Città “immaginata” e città “realizzata” secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2024, n. 14)
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’orientamento (sino ad ora) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria. – 3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire. – 4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
1. La vicenda.
L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi sul regime giuridico applicabile alle opere edilizie regolarmente assentite ma solo parzialmente realizzate entro il termine di efficacia del titolo, con specifico riferimento all’ipotesi nella quale - a seguito della decadenza del permesso di costruire - non vi sia alcuna iniziativa da parte del soggetto interessato volta a conseguire il completamento dei lavori.
Come noto, ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, l’opera deve essere completata non oltre tre anni dall'inizio dei lavori, con la conseguenza che, decorso tale termine “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”[1]. La norma, in effetti, non chiarisce espressamente il regime giuridico delle opere incomplete realizzate nel corso della vigenza del titolo, limitandosi a disporre che “la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività”.
Il fenomeno non è affatto secondario. Nell’intera penisola si registra la presenza di numerosi manufatti – spesso di notevoli dimensioni e, quindi, particolarmente impattanti – i cui lavori vengono iniziati a seguito del rilascio di un legittimo titolo abilitativo, ma mai portati a termine. Mura non intonacante e prive di copertura, pilastri da cui emergono armature di ferro arrugginite, scheletri di cemento del tutto privi di funzione e spesso da tempo abbandonati, che non solo deturpano la bellezza del nostro territorio, ma rappresentano altresì un chiaro ostacolo per il pianificatore, nonché per l’attuazione di processi di rigenerazione urbana.
Come emergerà nel prosieguo, la questione va ben al di là del profilo estetico, interessando aspetti di tipo ambientale (consumo dei suoli e inquinamento derivante dal deterioramento dei materiali), economico (deprezzamento dell’intera area), e sociale (attesa l’influenza del degrado urbano sulla qualità della vita).
La gran parte dei manufatti non ultimati è di proprietà privata[2], e solo in piccola percentuale si tratta di volumi abusivi in senso proprio, ovvero realizzati in assenza di un titolo abilitativo; molti di essi sono, al contrario, il frutto di lavori legittimamente assentiti – quindi originariamente dotati di regolare permesso di costruire – ma poi, per le più diverse ragioni, non ultimati.
La vicenda oggetto di pronuncia rientra per l’appunto in quest’ultima fattispecie, originando dal rilascio di un permesso di costruire finalizzato alla realizzazione di garages interrati, i cui lavori venivano sospesi poco dopo il loro avvio e non più ripresi. La sospensione avveniva in ragione di una sentenza penale con la quale erano stati condannati sia il commissario ad acta che aveva rilasciato il titolo sia il soggetto richiedente, sentenza che aveva incidenter accertato la assoluta illegittimità del permesso di costruire rilasciato. L’amministrazione comunale, tuttavia, non annullava il titolo abilitativo, bensì – decorsi i tre anni dalla comunicazione di inizio lavori – ne dichiarava la decadenza. Successivamente, su sollecitazione di WWF Italia, il comune dapprima ordinava il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in epoca antecedente all’esecuzione delle opere e, in seguito – attesa la mancata ottemperanza all’ordine da parte del proprietario – acquisiva la particella al patrimonio comunale.
Entrambi i provvedimenti (ordine di demolizione e acquisizione) venivano impugnati innanzi al T.A.R. Campania, che tuttavia concludeva per la legittimità degli stessi, affermando che la decadenza del permesso di costruire “travolgerebbe” anche le opere realizzate entro il termine di efficacia del titolo, salvo il caso in cui sia consentito ultimare l’intervento, circostanza esclusa nel caso di specie, atteso che nell’area di riferimento risultavano ammissibili unicamente interventi edificatori di iniziativa pubblica.
Avverso tale decisione veniva proposto appello, fondato essenzialmente sulla considerazione che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio legittimo ed efficace, poi decaduto (ma non annullato), non avrebbero potuto essere oggetto di una sanzione demolitoria. L’amministrazione, infatti, avrebbe erroneamente ritenuto potersi configurare nel caso di specie un’ipotesi di abuso edilizio, laddove, al contrario, l’inefficacia del titolo scaturente dalla decadenza del medesimo opererebbe ex nunc, ovvero unicamente nei confronti degli eventuali interventi eseguiti senza titolo successivamente alla scadenza del termine di tre anni dall’inizio dei lavori.
