Nomofilachia codificata e supremazia dei precedenti*
di Antonio Scarpa
Sommario: 1. Un’immagine scolorita della Corte di Cassazione? - 2. L’entrata nel circuito del precedente - 3. La motivazione con riferimento a precedenti conformi - 4. La codificazione della nomofilachia - 5. Conclusioni.
[Sul ruolo della Corte di Cassazione v., in precedenza, su questa Rivista, F. De Stefano, Giudice e precedente. Per una nomofilachia sostenibile, 3 marzo 2021 e R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021]
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1. Un’immagine scolorita della Corte di Cassazione?
Virgilio Andrioli (Diritto processuale civile, I, 1979), scriveva che il ruolo di custode del diritto, che l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 affida alla Corte di Cassazione, costituisce proiezione dell’art. 3 Cost., essendo l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge offesa da sentenze che impongano ai casi uguali assetti diversi. Tutte le decisioni della Corte costituirebbero documenti in cui si esprime la nomofilachia. Viceversa, le massime estratte dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo, a meno che non riproducano il principio di diritto enunciato ex art. 384 c.p.c., “non esimono coloro che ne prendono visione dall’onere di risalire alla motivazione della sentenza, dalla quale sono state estratte”: ciò perché, se l’operazione di massimazione è cosa utilissima, essa impone però di individuare la ragione giustificatrice della pronuncia e di cogliere il nesso fra caso giudicato e norme applicate, sicché “i suoi prodotti non hanno se non valore mnemonico”. Per Andrioli, in ogni metodo di giurisprudenza tendenzialmente costante si annida il forte rischio correlato all’esigenza di individuazione della eadem ratio, in difetto della quale il dictum anteriore non può considerarsi precedente di fatto, altrimenti corrompendosi l’interpretazione conforme in applicazione livellatrice, affatto confortata quest’ultima dall’art. 3 Cost. Tuttavia, la mancata identificazione del precedente, o l’inottemperanza al medesimo, non potrebbero essere motivi di annullamento della sentenza di merito, giacché il precedente di fatto non si inserisce quale diaframma fra norma di diritto applicabile e caso concreto, né tanto meno la Cassazione è tenuta a rispettare i propri precedenti, ma deve assoggettarli a riesame. Perciò, la giurisprudenza uniforme ispirata non della continua verifica della eadem ratio, ma dall’acritico ossequio al precedente di fatto, visto come ammantato da una presunzione assoluta di legittimità, sarebbe soltanto espressione della prudenza, intesa come utilizzazione della esperienza altrui. D’altro canto, la contestabilità del precedente sarebbe garantita anche dal citato art. 65, non essendo diverse, ai fini dell’esatta osservanza della legge, “le posizioni dei giudici sottordinati e della Cassazione”.
Quanto rimangono attuali queste riflessioni di Andrioli? Quanto, invece, esse ci inducono ormai soltanto a constatare che non siamo stati in questi decenni capaci di capirne gli ammonimenti tristemente presaghi?
Una manovra tattica a tenaglia, strategicamente organizzata dal legislatore e dalla giurisprudenza, sembra aver accerchiato pressoché tutti i postulati su cui fondava quella illuminata teorica circa i ruoli della nomofilachia e del precedente giurisprudenziale, attaccandoli frontalmente e sulle ali, così da precluderne ormai tutte le più virtuose direzioni operative.
2. L’entrata nel circuito del precedente
La storia del ruolo del precedente giurisprudenziale nel nostro ordinamento processuale civile ha origini antiche e sembra anche superfluo ripercorrerla oggi che pare giunta ad un epilogo ormai irretrattabile, per quanto non necessariamente felice.
Costituiva un vanto per i giudici italiani fino forse a mezzo secolo fa distinguere fra l’obbligo di decidere casi uguali in modo uguale, che discende già dal principio di eguaglianza, e l’obbligo di osservare, invece, i precedenti propri o di altre corti, stante che per l’art. 101 Cost. il giudice è soggetto soltanto alle legge. Oggi verrebbe quasi quasi da aggiungere che il giudice deve certamente altresì attuare il giusto processo ed assicurarne la ragionevole durata (art. 111 Cost.), ma pur sempre per come tali valori sono regolati alla legge, e non in base ad un’attività spirituale ricognitiva o creativa, che diviene espressione di un “diritto libero”, talvolta anche in antitesi con quanto la legislazione positiva abbia prescritto.
