon, F. Pistolesi, Una “Cassazione speciale” da affiancare alla Cassazione ordinaria: brevi appunti sull’idea di una Corte di giustizia tributaria centrale, in questa Rivista, 28 marzo 2024; E. Manzon, L’incerta alba della quinta magistratura, in questa Rivista, 28 giugno 2024; v. anche C. Glendi, L’ “inquietante aurora” della “prima” magistratura tributaria, in questa Rivista, 12 settembre 2024.
Immagine: mappa della penisola italiana, datata 1654. Dall'archivio della Libreria antiquaria Bourlot di Marco Birocco, Torino, via Wikimedia Commons.
È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza.
Audizione presso le Commissioni Affari costituzionale e Giustizia del Senato della Repubblica, sul disegno di legge A.S. n. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, martedì 22 ottobre 2024.
di Enrico Grosso
Desidero in primo luogo ringraziare questa Commissione per avermi chiamato ad interloquire sul disegno di legge A.S. n. 1236 in tema di sicurezza pubblica. Non posso che manifestare il mio apprezzamento per l’attenzione e per l’interesse mostrati, convinto che dal più ampio allargamento del dibattito possano emergere utili elementi di approfondimento in ordine ai punti più delicati o critici della proposta.
Mi concentrerò sul significato complessivo che mi sembra si possa trarre dall’analisi di alcuni specifici aspetti del disegno di legge in discussione, il quale contiene per la verità norme assai varie ed eterogenee. Alcune di quelle norme, peraltro, sembrano conferire una particolare “cifra simbolica” all’intero pacchetto. Mi riferisco in particolare:
all’art. 13, che estende i casi di applicazione della misura di prevenzione del divieto d'accesso alle aree urbane (DACUR, c.d. Daspo urbano);
all’art. 14, che reintroduce la repressione penale del c.d. “blocco stradale o ferroviario” attuato “mediante ostruzione fatta col proprio corpo”, nonché un’apposita aggravante se “il blocco stradale o ferroviario attuato con il proprio corpo è commesso da più persone riunite”;
all’art. 19, che introduce una serie di aggravanti al delitto di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, tra cui quella che punisce più severamente il fatto se “commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”;
all’art. 20, che introduce la nuova fattispecie di reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni;
all’art. 26, che introduce una serie di misure repressive della disobbedienza all’interno degli istituti penitenziari, tra cui l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso dentro un carcere, o il delitto di rivolta, inteso come un complesso di atti di “resistenza” (anche passiva) all’esecuzione degli ordini impartiti, consistenti in condotte che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza, con pene più gravi per i promotori;
all’art. 27, finalizzato a reprimere ogni forma di protesta da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento ed accoglienza, ivi compresa la resistenza passiva, intesa anche in questo caso come complesso di “condotte che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”.
Ho ascoltato con molto interesse le analisi dettagliate e approfondite che altri autorevoli auditi hanno proposto, nel corso di questa e di altre sedute, in ordine al contenuto delle singole disposizioni. Su molte di quelle analisi concordo, e non vi tornerò. Proverò invece a gettare uno sguardo d’insieme sui principi ispiratori che sembrano informare il disegno di legge e ad offrirne una chiave interpretativa.
Si tratta, mi pare, di misure complessivamente ispirate dal medesimo principio ordinante: in nome di una presunta necessità di “tutela della sicurezza”, e in definitiva in nome della volontà di affermare un generale obiettivo di “mantenimento dell’ordine sociale”, si ritiene non solo concretamente possibile (in quanto non contrario ad alcun principio costituzionale), ma addirittura desiderabile, arrivare a sacrificare o comunque limitare l’esercizio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. E dunque si valuta che valga la pena affrontare (e che sia ragionevole ipotizzare che si possa vincere) la sfida giuridica che inevitabilmente verrà lanciata, con la massima durezza e in tutte le possibili sedi giudiziarie, rispetto alla tenuta di quelle norme nel confronto con le disposizioni costituzionali che tali diritti garantiscono.