Ebbene, in sede di appello, il Collegio[3] – pur ricordando che la giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato si è più volte espressa nel senso di ritenere non applicabile la sanzione demolitoria nei confronti delle opere (anche parziali) realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, ove conformi al progetto assentito – prospetta una possibile differente ricostruzione della fattispecie, consistente nella configurazione dell’opera solo parzialmente eseguita in termini di manufatto difforme dal titolo abilitativo (e, quindi, abusivo), con conseguente inclusione della fattispecie nell’ambito applicativo dell’ordine di demolizione di cui all’art. 31 d.P.R. n. 380/2001. Ciò posto, il giudice remittente ha ritenuto opportuno, ai fini della soluzione della controversia, rinviare previamente la questione all’Adunanza Plenaria, sottoponendole il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.
2. L’orientamento (sino ad oggi) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria.
L’interrogativo di fondo è se l’amministrazione possa intervenire con l’esercizio del potere sanzionatorio anche quando l’opera incompiuta sia il risultato di un’attività originata da un titolo abilitativo legittimo, attesa l’assenza di modifiche alle caratteristiche tipologiche del progetto presentato, nonché la mancanza di volumi ulteriori rispetto a quelli assentiti. La fattispecie comprende, in altri termini, le ipotesi nelle quali il privato si sia limitato a realizzare solo una parte di quanto avrebbe potuto (dovuto), ma sempre nei confini di quanto autorizzato.
La lacuna normativa dalla quale origina il quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria concerne, quindi, la qualificazione – in termini di abuso o meno – di un immobile incompleto, in relazione al quale o manchi qualsiasi iniziativa volta a concludere i relativi lavori o, come nel caso di specie, un’eventuale iniziativa in tal senso sarebbe destinata a fallire in ragione dell’incompatibilità con la normativa urbanistico-edilizia di riferimento. Come già ricordato, la norma si limita a prevedere che, una volta decorso il termine, il permesso decada “per la parte non eseguita”, il che sembrerebbe configurare quanto costruito come perfettamente legittimo, indipendentemente dallo stato di avanzamento dei lavori raggiunto.
Queste sono, in effetti, le conclusioni sulle quali si è assestata l’esigua giurisprudenza che sino ad oggi si è occupata della questione, laddove afferma che “la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, le quali non possono essere ritenute abusive ove risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire, ma comporta semplicemente la necessità del titolare decaduto di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate”[4].
Tale orientamento si fonda sul presupposto (invero non contestabile) che la decadenza operi unicamente ex nunc, non travolgendo quindi l’efficacia del titolo ab initio[5]. Da qui deriverebbe come immediata conseguenza (questa volta, come si vedrà, contestabile) l’inapplicabilità al caso di specie del regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001: l’ordine di demolizione sarebbe legittimo solo laddove avesse ad oggetto non le opere realizzate in costanza di efficacia del permesso, bensì eventuali interventi posti in essere successivamente alla scadenza del termine di tre anni, senza il previo ottenimento di una proroga o di un nuovo titolo.
In questa prospettiva, il giudice remittente svolge anche ulteriori riflessioni, con particolare riferimento alla disciplina di cui all’art. 38 del t.u. edilizia, ai sensi del quale – in caso di interventi eseguiti in base ad un permesso di costruire successivamente annullato – è prevista la possibilità di comminare una sanzione pecuniaria in luogo della restituzione in pristino[6]. Ebbene, osserva il Collegio, se la ratio dell’introduzione di un regime sanzionatorio più mite in relazione ad opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad interventi ab origine abusivi si giustifica in ragione dell’opportunità di tutelare il legittimo affidamento del privato[7], “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.
3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire.
In uno scritto di qualche anno addietro, chi scrive aveva provato a porre in discussione il descritto orientamento consolidato del giudice amministrativo, valorizzando, da un lato, la funzione sociale del diritto di proprietà e, dall’altro lato, la centralità del fattore temporale nelle dinamiche di trasformazione del territorio[8].