Se nel sistema statunitense e in quello inglese il “precedent” è, invece, “binding” è perché in essi la “case law” è fonte del diritto obbligatoria per tradizione o per legge. Questa constatazione distintiva nei decenni trascorsi rendeva orgogliosi gli studiosi e gli operatori italiani, perché, ad esempio, per i giudici inglesi la regola dello stare decisis veniva giustificata come metodo utile ad educarli alla cautela ed alla conservazione. Viceversa, negli Stati Uniti, dove è più contestata dai giudici l’adesione al sistema del precedente vincolante, è oggetto di costante critica proprio lo judicial activism, prospettato come fenomeno eversivo ed antidemocratico (Alpa).
D’altro canto, proprio nei sistemi di common law, teorizzando la distinzione tra obiter dictum e ratio decidendi, si ammoniscono i giudici a non esprimere loro opinioni e a non curarsi di decidere casi futuri, dovendo preoccuparsi di risolvere soltanto il singolo caso in esame.
E’ però anche vero che il giudice inglese del “caso seguente” possiede nel proprio armamentario strumenti che gli consentono di smentire l’efficacia persuasiva del precedente, anche «verticale», adoperando il distinguishing o l’overruling. Identiche vie di fuga ha il giudice americano, del quale si sostiene che, in pratica, egli “segue il precedente solo quando non ritiene opportuno discostarsene” (Taruffo).
I giudici italiani sono così entrati nel circuito del “precedente” un pò da sprovveduti. Siamo stati anche attratti dalla rosea prospettiva di rendere “giuridicamente calcolabili” le nostre decisioni, confidando nel miraggio della diminuzione del carico del contenzioso negli uffici giudiziari: un sogno utopistico, a guardare ancora oggi il dato dei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di cassazione.
Non siamo ancora tutti d’accordo, del resto, su cosa costituisce un “precedente” nel nostro sistema. Anche una sentenza di merito o soltanto le decisioni della Cassazione? E poi, tutte le decisioni della Cassazione, anche quelle in cui è stato accolto o rigettato un ricorso manifestamente fondato o infondato, rese a norma degli artt. 375, comma 1, n. 5, e 380-bis c.p.c.? O quelle rese comunque con ordinanza perché non è stata ravvisata alcuna particolare rilevanza della questione di diritto su cui pronunciare, ai sensi dell’art. 375, comma 2, e 380-bis.1, c.p.c.? O soltanto quelle in cui sia enunciato il principio di diritto a norma dell’art. 384 c.p.c., o addirittura solo quelle delle sezioni unite che abbiano enunciato il principio di diritto componendo un contrasto o risolvendo una questione di particolare importanza, che sono poi insormontabili dalla sezione semplice in base all’art. 374, comma 3, c.p.c.?
L’idea diffusa nella pratica giudiziaria è che la Corte di cassazione sia, nel nostro sistema processuale, essa stessa consapevole produttrice e abituale fruitrice dei precedenti giurisprudenziali. Solo che non sta alla Corte di cassazione stabilire ex ante se la pronuncia che si appresta a rendere è, o meno, destinata a precostituire un precedente per le generazioni future, come invece suppone semplicisticamente la logica aziendalistica sottesa alla riforma introdotta con il d.l. n. 168 del 2016, convertito in l. n. 197/2016. E’ il giudice del caso seguente che decide se sussiste tra questo ed il caso pregresso quella identità di ratio che impone, o per lo meno consiglia, di fare buon uso del precedente.
Tale identità di ratio tra i due casi, che giustifica l’applicazione del precedente secondo la valutazione discrezionale affidata al giudice del caso successivo, comunque non è, né può mai essere, pure identità dei fatti, perché se due vicende sono davvero indiscernibili, esse sono allora nient’altro che la stessa vicenda: eadem sunt, quorum unum potest substitui alteri salva veritate (Taruffo, ma prima ancora Leibniz). In tale prospettiva, non avrebbe nemmeno senso parlare di un “precedente di legittimità”, visto che la forza del precedente si radica unicamente sulla materially identical facts.
D’altro canto, se i giuristi di common law ricavano la norma dal raffronto tra il caso in esame e le soluzioni date in passato a casi simili, sicché sono proprio le sentenze che creano il diritto, nel nostro ordinamento i giuristi traggono la norma in via di deduzione da regole scritte generali contenute nelle leggi, e perciò i precedenti giudiziari non potrebbero vincolare, ma solo persuadere in ragione dell’autorità da cui provengono.
Nel nostro sistema, il precedente giudiziale assume le sembianze di un modello ibrido interspecifico: dalla fattispecie astratta della legge di diritto positivo il giudice trae la regola che decide sulla fattispecie concreta e ad un tempo arricchisce di contenuti quella fattispecie astratta per le future applicazioni di essa ad altre singole fattispecie concrete.