Sono norme di alto valore simbolico, che preconizzano e pretendono di introdurre nell’ordine sociale una nuova gerarchia dei valori di riferimento. Quei nuovi valori di riferimento vengono suggeriti alla società come il fondamento di un ordinamento diverso da quello attuale, idoneo a mettere in discussione stabilizzati assetti costituzionali e consolidati equilibri che un tempo si ritenevano anche culturalmente non più discutibili.
Dico per inciso – e non svilupperò questo punto – che resta poi da vedere se a questa enorme carica simbolica corrisponda anche una effettiva idoneità pratica a perseguire davvero gli obiettivi apparentemente posti alla base della formulazione di tali norme. Si tratta di un problema che a sua volta impatta direttamente sulla loro legittimità costituzionale: il diritto è strumento pratico, che deve servire a offrire risposte effettive a problemi concreti, e se gli specifici strumenti normativi di volta in volta escogitati, oltre a presentare problemi di compatibilità in sé con taluni principi costituzionali, sono anche inidonei a realizzare i fini che individuano, essi sono in ogni caso illegittimi in quanto sacrificano irragionevolmente i suddetti principi costituzionali in nome di un obiettivo che – se anche giustificasse in astratto la compressione di tali principi – non potrebbe essere raggiunto.
Si badi bene: non è in sé e per sé vietato porre limiti all’esercizio di un diritto fondamentale. Tutti i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti vanno opportunamente bilanciati con altri diritti e altri principi, a loro volta costituzionalmente protetti.
Tuttavia, proprio quando si va a incidere su diritti costituzionali, ogni limitazione deve essere valutata nella sua ragionevolezza e nella sua proporzionalità. E il primo indice di irragionevolezza e di sproporzione è proprio l’eccesso di valore “simbolico”, l’attrito che si crea tra il messaggio propagandistico che si intende lanciare a partire da una determinata lettura politica della realtà e l’impatto reale che la norma implica, ossia l’effetto pratico che essa è davvero in grado di produrre.
Lo “spirito” che sembra animare l’insieme delle norme qui in discussione è la volontà di introdurre nuovi e più vasti spazi di criminalizzazione di comportamenti che si dichiara essere “minacciosi” nei confronti della sicurezza ma che, in larga parte, costituiscono mere forme di manifestazione di dissenso. Si tratta di comportamenti usualmente tenuti nell’ambito del normale esercizio di diritti costituzionali (in particolare della libertà di riunione e della libertà di manifestazione del pensiero), e rispetto ai quali, quindi, occorre misurare con grande attenzione fino a che punto la loro repressione possa ritenersi consentita dalle norme costituzionali poste a protezione di quei diritti.
Ricordo a me stesso, e lo sapete voi stessi meglio di me, che la sovranità popolare – quella che il Parlamento può legittimamente rappresentare – è solo ed esclusivamente la sovranità che si esercita, oltre che nelle forme, anche nei limiti (sostanziali) previsti dalla Costituzione. Il Parlamento, negli ordinamenti costituzionali contemporanei, è un organo per sua natura a sovranità limitata. E ciò in quanto è il popolo stesso che il Parlamento rappresenta ad essere qualificato dalla Costituzione come un soggetto a sovranità limitata. Limitata, appunto, dalla Costituzione. Limitata inoltre, oggi, anche dal contesto delle Carte e delle norme sovranazionali cui la Costituzione, esplicitamente o implicitamente, attribuisce un valore superiore a quello della legge (ossia dell’atto tipico con cui si manifesta la volontà dell’organo rappresentativo). Su questo principio si fonda il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi. Sul medesimo principio si fonda il potere/dovere dei giudici di dare diretta applicazione al diritto dell’Unione europea, anche disapplicando le disposizioni di legge che con esso contrastino.
