Dei comportamenti della P.A. che costituiscono inottemperanza al dictum giurisdizionale: l’effetto conformativo del giudicato e la sua elusione (nota a Consiglio di Stato, Sezione Seconda, 22 maggio 2023 n. 5072)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato – 2. Sulla natura e sul margine di cognizione del giudizio di ottemperanza – 3. Comportamenti della PA che costituiscono inottemperanza al giudicato e silenzio assenso – 4. Il decisum della Sezione Seconda: l’elusione del giudicato.
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato.
Con la sentenza n. 5072/2023, la Seconda Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sul duplice aspetto della formazione del silenzio assenso nonché sui comportamenti della Pubblica Amministrazione che costituiscono inottemperanza al giudicato e, di conseguenza, sul margine di cognizione nel giudizio di ottemperanza.
Se quanto al primo profilo la Sezione ha sposato la teoria, già sostenuta da parte della giurisprudenza[1], che ammette il silenzio significativo anche laddove l’attività oggetto del provvedimento (tacito) sia priva dei requisiti di validità, non sono ravvisabili invece precedenti nei medesimi esatti termini quanto alla perimetrazione, che effettua il Collegio, del concetto di inottemperanza al giudicato rispetto al caso di specie; si legge, infatti che “deve ritenersi inottemperante il comune che, dopo essere rimasto inerte per anni, riavvia da capo l’istruttoria di un procedimento, senza tenere conto né delle precedenti produzioni documentali, né delle risultanze processuali”, confermando così la sentenza in commento l’indissolubile legame tra comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato, che ne costituiscono sostanzialmente un’elusione, e inottemperanza.
La vicenda contenziosa trae origine dal ricorso al Tar Lazio con il quale il ricorrente impugnava, oltre alla disposizione dirigenziale con la quale il comune di Roma rigettava l’istanza di condono in relazione al parziale cambio di destinazione d’uso (da magazzino a negozio) di un locale, anche l’ingiunzione a demolire, nonché l’intimazione a non proseguire le attività commerciali esercitate in loco.
Avendo il Tar respinto[2] il ricorso ed essendo stata appellata la decisione, il Consiglio di Stato[3] accoglieva l’appello e annullava gli atti avversati, sancendo la convenienza, piuttosto che la doverosità, dell’applicabilità del regime delle sanatorie alla modifica di destinazione d’uso senza opere, ben potendo l’interessato adibire l’immobile ad esercizio commerciale vista la sua insistenza in una zona omogenea che ammetteva la presenza tanto di negozi quanto di magazzini. In particolare, la sentenza affermava che il ricorrente, al fine di ottenere la legittimazione postuma del proprio intervento, avrebbe potuto attingere, oltre che alla invocata disciplina del condono di cui all’art. 32 d.l. n. 326/2003 (scelta giustificata in via presuntiva in quanto più vantaggiosa economicamente), anche al paradigma dell’accertamento di conformità[4] di cui agli artt. 7 l.r. n. 36/1987 e 36 d.P.R. n. 380/2001[5].
Il ricorrente, pertanto, a fronte dell’inerzia degli uffici, diffidava reiteratamente il Comune ad avviare e concludere il procedimento di rilascio del condono, promuovendo poi, in data 8 novembre 2022, ricorso per l’ottemperanza della pronuncia del Consiglio di Stato chiedendone l’esecuzione, se del caso, mediante la nomina di un commissario ad acta.
Il Comune di Roma si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso e, in ogni caso, eccepiva la prescrizione di quanto eventualmente preteso a titolo indennitario, risarcitorio e/o di ristoro di qualsiasi natura. Successivamente veniva prodotta relazione dell’ufficio competente in materia di condoni nella quale, a giustificazione del ritardo nell’avvio della riedizione del potere, si invocavano le problematiche organizzative connesse alla pandemia da COVID 19, nonché, più di recente, l’impossibilità di accedere ai locali-archivio delle pratiche protrattasi dal 22 aprile 2021 al 5 aprile 2022. Veniva poi versata in atti ulteriore nota con la quale si dava finalmente notizia del “riavvio” dell’iter istruttorio, ribadendo tuttavia l’incertezza degli esiti, sull’assunto che la sentenza ottemperanda non avrebbe attinto al contenuto della propria futura valutazione.
Infine, in data 22 marzo 2023, a riprova del preannunciato riavvio della pratica, veniva prodotta la comunicazione inoltrata al ricorrente via PEC il 20 gennaio 2023 di richiesta di copiosa documentazione integrativa, atta anche a dimostrare l’epoca di realizzazione e la consistenza dell’abuso, significando la necessità della sua produzione esclusivamente tramite il sistema informatico dedicato accessibile dall’apposita piattaforma.
