di Giuliano Scarselli
«Art. 101 Costituzione, la norma per la quale i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, dove l’accento cade sull’avverbio - soltanto - (…) essa comanda la disobbedienza a ciò che la legge non è, disobbedienza al pasoliniano palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici, e dunque libertà interpretativa.»
Giuseppe Borrè, Le scelte di magistratura democratica, in www.questionegiustizia.it.
1. Premessa. Nomofilachia e vincolatività dei precedenti della Cassazione. La necessità di ripercorrere il cammino. 2. Nessuna menzione della nomofilachia nella normativa degli Stati preunitari e poi nella legge di ordinamento giudiziario del Regno d’Italia r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626. 3. Nessuna menzione della nomofilachia nella legge di ordinamento giudiziario del fascismo r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786. 4. La nomofilachia presente per la prima volta nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 ma non nel codice di procedura civile del ’40 (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443). 5. La bocciatura della rilevanza costituzionale della nomofilachia nei lavori dell’Assemblea costituente. 6. Segue: nessuna menzione della nomofilachia, infatti, nella carta costituzionale. 7. La prima valorizzazione del principio di nomofilachia con l’emersione della crisi della Cassazione quanto a carichi di lavoro. 8. La creazione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris quale ulteriore momento rafforzativo della funzione di nomofilachia. 9. Il successivo ulteriore sviluppo del concetto di nomofilachia. 10. Qualche riflessione conclusiva in difesa della libertà di interpretazione della legge da parte della magistratura.
1. Io credo sia sotto gli occhi di tutti che da un po’ di tempo il concetto di nomofilachia si è modificato, ovvero si è molto esteso, fino, direi, a confondersi e sovrapporsi a quello della vincolatività dei precedenti della Corte di Cassazione, soprattutto se provenienti dalle Sezioni unite. In nome del trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, in nome della prevedibilità delle decisioni, e in nome della certezza del diritto, nomofilachia oggi significa che i giudici debbano, salve rarissime eccezioni, conformarsi agli orientamenti della Cassazione, con meccanismi non molto diversi da quelli della stare decisis del sistema di common law. Per dare una idea di questo più incisivo modo di intendere la nomofilachia credo che niente possa essere più eloquente se non riportare l’opinione di nostri magistrati di assoluto prim’ordine, ovvero due giudici della Corte Costituzionale e due Presidenti della Corte di Cassazione.
In un primo scritto si legge: “Il ruolo della Corte di Cassazione nella sua funzione nomofilattica ha avuto nuovo impulso (...) nel loro insieme queste disposizioni realizzano appunto la forza del precedente come forma attenuata del principio di stare decisis. In tal modo il nostro ordinamento si avvicina a quelli di common law perché il precedente, pur sempre non vincolante, viene presidiato con misure processuali dirette a favorire la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione”[2].
In un altro: “Pur in assenza di un obbligo di conformazione, vi è un’innegabile influenza del precedente autorevole (...) è indubbio che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario, pur con alcune oscillazioni ed incongruenze, negli ultimi sviluppi della disciplina processuale emerge la ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia (...) In conclusione, gli sviluppi normativi dell’ultimo decennio appaiono orientati ad incrementare il peso del precedente in generale e dei precedenti delle sezioni unite in particolare.”[3]
Ed infine in un terzo: “L’affermazione del valore soltanto dichiarativo della giurisprudenza ed il corollario che se ne trae in ordine al valore debole del precedente peccano in un certo grado di astrattezza e sono sempre più soggetti a forti torsioni, dando luogo a non poche contraddizioni, tanto più in un epoca di progressivo avvicinamento, se non addirittura di tendenziale integrazione, degli orientamenti giuridici dell’Europa continentale con quelli anglosassoni di common law nei quali la regola dello stare decisis ha un valore molto più pregnante. Già il fatto che in questi ultimi ordinamenti detta regola sia tuttora espressa ricorrendo ad una formula latina la dice lunga sulla comune radice dell’istituto”[4].
Le posizioni sembrano convergere su questo: non si ritiene che i giudici del merito debbano obbligatoriamente uniformarsi agli indirizzi della Corte di Cassazione, perché ovviamente questo (ancora) non sarebbe conforme al nostro sistema di diritto; tuttavia è lasciato intendere che tale conformazione debba essere il modo normale di rendere giustizia, anche per l’ormai forte avvicinamento del nostro sistema di civil law con quello anglosassone, che appunto prevede il vincolo del precedente. E v’è, inoltre, insieme a questa idea, che potremmo etichettare di nomofilachia rafforzata, l’altra, che è quella dell’esistenza di una sempre più marcata gerarchizzazione della giurisdizione, visto che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario. Tutti, insomma, convergono sul fatto che ci si trovi oggi alla ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia, e dunque che la nomofilachia sia un criterio di rilevanza costituzionale assoluto nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
1.2. In proposito, mi piace ricordare che questo orientamento, che mi sono permesso di definire di nomofilachia rafforzata, trova, se si vuole, sulla sua strada, un amico autorevole del passato, ovvero niente meno che Piero Calamandrei[5]. Piero Calamandrei, infatti, non solo teorizzò che la funzione prima e assoluta della Corte di cassazione dovesse essere quella della nomofilachia, ma anche sostenne che per il raggiungimento di detto scopo la legge doveva sottrarre alla Corte di Cassazione il sindacato sugli errores in procedendo[6], e doveva introdurre misure tali da fissare un giusto rapporto tra il numero dei ricorsi da decidere e le capacità della Corte di provvedervi[7], tanto che da altra parte Piero Calamandrei arrivava addirittura a scrivere che la Corte di cassazione “rende giustizia ai singoli soltanto nei limiti in cui ciò le possa servire per raggiungere il suo scopo di unificazione della giurisprudenza”[8]. Ovviamente, a quel tempo, nessuno prese in grande considerazione queste tesi di Piero Calamandrei, che apparivano a (quasi) tutti i processualisti e costituzionalisti di allora sue personali intemperanze, e basta, per convincersi di ciò, leggere la recensione che Enrico Finzi fece dei lavori di Piero Calamandrei sulla Cassazione[9], o ancora riportare il più tardo pensiero di Salvatore Satta, che contestava le (fantasiose) ricostruzioni storiche fatte dal processualista fiorentino[10], o infine dar menzione della voce ancor più autorevole, e tutta in senso contrario, di Lodovico Mortara[11].
Oggi, però, i tempi sono cambiati, e tutti sono invece d’accordo che la ragione normale in grado di giustificare l’esercizio della giurisdizione della Cassazione non sia affatto, come pretendeva Lodovico Mortara, il “reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore”, bensì esattamente la necessità che questa dia indicazioni generali sui modi di interpretazione della legge, ovvero la nomofilachia. Di Lodovico Mortara non si ricorda più nessuno, mentre Piero Calamandrei è ancora nel pensiero e nella bocca di tutti; per Piero Calamandrei è giunto il momento del riscatto[12].
1.3. Insomma, poiché il tema della nomofilachia non è tema isolato nel contesto del nostro sistema di tutela dei diritti, e poiché la trasformazione della nomofilachia in vincolatività del precedente non è passaggio che non abbia conseguenze su altri diritti costituzionali afferenti alla tutela dei diritti, e poiché qualcuno potrebbe oggi difendere le posizioni di quella che ho definito nomofilachia rafforzata asserendo che altro non è se non l’intuizione di Piero Calamandrei di cento anni fa, a me sembra opportuno porre sull’argomento alcune precisazioni, nonché ricordare taluni precedenti storici che hanno interessato l’argomento.
A ciò sono dedicate le pagine che seguono.