Una lettura non superficiale della funzione di pianificazione del territorio, così come risultante dalle coordinate costituzionali e dai principi generali di riferimento, non può limitarsi a valorizzarne la portata “spaziale”, dovendosi attribuire alla stessa anche il ruolo di strumento per la definizione di un determinato modello di sviluppo socioeconomico del territorio. L’esercizio del potere pianificatorio e dei correlati c.d. poteri conformativi, in altri termini, non è finalizzato alla sola ordinata distribuzione di volumi e infrastrutture, in una prospettiva, quindi, meramente quantitativa e dimensionale: al pianificatore, piuttosto, è richiesta la definizione di un vero e proprio “disegno” del territorio, che tenga conto delle potenzialità edificatorie non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze economico-sociali della comunità[9]. In tale ottica, si giustifica la previsione di una zonizzazione funzionale, oltre che strutturale, volta a rivestire i singoli volumi di una dimensione anche qualitativa, con la conseguenza che il rilascio di un titolo abilitativo finisce per rappresentare il frutto di una valutazione (effettuata in sede di pianificazione) che va ben oltre la mera verifica quantitativa circa la compatibilità tra l’assetto del territorio ed i volumi in progetto[10].
Se si aderisce a tale ricostruzione, è bene chiarirlo sin d’ora, deve coerentemente ritenersi che al cittadino al quale venga rilasciato un permesso di costruire non possa essere consentito realizzare anche solo una parte di quanto progettato (purché nell’ambito dei volumi assentiti), come invece pure sostenuto da una parte della giurisprudenza[11]: egli, piuttosto – essendo chiamato (anche) a contribuire al complessivo disegno di sviluppo del territorio – è tenuto ad attuare esattamente quanto richiesto, e per di più nei tempi previsti. Non può ritenersi ammissibile, in altri termini, fissare gli obiettivi di sviluppo nel piano e lasciare alla libera iniziativa dei singoli la scelta circa il “se” e il “quando” attuarli, dovendosi al contrario dotarsi di strumenti in grado di incentivare e indirizzare la realizzazione di quanto prescritto, attraverso la definizione di mezzi, procedure e, per l’appunto, tempi[12].
A tale idea si ispira evidentemente il modello di pianificazione definito «a due stadi», laddove si affianca ad una parte strutturale, contenente le c.d. invarianti, una parte operativa, chiamata invece a definire concretamente le trasformazioni da realizzarsi e, soprattutto, entro quanto tempo ciò debba avvenire[13]: il piano, si ribadisce, nella sua dimensione operativa non si limita a riconoscere in capo al privato la possibilità di “calare” una certa volumetria sulla propria area, ma impone allo stesso anche il rispetto di una determinata tempistica per realizzare (esattamente) quanto autorizzato.
La centralità del fattore “tempo” trova, poi, piena conferma nella stessa disciplina del permesso di costruire e nella relativa indicazione dei termini di inizio e ultimazione dei lavori. Come ricorda la pronuncia in commento, “l’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire”. Al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che entro il termine di ultimazione dei lavori l’opera deve essere realizzata sia nella sua dimensione strutturale che funzionale, dovendo la costruzione essere potenzialmente idonea ad assolvere alla destinazione prevista. La stessa nozione di “opera completata” è, allora, legata non solo alla circostanza che il manufatto risulti materialmente realizzato nelle sue strutture portanti, ma anche che esso si riveli funzionalmente adeguato allo scopo per il quale era stato progettato[14].
Ebbene, come già osservato, nelle ipotesi in cui i lavori non risultino completati entro il termine indicato nel titolo, la norma dispone la decadenza dello stesso “per la parte non eseguita”. La centralità riconosciuta alla coordinata temporale, tuttavia, non comporta una assoluta rigidità della stessa, se solo pensiamo che il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato, da un lato, di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire[15], e, dall’altro lato, in caso di avvenuta decadenza, di richiedere un nuovo titolo (o, nel caso, di presentare una s.c.i.a.) per il completamento delle opere[16].
Alla luce del contesto delineato, è allora possibile ricostruire correttamente la fattispecie in esame, facendone emergere la complessità e la correlata esigenza di effettuare puntuali distinguo. Come detto, a fronte di un intervento non ultimato e della relativa decadenza del titolo, il legislatore si limita ad indicare al soggetto interessato le modalità attraverso cui portare a compimento i lavori (la richiesta di un nuovo permesso o la presentazione di una s.c.i.a.), dando in qualche modo per scontata la volontà di ultimare l’opera iniziata: manca del tutto, dunque, una disposizione atta a regolare il caso (invero, come è emerso, niente affatto raro) nel quale questa volontà non sussista.