L’astratta enunciazione o interpretazione di una regola di diritto contenuta in una pronuncia della Corte di cassazione non può, quindi, precostituire un precedente in senso proprio, questo essendo, piuttosto, l’applicazione data alla legge in relazione al fatto concreto oggetto di lite.
Tanto meno rappresenta un precedente la massima che sia estratta da una sentenza della Cassazione, allorché non vi sia attenzione al fatto deciso (il che nella massima, secondo le tecniche redazionali in uso al Massimario, non si fa, tranne che, ma con la sintesi di un paio di righi, allorché si adottino i modelli stilistici della “massima di specie” o della “massima con fattispecie”). L’ordinamento brasiliano, che, ad esempio, attribuisce efficacia erga omnes alla súmula vinculante formulata dal Supremo Tribunal Federal, radica tale potere su un espresso riconoscimento costituzionale.
Le maglie ristrette del sindacato di legittimità sul fatto, soprattutto a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ha poi reso più frequente l’invocazione da parte dei ricorrenti del vizio di cui al numero 3 dell’art. 360 c.p.c., il che però implica anche la necessità per la Corte di enunciare il principio di diritto ai sensi dell’art. 384, comma 1, c.p.c., che sarà anche più probabilmente massimato, col rischio di generalizzare la singola soluzione quale prototipo decisorio valido per i casi futuri, seppur adottata senza prestare alcuna attenzione al fatto ed alla motivazione della sentenza di merito. Il caso concreto appare, così, mera occasione per la creazione del principio di diritto, il quale si erge al di sopra dei fatti.
Un’altra complicazione sta nella distinzione che abitualmente si fa fra ratio decidendi, ovvero il nucleo della pronuncia che applica la norma ai fatti del caso concreto, cui soltanto sarebbero riferibili gli effetti del precedente, ed obiter dictum, che è invece ogni altra enunciazione o argomentazione che il giudice abbia espresso in sentenza trascendendo dal caso deciso. Gli obiter non dovrebbero mai costituire un precedente per le decisioni successive, né essere censiti in massime mentitorie. Tale distinzione è tuttavia assai complessa nella pratica, né vale ad escludere del tutto l’efficacia persuasiva che pure un obiter dictum possa rivelare per il giudice chiamato a decidere il caso successivo: si transita così, vien detto, in un sistema di stare consultis, neppure più di stare decisis (Sassani).
Ove si ravvisi il vincolo, o quanto meno l’efficacia persuasiva, del precedente di Cassazione consistente soltanto nella astratta elaborazione di una regola di diritto formulata in termini generali, la sentenza della Corte sovraordinata è intesa, in realtà, come norma universale suscettibile di applicazione deduttiva: possiamo averne vantaggi in termini di calcoli matematici, ma dobbiamo ammettere gli svantaggi che sono inevitabilmente correlati ad ogni deriva autoritaria e burocratica nell’esercizio della giurisdizione, il tutto, direi, senza incidere nemmeno in maniera positiva sull’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale.
3. La motivazione con riferimento a precedenti conformi
L’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., come modificato dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, dispone che “la motivazione della sentenza di cui all’articolo 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”. Quest’articolo, che dalla periferia del codice si è spostato al centro del sistema (Irti), eleva il riferimento ai precedenti conformi a criterio di legalità e logicità della sentenza. Ci aveva già provato l’art. 16, comma 5, del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, sui procedimenti in materia societaria, a prevedere una motivazione della sentenza in forma abbreviata, mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e la concisa esposizione delle ragioni di diritto, anche in riferimento a precedenti conformi. Si tratta di un percorso legislativo che Cass. sez. un. 16 gennaio 2015, n. 642, ha ritenuto “ormai reso inevitabile anche dalla necessità di dare concreta attuazione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo” (e qui taluno obietta: ragionevole durata, «que de crimes on commet en ton nom!»).
Ora, la nozione di «precedente conforme» non sottende né la vis imperativa del giudicato né l’«autorità» della sentenza invocata in un diverso processo, di cui discorre l’art. 337, comma 2, c.p.c.: essa viene adottata dal legislatore “in funzione di una progressiva semplificazione dell’attività motivazionale del giudice decidente”, il quale è autorizzato a fare uso di «schemi decisionali» tratti da precedenti pronunzie dotate di «un’efficacia persuasiva» (Comoglio).
