Giustizia e comunicazione. 4)
La cronaca giudiziaria racconta il Paese
Intervista di Andrea Apollonio a Giovanni Bianconi
Prosegue il dibattito promosso da Giustizia Insieme sul tema della comunicazione della e neIla giustizia. Dopo il contributo introduttivo di Giovanni Canzio, il 26 maggio Giustizia Insieme ha intervistato Rosaria Capacchione sul modo e sui modi di fare cronaca giudiziaria; ad intervenire è stato poi, il 1 giugno, Giovanni Melillo, in ordine alla comunicazione dell'ufficio del pubblico ministero. Un tema che "chiama" l'intervista odierna: oggi è infatti la volta della penna di punta del Corriere della Sera, Giovanni Bianconi, una delle firme più autorevoli nel panorama della cronaca giudiziaria italiana. Attento osservatore dell'esercizio del diritto, con i suoi articoli e i suoi libri ha raccontato i due fenomeni criminali italiani più complessi: il terrorismo e la mafia. I suoi editoriali sono il termometro esatto della vita giudiziaria del Paese.
Lei non ha bisogno di presentazioni, e per questo partiamo da una domanda apparentemente banale: che differenza passa tra il giornalismo giudiziario e il giornalismo sportivo, politico, oppure di quello che si occupa di gossip o di affari esteri?
La differenza è che alle altre branche, quelle che ha citato, si applicano soltanto le regole del giornalismo: hai la notizia, la fai uscire, la spieghi, la interpreti.
La cronaca giudiziaria invece deve, o dovrebbe, necessariamente fare ricorso non soltanto a questa dinamica, ma anche alle regole tecniche del processo, che devono essere anch'esse spiegate ai lettori per far capire loro le ragioni di un fatto. La notizia di cui vengo in possesso non posso spiegarla correttamente se non la spiego anche tecnicamente: poi la posso illustrare nei suoi vari risvolti e persino interpretare nella mia prospettiva.
Ad esempio, prima di dare notizia di un avviso di garanzia, devo prima spiegare al lettore di cosa si tratta e come quest'atto sia funzionale alle regole del processo, altrimenti darei un'informazione non corretta, o non correttamente comprensibile per un lettore che di solito non è un esperto di diritto. Credo che la difficoltà maggiore nel mio lavoro stia in questo: non ignorare né banalizzare il dato tecnico ma essere al tempo stesso efficace nel fornire la notizia.
Inoltre, la cronaca giudiziaria è l'unico settore davvero trasversale, che sconfina in tutti gli altri; può diventare, all'occorrenza, cronaca politica, cronaca sportiva (a seconda che la notizia riguardi un politico o un personaggio sportivo), o anche mero gossip, oppure riguardare gli affari esteri: basti pensare a quanto accaduto di recente in Francia, con l'avvenuta cattura dei terroristi politici. La verità è che la giustizia entra ovunque, è quasi un rumore di fondo della società che si racconta.
Almeno dai tempi di Tangentopoli...
No, è sempre stato così. Pensi al caso Moro, alla P2, alle stragi terroristiche e di mafia. Il punto è che la cronaca giudiziaria, almeno nella seconda parte della storia repubblicana, ha spiegato i fenomeni sociali e politici. Attraverso la cronaca giudiziaria si racconta il Paese.
Potremmo dire, al massimo, che da Tangentopoli in poi il giornalismo giudiziario ha fatto più attenzione dell'effetto "extra-giudiziario" di talune indagini e di taluni processi. Ecco, la difficoltà del mio lavoro sta anche in questo: nella spiegazione, che pure bisogna dare, dell'effetto extra-giudiziario che quel dato tecnico-giuridico, ha.
È un concetto interessante, quello di cui parla: "l'effetto extra-giudiziario" del dato tecnico...