La Sezione Seconda del Consiglio di Stato, adita per l’ottemperanza, ha ritenuto, con la sentenza in commento, fondata la domanda del ricorrente.
Nell’accogliere il ricorso, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto opportuno soffermarsi su due aspetti principali, che costituiscono i punti nevralgici della pronuncia: l’obbligo di eseguire il giudicato e la relativa discrezionalità in capo all’amministrazione (aspetto questo che implica la necessità di volgere lo sguardo al margine di cognizione presente nel giudizio di ottemperanza); il rapporto tra l’obbligo di dare ottemperanza alla sentenza ed il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso al fine di appurare se l’avvio tardivo possa essere equiparato alla doverosa ottemperanza o se, invece, concretizzi un’elusione del giudicato.
Si rende pertanto necessario, al fine di comprendere pienamente la portata del decisum, inquadrare dapprima tali aspetti.
2. Sulla natura e sul margine di cognizione del giudizio di ottemperanza.
Il Collegio esordisce con una premessa ben chiara: l’Amministrazione è sempre tenuta ad eseguire il giudicato, obbligo cui non può venir meno per nessuna ragione di opportunità amministrativa o di difficoltà pratica[6].
Il giudizio di ottemperanza, infatti, rappresenta un rimedio, espressione dei principi di effettività e concentrazione della tutela giurisdizionale, posto a disposizione del privato che voglia ottenere da parte dell’amministrazione soccombente l’attuazione del favorevole giudicato di cognizione. Il sistema di esecuzione delle sentenze e dei titoli esecutivi contemplati dall’art. 112 c.p.a. è ispirato ad un duplice modello, surrogatorio e compulsorio, volto a consentire la piena attuazione di quelle sentenze[7] di cui non venga data spontanea esecuzione ex art. 33 comma 2 c.p.a.
Si tratta di uno dei pochi casi in cui la giurisdizione è estesa al merito[8], potendosi il giudice dell’ottemperanza, nel caso di perdurante inerzia della PA, sostituire a questa, adottando il provvedimento anche nei casi di massima discrezionalità.
L’art. 112 c.p.a. prevede, infatti, che l'azione di ottemperanza possa essere proposta per conseguire l'attuazione tanto delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato, quanto delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo.
L’art. 114, poi, precisa i poteri che il giudice può esercitare in tale sede – pur potendosi desumere questi già implicitamente dall’art. 134 comma 1 lett. a) che attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione con cognizione estesa al merito – statuendo che “il giudice, in caso di accoglimento del ricorso: a) ordina l'ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l'emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione; b) dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato; c) nel caso di ottemperanza di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti, determina le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvede di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano; d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta; e) salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.
L’Amministrazione è dunque sempre tenuta ad eseguire il giudicato ed ha al riguardo discrezionalità solo in odine al quomodo; la pronuncia chiarisce[9] infatti che nessuna discrezionalità sussiste in relazione all’an e al quantum. Ed è proprio la discrezionalità quanto al quomodo che esige di prendere in considerazione la natura (anche) di cognizione del giudizio di ottemperanza: l’esecuzione del giudicato si scontra, sì, con il limite invalicabile dello stesso – che rende ontologicamente estraneo all’alveo dei giudizi de quibus il riesame di questioni già definite in maniera compiuta – ma al contempo non può prescindere dal contenuto concreto della sentenza da ottemperare, implicando necessariamente un margine di cognizione intrinseco condizionato dallo sviluppo motivazionale della pronuncia ottemperanda.
La natura del giudizio di ottemperanza è stata a lungo ritenuta controversa, soprattutto quanto alla possibilità che esso serva anche a completare l’accertamento giudiziale che ha avuto il suo esito nel giudizio di cognizione[10].
L’opinione prevalente, che trova conferma nell’opera di codificazione legislativa del 2010, riconosce un profilo anche di cognizione e non di sola mera esecuzione del giudizio di ottemperanza. Il c.p.a. ha preso infatti esplicita posizione sulla natura mista del giudizio di ottemperanza, ponendo, anche se in qualche misura solo parzialmente, la parola fine al dibattito che ha a lungo animato la dottrina e che ha tracciato una spaccatura tra coloro che, non ravvisando una reale differenza rispetto al giudizio di esecuzione civile (soprattutto in relazione alle obbligazioni di facere), escludevano qualsiasi attività cognitiva del giudice dell’ottemperanza[11] e chi, invece, attribuendo fondamentale importanza alla circostanza che tale facere consistesse nel riesercizio del potere amministrativo, rilevava la non assimilabilità dei due riti[12].
Oggi il codice accoglie una tesi intermedia tra le due, predicando la natura mista del giudizio di ottemperanza[13]; la stessa relazione al codice ha confermato che tale giudizio presenta fisiologici momenti di cognizione, ragion per cui si è ritenuto di poter consentire la concentrazione in esso di azioni cognitorie connesse, per evidenti ragioni di economia processuale.