Dunque, con l’art. 118 disp. att. c.p.c. il “riferimento a precedenti conformi” diviene una agevole scorciatoia nell’adempimento dell’obbligo di motivazione. In combinato con la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il rinvio a precedenti potrebbe bastare a passare indenni il sindacato sul “minimo costituzionale” esigibile di motivazione.
Ma è sufficiente davvero, per motivare abbastanza, affermare in sentenza: “l’ha detto lui” (o, semmai, “Lui”, se l’autore del precedente merita la maiuscola reverenziale)?
E poi, per motivare “in riferimento a precedenti conformi”, basta all’estensore indicare gli estremi delle pronunce richiamate per rendere apparentemente “giusta”, o razionalmente giustificata, la propria sentenza? O gli occorre comunque anche esporre i motivi per i quali abbia condiviso le ragioni sostenute nei precedenti menzionati?
E se si tratta di questione di diritto già decisa in modo difforme, la motivazione può riferirsi ai soli precedenti che siano conformi alla decisione che il giudice vuol rendere o questi deve prendere posizione anche sui precedenti in senso contrario?
La giurisprudenza prova a dare risposta a questi interrogativi: la motivazione per relationem ex art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., può fondarsi su precedenti non solo di legittimità, ma anche di merito, del medesimo o di altro ufficio, «ricercandosi palesemente per tale via il beneficio della utilizzazione di riflessioni e di schemi decisionali già compiuti per casi identici o caratterizzati dalla risoluzione di identiche questioni» (Cass. 6 settembre 2016, n. 17640); è ben possibile anche il rinvio ad un precedente del medesimo ufficio, sempre che si dia conto dell’identità contenutistica della situazione di fatto e di diritto tra il caso deciso dal precedente e quello oggetto di decisione (Cass. 22 maggio 2012, n. 8053; si veda però anche Cass. Sez. Un. 16 gennaio 2015, n. 642); può andar bene pure così: il giudice dell’impugnazione, dopo aver ricordato un precedente del proprio ufficio reso su una questione analoga ed aver esaminato le singole censure, conclude nel senso che le argomentazioni della sentenza richiamata “rispondono a tutti i motivi d’impugnazione” (Cass. 11 febbraio 2011, n. 3367).
Occorre altresì procedere in modo disincantato ad una consapevole analisi costi/benefici: se posso succintamente motivare uniformandomi ai precedenti che seguo, quanto mi tocca scrivere, invece, se da essi volessi discostarmi?
Ancora di recente, come in un passato ormai remoto, la Corte di Cassazione ha sostenuto che, una volta che abbia esposto i motivi della sua decisione, il giudice non deve dimostrare esplicitamente l’infondatezza o la non pertinenza dei precedenti giurisprudenziali eventualmente difformi, poiché la motivazione in tanto può essere viziata in quanto sia di per sé erronea, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, non già in quanto eventualmente in contrasto con le ragioni addotte in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (Cass. 26 giugno 2017, n. 15846; Cass. 23 giugno 2008, n. 17026; Cass. 17 marzo 1980 n. 1772).
Si è peraltro affermato dalla medesima Corte che, a fronte di fattispecie del tutto simili, l’uniformazione delle motivazioni delle sentenze rese da giudici diversi in udienze pure diverse è cosa “del tutto comprensibile, se non addirittura opportuna” (Cass. 12 maggio 2020, n. 8782).
Nei repertori impolverati può trovarsi anche qualche monito più esplicito: nell’esercizio del suo potere-dovere d’interpretazione della norma applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, il giudice è libero di non adeguarsi all’opinione espressa da altri giudici e può anche non seguire l’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione, così come può dissentire dalle motivazioni delle pronunzie di rigetto della Corte costituzionale, ma tale libertà non esclude l’obbligo di addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e far venir meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato (Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248).
In pratica, la condizione del giudice di merito rispetto al precedente di legittimità non è poi assai dissimile da quella in cui si trova il giudice di rinvio a seguito di cassazione della sentenza: questi deve “uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte” (art. 384, comma 2, c.p.c.) in forza dell’efficacia positiva della sentenza di cassazione, rimanendogli altresì preclusa dall’efficacia negativa della stessa la possibilità di rimettere in discussione pure i fatti che costituiscano il presupposto della pronuncia di annullamento; ogni altro giudice rimane libero nel ricostruire la fattispecie concreta sottoposta al suo esame e nell’individuare la norma ad essa applicabile, ma, se voglia dissentire dall’indirizzo interpretativo seguito dalla Suprema Corte riguardo a tale norma, dovrà addurre ragioni congrue e convincenti per minare l’orientamento giurisprudenziale ripudiato.