2. Direi in primo luogo questo: se guardiamo alle origini della Corte di cassazione intesa in senso moderno, dobbiamo prendere le mosse dal Tribunal de cassation istituito con decreto del 27 novembre 1790. Esso, nell’idea primordiale dei rivoluzionari, ed in particolar modo di Robespierre, non doveva essere un organo giudiziario ma un organo di controllo costituzionale, da porre al fianco del potere legislativo per sorvegliare, e se del caso sanzionare, gli organi giudiziari qualora questi si fossero sottratti all’osservanza della legge. In questo quadro Prieur affermava nella seduta dell’Assemblea dell’11 novembre 1790 che il Tribunal de cassation doveva essere “une sentinelle établie pour maintien des lois”[13].
Il Tribunal de cassation, però, in verità, e fin dall’inizio, manteneva la struttura processuale che già si era formata prima della Rivoluzione presso i Conseil des parties, e quindi il Tribunale, salve rare eccezioni, più che controllare il potere legislativo, provvedeva ad annullare, su istanza di un litigante, le sentenze che contenessero una contravention espresse au texte de la loi, ovvero svolgeva le funzioni tipiche di un organo giurisdizionale. Con queste caratteristiche, che niente (direi) avevano a che vedere con la funzione di uniformare gli orientamenti della giurisprudenza, l’istituto della Corte di cassazione passava dalla Francia all’Italia[14]. Faceva una prima e breve apparizione nel periodo napoleonico, e veniva poi recepita in forma più stabile e convinta nei sistemi giudiziari di molti stati italiani preunitari: nel Regno delle due Sicilie, che accoglieva l’idea di una Corte di cassazione con le leggi processuali del 29 maggio 1817 e 26 marzo 1819[15]; nel granducato di Toscana, che istituiva il Consiglio supremo di giustizia con il regolamento per i tribunali del 27 aprile 1814[16] e poi con il Motu proprio del 6 agosto 1838 lo trasformava in una vera e propria Corte di cassazione[17]; nel Regno di Sardegna, che istituiva la Corte suprema di cassazione con il regio editto del 30 ottobre 1847[18]. Tutte queste Corti, ad istanza di parte, provvedevano a controllare la legalità delle sentenze portate alla loro attenzione e ad annullare quelle pronunciate in violazione della legge. Non v’era, in quel periodo, se non in modo del tutto indiretto e assai marginale, l’idea che la Corte suprema potesse assolvere anche la funzione di evitare contrasti giurisprudenziali fornendo l’orientamento da seguire nel futuro per i casi dubbi[19], tanto che un giurista quale Pisanelli affermava che l’istituzione della cassazione non è volta ad “impedire la difformità nell'applicazione del diritto”[20], visto che “la cassazione italiana fu organizzata fino dall'origine in modo tale da escludere che potesse avere come scopo essenziale l'uniformità della giurisprudenza”[21], e considerato altresì che v’era da evitare che con la cassazione si avesse: “una bella massa di casi, in cui ciascuno, con un po’ di fatica di schiena e assai poco lavoro di testa, possa trovare il suo caso”[22].
A seguito dell’Unità d’Italia la cassazione veniva recepita nella legge sull’ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, tanto nei processi civili quanto in quelli penali; e ciò avveniva, però, si badi, con il mantenimento delle cassazioni esistenti nel periodo anteriore all’unità, ovvero con le Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, alle quali veniva aggiunta dieci anni dopo, ovvero nel 1875, una nuova Corte di cassazione per la capitale. Che alla cassazione del regno d’Italia non venissero in particolare affidate funzioni di nomofilachia è di nuovo confermato tanto dall’art. 73 dello Statuto albertino, per il quale “L’interpretazione delle leggi in modo per tutti obbligatorio spetta esclusivamente al potere legislativo”, quanto dalla stessa legge sull’ordinamento giudiziario, che non conteneva alcuna disposizione analoga all’attuale art. 65 r.d. 12/41 ma semplicemente all’art. 122, nel dare la funzione della Corte di cassazione, afferma che essa assicura la “esatta osservanza della legge”. E d’altronde, anche a volere, la funzione di nomofilachia poteva essere svolta solo indirettamente e con grandi difficoltà in quel periodo per due semplici ragioni: a) perché le Corti erano una pluralità; b) e soprattutto perché le decisioni della Corte, per il diritto processuale di allora, non erano nemmeno vincolanti per il giudice del rinvio[23], cosicché immaginare una funzione prevalente di uniformità degli orientamenti in un simile contesto appariva veramente arduo.
3. Questa situazione, che vedeva operare in Italia ben cinque corti di cassazione, sarebbe durata per il diritto civile lungo tempo, e precisamente fino al 1923, quando, con il r.d. 24 marzo 1923 n. 601, venivano soppresse, a favore della Corte di Cassazione di Roma, le Corti di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Può dirsi che la soppressione delle Corti regionali fu dettata da ragioni di nomofilachia? Io direi di no.
Chi vada infatti a rileggersi gli scritti in argomento del periodo compreso tra il 1860 e l’inizio del nuovo secolo, nota che le discussioni ruotavano soprattutto sul dilemma “Corte di Cassazione” oppure “tribunale di terza istanza”, ovvero avevano ad oggetto la scelta (una più francese, l’altra più legata alle tradizioni italiche) tra un organo giurisdizionale supremo che giudichi solo del diritto con funzioni meramente rescindenti, oppure un organo giurisdizionale supremo che giudichi in terza istanza nel merito, senza particolari limiti di cognizione[24]. Certo, tra i fautori della cassazione non mancavano voci, anche autorevoli, volti a rilevare come l’uniforme interpretazione delle leggi difficilmente si potesse ottenere con ben cinque Corti di Cassazione nel Regno[25] , ma non mancavano nemmeno voci, non meno autorevoli, per le quali “coloro i quali desiderano e sperano mediante l'istituzione di unica Corte di Cassazione questo risultato (l’uniformazione della giurisprudenza), non debbono essere uomini che abbiamo molta pratica e famigliarità con gli affari giudiziari”[26]. Ad ogni modo credo sia fuori da ogni possibile, seria, discussione, che il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 non veniva posto in essere dall’esigenza di consentire una più uniforme interpretazione della legge, ma, tutto al contrario, per soddisfare i giochi di potere di allora, e per la preferenza del governo fascista appena arrivato al potere, per ragioni evidenti, di avere una unica Corte di Cassazione, e di averla a Roma[27].
Si trattava, soprattutto, di provvedere ad una gerarchizzazione del sistema giudiziario[28] e di comprimere quella maggiore indipendenza della magistratura che la pluralità delle Corti aveva fino a quel momento assicurato[29]. E di ciò, credo, si trova conferma nella immediata riforma dell’ordinamento giudiziario, avvenuta con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché questa, nell’assegnare all’unica Corte di Cassazione di Roma la funzione nel nuovo sistema, adoperava infatti, con l’art. 61, la stessa, identica, espressione usata dalla legge sull’ordinamento giudiziario del 1865 n. 2626, ovvero che la cassazione ha la funzione “dell’esatta osservanza della legge” ma non anche quella della “uniformità della giurisprudenza”[30]. E se con riferimento al r.d. 1865/2626 si poteva rilevare che la mancata individuazione della funzione della cassazione nella uniformità della giurisprudenza poteva dipendere dalla circostanza che in quel momento storico erano presenti nel paese quattro Corti di Cassazione, lo stesso non si poteva più dire con riferimento al r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché in quel momento il sistema provvedeva proprio all’unificazione della Corte. Anzi, il confronto tra il decreto sull’ordinamento giudiziario del 1865 rispetto a quello di riforma del 1923 prova l’esatto contrario, poiché la circostanza che, esattamente nel momento in cui si giunge alla Corte di Cassazione unica tuttavia si mantiene l’individuazione della funzione della stessa sempre e solo nella “esatta osservanza della legge” senza niente aggiungere circa l’uniformità della giurisprudenza, prova che la cassazione unica rispondeva, appunto, ad una logica di potere e di accentramento, ma non anche ad una di nomofilachia, che il legislatore continuava a non menzionare.