Dall’interpretazione delle disposizioni del codice operata dall’Adunanza Plenaria[14] emerge un modello del giudizio di ottemperanza conforme alle ricostruzioni teoriche, di cui si è dato atto, offerte in passato dalla dottrina più influente; ed anzi, per alcuni commentatori[15] si potrebbe affermare che le novità del codice del processo avrebbero non solo confermato, ma addirittura rafforzato la teoria sulla natura complessa del giudizio di ottemperanza[16].
Posto allora che non può negarsi l’esistenza di un profilo di cognizione, permangono, tuttavia, diverse opinioni, circa natura, oggetto, poteri e vincoli di una siffatta cognizione[17].
È opportuno allora chiarire cosa si intenda per giudizio di cognizione[18]. In particolare, il giudizio di ottemperanza è un giudizio necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione, allorché si tratti di dare attuazione al giudicato del g.o., mentre diventa necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione, se a dover essere eseguita è la sentenza del g.a.
La diversità della formula si spiega con il fatto che nel primo caso il g.a. è tenuto a verificare e assicurare la rimozione dell’atto amministrativo dichiarato illegittimo dal g.o. solo incidenter tantum, stanti i limiti interni alla giurisdizione di quest’ultimo. Ne deriva che parte della cognitio è attribuita al giudice amministrativo dell’ottemperanza, chiamato a determinare in concreto le modalità di rimozione dell’atto. Diversamente, nel secondo caso, la statuizione contenuta in sentenza sarà più precisa e puntuale, con la conseguenza che si riduce la componente cognitiva limitata alla definizione della portata dell’obbligo di conformazione della p.a. Va tuttavia evidenziato che il g.a. non può mai integrare il giudicato del g.o., diversamente da quanto accade in relazione al giudicato del g.a.: in quest’ultimo caso, infatti, viene in rilievo il “giudicato a formazione progressiva”.
Quest’ultimo concetto è stato coniato proprio ad indicare la complementarietà tra le due sentenze integrate tra loro, pur conseguenti a distinti processi coordinati: quella da ottemperare e quella che ne definisce l’esecuzione.
Il Collegio, nella sentenza in commento, ripercorre e conferma lo scenario fino ad ora descritto.
È infatti un principio ormai consolidato in giurisprudenza quello in forza del quale il giudice dell’ottemperanza può arricchire, integrare e dettagliare le argomentazioni rede in sede di cognizione dagli organi della giustizia amministrativa[19]. Si parla non di sola esecuzione, bensì di attuazione in senso stretto (implicando così una cognizione)del contenuto del dictum giudiziale; attuazione – precisa la Seconda Sezione – purché evidentemente se ne ravvisi la necessità anche in funzione propulsiva del corretto operato della P.A., assicurando, sì, effettività alle tutele esperite, ma senza stravolgere né modificare il giudicato originario, né invadere competenze riservate alla discrezionalità amministrativa.
Tale modello di costruzione graduale del giudicato amministrativo trova conferma – come richiamano i giudici di Palazzo Spada – in un’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria[20] che non solo ne predica la compatibilità a livello eurounitario, ma afferma che proprio l’integrazione giurisdizionale delle pronunce conformative rese in sede di cognizione consente di “recuperare” eventuali difformità rispetto al diritto europeo[21]. In altre parole, l’ottemperanza diviene ulteriore luogo di adeguamento al diritto europeo, costituendo quella dell’esecuzione del giudicato sede idonea per garantire il rispetto del diritto eurounitario, in attuazione del principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (anche progressiva) di un giudicato contrastante con le norme di rango sovranazionale, cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.
Il giudizio di ottemperanza allora, su queste premesse, esige che il giudice effettui una triplice operazione[22]: interpretare il giudicato; accertare il comportamento tenuto dall’Amministrazione; valutarne, infine, la conformità alla regola giurisdizionale.
Nell’ambito di questa triplice azione, il giudice deve svolgere una prima operazione ermeneutica, ossia perimetrare in maniera esatta il contenuto della sentenza da eseguire[23]. È evidente allora l’ambito di cognizione, funzionale alla valutazione sulla sussistenza o meno del presupposto dell’inottemperanza.
