di Angela Arbore
In questi giorni plumbei per l’intero assetto della nostra democrazia, riflettendo sui rapporti tra Poteri dello Stato ed in genere sul rapporto tra magistratura e società, mi è venuta in mente la lettera a Diogneto.
Si tratta di un testo-opuscolo dei primi secoli del cristianesimo, rinvenuto nel 1436 da un umanista italiano, dove ad un tal Diogneto si spiegavano le ragioni e le finalità della neonata religione cristiana.
Il principio più interessante che voglio richiamare ai nostri fini è l’affermazione che “i cristiani sono del mondo ma non nel mondo”.
Pertanto, parafrasando ed adattandolo alla magistratura, potremmo dire la stessa cosa.
Occorre cioè la consapevolezza che la magistratura è fatta da uomini e donne che vivono ed operano nel mondo, ma in qualche modo comunque non “sono del mondo”.
Tale consapevolezza non può essere disgiunta da un’altra, ossia che la magistratura in questi ultimi decenni è profondamente cambiata, essendo appunto specchio ed espressione della società.
Ebbene, se questa è la premessa, la vicenda della collega Apostolico deve esigere e richiedere una reazione netta, univoca e compatta, rispetto alla quale mi colpiscono ed interrogano profondamente tentennamenti ed esitazioni che invece abbiamo dovuto registrate in varie forme.
Perché in gioco qui è la tutela, non corporativa, non declinata in arroccata protezione delle proprie prerogative, della caratteristica essenziale dello iuris dicere; quel che allarma poi è che si è colpita l’attività e la funzione di una giudice civile, addetta alla trattazione di una materia delicata e sensibile, di una giudice che per tipologia, struttura, organizzazione del lavoro ed altri fattori qui non rilevanti, potrebbe apparire più indifesa.
La collega è stata attaccata, con le modalità inusitate che abbiamo visto, solo per aver reso un provvedimento, evidentemente non gradito, ritenendola "rea" di aver esercitato la sua funzione di motivare, che è l’essenza stessa della giurisdizione, ossia motivare ed applicare le norme inserendole nei contesti nazionali e sovranazionali, che è l’essenza del nostro lavoro di ogni giorno.
Possibile che non si colga il legame tra quanto è successo e il complessivo percorso riformatore in atto, che prevede tra l’altro la creazione di un “fascicolo del magistrato”, sia pur destinato ad altre finalità, ma pericoloso già nella sua evocazione?
Abbiamo questo dovere di tutela.
Dobbiamo sentirlo forte.
E lo dobbiamo esercitare soprattutto pensando ai colleghi più giovani, che altrimenti potrebbero sentirsi indifesi ed impauriti, timorosi e spinti quindi a chiudersi rispetto alle necessarie e doverose interlocuzioni con il “mondo”.
Questo vogliamo insegnare loro nei nostri percorsi formativi?
Ma allora dovremmo parlare di tanto altro, se dovessimo approfondire, ma non è il focus rilevante in questa sede, il tema dell’etica del magistrato.
Più che mai allora dobbiamo oggi ricordare quanto ha detto V. Zagrebelsky, ossia che “c’è differenza tra un magistrato grigio ed opaco ed un magistrato neutrale e che i grigi, gli opachi, gli scialbi sono spesso i più proni” e che “Non è forse vero che il conformismo è spesso l’anticamera della corruttibilità?”.
E la prospettiva quindi non vorremmo che fosse ancora più plumbea, perché un altro dei ricordi sollecitati alla mia memoria in questi giorni è quello di un meraviglioso film del 2006, Le vite degli altri, dove alla domanda del bambino al padre, funzionario della Stasi su “chi” fosse la Stasi, il padre risponde “ma lo sai chi è ?”
“Sì, gente cattiva che mette le persone in prigione.”
“Davvero? E come si chiama?”
“Come si chiama chi?”
“La tua palla, il nome della tua palla...”
“…ma la palla non ha un nome!”
Ma la magistratura tutta invece non deve temere chi non ha un nome, non deve essere opaca, ma deve continuare a svolgere, con responsabilità e consapevolezza, il suo servizio di iuris dicere nella società e per la società.
(Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale dell'ANM, Roma, 21 e 22 ottobre 2023)