4. Ed infatti, la c.d. funzione di nomofilachia, a livello di norma positiva, emerge solo, per la prima volta, nel 1941, con la nuova legge sull’ordinamento giudiziario n. 12, non esistendo niente di simile, come abbiamo detto, né presso le Corti dell’Italia pre-unitaria, né nella legge di ordinamento giudiziario della nuova Italia unita (r.d. 2626/1865), né, ancora, nella legge di ordinamento giudiziario a seguito dell’unificazione della Cassazione in Roma con la contestuale soppressione delle Corti regionali (r.d. 2786/1923). È solo, infatti, con l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, che per la prima volta, a norma di legge, si afferma che la Corte di Cassazione “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”. Ora, io credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che il passaggio dalla sola “osservanza della legge” degli anni 1865 e 1923, alla “uniforme interpretazione” e alla “unità del diritto oggettivo nazionale” del 1941, costituisca lo sviluppo e il risultato di quegli orientamenti politici e dottrinali pubblicisti manifestatisi per tutto il ventennio, ovvero sia il risultato di quello che il fascismo non riuscì a fare nel 1923, appena preso il potere, e invece riuscì a realizzare nel 1941, dopo quasi vent’anni di governo. Non dovrebbe infatti essere opinabile che la dizione dell’art. 65 r.d. 12/41 sia tipica di quel periodo, e rispondente alla logica autoritaria e gerarchica propria del fascismo. Da segnalare, poi, che appena un anno prima dell’approvazione della legge sull’ordinamento giudiziario, il governo di Mussolini aveva approvato altresì il codice di procedura civile (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443), il quale, però, nel disciplinare la cassazione, disponeva un accesso alla Corte in modo non difforme a quello già esistente nel codice di rito del 1865. Ed infatti, l’accesso in cassazione per la giustizia civile non trovava limiti alcuno nella disciplina del nuovo codice, né si introducevano misure, limiti, o filtri alla possibilità delle parti di impugnare le sentenze di grado di appello (o in unico grado) al fine di favorire la “unità del diritto oggettivo nazionale”, né, ancora, si pensò di escludere dal sindacato della Corte gli errores in procedendo, così come sosteneva Piero Calamandrei, che al contrario venivano ammessi con il n. 4 dell’art. 360 c.p.c.; e addirittura il codice del ‘40 ampliava il campo di operatività della cassazione, prevedendo altresì il ricorso per questioni attinenti alla motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. ovvero per circostanze sconosciute al vecchio testo dell’art. 517 n. 7 c.p.c. 1865, che si riferiva solo a contraddizioni del dispositivo[31], con esclusione di ricorso sia per contraddittorietà tra motivi e dispositivo[32], sia per contraddittorietà tra motivi[33].
5. Dopo la caduta del fascismo i temi della Cassazione e della nomofilachia venivano affrontati in Assemblea costituente, e va a tal fine ricordato in primo luogo il dibattito avutosi presso la seconda sottocommissione, nelle sedute dal 20 dicembre 1946. Piero Calamandrei, infatti, che faceva parte della sottocommissione, e del quale abbiamo già detto circa le sue idee in punto di nomofilachia, provava a inserire tale principio in Costituzione. Presentava un progetto che all’art. 12, 2° comma recitava che: “al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo Stato, siede in (...) la Corte di Cassazione, istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze fra i giudizi”[34]. Tal progetto trovava però l’opposizione di Targetti, il quale (così espressamente dai verbali) “dichiara di avere personalmente molti dubbi circa la necessità assoluta, invariabile attraverso il tempo dell’unicità della cassazione”[35]. Alla posizione di Targetti aderiva, con talune precisazioni, Bozzi, e poi Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia[36]. Calamandrei veniva messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, dopo anche il successivo intervento di Targetti nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946[37], “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”[38]. Parallelamente, va pure ricordato, che Giovanni Leone presentava un progetto, ove però, con l’art. 17, si statuiva semplicemente che “in ogni causa devono essere osservati tre gradi di giurisdizione”[39]. È evidente che tale progetto, contrariamente a quello di Piero Calamandrei, non aveva come scopo quello di costituzionalizzare il principio di nomofilachia e di unicità della Corte, ma solo quello di assicurare ai cittadini il terzo grado di giudizio, inteso come controllo di legalità nell’applicazione della legge. Su tale progetto prendevano la parola altri componenti, quali Ambrosini e Di Giovanni, i quali manifestavano perplessità non tanto relativamente al principio, quanto alla opportunità di inserirlo in costituzione piuttosto che nei codici di procedura[40]. Giovanni Leone insisteva, asserendo che “è proprio attraverso le norme di procedura che viene più facilmente elusa la garanzia del cittadino al ricorso”[41], ed anche il Presidente Conti “è d’avviso che tale formula potrebbe essere inserita fra i principi generali”[42]. Si arrivava, così, nella seduta del 31 gennaio 1947[43], all’approvazione di un testo, ovvero dell’art. 102 del progetto, il quale disponeva che: “Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo giudiziario ordinario o speciale è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione”[44].
6. Al plenum dell’Assemblea costituente, dunque, arrivava il progetto di Giovanni Leone, e non quello di Piero Calamandrei, e tuttavia Piero Calamandrei non si dava per vinto. Piero Calamandrei, infatti, con dubbio comportamento, dopo aver ritirato il capoverso in questione in sottocommissione come sopra riportato, riproponeva il medesimo testo bocciato e ritirato per la costituzionalizzazione del principio di nomofilachia anche in Assemblea[45]. Avverso ciò prendeva però la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda della sottocommissione e il ritiro dello stesso Piero Calamandrei di quel testo, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”[46]. La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito in Assemblea, la quale, tutto al contrario, discuteva del solo progetto di Giovanni Leone; e poiché l’idea di accogliere il principio secondo il quale è generalmente riconosciuto a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti non trovava contrasto alcuno[47], il testo provvisorio, senza sostanziali modificazioni, veniva approvato dall’Assemblea, e andava a formare l’odierno art. 111 Cost.[48]. Nessuna menzione della nomofilachia, dunque, veniva data nella carta costituzionale e nessuna traccia di contenuto analogo a quello dell’art. 65 r.d. 12/41 o di quello proposto da Piero Calamandrei in sottocommissione all’art. 12, 2° comma, si trova così oggi nell’art. 111 Cost. Mi sia consentito aggiungere, a chiusura di questa parte, che questa chiara vicenda, che risulta espressamente dai verbali dei lavori dell’Assemblea costituente, non è praticamente riportata da nessuno. Tutti oggi convengono sul fatto che il valore della nomofilachia sia un valore costituzionalmente protetto, e a tal fine vengono richiamati gli artt. 3 e 111 Cost.; nessuno però riporta quanto successe in Assemblea costituente in punto di nomofilachia. È posizione legittima ritenere che il valore della nomofilachia sia riconducibile a principi costituzionali; tuttavia completezza di informazione vorrebbe che, in ogni caso, da parte di tutti, prima di esprimere giudizi, non si prescindesse da una vicenda così precisa, e direi assolutamente imprescindibile, per disquisire circa la costituzionalità o meno del principio di nomofilachia. Si può ritenere oggi che la nomofilachia sia un valore costituzionale, non si può però tralasciare che questa non era la posizione dei nostri costituenti[49].