Quando una legge viene dichiarata incostituzionale, o viene disapplicata per contrasto con una norma sovranazionale, ciò non avviene perché la Costituzione “ce l’ha col popolo”, ma perché il concetto stesso di “popolo” è in realtà una mera finzione semplificatrice. Dietro alla parola “popolo” si manifesta la realtà di una società pluralistica, differenziata, disuguale, conflittuale e contemporaneamente aperta, democraticamente orientata al confronto, al dibattito pubblico, alla partecipazione. La Costituzione espressamente esclude che si possa accreditare un’idea di popolo come entità omogenea dal punto di vista culturale e politico. E dunque l’integrazione sociale, nei contesti di accentuato (e crescente) pluralismo che caratterizzano le società contemporanee, non può essere un dato presupposto, al massimo un obiettivo da perseguire. Per questo la “sovranità” non risiede (più) nel “popolo”, bensì nella Costituzione stessa. L’attribuzione effettiva della sovranità, cioè, è affidata anch’essa a una finzione.
Ciò significa che il dissenso, e financo il conflitto sociale, sono ampiamente e complessivamente difesi e protetti. Perché essendo la società pluralista, la Costituzione promuove e protegge ogni attività sociale che preservi e mantenga nel tempo quella struttura pluralistica. E lascia che il conflitto sociale produca da solo i suoi equilibri, salvi i limiti esterni introdotti affinché esso non degeneri in atti di violenza, producendo disgregazione sociale. Per il resto il dissenso, in qualsiasi forma espresso, e da chiunque, è non solo lecito, ma costituzionalmente garantito.
A me pare che la maggior parte delle norme del disegno di legge qui in discussione, almeno quelle che ho individuato all’inizio, minaccino ingiustificatamente libertà civili e politiche strettamente connesse alla manifestazione del dissenso. Il quale è protetto in primo luogo in quanto forma di accesso al dibattito pubblico delle richieste di emancipazione delle minoranze sociali, dalla Costituzione non solo presupposte, ma specificatamente tutelate e difese, anche (anzi soprattutto) quando si esprimono attraverso atti di protesta e contestazione.
Su questo punto è bene essere particolarmente chiari, perché si tratta della pietra angolare dello Stato costituzionale. La divergenza politica e sociale è un valore protetto. E qualunque norma repressiva che sia funzionale a rendere più difficile l’espressione della divergenza politica e sociale è contraria alle “forme” e ai “limiti” di cui parla l’art. 1.
Insomma, la Costituzione parte dal presupposto che, a partire dalla consapevolezza dell’esistenza di diseguaglianze, sia compito della Repubblica (quindi non soltanto della “politica” nel senso più ristretto della rappresentanza politica, ma della società complessivamente intesa, attraverso tutte le sue manifestazioni e articolazioni) rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’emancipazione personale e sociale, e dunque combattere – pacificamente – affinché ciò avvenga. Le dinamiche sociali, e ogni loro manifestazione esteriore, sono in questo senso incentivate e favorite.
Invece le norme contenute nel disegno di legge qui in discussione sembrano essenzialmente dirette a reprimerle e soffocarle. A penalizzare condotte che vengono in tal modo additate come comportamenti propri di un deviante, di un avversario (se non addirittura di un “nemico”) della società, mentre costituiscono per lo più legittime forme di manifestazione del pluralismo sociale.
La Costituzione presuppone che i subalterni, i marginali, gli “ineguali” che lottano per la propria dignità e per il riconoscimento della propria autodeterminazione siano protagonisti di una società che li ricomprende, e non abusivi di un “popolo” che li espelle. E proprio il conflitto è lo strumento attraverso cui tale emancipazione può essere promossa, e auspicabilmente realizzata e riconosciuta. La Costituzione non presuppone una società statica ma una società dinamica, che rifiuta il mantenimento dello status quo, che accetta la complessità del reale, che rende vivo e vitale il pluralismo.
E questo lo fa per una ragione principale, che sembrerà forse a qualcuno paradossale ma che è la vera ragione giustificatrice dello Stato costituzionale pluralista: solo difendere un sano pluralismo conflittuale ci preserva dalla guerra civile, ossia da guai assai peggiori. Il pluralismo conflittuale preserva e alimenta la coesione sociale; la protezione securitaria di taluni valori “contro” altri la fa esplodere. Se si nega il dissenso e il conflitto e se ne reprimono le forme di manifestazione, si spingerà ogni minoranza, ogni gruppo sociale o politico che si trovi in una situazione di svantaggio sociale, a non sentirsi più legato da alcun patto sociale, a non percepire più alcuna convenienza all’integrazione. Le Costituzioni del secondo dopoguerra sono state scritte per preservare le società pluralistiche dai drammi della disgregazione e della contrapposizione violenta che avevano deflagrato in Europa spingendola sull’orlo dell’autodistruzione.