Beh, la vicenda della c.d. "loggia Ungheria" dimostra, da ultimo, che a quest'effetto pensano non solo i giornalisti ma anche gli uffici giudiziari, e in particolare le Procure della Repubblica, se è vero che ci si pone il problema se iscrivere o meno una notizia di reato a carico di noti, perché tutti sanno che una indagine del genere può avere un "effetto extra-giudiziario" (e quindi politico e sociale) dirompente. Un Procuratore della Repubblica, questo tipo di problemi, se li pone, tanto che abbiamo assistito - almeno così ci è dato sapere - a scontri all'interno dell'ufficio milanese, in ordine al se iscrivere o non iscrivere (e trasmettere gli atti altrove per competenza) quella notizia di reato: un contrasto che ha a che fare con la sensibilità del singolo magistrato connessa anche all'effetto "extra-giudiziario" di un mero atto.
Non crede che, in questo caso, la sensibilità del singolo magistrato si scontri anche col timore che il dato tecnico-giuridico venga poi strumentalizzato dai canali di informazione?
In effetti, il rischio di strumentalizzazione di una tale notizia è altissimo. Anzi, l'opera di strumentalizzazione può essere considerata pressoché certa...
Mi pare di scorgere, in quest’affermazione, una mancanza di obiettività e lucidità del giornalismo giudiziario italiano.
Ormai ci sono testate che vivono di cronaca giudiziaria "orientata": nel senso che ci sono giornali che si dedicano quasi esclusivamente alla cronaca giudiziaria e la orientano, interpretandola, dando una precisa versione dei fatti in base all’orientamento politico della testata. Ci sono giornali che esistono in quanto c'è una cronaca giudiziaria che ha rilievo politico e quindi la piegano e la interpretano sotto una luce politica.
È normale che sia così?
Secondo me è una degenerazione: è una prosecuzione della lotta politica fatta attraverso l'uso degli atti giudiziari.
Si riferisce alla magistratura?
Prima di dire che i magistrati fanno lotta politica attraverso i loro atti, cosa che bisognerebbe dimostrare, direi, perché mi pare dimostrato, che sono i politici che utilizzano gli atti dei magistrati per fare politica. Invece quando si parla di uso politico della giustizia di solito ci si riferisce ai magistrati: per carità, questo può anche succedere e forse è accaduto, ma penso che in Italia l'uso politico degli atti giudiziari venga fatto principalmente dai politici.
E ciò, peraltro, mi pare emerga anche dall'idea di istituire una "Commissione sull'uso politico della giustizia", come è stato paventato. Tecnicamente poi, la vedo un'idea di difficile esecuzione: su cosa si farebbe l'indagine parlamentare, sulle sentenze? Che cosa si fa, si convocano i magistrati e si chiede perché ha firmato quell'ordinanza o perché e sulla base di quali elementi hanno redatto quella sentenza? Ma come si può pensare una cosa del genere rispettando il principio della separazione dei poteri?
Come sa, quell'idea è figlia delle inchieste che hanno sconvolto la magistratura negli ultimi due anni...
Vedo in giro una grande strumentalizzazione di queste inchieste, che partono dall’ormai noto incontro di consiglieri del Csm con esponenti politici in un albergo romano. Una strumentalizzazione già evidente nella trasformazione di vicende personali in vicende politico-editoriali tese ad orientare in un preciso senso politico i fatti giudiziari, anche di alcuni anni fa. E se queste sono le basi ideologiche della proposta di istituire quella Commissione...
Crede che oggi la comunicazione della giustizia, ed in particolare della giustizia penale, sia corretta e adeguata al periodo storico che viviamo?