La sentenza ottemperanda presenta infatti effetti sia ripristinatori (consistenti nell’obbligo per l’amministrazione di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto) che conformativi in senso stretto[24]; ed è proprio alla luce di questi ultimi che va valutata l’eventuale inottemperanza. L’effetto conformativo del giudicato è diretto a vincolare la successiva attività dell’amministrazione e si affianca a quello preclusivo, volto a vietare che la p.a. reiteri l’atto inficiato dai vizi già stigmatizzati nella sentenza di annullamento, violando il principio generale del ne bis in idem. L’effetto conformativo e quello preclusivo, dunque, guardando al futuro evidenziano che l’amministrazione può riesercitare il potere, che, tuttavia, deve essere rapportato non più alla norma attributiva del potere, ma alla regula iuris contenuta nella sentenza.
L’inottemperanza della sentenza, dovendosi valutare alla luce dell’obbligo conformativo, sussiste non solo nel caso di totale inerzia dell’amministrazione, ma anche laddove l’amministrazione non adempia in maniera esatta. Se, infatti, in passato l’esperibilità del giudizio di ottemperanza veniva ancorata al presupposto della sola inerzia, arrestandosi di fronte all’emanazione di atti amministrativi, con il tempo si è decisamente aperta una breccia su questo versante, ritenendo esperibile il giudizio anche in presenza di atti elusivi o contrastanti con il giudicato[25].
E, particolarmente rilevante è il passaggio della sentenza che ravvisa il presupposto dell’inottemperanza anche in quei comportamenti parzialmente esecutivi del giudicato o solo formalmente tali, che ne costituiscono nella sostanza un’elusione, piuttosto che una violazione. E proprio in tale affermazione risiede il cuore della pronuncia, nonché la liasontra inottemperanza, elusione del giudicato e silenzio assenso: in particolare, il Collegio ha ritenuto che il tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, come quello oggetto della sentenza in commento, mediante nuova richiesta di documentazione, senza chiarire le tempistiche finali di definizione dello stesso né specificare le sopravvenienze che ne hanno resa necessaria l’acquisizione anche in riferimento a situazioni ormai cristallizzate nel giudicato, non possa equipararsi alla doverosa ottemperanza dello stesso.
3. Comportamenti della PA che costituiscono inottemperanza al giudicato e silenzio assenso.
Nello sviluppo motivazionale della sentenza il riconoscimento del presupposto dell’inottemperanza si interseca con la questione del tardivo avvio di un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso[26].
In particolare, il Collegio si spende in una dettagliata digressione sull’istituto che è opportuno ripercorrere, almeno nei suoi aspetti fondamentali.
Il silenzio assenso[27] costituisce senz’altro in prima battuta un istituto di semplificazione[28], obiettivo questo che il legislatore ha tentato di rafforzare introducendo rimedi ulteriori, e soprattutto accentuando gli elementi di garanzia della certezza delle situazioni giuridiche. Tale esigenza di certezza si fa particolarmente stringente sul piano delle prassi distorte degli uffici, che possono collocarsi in astratto a monte dello stesso avvio dei procedimenti: il Collegio paventa non a caso il rischio che la presunta incompletezza di una pratica possa fungere da grimaldello per una serie di richieste aggiuntive che finiscano per procrastinare sine die il perfezionamento dei procedimenti ad istanza di parte, come di fatto avvenuto nel caso di specie.
Se si leggono, in chiave sistematica, gli istituti di semplificazione attraverso la lente della conformità ai principi generali dell’attività amministrativa, allora tale impostazione comporta necessariamente che il comportamento della p.a. sia improntato alla buona fede al pari di quello del privato[29], come peraltro oggi normativamente espresso.
Proprio attraverso la lettura filtrata dalla fondamentale rilevanza della buona fede si spiega anche la natura sanzionatoria[30] del meccanismo del silenzio assenso, che è volto sì a semplificare l’attività amministrativa, ma ancor più rappresenta non una fisiologica conclusione del procedimento, pur essendo oggi il ricorso all’istituto tendenzialmente generalizzato[31], ma la più grave delle sanzioni per la p.a. che è rimasta inerte e non ha provveduto[32].
Tra provvedimento espresso e silenzio assenso, allora, non vige un rapporto di identità sostanziale: il comportamento silenzioso non configura una modalità di esercizio della funzione, bensì un mero fatto, al quale la legge riconosce la capacità di produrre i medesimi effetti di una fattispecie diversa, ovvero dell’atto di assenso.
Non si tratta, infatti di una modalità ordinaria di svolgimento dell’azione amministrativa, bensì costituisce uno specifico rimedio messo a disposizione dei privati di fronte all’inerzia dell’amministrazione, come può esserlo d’altra parte anche la previsione dell’art 2 comma 9 l. 241/1990[33] che individua nella mancata o tardiva emanazione del provvedimento elemento di valutazione della performance individuale, nonché della responsabilità disciplinare e amministrativo contabile del dirigente e funzionario inadempiente.