Vennero però anche Cass. 28 luglio 1997, n. 7050 e poi Cass. 19 dicembre 2001 n. 16007, a chiarire che non è viziata per violazione di legge la sentenza in cui il giudice di merito non spiega perché non abbia seguito i precedenti giurisprudenziali di legittimità.
Nei primi anni del terzo millennio, tuttavia, l’ostentazione dell’idea del giudice che sia libero nello svincolarsi dai precedenti iniziò ad essere reputata quasi uno sprezzante rifiuto del valore dello stare decisis come forte riduttore di litigiosità. Il valore del precedente starebbe proprio in ciò: “esso dispensa il giudice che vi si adegui dall’obbligo di motivare; impone al giudice che voglia discostarsene l’obbligo di motivare convincentemente il rifiuto”. E’ la giustizia che “piuttosto che ridurre la litigiosità, opera per incrementarla. Si dedica, per così dire, all’autoproduzione di litigiosità (…). Da noi, la volubilità della giurisprudenza agisce come incentivo alla temerarietà” (Galgano). Si torna indietro fino a Muratori e Verri per arrivare alle ansie dei moderni economisti circa il funzionamento dei mercati, criticando l’incertezza cagionata dall’imprevedibilità delle sentenze e l’anelito dei giudici ad interpretare la legge nel modo migliore possibile, anche a costo di contraddire le altrui e le proprie precedenti interpretazioni. Superata l’era della legislatio ed entrati nell’era della iurisdictio, all’alba del nuovo millennio pareva imporsi come adeguata una sola soluzione: codificare la nomofilachia.
D’altro canto, per Cass. sez. un. 3 maggio 2019, n. 11747, integra violazione di legge rilevante ai fini della responsabilità civile nell’esercizio delle funzioni giudiziarie la decisione del giudice che, senza motivare, rende una decisione difforme dai precedenti giurisprudenziali, atteso che “la superabilità del precedente non può prescindere dall’obbligo di conoscerne l’esistenza”.
A coloro che parlano di dottrina delle corti e di un diritto vivente giurisprudenziale, mutevole sotto le spinte delle cultura, dell’economia e della politica, rimane a contrapporsi soltanto chi in ciò intravede il rischio di una ibridazione tra formanti, che lascerebbe addirittura trasparire una misurata, quanto consapevole, arroganza (Gazzoni).
4. La codificazione della nomofilachia
Il legislatore italiano degli ultimi quindici anni sembra aver recepito la propaganda ideologica secondo cui l’unico rimedio idoneo a disinnescare la litigiosità ed a ripristinare la calcolabilità economica delle sentenze sarebbe stato quello di codificare la nomofilachia. I risultati di questa scelta si sono, tuttavia, rivelati affatto confortanti, anzi; i procedimenti civili iscritti e quelli definiti ogni anno in Corte di Cassazione superano ormai stabilmente la soglia dei trentamila, come la pendenza complessiva supera i centomila. Un dio che è fallito, verrebbe da dire.
Con il d.lgs. n. 40 del 2006 si introdusse il terzo comma dell’art. 374 c.p.c., il quale onera la sezione semplice della Corte di Cassazione di rimettere alle sezioni unite la decisione di un ricorso ove ritenga di non condividere un principio di diritto da queste affermato. Le sezioni semplici vengono cosi private della opzione per l’overruling ed il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite rimane per le prime immutabile come l’orbita dei pianeti. Lo scopo della conclamata «supremazia nomofilattica» delle sezioni unite è evidente: ridurre i contrasti di pronunce fra sezioni semplici e lasciare alle sezioni unite la sperimentazione dimostrativa che un’idea vada cambiata. Si può obiettare che così, se i giudici sono costituzionalmente soggetti soltanto alla legge, le sezioni semplici sono soggette altresì, e più di ogni altro giudice, al principio di diritto delle sezioni unite, ma tant’è.
Peraltro, neppure finisce qui. Preservata alle sole sezioni unite la forza del mutevole divenire, per due concorrenti fattori il precedente espresso dal primate nomofilattico può addirittura acquisire l’immutabilità del Logos.