Ciò posto, la Plenaria affronta la questione in una prospettiva, pienamente condivisibile, secondo la quale occorrerebbe in primo luogo verificare di volta in volta il livello di incompiutezza rilevabile: se gli interventi ancora da realizzarsi sono circoscritti e, di fatto, la loro assenza non preclude una (anche parziale) funzionalità dell’opera, appare coerente con la complessiva disciplina del regime dei suoli che la mancata realizzazione dell’intero intervento entro il termine finale comporti semplicemente l’inefficacia del titolo per la parte non eseguita. Al contrario, a fronte di un volume gravemente incompleto e, quindi, del tutto inidoneo a soddisfare quella funzione a cui era stato destinato (o altra analoga), la reazione dell’ordinamento non può che essere di diverso tenore, nella misura in cui l’inerzia del privato finisce per assumere un significato che va ben oltre la sua posizione individuale di proprietario[17]. Se, infatti, ci ricorda il Collegio, la ratio del previo rilascio del titolo abilitativo riposa nella necessaria verifica che il nuovo manufatto sia coerente con il complessivo disegno del pianificatore, assolvendo alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio, allora trova conferma la tesi secondo la quale il permesso di costruire non riconoscerebbe al cittadino la facoltà di realizzare ciò che desidera “entro” un certo volume, bensì “gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.)”.
La (grave) non conformità (strutturale e funzionale) del manufatto non permette, quindi, di tollerarne la permanenza sul territorio, con consequenziale dovere dell’amministrazione di ordinarne la demolizione. E ciò nel pieno rispetto della tassatività del regime sanzionatorio[18], nella misura in cui la fattispecie in questione non rappresenta affatto un’ipotesi ulteriore di abuso, rientrando piuttosto nella tipologia della totale difformità. L’accezione che di quest’ultima viene tralatiziamente proposta da parte della giurisprudenza, sia amministrativa che penale – ovvero di intervento connotato dalla esecuzione di volumi ulteriori rispetto a quelli autorizzati – si rivela a ben vedere errata o, meglio, parziale[19]. La totale difformità, infatti, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, si configura ogniqualvolta si realizzi un organismo edilizio integralmente diverso - per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione - da quello oggetto del permesso stesso, ovvero si eseguano volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto[20]. Il che consente di qualificare come abusivo un immobile ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non sia in alcun modo riferibile a quella assentita, con la specificazione che la realizzazione di un incremento volumetrico non consentito rappresenta solo una delle possibili fonti di tale difformità, configurabile, sottolinea la Plenaria, anche nel caso in cui vi sia il “mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio”.
Ebbene, nel condurre alle logiche conseguenze il proprio percorso argomentativo, il Collegio inquadra la fattispecie in esame nella categoria del “non finito architettonico”[21] – ravvisabile quando le opere realizzate risultano incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da condurre ad un manufatto diverso da quello autorizzato – facendone poi derivare la piena sussistenza del fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino, consistente nella configurazione di un abuso, sub specie di difformità totale dal permesso di costruire.
Interessante, al riguardo, una pronuncia del Consiglio di Stato che già nel 2021 sembrava accogliere tale prospettiva, laddove specificava come si potesse configurare la legittimità degli interventi realizzati prima della decadenza del titolo solo a condizione che “dette opere siano autonome e scindibili”, ovvero abbiano una loro seppur parziale funzionalità[22]. Del resto, a supporto delle conclusioni cui giunge la pronuncia in commento, l’amministrazione giammai avrebbe potuto rilasciare il permesso di costruire nell’ipotesi in cui il progetto originariamente presentato dal privato fosse stato quello poi effettivamente realizzato, ovvero lo scheletro edilizio; pertanto, afferma la Plenaria, il principio di simmetria impone all’amministrazione di “ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire”.
In definitiva – una volta sollecitato, senza esito, il privato ad attivarsi al fine di portare a compimento l’opera – l’amministrazione non potrebbe non reagire di fronte ad un’ipotesi di grave abuso edilizio, con conseguente configurazione in capo alla stessa del dovere di emanare l’ordinanza di demolizione del manufatto, attesa la natura di atti obbligatori a contenuto non discrezionale riconosciuta ai provvedimenti repressivi in materia edilizia[23]. Tali conclusioni, osserva la Plenaria, non configurano affatto una violazione del principio di proporzionalità rispetto al regime meno lesivo di cui all’art. 38 del T.U. edilizia (come pure invece prospettato dalla Sezione remittente), trattandosi di due fattispecie del tutto differenti: in caso di non finito architettonico, il ripristino dello stato dei luoghi si giustifica a fronte della accertata divergenza tra quanto autorizzato e quanto realizzato, divergenza “che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38 cit., in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzatadall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato”.