7. Ad ogni modo, possiamo a questo punto passare agli anni successivi della nostra età repubblicana. Direi fino agli anni ‘80, il valore della nomofilachia non era certo negato, nessuno lo ha mai negato, e tuttavia lo stesso era riconosciuto, se si vuole anche conformemente alle vicende di cui all’Assemblea costituente, senza quella forza che esso ha oggi. Mi sia qui consentito ricordare in proposito, tra gli stessi giudici, le posizioni di Senese[50], di Pivetti[51], e di Franceschelli[52]. Sostanzialmente, è ovvio che quando una Corte è posta al vertice dei mezzi di impugnazione, inevitabilmente svolge (anche) una funzione di guida ed indirizzo dei giudici dei gradi inferiori, e quindi inevitabilmente svolge una funzione che possiamo ricondurre alla nomofilachia. E tuttavia l’esercizio di questa funzione si realizza in modo secondario, indiretto, ovvero decidendo le sorti di una impugnazione. Altrimenti non si capisce perché il giudizio sia attivato dalle parti private, perché le parti private se ne debbano assumere i costi e i rischi di soccombenza, perché le parti private possano rinunciarvi per transazione così come prevede l’art. 390 c.p.c.; altrimenti l’iniziativa processuale dovrebbe essere lasciata sempre in mano alla Procura generale, il concetto di soccombenza non dovrebbe esistere; nessun privato ne dovrebbe sopportare in proprio i costi, e anche il sistema della lite, del contraddittorio, delle parti contrapposte, non avrebbe (un gran) senso in un processo la cui funzione prima è quella di nomofilachia.
Quand’è, allora, che la posizione sulla nomofilachia muta? Ebbene, io direi che muta parallelamente all’aggravarsi della crisi della Corte di Cassazione: più negli anni successivi si rileva lo stato di crisi della Cassazione, più parallelamente si afferma che la sua funzione è quella di nomofilachia[53]. È una posizione comprensibile dal punto di vista pratico, non dal punto di vista teorico. Visto che il carico di lavoro della Corte di cassazione ammontava già a 10.517 ricorsi negli anni 1985-1986[54], si inizia ad interrogarsi sulla funzione primaria di essa[55], e a formulare le prime ipotesi per sgravare la Corte di tale ruolo[56]. E, in questo contesto, poco dopo, prende corpo una distinzione prima per niente usata, che è quella tra ius constitutionis e ius litigatoris. Questa terminologia, a mio parere, segna un passaggio concettuale ulteriore in punto di nomofilachia: se fino ad allora, direi, i più riconoscevano che la funzione prima della Cassazione fosse quella di fornire ai cittadini il controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito, e quindi il suo compito primo fosse quello di decidere i ricorsi, con l’avvento di questa contrapposizione terminologica l’ordine si inverte, e si comincia a sostenere che prima viene la funzione di nomofilachia e solo dopo quella della decisione dei ricorsi. Per ius constitutionis, infatti, si intende la funzione pubblica della Corte di Cassazione, ovvero quella di nomofilachia, mentre per ius litigatoris si intende la funzione privata, ovvero quella di decidere i ricorsi. Conviene, vista la rilevanza del tema, spendere qualche parola in più su questa contrapposizione che ancora oggi è in uso.
8. Come ho già avuto modo di sottolineare, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris risale al tardo diritto romano ma con un significato del tutto diverso da quello oggi dato[57].
Esattamente, il diritto romano distingueva la quaestio facti dalla quaestio iuris, e da tali questioni potevano discendere, per la sentenza, l’error iuris e l’error facti. Per evitare che, grossolanamente, e come in origine, l’error iuris comportasse la nullità della sentenza, e l’error facti rendesse invece necessario l’appello a fronte di una sentenza da considerare valida, nel diritto romano tardo classico si pose la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, e si stabilirono criteri di questo genere: a) la sentenza era da considerare contra ius constitutionis quando pronunciata con errori di diritto sulla esistenza e/o sul contenuto delle norme, ovvero con errori giuridici posti nella premessa maggiore dell’attività logica del giudice; b) la sentenza era invece da considerare contra ius litigatoris quando viziata da errori nella ricostruzione del fatto, oppure da errori di diritto non rientranti nella categoria dello ius constitutionis, quali quelli relativi alla sussunzione della norma al fatto, legati alla premessa minore dell’attività logica del giudice[58]. La sentenza contra ius constitutionis era da ritenere inesistente, e la sua inesistenza/nullità poteva esser fatta valere in ogni tempo; al contrario la sentenza contra ius litigatoris era valida ed efficace, e solo, per sanare l’errore commesso dal giudice, poteva essere oggetto di impugnazione[59].
Tutto ciò si trovava in modo chiaro nel Digesto (49.8.1.2.): Contra constitutiones autem iudicatur, cum de iure constistutionis, non de iure litigatoris pronuntiatur; quo casu appellatio necessaria est[60].
Orbene, ci si chiederà che pertinenza abbia questa contrapposizione, divenuta poi di moda, con la Corte di Cassazione, prima ancora che con la nomofilachia. Ed infatti non ha pertinenza, e non a caso se torniamo al Regno d’Italia di ius constitutionis e ius litigatoris non v’è traccia né nel Commentario del codice di procedura civile di Mancini-Pisanelli-Scialoja, né nella imponente voce monografica “Cassazione” di Enrico Caberlotto del Digesto Italiano. Di più: è espressione che non si trova mai, parlando del giudizio e della Corte di cassazione, fino agli anni ’20. Non la si trova nel Trattato di Luigi Mattirolo, nel Commentario di Ludovico Mortara, nelle Istituzioni di Giuseppe Chiovenda. Né queste espressioni sono state, non dico studiate, ma nemmeno usate, dai giuristi del passato che si occuparono della cassazione: da Giuseppe Pisanelli a Carlo Lessona, da Matteo Pescatore a Vittorio Emanuele Orlando.
8.2. Riscopre invece la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris Piero Calamandrei con uno scritto minore giovanile[61]. Con esso, tuttavia, Calamandrei si limitava a richiamare la contrapposizione per come si era formata in età tardo-classica, senza storpiature particolari[62], avvertendo che la distinzione però avrebbe perso di significato con il basso medioevo”[63]. Dalla sentenza inesistente perché contra ius constitutionis alla sentenza appellabile perché contra ius litigatoris si passava così alla sentenza che, ove non impugnata, e in quanto passata in giudicato, era sempre efficace e vera, sulla falsariga di quello che per noi sarebbe stato successivamente l’art. 162 c.p.c. Di nuovo, si potrebbe ribadire che la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, per come sorta storicamente e per come riportata dallo stesso Piero Calamandrei, non ha pertinenza con il giudizio di cassazione. Il problema è che, successivamente, Piero Calamandrei si cimentava con il tema della cassazione, e scriveva su essa, come è noto, due ponderosi volumi; e in quei volumi, ovviamente, non faceva a meno di riportare quanto aveva già precedentemente scritto, e quindi riportò anche lo scritto giovanile sopra menzionato, ma lo fece nella parte introduttivo-storica dello studio sulla cassazione (vol. I, 21 e ss.; e 46 e ss.), senza attribuire a questa contrapposizione alcun valore specifico. Prova ne è che queste dissertazioni del Calamandrei non condizionarono la successiva dottrina sulla cassazione, che continuò ad occuparsi del tema senza quasi mai, ancora, far riferimento allo ius constitutionis e ius litigatoris. Niente di ciò, infatti, si trova ancora nella Logica del giudice e il suo controllo in cassazione di Guido Calogero, nel Manuale di Enrico Redenti, nella voce dell’Enciclopedia del Diritto di Salvatore Satta, nel Manuale di Virgilio Andrioli, nel saggio Il vertice ambiguo di Michele Taruffo; e così di seguito.
Solo ai nostri giorni si ripesca questa contrapposizione, e le si attribuisce un senso tutto nuovo: così, contra ius constitutionis non sono più le sentenze inesistenti perché pronunciate dal giudice in assenza o spregio di norme giuridiche; contra ius constitutionis sono viceversa tutte le sentenze che consentono alla cassazione di poter emanare pronunce aventi funzione di nomofilachia, ovvero pronunce in grado di fissare principi giuridici da rispettare in futuri casi. Parimenti contra ius litigatoris non sono più le sentenze con errata ricostruzione dei fatti o con violazione di legge relativamente alla sua applicazione concreta al fatto, ma sono tutte le questioni che interessano solo il ricorrente, e non consentono alla cassazione, con la pronuncia che le si chiede, di svolgere funzione di nomofilachia.