Tutto questo è coerente con quanto si legge in motivazione laddove il Collegio afferma che un’ingiustificata attesa nell’avvio dell’istruttoria di una pratica non solo non può impedire la decorrenza del termine per il silenzio assenso ove questo sia previsto, ma “a maggior ragione impone la successiva compressione dei tempi di chiusura della stessa, ‘rimediando’ per quanto possibile al pregresso colpevole ritardo nei confronti della legittima aspettativa del cittadino a conoscere il contenuto e le ragioni, qualunque esse siano, delle scelte dell’amministrazione”[34].
Attraverso il meccanismo del silenzio assenso, l’inerzia assume un valore significativo ed equivale a provvedimento di accoglimento nel senso che gli effetti che promanano dalla fattispecie sono sottoposti al medesimo regime dell’atto amministrativo. Corollario che discende dall’art 20, e che ha trovato consacrazione in una recente pronuncia del Consiglio di Stato[35], è che il silenzio assenso può configurarsi anche in presenza di una domanda non conforme a legge; diversamente, reputare che la fattispecie sia produttiva di effetti soltanto ove corrispondente alla disciplina sostanziale, oltre che non avere alcun appiglio normativo nella formulazione dell’art 20, significherebbe sottrarre i titoli così formatisi al regime dell’annullabilità espressamente prevista dall’art 21 nonies[36]. Ma la previsione dell’art 21 nonies non costituisce il solo indice normativo da cui desumere la possibilità che il silenzio assenso si formi anche in mancanza dei presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività: particolare risalto viene dato anche al nuovo comma 2 bis dell’art. 20, il quale prevede il rilascio obbligatorio, da parte dell’amministrazione su richiesta del privato, di un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda in virtù della formazione del silenzio assenso. Tale disciplina, non aliena da criticità, della cd. certificazione del silenzio[37], unitamente alla sanzione dell’inefficacia prevista dal comma 8 bis dell’art 2[38],costituisce chiara indicazione rispetto alla finalità acceleratoria dell’agire amministrativo dell’istituto.
Alla luce di tutto quanto premesso allora la doverosità dell’azione amministrativa e la scansione dei suoi tempi non possono che essere lette unitamente ai principi generali dell’agere amministrativo, rappresentando queste anzitutto una peculiare declinazione del principio di legalità – che non può qualificarsi esclusivamente come limite negativo all’esercizio del potere in ossequio alla concezione liberale, ma, soprattutto, in ossequio a una concezione sostanziale, come affermazione in positivo dell’obbligo che il potere venga esercitato (in tempo utile).
Se raccordata al principio di legalità, la doverosità dell’azione amministrativa risulta di conseguenza strettamente legata anche al principio di buon andamento, di rilievo costituzionale, e più in generale al dovere di buona amministrazione (secondo la terminologia europea). Ed è proprio in tale contesto che troviamo una congiunzione con quanto detto nel paragrafo precedente, inscrivendosi il potere conformativo del giudice amministrativo in sede di cognizione, ma ancor più di ottemperanza, nella direzione dell’effettività delle tutele poste a presidio proprio della legalità e del buon andamento.
4. Il decisum della Sezione Seconda: l’elusione del giudicato.
Inquadrati gli istituti in questione e l’utilizzo che La Seconda Sezione ne fa nella costruzione del proprio percorso argomentativo, possono declinarsi le relative conclusioni nel caso di specie.
Pur non avendo nel caso in questione il ricorrente invocato l’avvenuta formazione del silenzio assenso successivamente al giudicato, comunque non può essere priva di conseguenze[39] la circostanza che il legislatore abbia previsto tale modalità di acquisizione del titolo.
Non può poi l’illecito dell’abuso, peraltro nel caso de quo meramente formale, giustificare un rigore tale da comportare un ritardo quale quello maturato dal Comune di Roma, tenuto anche conto della sussistenza, già richiamata, del requisito della doppia conformità.
Alla luce di quanto fino ad ora ricostruito si spiega allora come il comportamento del Comune, pure dopo il formale riavvio dell’istruttoria del procedimento, senza peraltro indicare alcuna tempistica di chiusura dello stesso, integri il presupposto dell’inottemperanza al giudicato. L’amministrazione, dando tardivo avvio ad un procedimento sottoposto al regime del silenzio assenso, ha di fatto dato solo formale esecuzione alle statuizioni della sentenza da ottemperare, aggirandole tuttavia dal punto di vista sostanziale. Il comportamento tenuto non solo è inerte, ma è di fatto elusivo del giudicato, non avendo l’amministrazione valutato l’effetto conformativo dello stesso.
In queste conclusioni emerge chiaramente la relazione[40] tra inottemperanza, inerzia ed elusione del giudicato; l’elusione del giudicato altro non è che una forma di inottemperanza, o addirittura di inerzia[41], laddove l’amministrazione, pur agendo, lo faccia in maniera difforme rispetto al parametro, prefissato, del dictum giurisdizionale. È in quest’ottica, allora, ancora attuale la nozione di “ottemperanza imperfetta” o “inesatta”[42] da collocarsi nel contenitore più ampio della nozione di elusione che opera anche come sanzione sul piano del diritto sostanziale.