4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
Alla luce delle considerazioni svolte, emerge con chiarezza come il fenomeno del non finito architettonico sia connotato da una notevole complessità intrinseca e abbia un impatto che va ben al di là del singolo episodio. A ben vedere, infatti, esso intercetta tre elementi centrali delle politiche di governo del territorio: la differenza tra città pianificata e città realizzata, la lotta al degrado urbano, la valorizzazione del fattore temporale. La mancata concretizzazione, nei tempi stabiliti, di quanto autorizzato rende “incompleto” il disegno del pianificatore, frustrando le istanze di sviluppo insite nel piano, con l’aggravio rappresentato dall’inserimento nel contesto urbano di un elemento (lo “scheletro” edilizio) fonte di per sé di degrado ambientale, paesaggistico e sociale.
Il fenomeno è, poi, direttamente legato a quello che forse oggi rappresenta il “tema per eccellenza” del governo del territorio: il consumo di suolo[24]. Gli episodi di incompiutezza architettonica e urbana concorrono, infatti, a rendere incoerenti gli insediamenti e ad incrementare il c.d. sprawl urbano, una delle principali fonti di perdita delle aree di valore ambientale[25].
Ciò premesso, appare evidente la rilevanza delle conclusioni cui giunge la Plenaria con una pronuncia attenta alle reali dinamiche e agli interessi sottesi alle trasformazioni edilizie. Il superamento del precedente orientamento e la consequenziale configurazione del “non finito architettonico” in termini di abuso edilizio, consente finalmente di valicare diversi ostacoli che sino ad oggi hanno spesso impedito di portare a termine processi di rigenerazione urbana, fornendo una soluzione ad un problema di grave degrado, e ottemperando, nel contempo, anche alle pressanti esigenze di razionalizzazione dell’utilizzo della risorsa territorio nell’ottica della riduzione del consumo di suolo. Tra le linee di azione volte ad ottimizzare le politiche di governo del territorio in considerazione della scarsità del suolo vi è, infatti, proprio l’esigenza di tenere in debito conto tutte le risorse inutilizzate, quali siti dismessi e, per l’appunto, edifici la cui costruzione non sia stata terminata.
Non secondaria, poi, la risoluzione di quella evidente contraddittorietà che si registrava tra l’assoggettare alle eventuali sopravvenienze urbanistiche il proprietario che non avesse chiesto per tempo la proroga del permesso di costruire, e il ritenere legittimo (e, quindi, “intangibile”) il manufatto incompleto, con conseguente impossibilità per l’amministrazione di ri-pianificare diversamente l’area.
Permangono, tuttavia, anche a seguito della pronuncia della Plenaria, alcuni elementi di incertezza nella interpretazione del fenomeno in questione. La sentenza, infatti, non chiarisce appieno quello che probabilmente rappresenta il profilo più delicato, laddove afferma che il non finito architettonico si configura qualora – a fronte di un manufatto incompleto – vi sia stata la decadenza del permesso di costruire e “non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda”. L’incertezza si rinviene nella circostanza che il legislatore non indica affatto un termine entro il quale il privato sia tenuto a chiedere il nuovo titolo finalizzato a completare l’opera, il che rende se non altro problematica l’individuazione della sussistenza dell’ultimo presupposto indicato dalla Plenaria. In assenza di un termine legale, infatti, non vi è certezza su quando il titolo non possa essere più richiesto (se non nelle ipotesi in cui la disciplina urbanistico-edilizia dell’area sia mutata e non contempli più quel tipo di intervento edilizio), né tantomeno su quando si possa affermare che il privato non abbia intenzione di chiedere il nuovo titolo. De iure condendo,al fine di giungere ad un assetto di interessi davvero connotato da assoluta certezza, occorrerebbe stabilire ex lege un termine massimo entro cui il privato possa attivarsi per portare a compimento i lavori, ad esempio introducendo una modifica del seguente tenore all’art. 15 co. 3 del d.P.R. n. 380/2001: “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, da richiedere entro un anno dalla decadenza del precedente titolo”.