Sono molte le disposizioni contenute nel DDL n. 1236 che sembrano mettere in discussione questi capisaldi del costituzionalismo contemporaneo. Esso prevede l’introduzione di una serie di nuovi reati, nonché molte circostanze aggravanti a reati già esistenti, che vanno deliberatamente a colpire – a scopo evidentemente repressivo – l’area della manifestazione del dissenso e le sue modalità di espressione, specie nei luoghi, e tra le persone, ove più acutamente emergono disagio, diseguaglianza, povertà, e dove pertanto è più probabile che tale dissenso deflagri in pubbliche manifestazioni di protesta.
Si propone di reprimere penalmente la mera resistenza passiva, anche se pacifica e non violenta, nel corso di pubbliche manifestazioni. L’art. 14, infatti, reintroduce il reato di “blocco stradale”, che era stato in passato oggetto di depenalizzazione e di cui si prevede la ri-penalizzazione anche quando attuato “mediante ostruzione fatta col proprio corpo”. Si badi bene: Il reato di blocco stradale, introdotto nell’ordinamento penale nel 1948, si applicava solo ed esclusivamente a chi ostacolasse strade ordinarie e ferrate apponendo dei blocchi. Mai, fino ad oggi, è stata prevista una sanzione penale nei confronti dei manifestanti che si limitino ad opporre il proprio fisico al passaggio di treni o auto nel corso di una protesta. Peraltro, l’originaria fattispecie che puniva la condotta di chi abbandonasse sulle strade e sui binari oggetti atti a bloccare, era stata oggetto, fin da subito, di così aspre contestazioni per il suo carattere di per sé irragionevolmente repressivo del dissenso politico, da essere dapprima sostanzialmente depotenziata, con una lunga serie di provvedimenti di amnistia, per poi essere infine oggetto di depenalizzazione nel 1999. Tutto ciò non era affatto casuale. L’occupazione di vie pubbliche costituisce storicamente un tipico strumento utilizzato da chi manifesta dissenso, in occasione di scioperi o di cortei di protesta, specie da parte di lavoratori in lotta per la difesa del loro posto di lavoro. Essa è da tempo considerata una modalità di esercizio di diritti fondamentali, dalla libertà di riunione al diritto al lavoro (e al connesso diritto di sciopero finalizzato alla difesa della sua effettività). In tale contesto, la depenalizzazione del reato di blocco stradale del 1999 è stata univocamente interpretata come applicazione del principio del c.d. “diritto penale minimo”, che riserva le fattispecie criminose alle condotte lesive di diritti e valori primari dell’individuo. Nel 2018, del resto, il reato di blocco stradale è stato reintrodotto, ma con espressa esclusione dell’ostruzione effettuata col solo proprio corpo (per la quale è stata prevista una semplice – e già di per sé del tutto discutibile – sanzione amministrativa). Oggi, stabilendo la repressione penale della mera resistenza passiva, si pretende di colpire proprio quei comportamenti non violenti, di per sé privi di effettiva offensività nei confronti di beni primari, attraverso i quali si esprime pacificamente il conflitto sociale.
Si introduce poi una serie di aggravanti di luogo e di contesto, prevedendo che il medesimo fatto sia da considerare più grave se commesso in determinati luoghi, che sono quasi sempre quelli ove più frequentemente si consumano situazioni di disagio o di degrado: dentro un carcere, o in un centro di trattenimento per stranieri, o nelle periferie urbane, o nelle zone prospicenti le stazioni ferroviarie. Si prevede un’aggravante specifica per chi commette un fatto di resistenza “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”: ossia si pretende di colpire non soltanto l’atto in sé (la resistenza), ma anche – e più gravemente – la finalità dell’atto medesimo, qualificando come intrinsecamente più grave la presunta “ribellione” di una minoranza dissenziente alla decisione, assunta da parte di una maggioranza, di procedere alla realizzazione di un’opera pubblica. Il che non significa, ovviamente, che tale maggioranza politica non abbia il pieno diritto di imporre la sua decisione: ciò che appare fortemente discutibile è che a protezione di tale decisione si debba far luogo alla previsione di un più grave reato per chi dissente e tale dissenso manifesti pubblicamente.