[1] In tal senso si erano già espressi Cons. Stato, Sez. VI, 8 luglio 2022, n. 5746 nonché TAR Campania, Salerno, Sez. II, 20 febbraio 2023, n. 406.
[2] La sentenza si fondava sull’assunto che non sarebbe stata provata l’avvenuta realizzazione dell’intervento in epoca antecedente al 31 marzo 2003 (termine ultimo per la fruizione dell’invocato “terzo condono edilizio” di cui alla legge n. 326/2003).
[3] Cons. Stato, Sez. II, 9 giugno 2020, n. 3667.
[4] L’accertamento di conformità, o “sanatoria ordinaria” consiste nella regolarizzazione di abusi “formali”, laddove l’opera sia stata sì effettuata senza il preventivo titolo o in difformità dello stesso, ma senza violare la disciplina urbanistica vigente sia al momento della sua realizzazione che a quello di presentazione della domanda. Modalità di acquisizione del titolo, questa, diversamente da quella invocata, non sottoposta al regime del silenzio assenso.
[5] La riconosciuta sussistenza dei requisiti per avanzare sia un’istanza di sanatoria ordinaria che di condono, implica allora l’affermazione che nel caso di specie sussiste anche il requisito della doppia conformità.
[6] Punto 10 della pronuncia in commento.
[7] Per una trattazione sistematica su come si concretizza il principio di effettività in relazione alle diverse tipologie di sentenze si rinvia a F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2016, 1025 ss. che evidenzia come tra sentenza del giudice amministrativo e ottemperanza vi sia una correlazione necessaria, quasi naturale: qualsivoglia giudice viene adito per emettere una sentenza che assicuri certezza per risolvere un conflitto tra le parti; se la sentenza, una volta resa, non venga osservata spontaneamente dal soccombente, si rende necessario un ulteriore processo volto a realizzarne gli effetti, potendo solo in questo modo garantire il principio di effettività della tutela giurisdizionale.
[8] Ex art. 134 comma 1 lett. a) c.p.a.
[9] Al punto 10.
[10] F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 2, 2018, 534.
[11] G. Verde, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza alle sentenze dei giudici amministrativi, in Rivista di diritto processuale, 1980, 649. Nel medesimo senso, ossia della riconduzione dell’istituto al modello dell’esecuzione forzata civile, si veda anche C. Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, Utet, Torino, 1979, 559 ss.
[12] M. Nigro, Giustizia Amministrativa, Il Mulino, Bologna, 1983, 186. Sulla scia di tale posizione dottrinale, ponendo in risalto la peculiarità dell’attività esecutiva richiesta dalla sentenza di annullamento, è stato osservato che il giudizio di ottemperanza è in primo luogo un processo di cognizione, realizzandosi in esso un completamento del contenuto della pronuncia di annullamento, vista la natura del giudicato amministrativo di un giudicato “a formazione progressiva”.
[13] Natura che emerge già dalla disamina delle azioni astrattamente proponibili con il ricorso ex art. 114 c.p.a., che possono addirittura risolversi in una richiesta interpretativa (art. 112 comma 5 c.p.a).
Ma la possibilità che vi sia un esercizio della giurisdizione cognitoria scevra da profili di esecuzione in senso stretto emerge anche dalla possibilità di domandare l’accertamento e la condanna al risarcimento del danno per la mancata o inesatta esecuzione di cui all’art. 112 comma 3 c.p.a. Si pensi poi anche all’accertamento della nullità del provvedimento adottato in elusione o violazione del giudicato, ora rimesso alla competenza esclusiva del giudice amministrativo in sede di ottemperanza (art. 114 comma 4 lett. b e art. 133 lett.a n. 5 c.p.a.) o, ancora, alla necessità di accertare eventuali fatti sopravvenuti che abbiano reso impossibile l’attuazione del giudicato.
[14] Cons. Stato., Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2.
[15] M. Lipari, L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali, in Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Giuffrè, Milano, 2011, 102 ss.
[16] In tale ottica, l’unica reale novità apportata dal codice al regime previgente è stata riconosciuta nell’introduzione dell’art. 34 comma 1 lett. e) c.p.a. che, al fine di garantire la reale effettività della tutela, statuisce che, in caso di accoglimento del ricorso, “il giudice, nei limiti della domanda, dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”.
In tal modo il sistema viene mutato: il giudice già in sede di cognizione è dotato di poteri più incisivi; in un’ottica di effettività e rapidità della tutela si registra un anticipo alla sede di cognizione di poteri prima attribuiti solo in sede di esecuzione.