8.3. Dunque, sia consentito, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris per anteporre la funzione di nomofilachia a quella della decisione dei ricorsi può ritenersi operazione concettuale senza alcuna base storica, ovvero può semplicemente considerarsi frutto di una invenzione, perché la funzione della Corte di Cassazione non è né di ius constitutionis né di ius litigatoris, e perché la contrapposizione ha origini e significato del tutto diversi, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione, e tanto meno con la sua funzione di nomofilachia.
9. Però, al di là di tutto questo, negli anni ancora successivi il principio di nomofilachia ancor più si rafforza. Esso diviene, se non un proprio e vero diritto tiranno, quanto meno un’esigenza che prevale, e deve prevalere, su tutte le altre.
La dottrina si assesta nel ritenere la nomofilachia un valore costituzionale da ricondursi allo stesso art. 3 Cost..[64]: e addirittura taluni iniziano a sostenere che lo stesso art. 111 Cost. andrebbe abrogato nella parte che qui interessa[65], o quanto meno letto in modo tale da assicurare che “il numero dei ricorsi sui quali la Corte abbia a pronunciarsi nel merito sia tendenzialmente ridotto” affinché “la Corte si pronunci solo quando la violazione di legge denunciata involga una questione di rilievo generale o sia stata risolta in contrasto con orientamenti costanti della corte”[66]. L’idea che inizia a prendere corpo è quella che la funzione di nomofilachia debba assicurarsi con la riduzione del diritto al ricorso, e a prova di ciò può essere portato il nuovo art. 360 bis c.p.c. di quegli anni[67].
Con il nuovo millennio gli interventi sulla nomofilachia si fanno sempre più forti e radicali[68]; e se si volge uno sguardo alla dottrina più recente, si scopre che, in realtà, attualmente, non abbiamo più una nomofilachia, ma infinite sfumature di essa: abbiamo una nomofilachia diretta e una indiretta[69], una nomofilachia statica e una nomofilachia dinamica, una nomofilachia di settore e una nomofilachia orizzontale[70], e poi una nomofilachia calcolabile[71], e una nomofilachia da studiare unitamente e in raffronto ad altri fenomeni: nomofilachia e solipsismo[72], nomofilachia e monoprotagonismo[73], nomofilachia e cronofilachia[74] ecc... Insomma, la nomofilachia è una e tante cose insieme, è una nomofilachia creativa[75], da analizzare quale “risposta legislativa alla postmodernità del discorso giuridico”[76], e da brandire, come “sempre più spesso infatti fa la Corte di Cassazione, come un randello”[77]. L’uniformità delle decisioni diventa un valore che supera tendenzialmente ogni altro, e la contrapposizione tra precedente vincolante della common law e precedente persuasivo della civil law, qualcosa che deve perdere la sua forza e tendenzialmente venire meno.
10. Stiamo così marciando, silenti e disattenti, verso la fine della libertà nell’interpretazione della legge. Della nomofilachia si esaltano i valori, ma se ne omettono i pericoli e degli inconvenienti. Il valore della nomofilachia è quello dell’ordine, e certo l’ordine è un principio cardine nell’amministrazione della cosa pubblica. Però, sia consentito, l’ordine, in una democrazia, è un valore se ogni tanto, accanto a sé, ha anche il disordine, poiché se al contrario tutto è invece sempre e solo ordine, allora lì qualcosa potrebbe entrare in crisi. Un contrasto di giurisprudenza è certamente un fenomeno negativo nell’amministrazione della giustizia; ma se un domani non dovessero più esserci contrasti in giurisprudenza, ciò sarebbe ancora peggio. Poiché un contrasto di giurisprudenza significa, in buona sostanza, che l’ordinamento accede ad un principio di libertà; un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi, e la libertà dei giudici è la condizione prima perché tutti noi lo si possa essere. Al contrario, se si manda ai giudici il messaggio che questi non devono interpretare la legge ma devono aderire all’interpretazione che della legge è già stata data; se si dà ai giudici una banca dati sempre più completa ed attrezzata in modo che su tutto sia possibile trovare un precedente; se si digitalizza il processo e si creano per il giudice degli automatismi che forniscono agevolmente la risoluzione dei casi; e se infine, fatto tutto questo, si aggiunge che se il giudice non dovesse trovare in quell’automatismo la risoluzione del caso questi non dovrebbe egualmente interpretare la legge ma rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., allora, evidentemente, noi non potremo più dire che i giudici si distinguono soltanto per funzioni, perché in realtà, non sarà più così; allora noi non potremo più sostenere che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, perché in verità vi saranno altre cose, diverse dalla legge, in grado di determinarli; allora noi non potremo più affermare che la magistratura è un potere diffuso, perché non v’è diffusione del potere se la facoltà dello ius dicere è rimasta solo al vertice. E se il lavoro dei giudici si ridurrà a meri adempimenti burocratici, allora i giudici non si sentiranno più i destinatari di una funzione primaria dello Stato, si sentiranno dei semplici dipendenti, atti a sbrigare delle pratiche, per niente soddisfatti del lavoro svolto. E uno Stato democratico non può avere dei giudici che lavorino così.
In estrema sintesi, la nomofilachia non è un bene come la salute, che più se ne hai meglio è; è un bene che deve trovare dei limiti e dei bilanciamenti, come li ha sempre avuti, poiché altrimenti rischia di compromettere altri valori, altri principi, altre esigenze non meno rilevanti. E che la magistratura costituisca un potere diffuso, è un bene al quale non possiamo rinunciare.
10.2. Il rafforzamento della nomofilachia non poggia, poi, a pensarci, su niente, e lo scopo di questo saggio è proprio quello di ricordare questa evidenza: non sulla storia, poiché nella storia della nostra Italia la nomofilachia non ha mai rappresentato un punto centrale nella funzione giurisdizionale esercitata dalla Cassazione; non sulla Costituzione, poiché in Assemblea costituente, se si esclude Piero Calamandrei, nessuno pensava che la nomofilachia potesse essere una tecnica giudiziaria da ricondurre a principio costituzionale, e nessuno immaginò infatti di trasformare il precetto dell’art. 65 r.d. 12/41 in norma costituzionale; non sulla contrapposizione tra ius consistitutionis e ius litigatoris, poiché abbiamo visto che trattasi di una contrapposizione che ha origini totalmente diverse, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione; non su un valore ideologico, perché è fuori discussione che la nomofilachia abbia un aspetto autoritario, possa presupporre una struttura gerarchizzata della magistratura, tanto che da un punto di vista normativo la si trova infatti disciplinata solo nell’art. 65 del r.d. 12/41, ovvero in una normativa che fu varata dal fascismo: non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, non la si trova nella Costituzione, non la si trova in altre leggi dell’età repubblicana. E dunque, il rafforzamento della nomofilachia, da parte sua, non ha che ragioni pratiche: essa ha preso corpo in modo direttamente proporzionale alla crisi della Corte di Cassazione; più la Cassazione è entrata in crisi per l’alto numero dei ricorsi, più si è diffusa l’idea di una nomofilachia forte. Ma la crisi della Cassazione non può costituire la ragione per portare la nomofilachia a dimensioni analoghe a quelle dello stare decisis. La nomofilachia ha già creato una miriade di ipotesi di inammissibilità dei ricorsi prima inesistenti, ha già ridotto i casi nei quali l’accesso in cassazione è possibile, ha già trasformato le udienze pubbliche in camere di consiglio e le sentenze in ordinanze; ora evitiamo che essa soffochi anche la libertà dei giudici di interpretare la legge. Noi non abbiamo ragioni per rincorrere i sistemi di common law; quei sistemi, infatti, hanno delle compensazioni che noi non abbiamo, e una storia completamente diversa dalla nostra.