Altro profilo critico è rappresentato dall’indeterminatezza del concetto di “non finito” o “incompleto” architettonico[26]: non sempre, infatti, ci si trova di fronte a ipotesi come quella oggetto della pronuncia della Plenaria, ovvero nelle quali il grado di incompiutezza è tale da rendere non dubitabile l’assenza di una autonoma funzionalità degli interventi realizzati[27]; in molti casi, il manufatto incompiuto è dotato di una propria (magari minima) funzionalità, sebbene differente e incompatibile con quella originariamente prevista nel titolo: ci si chiede, allora, se anche in tale ipotesi si configuri una fattispecie di abuso per totale difformità. Sul punto, la Plenaria non assume una posizione chiara: in alcuni passaggi, infatti, essa sembra legare l’operatività dell’art. 31 cit. alle sole ipotesi di grave incompiutezza, ad esempio quando richiama la figura dello “scheletro” edilizio come paradigma del non finito architettonico (pag. 19); tuttavia, tale assunto si rivela in contrasto con quanto si legge in altra parte della medesima pronuncia, laddove si afferma che le trasformazioni edilizie sarebbero da considerarsi lecite solo allorquando vi sia “coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato”, potendo essere ritenuti conformi unicamente i manufatti “autonomi funzionalmente” ai quali “manchino soltanto opere marginali” (pag. 20).
Quel che è certo è che, a seguito delle precisazioni della Plenaria, non è più possibile ritenere che la categoria della totale difformità dal titolo edilizio sia connotata da uniformità: occorre, piuttosto, che l’amministrazione “misuri” di volta in volta le divergenze (strutturali e funzionali) e valuti se si configurino o meno i presupposti per l’ipotesi di non finito architettonico, con tutte le conseguenze in termini non solo di legittimità, ma anche di doverosità del successivo ordine di demolizione. Laddove, invece – nonostante l’incompiutezza di quanto realizzato – le opere dovessero comunque risultare autonome, scindibili e funzionali, le determinazioni del comune potrebbero essere tanto nel senso di considerarle sostanzialmente conformi al titolo abilitativo, quanto nel senso di ritenere applicabile la disciplina di cui all’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) o all’art. 36 (Accertamento di conformità) del T.U. Edilizia[28].
In conclusione, gli approdi cui giunge la Plenaria – per quanto non esenti da perduranti profili di incertezza – sono senza dubbio da salutare con favore, in quanto consentono, da un lato, di attribuire valenza sostanziale al concetto di difformità edilizia e, dall’altro, di riconoscere appieno la centralità del fattore “tempo” nelle dinamiche di trasformazione urbana. La prospettiva delineata, infatti, impone che gli interventi edilizi si compiano non solo in conformità alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento, ma anche nel solco di una linea temporale ben definita, al fine di garantire effettiva concretezza allo sviluppo del territorio prospettato negli atti di pianificazione: solo in tal modo la “città immaginata” potrà coincidere con la “città realizzata”[29].
[1] In generale, sull’istituto della decadenza del permesso di costruire v. R. De Nictolis, F. Grassi, Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 409 ss.; F. Saitta, Efficacia e decadenza del permesso di costruire, in Riv. giur. urbanistica, 3-4/2014, 588 ss.; M. Occhiena, Breve ricostruzione storica dell’istituto della decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori, in Riv. giur. edilizia, 1998, 366 ss. Sulla natura dichiarativa della decadenza v. Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2024, n. 8672; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 31 agosto 2023, n.4945, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In relazione alle opere pubbliche incompiute, si segnala che il legislatore statale ha istituito nel 2011 (art. 44-bis, d.l. 6 dicembre 2011 n. 201) l’Anagrafe delle Opere Incompiute presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, avente l’obiettivo non solo di fornire una mappatura completa e sempre aggiornata, ma anche di identificare modalità e strumenti (anche finanziari) atti a consentire il completamento delle opere stesse, ovvero la loro riconversione.
[3] Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2228, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 459.
[4] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 agosto 2021, n. 9113, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo v. Cons. Stato, sez. IV, 25 marzo 2020, n. 2078, in Riv. giur. edilizia, 3/2020, 562; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 14 novembre 2014, n. 449, in Riv. giur. edilizia, 6/2014, 1225. In dottrina, sul punto, v. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 457 ss.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11195, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Toscana, sez. III, 5 marzo 2021, n. 345, in Foro amm., 3/2021, 543; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 3 gennaio 2014, n. 2, in Foro amm., 2014, 197; T.A.R. Toscana, Sez. III, 26 novembre 2013, n. 1637, in Foro amm.-TAR, 2013, 3360.