[17] Per una trattazione più approfondita sulla complessità del tema si veda ancora F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, cit.
[18] Sul punto, ancora F. Manganaro, Ibidem che postula, premesso che ogni processo di esecuzione presenta una benché minima valutazione di cognizione, la necessità di distinguere tra cognizione ordinaria, strictu sensu, e cognizione volta all’esecuzione. Se nell’ambito della cognizione strictu sensu si possono proporre le ordinarie questioni generali quali la legittimazione, corrispondenza tra chiesto e pronunciato, tipologia delle azioni e tipi di prova ammissibili, oggetto della cognizione per l’esecuzione è invece, oltre la legittimazione, solo la verifica dell’effettiva attuazione di quanto previsto nella sentenza, con più limitati poteri del giudice in ordine all’accertamento dell’inadempimento o dell’elusione.
[19] Punto 10.1.2 della sentenza.
[20] Cons. Stato, Ad. Plen., 9 giugno 2016, n. 11.
[21] Si legge in motivazione che “la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo permettono al giudice dell’ottemperanza – nell’ambito di quell’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva – non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni ‘integrative’, ma anche di specificarne la portata e gli effetti al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale”.
[22] Come evidenziato da Cass. SS. UU., 31 marzo 2015, n. 6494.
[23] Come si legge anche nella sentenza in commento al punto 11.
[24] La diversità delle posizioni giuridiche fatte valere nel giudizio amministrativo comporta anche una diversità degli effetti del giudicato. Nel superamento della contrapposizione tra giudizio sull’atto e giudizio sul rapporto, la sentenza che dia ragione al privato titolare di interessi pretensivi pone la regola per l’ulteriore e futura attività della p.a., necessaria affinché l’interesse legittimo pretensivo trovi piena realizzazione. L’integrazione tra la regola contenuta nella statuizione giurisdizionale e la successiva attività della p.a. deriva dalla peculiare conformazione del giudicato amministrativo, definito complesso in quanto connotato da una parte da un effetto demolitorio e ripristinatorio (effetti, questi, che guardano al passato) e dall’altra da un effetto conformativo e preclusivo (che guardano al futuro).
Se gli effetti ripristinatorio e preclusivo hanno rilievo soprattutto nei giudizi aventi ad oggetto interessi oppositivi, connotati da una natura conservativa della posizione giuridica incisa dal provvedimento impugnato, l’effetto conformativo, viceversa, viene in rilirvo nei giudizi relativi ad interessi legittimi pretensivi, rispetto ai quali il privato, mira ad ottenere non solo che la p.a. adempia, ma che adempia in maniera esatta.
[25] F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, cit.
[26] Per una ricostruzione dell’istituto prima e dopo la L 14 maggio 2005, n. 80, e sull’ambito di applicazione ed effettività dell’istituto nonché sulla consumazione del potere di amministrazione attiva a fronte del provvedimento tardivo, si rinvia a P. L. Portaluri, Note sulla semplificazione per silentium (con qualche complicazione), in Nuove autonomie, 2008, 664 ss.
[27] Si segnalano, per un approccio ragionato sulle criticità dell’istituto, M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine a provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il Processo, fasc. 1, 1 aprile 2022, 11 ss e P. Carpentieri, Silenzio assenso e termine a provvedere, anche con riferimento all’autorizzazione paesaggistica. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, 11 aprile 2022, rielaborazione della relazione, prima citata, presentata nella giornata di studi “Questioni controverse di diritto amministrativo. Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza” svoltasi il 1° aprile 2022 presso il Consiglio di Stato.
[28] Lo dimostra la stessa collocazione dell’art 20 nel capo IV della l. 241/90, rubricato proprio “Semplificazione dell’azione amministrativa”.
[29] Il comma 2 bis dell’art. 1 l. 241/1990 prevede oggi espressamente che i principi della collaborazione e buona fede informino i rapporti tra cittadino e amministrazione. In particolare, anche la giurisprudenza ha da subito chiarito come tale norma debba essere letta nel senso dell’operatività in via bilaterale di tale obbligo che ha valore cogente sia verso il privato che verso la p.a., a prescindere dalla posizione di supremazia ricoperta da quest’ultima (da ultimo si veda Cons. Stato, Sez. IV, n. 7843, 8 settembre 2022).