10.3. Chiudo con un ricordo. Negli anni ’90, prima dell’arrivo della SSM, ho avuto l’onore e la fortuna di essere stato chiamato più volte a Frascati per i corsi formativi organizzati dal CSM. Lì ho avuto la possibilità di confrontarmi e discutere con magistrati che ovviamente ancora oggi bene ricordo; una grande e indimenticabile soddisfazione per me. Ricordo il mio entusiasmo di essere lì: restavamo lì a giorni, lì si mangiava, si dormiva, si passava anche il tempo libero passeggiando nel giardino. Uno di quei magistrati, in uno di quegli eventi, a tavola, una volta, facendo riferimento ai giovani che partecipavano ai corsi, mi disse: “Si tratta soprattutto di trasmettere loro il senso della giurisdizione, e dobbiamo averlo noi per prima questo senso della giurisdizione.” Il discorso non si sviluppò: io non chiesi all’interlocutore cosa intendesse per senso della giurisdizione, né l’interlocutore ritenne di dovermelo spiegare. Ricordo però che l’interlocutore disse questa cosa con un tale orgoglio, un tale senso di appartenenza, una tale consapevolezza del suo significato, che quella frase ancora oggi io non l’ho dimenticata. Mi fu subito chiaro che per senso della giurisdizione egli intendeva una cosa precisa, che non aveva bisogno di essere spiegata: si trattava di quella sintesi tra libertà e responsabilità che costituisce il compito primo, fondamentale, del giudice. Ebbene, credo sia necessario che quel senso della giurisdizione non si smarrisca, che ogni giudice continui a sentire quel senso, che abbia sempre la convinzione che nello svolgimento della delicata funzione dello ius dicere, nessuno sta sopra di lui, solo la legge, così come vuole l’art. 101, 2° comma Cost. Diceva Giuseppe Borrè: “Tutto ciò che è “super” ha in sé un virus nemico dei valori della giurisdizione”.
*Già in Ambientediritto, fasc. 1, 2023.
[2] Così espressamente AMOROSO – MORELLI, La funzione nomofilattica e la forza del precedente, in AA.VV., La cassazione civile, Bari, 2020, 473.
[3] CURZIO, Il giudice e il precedente, Quest. Giustizia 4/2018, 37 e ss.
[4] RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, Foro it., 2016, V, 279.
[5] CALAMANDREI, La cassazione civile, ora in Opere giuridiche, Napoli, 1976, VI, VII; ed in forma più ridotta anche in ID., Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., Torino, 1937, XVI, 981 e ss.; nonché ID., Per il funzionamento della cassazione unica, Riv. dir. pubbl., 1924, 317 e ss.
[6] V. infatti CALAMANDREI, La cassazione civile, cit., VII, 390 e ss.; ID, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1031.
[7] V. infatti sul punto TARUFFO, Il vertice ambiguo, Bologna, 1991, 55, per il quale “Calamandrei.........lega il tema della cassazione unica ad una serie di interventi di riforma che gli appaiono necessari per consentire alla Corte di svolgere in modo ottimale le sue funzioni”.
[8] CALAMANDREI-FURNO, Cassazione civile, voce del Noviss. Digesto, Torino, 1968, II, 1056.
[9] Sul punto v. infatti la recensione di E. FINZI, Recensione a P. Calamandrei, in Arch. Giur., 1922, 107 e ss.: “Quanto alla sua concludenza, dirò francamente che la dottrina del Calamandrei mi ha lasciato assai perplesso: io temo forte che il bell’edificio, costruito con mirabile arte dialettica, sia piuttosto debole nella sua fondamenta” (FINZI, op. cit., 123). Finzi, infatti, ritiene che l’errore in cui cade Calamandrei sia proprio quello di considerare la nomofilachia come funzione prima, e fors’anche unica, della Cassazione. Continua FINZI, op. cit., 123: “....che lo scopo di nomofilachia non possa più essere nell’essenza stessa dell’Istituto, anche il C. tende a riconoscere.........storicamente si dimostra che ogni istituto di nomofilachia deve essere estraneo all’ordinamento giudiziario..............Ad escludere poi la nomofilachia dalle finalità tipiche della cassazione moderna, alle ragioni logiche e storiche ricordate, se ne aggiunge un’altra di indole sociologica”.
[10] Così SATTA, Corte di cassazione, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1962, X, 797 e 799, per il quale vi sono: “ricerche pressoché impossibili, perché bisognerebbe aver vissuto in quel tempo”, e “tale diversità sarebbe data dallo scopo che sarebbe stato attribuito alla Corte (ignoto al Tribunal) di unificare la giurisprudenza. Noi siamo scettici”, Per talune note critiche alla ricostruzione storica della Cassazione in Calamandrei v. anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 49. Per le (possibili) ragioni per le quali Calamandrei assunse certe posizioni (soprattutto nel secondo volume) v. CIPRIANI, Il progetto del guardasigilli Mortara e i due volumi di Calamandrei, in Giust. Proc. civ., 2008, 791 e ss.
[11] MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, II, 21-22: “La Corte di cassazione non è istituita per la difesa astratta del diritto obiettivo, ma per mezzo di tale difesa tende a reintegrare il diritto subbiettivo dei litiganti, al pari di ogni altro organo della funzione giurisdizionale……..poiché il reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore è la causa normale che provoca l’esercizio della sua giurisdizione”.
[12] Chi mi conosce, sa quanto io ami Piero Calamandrei, a mio parere il più grande processualista del ‘900 (v. SCARSELLI, In devoto omaggio, Pisa, 2022, 87 e ss.).
Però, sulla Cassazione, Piero Calamandrei è un mistero.
È un mistero che è stato (anche) oggetto di particolare indagini, e non posso, in questo contesto, non ricordare Franco CIPRIANI, Piero Calamandrei e l’unificazione della Cassazione, in AA.VV., Poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile, Napoli, 2010, 275 e ss.; e poi ancora CIPRIANI, Piero Calamandrei e la procedura civile, ed. II, ESI, Napoli, 2009; ID, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 317 e ss.; ID, Scritti in onore dei patres, Milano, 2006, 435 e ss..
[13] V. già SCARSELLI, La crisi della cassazione civile e i possibili rimedi, Giusto proc. civ., 2010, 653 e ss..
[14] A conferma di ciò ricordo l’art. 2 del decreto 27 novembre 1790, che, nel fissare i compiti del nuovo Tribunal de cassation, espressamente asseriva: “Les fonctions du tribunal de Cassation seront de prononcer sur toutes les demandes en Cassation contre les Jugements rendu en dernier ressort, de juger les demandes de renvoi d’un tribunal à un autre pour cause de suspicion légitime, les confluite de jurisdiction et les règlements de juges, les demandes de prise à partie contre un tribunal entier” (in CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, voce del Digesto, Torino, 1887-1896, VII, I, 36). Dunque, al momento, nessun riferimento, nemmeno indiretto, si faceva ad una presunta funzione del Tribunal de cassation di uniformare gli orientamenti giurisprudenziali.
[15] PICARDI, Giuseppe Pisanelli e la cassazione, Riv. dir. proc., 2000, 637.
[16] Vedilo in PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, VI.
[17] V. SCARSELLI, La corte di cassazione di Firenze (1838 – 1923), Giusto proc. civ., 2012, 623; ed anche in SCARSELLI, Per un ritorno al passato, Milano, 2012, 195 e ss.
[18] Vedilo anche nel Codice di procedura civile del regno di Sardegna a cura di PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, XII. Nello Stato pontificio veniva accolta l’idea di una Corte di terzo grado, seppur con significative differenze rispetto al modello francese, con il Regolamento gregoriano del 10 novembre 1834 (v. PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, X), mentre l’idea di una Corte di Cassazione non veniva accolta per niente nel Lombardo-Veneto, atteso che la legislazione austriaca e tedesca rimase estranea a questa istituzione (v. anche PICARDI, Il regolamento giudiziario di Giuseppe II e la sua applicazione nella Lombardia austriaca, Riv. dir. proc., 2000, 36).