La comunicazione in generale delle attività giudiziarie da parte delle procure o altri uffici non può che essere per sua natura inadeguata, strutturalmente inadeguata direi. La comunicazione fatta dalle Procure, o dagli uffici giudiziari, inevitabilmente non può che seguire le regole del codice di procedura penale e degli intenti delle Procure o degli uffici giudiziari: quando accade ci si limita a comunicare la notizia di reato e l'eventuale adozione di provvedimenti. Ma il nostro lavoro, il lavoro dei giornalisti, è spiegare quello che c'è dietro un atto giudiziario, che non è soltanto il fatto giudiziario in sé o il suo risvolto politico, come dicevamo prima, ma anche (senza voler strumentalizzare i fatti) il racconto dei fenomeni che stanno dietro alcuni episodi. Noi attraverso i processi raccontiamo quello che accade in Italia. Questo però non lo può fare un ufficio giudiziario, la cui comunicazione è inevitabilmente stringata, e quindi di per sé inadeguata: l’interpretazione, il racconto spetta alla professionalità dei giornalisti. Io posso utilizzare anche un decreto di archiviazione per descrivere un fatto significativo o esemplificativo di un fenomeno: anche se non si è arrivati ad alcun processo, quell'atto è ugualmente importante e permette a noi giornalisti di interpretare il fenomeno sotteso.
Ravvisa eccessi nelle forme comunicative degli uffici giudiziari?
Per parlare di eccesso nella comunicazione dovrei scendere nel merito dei casi concreti, e poi un giornalista non può essere vincolato ad attenersi o distinguere tra una comunicazione del provvedimento giurisdizionale formalmente corretta ed una che non rispetti le regole "interne", le circolari, le leggi ordinamentali ecc. Cioè, se un giudice legge il dispositivo di una sentenza che ha interesse pubblico perché riguarda un ex ministro, e poi, subito dopo, si fa intervistare da me e rilascia dichiarazioni che in qualche maniera anticipano il contenuto della sentenza che andrà a redigere, io non devo porre il problema se ha fatto bene o ha fatto male, se sta rispettando alla lettera le prescrizioni di legge oppure no. Dalla prospettiva del giornalista , ma direi dell’opinione pubblica, ha fatto bene, perché mi ha spiegato una cosa che è di evidente interesse pubblico, ed io, a mia volta, la rendo fruibile all'opinione pubblica.
È in corso un dibattito sulla compatibilità del principio di innocenza fino a sentenza passata in giudicato con la comunicazione giudiziaria, in specie dopo l'applicazione di misure cautelari. Lei cosa ne pensa?
Questo vorrebbe dire che di certe vicende criminali, di interesse pubblico, non si può dare notizia fino a che non interviene una sentenza passata in giudicato. E prima non se ne deve sapere niente? Mi pare... strano. E' evidente che quella fornita per esempio a seguito di una ordinanza cautelare deve essere una informazione circoscritta a quella che è, una ordinanza di custodia cautelare che evidentemente valorizza per gran parte gli elementi raccolti dall'accusa, senza il contraddittorio e tutto il resto. Questo porta con sé la continenza da parte nostra nel doverlo scrivere e nel dovere essere precisi. E' di nuovo una questione di deontologia professionale.
Spetta a me giornalista ricordare che quella è una ricostruzione necessariamente parziale, perché manca la versione della difesa, e che c'è la presunzione di innocenza, che prima di esprimere un giudizio sulla responsabilità c’è bisogno del vaglio dibattimentale, e tutto il resto. Ma questo è un problema dei giornali e non dei magistrati.
Giovanni Falcone era un grande comunicatore della giustizia e dei fenomeni che combatteva nelle aule d'udienza. Quel tipo di comunicazione della giustizia, pacato e serio, la vede anche oggi? Sarebbe ancora efficace?
C'è da fare una premessa: i tempi di Giovanni Falcone non esistono più, sono molto cambiati. All’epoca c’erano la televisione, i libri e i giornali: e questo era tutto. Adesso esiste il web e la comunicazione social: un fenomeno molto più veloce, che sfugge ad ogni controllo, e molto più complicato da maneggiare. Fare paragoni con quel momento storico è quasi impossibile.