Si è affermato che, a fronte di un ancora recente intervento delle sezioni unite volto a dipanare un contrasto di orientamenti, pur quando meditati rilievi suggeriscano l’opportunità di ripensare la questione, le sezioni unite, ove nuovamente investite, devono avvertire l’esigenza di assicurare un sufficiente grado di stabilità all’indirizzo interpretativo già indicato. Lo stare decisis, pur non essendo legge nel nostro ordinamento, è un “valore”, o, quanto meno, “una direttiva di tendenza”, “in base alla quale non ci si può discostare da una interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza delle forti ed apprezzabili ragioni giustificative. Insomma, se la lettera della legge consente due diverse interpretazioni, è da preferire sempre quella “sulla cui base si è formata una certa stabilità di applicazione”, soprattutto in tema di interpretazione di norme processuali, “non potendo l’utente del servizio giustizia essere esposto al rischio di frequenti modifiche degli indirizzi giurisprudenziali” (Cass. sez. un. 31 luglio 2012, n. 13620).
Detto ancor più esplicitamente: perché si possa invocare un mutamento della giurisprudenza delle sezioni unite, soprattutto, in materia processuale, non basta contestare la plausibilità dell’interpretazione già fornita dal precedente, ma occorre che la stessa risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa, o che comunque dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti” (Cass. sez. un. 6 novembre 2014, n. 23675).
In certo senso, se le sezioni semplici soffrono, in virtù del terzo comma dell’art. 374 c.p.c., la «supremazia nomofilattica» delle sezioni unite, le sezioni unite, una volta che si siano pronunciate su un dilemma interpretativo, restano, almeno per qualche anno, schiave di se stesse in nome della stabilità e della certezza.
La salvaguardia della stabilità dell’interpretazione giurisprudenziale delle sezioni unite della Corte di Cassazione appare un valore fondante: essa potrebbe garantire più certezza della stessa norma giuridica positiva, la quale di per sé è variabile, giacché esposta alla contingenza della volontà di sistema. Anzi, la fedeltà assoluta dei giudici ai propri precedenti sembra in grado di sconfessare pure lo scettiscismo di matrice kelseniana sul «mito» della certezza del diritto, rendendo unica, e perciò finalmente prevedibile, la decisione esatta.
Il mutamento di indirizzo giurisprudenziale ha conosciuto, poi, nell’ultimo decennio, un altro limite, stavolta sotto il profilo effettuale.
Una vita fa leggevamo che, poiché “la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa”, “discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata” (Cass. sez. un. 4 novembre n. 2004, n. 21095). Questo valeva a dire che al mutamento di indirizzo giurisprudenziale rispetto ai precedenti sarebbe inevitabilmente seguito il venir meno retroattivo di ogni efficacia vincolante, anche con riguardo ai rapporti instaurati prima del rèvirement.
A far tempo da Cass. sez. un. 11 luglio 2011, n. 15144, sono cambiate molte cose. Quando la Corte intende procedere ad un mutamento di un proprio consolidato orientamento su di una regola del processo, e tale mutamento sia connotato, oltre che dalla imprevedibilità, dall’idoneità a provocare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte, quest’ultima, avendo fatto ragionevole affidamento sulla stabilità del precedente, non deve risentire delle conseguenze dell’overruling. La forza dei precedenti qui è tale da finire per trasformare la funzione stessa della sentenza innovativa: essa, da semplice strumento dichiarativo di ricerca della norma preesistente da applicare al caso concreto in esame, si evolve, piuttosto, in annuncio solenne di giurisprudenza futura. La Cassazione si avvede che la regola processuale finora dettata era sbagliata, ma stabilisce di continuare ad utilizzarla per tutti i rapporti in corso al fine di non sancire preclusioni o decadenze in danno della parte che di quella regola si era fidata.
Il problema della protezione del legittimo affidamento è, come sappiamo, tipico dei sistemi in cui vige il principio dello stare decisis, lì dove, cioè, i precedenti giudiziari sono concepiti come diritto. In particolare, oltre l’affidamento della generalità dei consociati, viene in speciale rilievo l’affidamento della parte cha abbia pianificato la sua strategia difensiva dinanzi a quel giudice. E’, inoltre, problema correlato alle esigenze di certezza avvertite in quegli ordinamenti che non hanno leggi scritte e perciò auspicano la stabilità e l’uniformità della law in action.
Acquisita la consapevolezza della concreta “dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza”, la medesima giurisprudenza avverte il timore “di divenire (e di essere avvertita dai cittadini come) un fattore d’irrazionalità e di disordine nel tessuto sociale”. Se, perciò, il precedente giurisprudenziale non costituisce tuttora una vera e propria regula iuris, che si impone con forza di legge in un successivo giudizio vertente su questioni analoghe, “specialmente per il giudice di legittimità, l’esigenza di tener conto dei propri stessi precedenti si radica nella sua istituzionale funzione e nella conseguente necessità di garantire (almeno tendenzialmente) i valori di coerenza ed uguaglianza dell’ordinamento” (Rordorf).