[19] Lo sostiene anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, nota 13, per il quale “Di essa (della nomofilachia) non vi è traccia, infatti, né nella disciplina della Cassazione in Francia, né in quella delle legislazioni italiane preunitarie e unitaria”.
[20] PISANELLI, Relazione ministeriale sul progetto del codice di procedura civile, presentata al Senato nella tornata del 26 novembre 1863, La legge, 1865, V, 237.
[21] G. SAROCCHI, S. LESSONA, E. FINZI, E. BARSANTI, A. TELLINI, Sul problema delle Cassazioni territoriali, Firenze, 1923, 7.
[22] CARCANO, La cassazione e lo statuto, Mon. Trib., 1872, XIII, 31.
[23] V. in proposito MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, 1896, IV, 1080, per il quale “Per le parti della sentenza che furono cassate, e per le quali si fece luogo al rinvio, il giudice del rinvio, ha, nel sistema della legge vigente, una giurisdizione PIENA, LIBERA, ASSOLUTA....... (maiuscolo di Mattirolo)...........Questa giurisdizione non gli è già delegata dalla Corte di cassazione.........il giudice del rinvio è investito direttamente ed esclusivamente della sua giurisdizione dalla legge”.
[24] Per questo dibattito v. infatti CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, cit., VII, I, 41 e ss. (il titolo I della voce è infatti intitolato dall’autore: “Cassazione o Terza Istanza?”); ed anche F.S. GARGIULO, Cassazione, voce dell’Enciclopedia giuridica italiana diretta da P.S. Mancini, Milano, 1905, III, II, 21 e ss.
[25] Una delle più autorevoli in tal senso fu quella di MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, cit., IV, 866 e ss.
[26] MANCINI, Discorso tenuto alla Camera dei Deputati nella Seduta del 20 febbraio 1865, VIII legislatura Sessione 1863-65, in Discorsi parlamentari, Roma, 1893, 217.
[27] V. gli studi indicati nella nota che segue, e CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 235, per il quale: “Mussolini, dunque, in pochi mesi riuscì a fare quello che non si era riusciti a fare in sessant’anni”.
E non a caso, infatti, tal cosa, predicata da taluni (ma contrastata da altri) per oltre sessanta anni, veniva a realizzarsi proprio con l’avvento del fascismo, e in modo del tutto singolare, poiché si realizzava con un decreto (r.d. 601/1923) emanato in forza di una legge delegata, la legge 3 dicembre 1922 n. 1601, che non consentiva affatto una simile decisione, poiché la delega fissata in quella legge aveva ad oggetto il solo “riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione” (v., sul punto, MECCARELLI, Le corti di cassazione nell’Italia unita, Milano, 2005, 33), riordino che difficilmente poteva comportare anche l’abolizione di uffici giudiziari dell’importanza delle Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Si tratta, pertanto, di un colpo di mano, e non certo di una decisione presa con l’analisi e la compiuta ponderazione delle problematiche emerse fin dal 1865, colpo di mano confermato anche dalla successiva rimozione di Mortara dalla presidenza della Corte, avvenuta con r.d. 3 maggio 1923 n. 1028 (v. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 236 e ss.) e la nomina del nuovo presidente nella persona di Mariano D’Amelio.
E conferma di ciò si trova ancora nelle pagine di S. LONGHI, Presentazione a Studi in onore di Mariano d’Amelio, Roma, 1933, I, V, per il quale: “Soltanto da Roma devono emanare le massime della interpretazione della legge, le quali tanto più contribuiscono alla prosperità del popolo quanto più sono sapientemente interpretate con fermezza e con costanza di decisioni per i casi analoghi”.
[28] V. infatti anche MAROVELLI, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana, dal 1848 al 1923, Milano, 1967, 272 e ss.; nonché TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, 216 e ss.
[29]È cosa riconosciuta anche da CALAMANDREI, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1030, che sulla scelta della cassazione unica del ’23 scrive: “Il rafforzamento dell’autorità dello Stato operatosi in Italia in quest’ultimo decennio, non poteva che rafforzare insieme l’idea che sta alla base della cassazione............l’idea romana della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato, della supremazia dello stato sulla volontà individuale”.
[30] Lo rileva anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, per il quale “il t.u. sull’ordinamento giudiziario (introdotto con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786) non cambia nulla per quanto attiene alla funzione della Cassazione”.
[31] Così Cass. Firenze 4 luglio 1887, Temi veneta, 1887, 397.
[32] V. infatti Cass. Firenze 6 giugno 1887, La Legge, 1887, II, 726.
[33] V. infatti Cass. Torino 12 agosto 1884, La legge, 1884, II, 657.
[34] V., infatti, La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958.
[35] op. cit., VIII, 1958.
[36] V. ancora op. cit., VIII, 1958-9.
[37] op. cit., VIII, 1961.
[38] op. cit., VIII, 1962.
[39] op. cit., VIII, 1957.
[40] op. cit., VIII, 1957.
[41] Così, espressamente, il verbale dei lavori, in op. cit., VIII, 1957.
[42] op. cit., VIII, 1957.
[43] op. cit., I, LXVIII.
[44] op. cit., VIII, 1958.
[45] V. seduta pomeridiana del 27 novembre 1947, op. cit., 415
[46] TARGETTI, op. cit., V, 4169.
[47] V. ancora op. cit., V, 3659 e ss.
[48] Per questi aspetti v. e MARTONE, Unicità della cassazione e unità della giurisdizione nei lavori dell’Assemblea costituente, in Atti del convegno Giurisdizione e giudici nella Costituzione, Roma 18 giugno 2008, in Quaderni del CSM, 2009, n. 155, 100 e ss.
[49] Salve mie mancanze, il dato lo trovo espresso in modo chiaro solo in IMPAGNATIELLO, Il concorso tra cassazione e revocazione, Napoli, 2003, 391: “Quel che è certo è che l’art. 111 Cost. non fa alcun riferimento alla nomofilachia, neppure solo indiretto”.
[50] SENESE, Funzioni di legittimità e ruolo di nomofilachia, Foro it. 1987, V, 263: “Mi pare difficilmente contestabile l’osservazione che la nascita dell’istituto della cassazione e della funzione di nomofilachia sia storicamente e strutturalmente legata ad un modello statuale accentrato, geloso della sovranità nazionale, gerarchizzato, ed ad una struttura piramidale della giustizia, e che tutto diverso sia il modello statuale disegnato dal nostro sistema costituzionale”.
[51] M. PIVETTI, Osservazioni sul modello di Corte di Cassazione, in MANNUZZU – SESTINI, Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Democrazia e diritto, 1/1992, 274, menzionato da IMPAGNATIELLO, cit., 391: “È certo che tale compito (la nomofilachia) non è l’unico né il principale tra quelli attribuiti alla suprema Corte, sicché la sua realizzazione non può in alcun caso essere perseguita a scapito della funzione consistente nell’assicurare alle parti la garanzia del caso concreto”.
[52] FRANCESCHELLI, Nomofilachia e Corte di cassazione, in Giustizia e costituzione, 1986, 39: “In un sistema caratterizzato dal pluralismo..........il bene supremo della giustizia, non è........una staticità e uniformità di giurisprudenza....ma è, al contrario, una disponibilità ad intendere il nuovo e ad interpretare il pluralismo, e quindi ad un confronto continuo di posizioni”.
[53] Per tutto questo dibattito in quegli anni v. DENTI, A proposito di Corte di Cassazione e di nomofilachia, Foro it., 1986, V, 417; TARUFFO, La Corte di cassazione e la legge, Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 349; CHIARLONI, La cassazione e le norme, Riv. dir. proc., 1990, 982; ID., Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contributi della giurisprudenza, Riv. trim. dir. proc. Civ., 1989, 118; MONTESANO, Aspetti problematici del potere giudiziario, id., 1991, 665; LA GRECA, Quale cassazione? Proposte dell’assemblea generale, Dir. pen. e proc., 1999, 784; ed ancora CHIARLONI, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, Riv. dir. proc., 2001, 614.