Detto questo, lui viveva in un periodo in cui dare informazioni sulla mafia era vitale per contribuire a sostenere l’opera di contrasto giudiziario a quel fenomeno criminale; Falcone aveva bisogno che i giornali e le tv ne parlassero. Aveva bisogno anche del sostegno della politica (o almeno della non ostilità, per quanto possibile) e dell'opinione pubblica per arrivare ad uno strumentario legislativo adeguato al contrasto del fenomeno (che poi, infatti, si ottenne, soprattutto grazie alla sua opera comunicativa): quindi il fenomeno andava raccontato e andava raccontato bene. Anche perché all’epoca era in atto una controinformazione sull'economia siciliana strozzata dalle indagini o cose simili. Lui aveva necessità di spiegare e raccontare per poter continuare a lavorare.
E oggi?
Difficile vedere qualcuno, oggi, mediaticamente efficace come lui: anche perché lui era efficace nella misura in cui esisteva un vuoto di comunicazione sulla mafia. Quando lui spiega il fenomeno del pentitismo, del tutto nuovo, che mai prima d’allora la giustizia aveva sperimentato, lascia lo spettatore abbacinato, incredulo: perché la figura del collaboratore di giustizia non era mai stata raccontata. E lui la racconta, in tv e sui giornali, perché la politica doveva farsi carico di disciplinare il fenomeno con leggi apposite: e così fu.
Quale potrebbe essere allora, oggi, una comunicazione della giustizia efficace?
Oggi siamo bombardati da informazioni, non sempre utili e non sempre pertinenti; e molte informazioni “orientate” e “sviate”, soprattutto rispetto alla giustizia, come ho detto. Oggi vedo più urgente la necessità di dare una informazione corretta e asciutta per evitare strumentalizzazioni.
Nel mare magnum di notizie non verificabili e di opinioni impazzite, nel generale eccesso di comunicazione insito in tutti gli ambiti e in tutti i settori, l’efficace comunicazione del potere giudiziario è solo quella chirurgica, che eviti al minimo il rischio di confusione e consenta a noi giornalisti di fare bene il nostro lavoro.
Che rapporto ha un giornalista giudiziario con il segreto istruttorio?
Spesso si lavora su notizie coperte ancora da segreto. All’inizio si lavora con piccole informazioni che si costruiscono passo passo. Poi a volte bisogna aspettare, quando capita di avere informazioni che non si possono riportare al momento e bisogna attendere il momento in cui vengono rese ostensibili. Non funziona che uno bussa alla porta, fa la domanda, quelli danno la risposta ed è finita: magari fosse così!
Di solito capita di sapere che c'è una indagine, poi si cerca di saperne qualcosa di più ma spesso e volentieri è impossibile, e comunque molto complicato: la difficoltà del nostro lavoro sta anche nel trattare informazioni che di per sé sono confinate in un circuito “chiuso” come quello del procedimento penale, e allora bisogna cercare di farle uscire - se ostensibili e se di interesse, solo se di interesse pubblico - senza danneggiare l'indagine o il processo, e dopo tutte le verifiche necessarie, avendo la certezza di quello che si scrive.
Quando dice “bussare alla porta”, viene spontanea una domanda, forse troppo personale…
Prego.
Facendo il giornalista di cronaca giudiziaria, talvolta ha la tentazione di voler essere dall'altra parte? Oppure qualche crisi d'identità...
(ride) Io sono contento di aver fatto il giornalista, a volte ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare il magistrato, però decidere della libertà delle persone, o anche chiedere di decidere sulla libertà delle persone, mi pare complicato... Ma mi sento ugualmente responsabile dell'informazione che diamo sulle persone, quindi... non è che il peso, la responsabilità di scrivere un articolo che coinvolge la vita di altri sia molto minore. Penso che sono due bei lavori, che talvolta si incrociano, ma che è bene tenere distinti perché sono lavori diversi ed entrambi necessari.