Beninteso: la tutela da prospective overruling, vien detto, sarebbe problema che si pone soltanto per l’affidamento qualificato ingenerato da un costante indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, e non invece se formatosi nella giurisprudenza di merito (Cass. sez. 12 febbraio 2019, n. 4135). Inoltre, deve pur sempre trattarsi di mutamenti della giurisprudenza su una regola del processo, e non riguardanti norme di carattere sostanziale (Cass. 10 maggio 2018, n. 11300; Cass. 3 settembre 2013, 20172), come se la scelta repentina di una contrapposta interpretazione in tema, ad esempio, di validità di un contratto o di prescrizione di un diritto non possa a sua volta provocare l’operatività di preclusioni o decadenze e frustrare affidamenti incolpevoli.
Non so se queste risposte siano verità forti o unicamente verità utili. L’esigenza di tutela dell’affidamento creato dai consolidati precedenti giurisprudenziali si pone identicamente, se non in maggior misura, in materia sostanziale. Non distolgono da questa constatazione l’argomento secondo cui per la salvaguardia sull’affidamento in materia sostanziale non si presterebbe utilmente lo strumento della rimessione in termini, né la spiegazione che ricomprende tra i “costi di transizione” la vanificazione dell’aspettativa dei consociati circa la stabilità di una determinata interpretazione giurisprudenziale.
La cortina dei precedenti di legittimità, con la legge n. 69 del 2009, è poi divenuta strumento per il filtro di ammissibilità dei ricorsi per cassazione. In forza dell’art. 360-bis, n. 1, c.p.c., il ricorso (o un suo singolo motivo) è inammissibile quando il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto «in modo conforme alla giurisprudenza della Corte» e l’esame delle censure non offre elementi di tale qualità da minare l’interpretazione consolidatasi ed indurre il collegio a ripensare il proprio orientamento, per mutarlo o anche soltanto per confermarlo. Si tratta di una inammissibilità del ricorso per ragioni di merito, in rapporto alla quale si eleva a parametro la conformità della sentenza impugnata rispetto alla giurisprudenza consolidata in base a valutazione da operarsi comunque al momento della decisione della Corte di Cassazione, pure quando l’orientamento sia mutato a seguito della proposizione dell’impugnazione (Cass. sez. un. 21 marzo 2017, n. 7155). Del resto, al centro del sistema posto dall’art. 360- bis, n. 1, c.p.c. non è tanto un requisito genetico di contenuto dell’impugnazione, quanto la supposta superfluità di chiamare la Corte a riesaminare una quaestio iuris che essa ha ormai risolto (essendo altrimenti da dichiarare inammissibile il ricorso che perorasse immotivatamente il mutamento di giurisprudenza poi medio tempore avversatosi, ed al contrario da dichiarare ammissibile il ricorso conforme all’orientamento affermato all’epoca della sua notificazione, ma difforme dalla nuova interpretazione).
L’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. lascia però irrisolti interrogativi non meno gravi, né nuovi, per quanto già detto nelle pagine precedenti. Quante sentenze ci vogliono per fare la «giurisprudenza della Corte»? Un precedente fa «giurisprudenza» ? (si, risponde, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4366, “quand’anche unico e perfino remoto, ma univoco e chiaro”).
E’ come quel che avviene nel sofisma del sorite, scriveva Taruffo: quanti granelli ci vogliono per fare un mucchio di sabbia, ovvero, quale granello, singolarmente aggiunto, fa divenire mucchio ciò che prima tale non era? La relatività del parametro della «giurisprudenza della Corte», invece individuato dall’art. 360-bis, n. 1, c.p.c. come misura di tutte le cose, è evidentemente acuita dalla difficoltà di ricercare nei precedenti un valore assoluto ed oggettivo all’interno di un sistema che lascia alla Corte Suprema la produzione di oltre trentamila decisioni all’anno.