[30] Analoga, in parte, valenza sanzionatoria, quale conseguenza della violazione dell’obbligo di buona fede si rinviene nella conseguenza della consumazione della discrezionalità (anche tecnica) dell’amministrazione che agisca in modo reiteratamente capzioso, equivoco e contraddittorio causando “un’insanabile frattura del rapporto di fiducia” con il cittadino. In tal senso, valorizzando la portata dell’obbligo di buona fede, il Cons. Stato., Sez. VI, n. 1321, 25 febbraio 2019 ha giustificato l’intervento del giudice in deroga al divieto di cui all’art. 34 comma 2 c.p.a. (ai sensi del quale “nessun giudice può pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”), ma pur sempre nei limiti previsti dall’art. 31 comma 3 c.p.a.
[31] Per quanto la giurisprudenza nel tempo abbia cercato di restringerne l’ambito applicativo prevedendo determinati requisiti dell’istanza – che, dovendo dettare per alcuni il futuro ed eventuale “provvedimento tacito”, non può essere lacunosa, ma deve essere radicata su una fattispecie concreta, ed essere circostanziata, precisa e determinata – e precludendone il ricorso nei casi in cui, esprimendo la p.a. discrezionalità pura, la motivazione appare irrinunciabile. Non è tuttavia pacifica quest’ultima preclusione al ricorso all’istituto; si legga al riguardo M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, n. 10, 15 aprile 2020, 25 ss. in cui viene chiarito come dovrebbe ritenersi ormai sopito il dibattito circa la possibilità di circoscrivere l’operatività del regime del silenzio assenso ai soli procedimenti connotati da un ridotto margine di discrezionalità, non contemplando l’attuale formulazione della norma alcuna deroga connessa a tale profilo ed operando invece le numerose eccezioni espressamente indicate dal comma 4 relativamente a specifici profili.
Motivo di questa, almeno tentata, progressiva restrizione del ricorso all’istituto in seguito all’avvenuta generalizzazione del regime stesso è rinvenibile nel fatto che attraverso questa fictio iuris (sebbene la tesi “attizia” sia oggi recessiva almeno in dottrina, a favore di una posizione e volta a valorizzare in primo luogo la natura reale di mero comportamento del silenzio, tale da non consentirne l’equiparazione all’atto in quanto tale, bensì unicamente l’assimilabilità a quest’ultimo quanto agli effetti) si attribuisce all’inerzia della p.a. valenza di provvedimenti di assenso che concedono beni della vita al privato e possono pertanto risultare talvolta controproducenti per l’interesse pubblico; proprio in questo senso se ne comprende la valenza sanzionatoria.
[32] Cons. Stato, parere n. 1640, 13 luglio 2016.
[33] Che sancisce l’obbligo a provvedere della p.a. e disciplina il tempo dell’azione amministrativa, rappresentando piena attuazione del dovere di correttezza
[34] Punto 20 della sentenza.
[35] Cons. Stato, Sez. VI, n. 5746, 8 luglio 2022. Per una trattazione più approfondita della pronuncia si rinvia a A. Persico, Silenzio assenso e tutela del legittimo affidamento: il perfezionamento della fattispecie non è subordinato alla presenza dei requisiti di validità, in questa Rivista, 6 ottobre 2022.
[36] Che, nel disciplinare in generale l’annullamento d’ufficio, ne individua l’oggetto anche nel provvedimento formatosi ai sensi dell’art 20; presuppone allora evidentemente che la violazione di legge non può incidere sul perfezionamento della fattispecie, ma rilevi invece in termini di illegittimità dell’atto. Proprio per questo l’ordinamento prevede il rimedio postumo dell’annullamento d’ufficio.
[37] Sul punto si rinvia ancora a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere, cit. per delle proposte risolutive volte a superare l’inadeguatezza degli strumenti di tutela processuale offerti dall’ordinamento; in particolare, viene suggerita una duplice soluzione a tale condizione di grave incertezza: da un lato, ricostruendo il dovere della pubblica amministrazione di rilasciare un atto a carattere ricognitivo finalizzato all'accertamento della formazione del silenzio assenso; dall’altro lato, de iure condendo, prospettando una modifica dell’art. 20 l. n. 241/1990, tesa a riconoscere in capo al soggetto richiedente il diritto di rinunciare al regime del silenzio assenso, optando per il modello del silenzio inadempimento.
[38] Citato nella sentenza al punto 22.2 come conferma del fatto che, decorso il termine a provvedere e formatosi il silenzio assenso, all’amministrazione residua solo il potere di autotutela.
[39] Si legge al punto 19.
[40] Cui si fa riferimento in conclusione del paragrafo secondo.
[41] S. S. Scoca, Violazione ed elusione del giudicato: differenza anodina o utile?, 2012, in www.giustamm.it.
[42] M. S. Giannini, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1960, 473 ss. che distingueva tra inottemperanza, ottemperanza perfetta e ottemperanza inesatta, rilevando, tuttavia, come all’epoca la giurisprudenza fermamente escludesse l’esperibilità del giudizio di ottemperanza in caso di ottemperanza imperfetta o inesatta.