Si prevede inoltre una nuova fattispecie delittuosa, consistente nelle “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni”. Anche in questo caso, non è in discussione l’atto in sé ma la sua finalità: l’ufficiale di pubblica sicurezza nell’adempimento delle sue funzioni, nel corso di manifestazioni pubbliche ove si esercita la libertà di opinione delle minoranze politiche e sociali, è solitamente colui che sta eseguendo un’attività di contenimento di tali pubbliche manifestazioni per conto dell’autorità politica che sovrintende alla gestione dell’ordine pubblico, ossia del governo. La più severa punizione di tali condotte offre obiettivamente una più incisiva – e irragionevole – protezione del medesimo bene giuridico, per il solo fatto che quel bene giuridico sia stato leso in occasione di attività di repressione del dissenso.
Le norme sopracitate, nel loro complesso, sollevano dunque forti dubbi rispetto alla tenuta di fondamentali diritti posti dalla Costituzione ad espresso presidio della generale e indefettibile libertà di dissentire pubblicamente dalle decisioni di chi esercita il potere. A cominciare dalla libertà di riunione e di manifestazione sindacale e politica, nonché dalla libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e di incidere, in tal modo, sul libero sviluppo del dibattito pubblico.
La libertà di riunione, come è stato autorevolmente sottolineato, è il diritto a «stare fisicamente insieme con altri» (secondo la celebre definizione di Alessandro Pace) con lo specifico fine non soltanto di manifestare individualmente, ma soprattutto di condividere con altri e di comunicare all’opinione pubblica il proprio pensiero, contribuendo così a “costruire” il dibattito pubblico. Chi si riunisce, sottolinea Pace, ha pertanto il diritto di «contrapporsi, anche fisicamente, ai detentori del potere nella discussione dei problemi, nella elaborazione collettiva di proposte politiche, e soprattutto, nelle manifestazioni e nei cortei di protesta», proprio perché è in tal modo che, in una società pluralistica, si rispetta e si valorizza la diversità di opinioni, di idee, di punti di vista, tutelando il diritto delle minoranze di “pensarla diversamente” dalle maggioranze e di esercitare la propria legittima opposizione alle loro decisioni.
La libertà di riunione è dunque strettamente funzionale all’esercizio effettivo di altri fondamentali diritti di libertà e principi costituzionalmente protetti (dalla libertà di opinione, al pluralismo politico, sindacale, religioso, e così via). Per tale ragione, le specifiche “finalità” per le quali ci si riunisce non rilevano, e non devono rilevare, per la Costituzione, la quale si limita a richiedere un vincolo di mezzi. La previsione della forma “pacifica” di ogni riunione è funzionale a evitare, quale che sia il fine per il quale di volta in volta ci si riunisce, e quale che sia la forma che tale riunione di volta in volta assuma (il corteo, il picchetto di protesta, l’assemblea pubblica), che la riunione degeneri in disordine violento, ossia che sia concretamente ed effettivamente violato il c.d. “ordine pubblico materiale”.
Orbene, a me pare che le citate disposizioni del disegno di legge in discussione siano essenzialmente dirette a garantire non tanto la tutela dell’ordine pubblico materiale (ossia la mera assenza di violenza nello svolgimento di una riunione per altro verso in ogni caso del tutto lecita), bensì piuttosto quella di un più vago e minaccioso ordine pubblico ideale. Non si intende affatto preservare il diritto a manifestare liberamente, isolando i violenti dalla massa dei pacifici. Si intende invece impedire anche ai pacifici di manifestare (pacifici essendo, in tutta evidenza, gli atti di resistenza passiva), in nome della tutela dello status quo politico- sociale. E questo l’art. 17 della Costituzione non lo consente. Esso è posto a specifica tutela del diritto di dissentire, di protestare, di contestare quello status quo, di operare pubblicamente per cambiarlo.