[6] A. Fabri, E.A. Taraschi, La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio: alcune questioni aperte, in Dir. e proc. amm., 3/2022, 625.
[7] “L' art. 38, d.P.R. n. 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato e la ratio è proprio quella di introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall' origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione di un bene che è pur sempre sanzionato” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 2 dicembre 2022, n. 7543, in Foro amm., 2022, II, 1662). In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2018, n. 2155; Cons. Stato, sez. VI, 28 novembre 2018, n. 6753, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. In generale, sui presupposti applicativi dell’art. 38 cit., v. Cons. Stato, Sez. II, 25 ottobre 2023, n. 9243, in questa Rivista, 2024, con nota di R. Parisi, Profili applicativi della fiscalizzazione degli abusi edilizi.
[8] M. Calabrò, Decadenza del permesso di costruire e “non finito architettonico”. La rilevanza della coordinata temporale nelle trasformazioni edilizie, in Riv. giur. edilizia, 5/2015, 229 ss.
[9] Cfr. Corte Cost., 31 maggio 2000, n. 164, in Giur. Cost., 200, 1465; Cons. Stato, Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3606, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 1950; Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, in Urb. e app., 2013, 59 ss., con nota di P. Urbani, Conformazione dei suoli e finalità economico sociali, 64 ss. In tale ottica, Giannini parlava del piano urbanistico come documento volto a fornire coordinate di ordine spaziale e temporale «a fini di risultato», (M.S. Giannini, Pianificazione, voce in Enc dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, 629 ss.).
[10] Sul tema v. M. R. Spasiano, M. Calabrò, M. Brocca, A. Giusti, G. Mari, A. G. Pietrosanti, Fondamenti di diritto per l’architettura e l’ingegneria civile, Napoli, 2023, 70 ss.; F. Saitta, Governo del territorio e discrezionalità dei pianificatori, in Riv. giur. edilizia, 6/2018, 421 ss.
[11] Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 755, in Riv. giur. edilizia, 2012, 177, ove – nel sancire l’illegittimità di un’ordinanza di demolizione di opere realizzate nel periodo che ha preceduto la decadenza del titolo – si afferma che il permesso di costruire abiliterebbe “non solo la realizzazione della costruzione, ma anche l’esecuzione di ogni fase intermedia in quanto parte del risultato finale”.
[12] In termini, v. P. Lombardi, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012, 114. Evidente è il richiamo anche al Programma pluriennale di attuazione, documento cui è affidato proprio il compito di evitare che lo sviluppo degli insediamenti possa avvenire in maniera episodica e irrazionale. E’ noto, tuttavia, che questo strumento si è rivelato sostanzialmente fallimentare, anche in ragione del fatto che l’unico rimedio previsto in caso di eventuale inerzia da parte dei privati consiste nell’espropriazione dell’area interessata, eventualità remota per evidenti ragioni di ordine economico. Sul tema v. F. Saitta, Jus aedificandi o….dovere di costruire, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1416 ss.
[13] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, Milano 2021, 108 ss.; M.A. Cabiddu, Il governo del territorio, Roma-Bari, 2019, 26; P. Stella Richter, Diritto urbanistico, Milano, 2012, 31; F. Pagano, Il “piano operativo” nel processo di pianificazione, in Riv. giur. edilizia, 2010, 67 ss.; A. Bartolini, Questioni problematiche sull'efficacia giuridica della pianificazione strutturale e operativa, in Riv. giur. urb., 3/2007, 262 ss.
[14] T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. II, 30 novembre 2022, n. 817, in Foro amm., 2022, 1546. In termini cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1° giugno 2012, n. 2612, in Foro amm.- TAR, 2012, 2022; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 1991, n. 1239, in Riv. giur. urbanistica, 1992, 421.
[15] “Risponde ad un principio generale dell'ordinamento, la regola secondo cui la proroga del termine per il compimento di una certa attività deve essere richiesta prima della scadenza del termine medesimo, per esigenze di chiarezza, di trasparenza e di pubblicità, a garanzia delle parti e, più in generale, dei terzi; la presentazione della richiesta di proroga è infatti funzionale ad evidenziare la sussistenza e la perduranza dell'interesse del privato alla realizzazione dell'intervento programmato, sia nei rapporti con l'Amministrazione che aveva rilasciato il titolo, sia rispetto ai terzi che, per ragioni di vicinitas, potrebbero avere un qualche interesse ad opporsi all'altrui iniziativa edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2023, n.2757, in Riv. giur. edilizia, 3/2023, 624).
