Il 10 marzo: la ricorrenza al di là della retorica
di Maria Teresa Covatta
Il 29 aprile del 2021 l’Assemblea generale dell’ONU ha proclamato il 10 Marzo giornata internazionale delle donne giudici (A/RES/75/274).
La Risoluzione partendo dall’Agenda 2030 e dall’assoluta centralità del target dell’effettiva uguaglianza di genere in tutti i settori della società, constata che le donne che svolgono la funzione giurisdizionale, a tutti i livelli e soprattutto in posizione di vertice, sono ancora poche.
Afferma, come già fatto in altre sedi, che la partecipazione delle donne al processo decisionale anche in campo giudiziario è essenziale per il raggiungimento di obiettivi di uguaglianza, sviluppo sostenibile, pace e democrazia; e invita gli Stati ad impegnarsi con piani e strategie concrete affinché le donne possano inserirsi ed avanzare nel sistema giudiziario in termini egualitari rispetto agli uomini.
L’invito a promuovere una partecipazione che sia davvero “piena e completa” amplia la platea dei destinatari della Risoluzione che si indirizza anche a quegli Stati, tra cui l’Italia e molti altri degli Stati europei, in cui l’accesso delle donne in magistratura è prevista da tempo (legge 9 febbraio 1963 n. 66) e gli steccati ancora da superare riguardano fattori diversi quali le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia e le strategie utilizzate per garantire un accesso paritario alle posizioni di leadership.Quasi inesistente le prime, nonostante la presenza maggioritaria delle donne in magistratura; in progressivo aumento le seconde, con tempi non proprio veloci, tenuto conto che le donne sono entrate per la prima volta in magistratura del 1965, dunque ben 58 anni fa.
Ma il processo è ben avviato come comprovato dalla nomina di Margherita Cassano a presidente della Suprema Corte di Cassazione, nomina che, citando le parole della stessa presidente (1) “rappresenta il risultato collettivo che consegue allo sforzo profuso dalle donne magistrato e dalla parte più sensibile della società ai temi della parità di genere nei vari ambiti”.
Un risultato che parte dall’impegno e dall’esempio di quelle prime 8 magistrate che nel 65 superarono il concorso, tra cui Gabriella Luccioli, anche lei prima donna a ricoprire un ruolo apicale alla Suprema Corte; magistrate che, citando ancora le parole della stessa presidente “hanno segnato la vita professionale di noi tutte”.
Brenda Hale presiede la Corte Suprema Britannica dal 2017 e anche per lei si può parlare del raggiungimento di un traguardo per l’intero sistemza giudiziario del Paese, spronato più volte dalla stessa giudice a promuovere diversità e parità di genere al suo interno, lottando contro atteggiamenti sessisti e classisti.
Clantal Arens ricopre la più alta carica dell’ordine giudiziario francese dal 2019, già preceduta, quasi 30 anni prima, da Simon Rozès che aveva ricoperto l’incarico dall’1984 al 1988.
Siofra O’Leary, irlandese, è la prima donna ad essere stata nominata, nel novembre dell’anno scorso, presidente della Corte Europea dei diritti Umani.
La situazione non è così confortante in altre realtà e basta un rapido sguardo alla situazione internazionale per valorizzare il peso della Risoluzione ONU.
Infatti, al di là di tutto ciò che si può pensare di o contro queste ricorrenze, a cominciare da una certa ritrosia degli Stati a votarle nel timore che comportino spese obbligatorie aggiuntive (2), a proseguire con la censura sulla poca concretezza che le caratterizza o lo stigma di essere una delle tante celebrazioni retoriche, credo che conoscerne il background possa essere utile a spiegarne il valore che non è meramente simbolico.
La proposta nasce dalle magistrate quatarine all’esito di una collaborazione internazionale cui partecipano anche molte magistrate, in una indagine relativa al traffico internazionale di droga e ad altri fenomeni criminali connessi: lavoro poi ricompreso e apprezzato nell’ambito del Global Judicial Integrity Network of UN Office on Drugs and Crime, che la Risoluzione richiama in premessa (3).
Niente di strano se non fosse che tra quelle magistrature ve ne erano talune per le quali, per contesto sociale, culturale e religioso, la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione non è così scontato e comunque, quando consentito formalmente, è sempre in bilico tra il concesso e il non più concesso.
A maggior ragione quando si esula dal recinto di contesti giurisdizionali strettamente connessi alla famiglia e approda, niente meno, che alla sfera della giurisdizione penale.
Non ci sono giudici donne in Iran dopo il 1979 e c’è da chiedersi, ove invece vi fossero state, se la storia recente della rivolta avrebbe preso una piega diversa, pur in presenza di tutte le difficoltà costituzionali connesse alla sharia che gravano sulla libertà delle donne in generale.
Già in un’intervista di tanti anni fa (2003), rilasciata insieme a Carla Del Ponte, la Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi, già membro dell’Alta Corte Iraniana, costretta a ritirarsi con l’avvento del regime degli Ayatollah, rifletteva sulla difficoltà di essere magistrate ma al tempo stesso sull’importanza di avere la presenza delle donne nell’esercizio della giurisdizione in Paesi dove la parola di un solo uomo ha un valore maggiore di quella di più donne.