Una identica immagine della Cassazione, vista come “macchina banale”, emerge dal secondo comma dell’art. 375 c.p.c. inserito dal d.l. n. 168 del 2016, convertito in l. n. 197 del 2016, in base al quale la Corte, a sezione semplice (ma, nella pratica seguita, anche a sezioni unite) pronuncia in camera di consiglio, senza l’intervento del pubblico ministero delle parti (art. 380-bis.1, c.p.c.), in ogni caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa “opportuna” dalla particolare rilevanza della questione di diritto da risolvere (oppure quando, omisso medio, la sesta sezione, in esito alla camera di consiglio, abbia ritenuto che il ricorso non sia né inammissibile, né manifestamente fondato o infondato). E’ una distinzione di riti che postula una capacità vaticinale del presidente di sezione all’atto della fissazione dell’udienza o dell’adunanza (o del collegio, ove se ne ammetta la facoltà di repêchage in analogia all’art. 380-bis, comma 3, c.p.c.: ad esempio, Cass. sez. un. 5 giugno 2018, n. 14437), supponendo che sia prevedibile ex ante l’idoneità a “fare precedente” di una pronuncia da rendere, ma negli effetti pratici riducendo la funzione nomofilattica, che è garanzia di legalità, al riscontro empirico dell’uniformità della giurisprudenza, sicché l’una non (più) occorre quando, in qualsiasi modo ed a qualsiasi prezzo, si sia comunque conseguita l’altra.
La vulgata vuole che la Suprema Corte possa agevolmente discernere tra esercizio dello jus constitutionis e dello jus litigatoris, riservando al primo lo scenario della pubblica udienza ed al secondo i toni ben più dimessi della trattazione in camera di consiglio: eppure siffatta distinzione sui predicamenti dell’essere tra jus constitutionis e jus litigatoris non significa certo che quando la Corte adempie al primo non risolve comunque una lite tra le parti, né che quando provvede al secondo possa disinteressarsi della propria funzione nomofilattica.
Da ultimo, non può trascurarsi l’influenza che un’interpretazione stabilizzata e consolidata fornita dal giudice della nomofilachia spiega altresì sul sindacato di costituzionalità delle leggi, atteso che, in presenza di un “diritto vivente” di matrice giurisprudenziale, com’è noto, la Corte costituzionale si reputa priva della possibilità di proporre differenti soluzioni interpretative (Corte cost., sentenze n. 208 del 2014; n. 338 del 2011; n. 299 del 2005; n. 266 del 2006), dovendo piuttosto stabilire se lo stesso sia o meno conforme ai principi costituzionali. La norma sarà dunque illegittima “così come interpretata dalla Cassazione”. Per converso, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice che non voglia discostarsi da esso, prescegliendo una diversa esegesi del dato normativo per adeguarne il significato a precetti costituzionali, ha la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (Corte cost., sentenze n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017, n. 200 del 2016 e n. 11 del 2015).
5. Conclusioni
E’ difficile trarre una conclusione di sintesi dalle pagine precedenti circa il ruolo attuale della nomofilachia e l’efficacia del precedente. Della prima è emersa l’idea che essa sia erogata da un dispositivo ad intermittenza, che la Corte di Cassazione dovrebbe interrompere e ripristinare a seconda dei casi da giudicare e delle questioni da risolvere. La forza del precedente sembrerebbe poi giustificata da esigenze preminenti anche rispetto a quella della astratta legalità della decisione, quali la stabilità e la certezza degli orientamenti giurisprudenziali, la calcolabilità degli esiti del processo e la ragionevole durata dello stesso.
Com’è noto, nel 67 a.C., su iniziativa del tribuno della plebe Gaio Publio Cornelio, fu approvato un plebiscitum – la lex Cornelia -, con il quale venne disposto “ut praetores ex suis edictis perpetuis ius dicerent”, intendendosi obbligare i pretori ad attenersi, nell’esercizio della iurisdictio, all’editto pubblicato all’inizio del loro anno di funzioni. Lo storico Asconio spiegò che si cercava così di redarguire i pretori, i quali, soprattutto negli ultimi tempi della Repubblica, “varie ius dicere assueverant”. La Legge Cornelia mirava, dunque, a conferire la veste di edictum perpetuum all’editto proposto da ciascun pretore all’assunzione della carica, negando ai magistrati la possibilità di intervenire su materie della loro giurisdizione in forma di edicitum repentinum. Si voleva che l’attività edittale non dovesse più conformarsi ai mutevoli orientamenti del singolo pretore, e in tal modo ripristinare la stabilità degli editti, non potendocisi più rimettere alla sola fides del magistrato.
Kruger, in Geschichte der Quellen und Litteratur des Römischen Rechts, 1888, raccontò, comunque, che la Legge Cornelia non venne mai effettivamente applicata.
* L’articolo rielabora il testo di una relazione svolta all’incontro di studi su “Il giudizio civile di cassazione e la necessità di conciliare quantità e qualità”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura nei giorni 11 e 12 febbraio 2021.