[16] E’ bene sottolineare che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo titolo (permesso o s.c.i.a.) presuppone la perdurante compatibilità degli interventi ancora da realizzare con la disciplina urbanistica vigente. Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 16 aprile 2014, n. 2170, in Foro amm., 2014, 1269; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2471, in Foro amm. CDS, 4/2012, 923; T.A.R. Umbria, Sez. I, 15 settembre 2010, n. 465, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 2060.
[17] “La decadenza stabilita dall'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 sanziona l'inerzia dei privati, sia come disinteresse soggettivo sia come potenziale intralcio alla futura attività di pianificazione. Quest'ultima, infatti, verrebbe resa meno efficace se fosse consentito ai privati di mantenere indefinitamente i diritti edificatori non consumati” (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 14 ottobre 2021, n. 871, in www.giustizia-amministrativa.it). P. Capriotti, L’inerzia proprietaria al tempo della rigenerazione urbana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2020, 49 ss.
[18] Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 16 marzo 2009, n. 752, in Foro amm. TAR, 3/2009, 610.
[19] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 30 giugno 2022, n. 4401; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II-quater, 16 novembre 2020, n. 12035; Cass. pen., sez. III, 23 aprile 1990, n. 5891, tutte citate da R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, in Urb. e appalti, 6/2024, 749-751.
[20] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 29 gennaio 2024, n. 906, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si afferma che “si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione”. In dottrina, v. F. Vetrò, Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 751 ss.
[21] Concetto originariamente approfondito dai teorici della progettazione urbana. Cfr. F. Costanzo (a cura di), L'architettura del non finito. Una strategia progettuale per l'edificio incompiuto, Melfi, 2015.
[22] Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2021, n. 1377, in Foro amm., 2021, 505: “Ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 380/2001, l’inutile decorso del termine triennale d’efficacia del titolo edilizio comporta la decadenza dello stesso titolo per la parte non eseguita alla scadenza dei relativi termini e inibisce l’ulteriore corso dei lavori, ma non determina l’illiceità di quanto già realizzato nella vigenza del titolo stesso, purché dette opere siano autonome e scindibili rispetto a quelle da demolire”. In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2022, n. 5258, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1297, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 497; Cons. Stato, sez. VI, 6 settembre 2017, n. 4243, in Riv. giur. edilizia, 2017, 1330; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 1 giugno 2012, n. 2616, in Foro amm. TAR, 2012, 2025; Corte Cost., 14 aprile 1988, n. 447, in Giur. cost., 1988, I, 2057. In dottrina v. M.A. Sandulli, Sanzione-IV) Sanzioni amministrative, (voce) in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1992, 15; A. Cagnazzo, S. Toschei, F.F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia edilizia, Torino, 2014.
[24] A.G. Pietrosanti, Consumo di risorse naturali non rinnovabili. Tra diritti della natura, bilanciamento di interessi e tutela giurisdizionale, Napoli, 2023; G.A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Napoli, 2022; G. Pagliari, Governo del territorio e consumo di suolo. Riflessioni sulle prospettive della pianificazione urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 5/2020, 325 ss.
[25] Su tale profilo v. E. Boscolo, Le periferie in degrado (socio-territoriale) e i (plurimi) fallimenti dell'urbanistica italiana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2021, 54 ss.; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2/2020, 421 ss.
[26] Sul piano definitorio, invero, la Plenaria non “brilla” per chiarezza, nella misura in cui qualifica la medesima fattispecie prima come “non finito architettonico” (pag. 16) e poi come “incompleto architettonico” (pag. 18).
[27] Nel caso di specie, prima della sospensione dei lavori era stato effettuato unicamente lo scavo delle fondamenta, con l’installazione di alcuni pilastri strutturali.
[28] R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, cit., 744.
[29] M. Calabrò, Il tempo “certo” ed il tempo “giusto” nell’azione amministrativa: spunti per un dialogo, in A. Carbone, F. Aperio Bella, E. Zampetti (a cura di), Dialoghi di diritto amministrativo, Roma, 2024, 159.