[54] V. PROTO PISANI, Cassazione civile e riforme costituzionali, Foro it., 1998, V, 167.
[55] AA.VV., Per la corte di cassazione, Foro it., 1987, V, 205 e ss.; AA.VV., La cassazione civile, id., 1988, V, 1 e ss.
Successivamente BORRÈ – PIVETTI – ROVELLI, Dibattito su…..la cassazione e il suo futuro, Quest. Giust., 1991, 817; PIZZORUSSO, La corte suprema di cassazione: problemi organizzativi, Doc. giustizia, 1991, 5, 15.
[56] V. anche BRANCACCIO, Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, Foro it., 1986, V, 461. Precedentemente MIRABELLI, Discorso di commiato del primo presidente della Corte di cassazione, Foro it., 1985, V, 222.
[57] SCARSELLI, Sulla distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, Riv. dir. proc., 2017, 355 e ss.
[58] V. in argomento ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino, 1953, 276; LAURIA, Contra constitutiones, in Studi e ricordi, Napoli, 1983, 79; PUGLIESE, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Studi in onore di Emilio Betti, Milano, 1962, III, 775.
[59] Sulla nullità della sentenza SCIALOIA, Procedura civile romana, Roma, 1894, 266; F. VASSALLI, Studi giuridici, Milano, 1960, III, 1, 389 e ss.
[60] Peraltro, in quel passo, non si dà una definizione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, ma si procede con un esempio.
Si dice: se il giudice dichiari che né il numero dei figli, né una determinata età, né alcun privilegio in capo al richiedente possano esonerarlo dai servizi pubblici (munera) o dall’ufficio della tutela (ovvero il giudice, contrariamente al diritto vigente, affermi l’inesistenza di una norma in vigore), egli pronuncia contra ius constitutionis, e la sua sentenza è inesistente/nulla. Se invece il giudice non neghi che dette circostanze possano effettivamente comportare l’esonero dai servizi pubblici o dalla tutela, così come infatti le norme dispongono, ma non le accerti per errore nella persona del richiedente, egli allora pronuncia contra ius litigatoris, e la sentenza in questi casi, al contrario, è valida ed efficace, e solo può essere rimossa con l’impugnazione dell’appello.
Il passo del Digesto, e questa esemplificazione, vengono così comunemente interpretate dalla dottrina romanista nel senso che la contrarietà allo ius constitutionis, e quindi la nullità della sentenza, vi è quando il giudice, nel sillogismo logico, erra nel porre la premessa maggiore, affermando, anche in via di interpretazione, l’esistenza di una norma che non esiste, o negando l’esistenza di una norma che c’è. Viceversa se il giudice pone correttamente la premessa maggiore, ma erra nella ricostruzione del fatto, o nel percorso logico che, data la premessa minore del fatto, porta alla conclusione, allora il giudice pronuncia sentenza contra ius litigatoris.
Vi sono, ovviamente, tra gli studiosi di diritto romano, discussioni sull’interpretazione del principio del Digesto, e per queste possiamo rinviare agli studi giuridici, ad esempio, di Filippo Vassalli o di Riccardo Orestano; ma sono discussioni su aspetti di contorno, che non interessano il problema che qui stiamo affrontando.
Per quello che a noi interessa, si ribadisce, il giudice pronuncia contra ius constitutionis quando erra nel porre la regola giuridica della premessa maggiore del sillogismo; pronuncia al contrario contra ius litigatoris quando erra nella ricostruzione del fatto o nella sussunzione della norma al fatto.
[61] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, 1914, 8 e ss.; anche in Studi sul processo civile, Padova, 1930, I, 143.
[62] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 146: “La distinzione delle sentenze in due classi, secondo che esse violassero lo ius constitutionis o lo ius litigatoris si basava dunque su un criterio di ordine costituzionale. Finché il giudice si limitava a commettere errori nell’accertamento del fatto o nell’applicazione della norma al fatto, egli rimaneva nel campo di funzioni a lui demandato, e, se commetteva degli errori, li commetteva nell’ambito del suo potere (ius litigatoris); ma se il giudice si metteva in aperto contrasto col precetto della legge allora eccedeva il potere che l’ordinamento pubblico gli aveva attribuito e non funzionava più come organo giurisdizionale (ius constitutionis).”
[63] V. CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 153, ovvero quando si inizia invece a ritenere che: “la sentenza passata in giudicato pro veritate habetur e la sua autorità è tanta che essa può fare de non ente ens, de falso verum et de albo nigrum.”
[64] CROCE, La lunga marcia del precedente: la nomofilachia come valore costituzionale?, a proposito di Corte costituzionale 30/2011, Contratto e impresa, 2011, 847.
[65] Così CHIARLONI, Sui rapporti tra funzione nomofilattica della cassazione e principio della ragionevole durata del processo, in www.judicium.it.; ed anche CARPI, L’accesso alla Corte di cassazione ed il nuovo sistema di filtri, nel Convegno Giurisdizione di legittimità e regole di accesso nell’esperienza europea, (Roma, 5 marzo 2010, organizzato dalla Corte suprema di Cassazione), per il quale dovremmo pensare “alla modifica dell’art. 111, 7° comma, della Costituzione, attraverso un più moderno bilanciamento della garanzia per il singolo con la garanzia, questa sì fondamentale, per e dell’ordinamento”.
[66] Così PROTO PISANI, Sulla garanzia costituzionale del ricorso per cassazione sistematicamente interpretata, Foro it., 2009, V, 381; ma v. già ID., Crisi della cassazione: la (non più rinviabile) necessità di una scelta, Foro it., 2007, V, 122. Precedentemente in argomento v. DENTI, L’art. 111 della costituzione e la riforma della cassazione, Foro it., 1987, V, 228.
[67] In questo senso v. già l’art. 131 del progetto della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che nell’ottobre del 1987 prevedeva che “contro le sentenze è ammesso ricorso per cassazione nei casi previsti dalla legge, che assicura comunque un doppio grado di giudizio”. In argomento BILE, La commissione bicamerale e la corte (“suprema”?) di cassazione, Giust. Civ., 1998, II, 65.
[68] LA TORRE, La corte di cassazione italiana all’inizio del duemila, Foro it., 2000, V, 107; CARBONE, Organizzazione del lavoro della cassazione e ordinamento giudiziario, Corr. Giur., 2000, 124.
[69] v. E CARBONE, Quattro tesi sulla nomofilachia, Politica del diritto, 2004, 599; G.S. COCO, Esatta interpretazione e nomofilachia: appunti critici, Legalità e giustizia, 2006, I, 7.
[70] COSTANTINO, Appunti sulla nomofilachia e sulle nomofilachie di settore, Riv dir. proc., 2018, 1443; SPANGHER, Nomofilachia rinforzata, serve trasparenza, Diritto penale e processo, 2018, 985; CARRATTA, Il P.M. in cassazione promotore di nomofilachia, Giur. it., 2018, 772; CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, 2017, 364.
[71] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[72] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[73] COMOGLIO, Nomofilachia o nomoprotagonismo?, Nuova giur. civ. comm., 2011, 10253.
[74] AULETTA, Dalla nomofilachia alla cronofilachia: le Sezioni unite esigono il tempestivo deposito della sentenza munita di relata, Riv. dir. proc., 2010, 180.
[75] CARRATTA, L’art. 360 bis c.p.c.e la nomofilachia creativa dei giudici della cassazione, Giur. it., 2011, 885.
[76] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[77] SASSANI, Si dice nomofilachia ma non si sa dove il sia, Riv. es. forzata., 2011, 4.