Lo stesso discorso vale per la libertà di manifestazione del pensiero. Anch’essa è strettamente funzionale alla difesa del pluralismo, della partecipazione, dell’esercizio del metodo democratico, del dissenso. La sua protezione, pertanto, è strettamente connessa a quella della libertà di riunione, che costituisce una delle più efficaci modalità organizzative funzionali alla espressione collettiva e alla pubblica condivisione di opinioni alternative a quelle maggioritarie o dominanti. L’una e l’altra, così come la libertà sindacale, la libertà di associarsi in partiti e di concorrere in tal modo a determinare le singole scelte politiche, la libertà religiosa, e altre, testimoniano complessivamente di una esplicita ostilità della Costituzione nei confronti di qualsiasi politica di prevenzione e di repressione della mera disobbedienza.
Sono, in conclusione, preoccupato dell’introduzione di molte delle norme di questo pacchetto, perché mi paiono avere l’obiettivo “simbolico” di incentivare una generale delegittimazione del dissenso, attraverso un’interpretazione ampia e dilatata (e quindi incostituzionale) del limite della sicurezza e dell’ordine pubblico, non più inteso come ordine pubblico materiale bensì come ordine pubblico ideale. In altre parole, mi pare che emerga la volontà di attribuire un contenuto di intrinseca pericolosità, giustificandone così la repressione, a comportamenti che incidono non sulle modalità di esercizio delle libertà costituzionali, ma sul contenuto di queste ultime.
E si finisce così per far coincidere la difesa dell’ “ordine pubblico” con la difesa dell’ “ordine costituito” (nel senso degli assetti politici ed economici costituiti). Un ordine costituito fondato sui principi che chi esercita – pro tempore – la funzione di indirizzo politico ritiene indispensabili per la sopravvivenza del “suo” ordinamento. Salvo che l’ordinamento non è affatto “suo”. Esso è anche di tutti quei dissidenti che legittimamente lo combattono, e che aspirano a cambiarlo, perché proprio questo è il senso dello Stato costituzionale pluralista: la libera e permanente disponibilità del potere di determinazione dell’indirizzo politico.
Tutto ciò, come dicevo, rappresenta un pericolo potenziale per la tenuta della democrazia, intesa come democrazia pluralista. Senza contare che ogni restrizione di tali libertà, ogni “deriva penalistica” che reprima il dissenso, è destinata a non portare altro, con sé, che l’acutizzarsi e l’esasperarsi di quel medesimo dissenso: sarà così sempre più improbabile che esso possa essere incanalato nelle forme pacifiche che la Costituzione promuove e preserva.
La democrazia pluralistica presuppone partecipazione, non mera obbedienza. Ed esige di conseguenza un uso non violento del diritto. Anzi, la Costituzione è nata per questo, per depotenziare la carica di violenza insita nella (più antica) idea del diritto come mero strumento in mano a chi detiene il monopolio della forza legittima. Le libertà sono espressione del desiderio di promuovere, di epoca in epoca, nuovi assetti di potere, sempre rinnovabili e ridiscutibili. Anche in questo aspetto andrebbero tutelate: in quanto generatrici di dissenso, di conflitto, e pertanto garanzia permanente di conservazione del carattere eminentemente pluralistico della società, pronta in ogni occasione a cambiare i propri indirizzi politici entro un comune e condiviso quadro di principi costituzionali. Le norme su cui mi avete chiesto di soffermarmi, anche se lo facessero solo “simbolicamente”, mi pare minaccino gravemente la tenuta complessiva di questo meta-principio, presupposto indefettibile per la sopravvivenza stessa dello Stato costituzionale.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria e Il DDL Sicurezza e il carcere. Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) di Fabio Gianfilippi.
Immagine: Peter Henry Emerson, The Old Order and the New, 1886, Ada Turnbull Hertle Fund, Chicago Art Institute.
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