Le giudici donne in Afghanistan sono state cancellate. Molte di loro sono state uccise. Altre sono riuscite, con l’aiuto internazionale, ad “evadere” dal loro Paese come se fossero delle criminali.
È di questi giorni (24.2.2023) la testimonianza di Obaida Shahar Sharify una delle 21 giudici e procuratrici che hanno trovato rifugio in Spagna a seguito di un procedimento di urgenza per la concessione dell’asilo (4) dopo la fuga dall’Afghanistan attraverso il Pakistan dove hanno vissuto senza status di rifugiate e con il terrore di essere catturate e riportate in Afghanistan.
Al dolore dell’abbandono del proprio Paese si aggiunge quello di non poter più svolgere il proprio lavoro e di essere considerate un nemico da abbattere proprio per la funzione esercitata, inaccettabile per i guardiani della sharia se svolta da una donna.
In Birmania le donne, tutte, sono state oscurate dal golpe militare del 2021 e naturalmente anche le magistrate, avvocate e giuriste e tutte coloro che hanno contestato la brusca “sospensione”, o meglio la cancellazione, dei diritti umani tra cui quelli delle donne.
In Palestina, che pure vantava il primato di essere una delle poche società arabe che già negli anni 70 aveva previsto la possibilità di nominare giudici donna, in concreto le donne giudici continuano ad essere poche. E comunque occupano ruoli nella giurisdizione di conciliazione e non invece nel settore penale, dove sono solo gli uomini ad occuparsi dalla problematica del delitto d’onore, della violenza domestica, per la quale manca ogni forma di normativa a tutela delle vittime, dello stupro, che non è riconosciuto come reato se consumato nell’ambito del matrimonio, e comunque di ogni aspetto che coinvolge la tutela dei diritti delle donne: così perpetuando tutte le storture di una società ancora profondamente patriarcale (5).
Così in Siria, così in Nigeria, tanto per citare alcune delle realtà in cui guerre, terrorismo,tratta, traffico di droga e soprattutto lo stupro, utilizzato costantemente come arma di guerra, richiederebbero tribunali ad alta presenza femminile.
Anche il Pakistan, che sembrava costituire una piccola eccezione nel panorama asiatico, visto che dal 2008 ha visto una sostanziosa immissione di donne nella magistratura fino ad arrivare a quasi un terzo di rappresentanza femminile, ha di recente vissuto una vera e propria ribellione ideologica nel momento in cui una donna (Ayesa Malik) è stata chiamata a far parte della Corte Suprema Pakistana nel settore penale, sia pure unica donna tra 16 colleghi uomini.
Una scelta epocale, intervenuta dopo molte bocciature e che ha scatenato fortissime reazioni contrarie sia tra i colleghi sia da parte dell’avvocatura che ha persino minacciato il blocco delle attività giurisdizionali.
La “colpa” di Ayesa Malik, per cui è stata avversata e criticata, oltre al fatto di essere una donna, è stata quella di aver posto un principio di diritto e di civiltà bloccando, nei processi a lei assegnati, l’esecuzione dei test di verginità sulle vittime di stupro, pratica molto invasiva e molto diffusa come tecnica di indagine sul passato sessuale delle donne.
Il che racconta, più di tante parole, quale può essere - ovunque - il valore aggiunto di una magistratura femminile, più evidente in sistemi ancora profondamente patriarcali ma valido anche in realtà a noi più vicine, dove grandi passi sono stati fatti su temi fondanti quali la violenza contro le donne ma ancora sussistono stereotipi e steccati che resistono anche nell’esercizio della giurisdizione e impediscono il raggiungimento effettivo della parità. La vittimizzazione secondaria ne è un esempio ma purtroppo non l’unico.
E dunque festeggiamo senza riserve questa ricorrenza internazionale come riconoscimento del valore dell’apporto della magistratura femminile nel progresso dei diritti delle donne, sia per quelle che già esercitano la funzione con pieno diritto sia per tutte quelle che hanno appena intrapreso un cammino che va sostenuto da tutti.
Note
(1) Lettera di ringraziamento della Presidente all’ADMI - Associazione Italiana Donne Magistrato per il comunicato di congratulazioni per la nomina.
(2) Come esprime la clausola “stressed that the cost of all activities that may arise from the implementation of the present resolution should be met from voluntary contribution”.
(3) Costituito a Vienna nel 2018 il Network delle N.U. è finalizzato (art 11) a rafforzare l’integrità giudiziaria intesa come abilità del sistema e dei singoli membri a rispettare i valori fondamentali di indipendenza, imparzialità, competenza e diligenza; prevedendo altresì una serie di strumenti per consolidare a livello globale tali valori.
(4) “24.2.2023 Comunicato Associazione 14 Lawyers di Bilbao i quali, unitamente all’Union Progresista de Fiscales(UPF) e Magistradoseuropeos per la democraciay lasLibertades” (Medel), hanno patrocinato l’operazione di salvataggio e le procedure di asilo.
(5) Così Thuraya Judi Alwazir, membro dell’Autorità giudiziaria palestinese dal 2009.