La dignità della persona.
Gli obiettivi indefettibili della nostra democrazia costituzionale.
di Antonio D’Andrea
Sommario[1]: 1. La democrazia sociale italiana e il valore fondante della dignità della persona. – 2. La stretta connessione tra la dignità sociale e il principio personalista, anche attraverso lo “scudo” della tutela giurisdizionale. – 3. Dalla dignità della persona alla salvaguardia dei suoi nuovi diritti, passando per l’evoluzione della sensibilità sociale.
1. La democrazia sociale italiana e il valore fondante della dignità della persona.
Il valore della dignità – che diviene principio nella complessa trama costituzionale – emerge, com’è noto, in diverse occasioni. Esso è stato più volte richiamato dal Giudice costituzionale per precisare la portata di posizioni giuridiche soggettive anche assai differenti tra loro: dall’aiuto al suicidio (sent. 242/2019) alle “nuove forme” di maternità, in particolare rispetto alle relazioni omosessuali femminili (sent. 32/2021); dal reato di diffamazione a mezzo stampa (ord. 132/2020) al diritto all’affettività per le persone detenute (sent. 10/2024).
La dignità è nondimeno espressamente citata dal Testo costituzionale (articoli 3, primo comma; 36, primo comma; 41, secondo comma) con declinazioni e significati differenti. Sia sufficiente osservare che nella prima delle richiamate disposizioni il Costituente ha qualificato la dignità come “sociale” e l’ha riconosciuta a tutti i cittadini, a prescindere dalle condizioni (lato sensu) personali e sociali di ciascuno. Nelle altre due, invece, essa è calata in un contesto specifico quale è l’attività lavorativa, pur tuttavia con sfumature che ne cambiano profondamente i connotati. Nell’art. 36 Cost. la dignità viene impiegata come criterio per guidare il legislatore nella determinazione del livello minimo della retribuzione; nell’art. 41 Cost., invece, è servente a stabilire i limiti relativi all’esercizio dell’iniziativa economica privata.
Alla luce di tali richiami, si ritiene che il lavoro possa costituire un angolo di osservazione privilegiato per provare a offrire qualche considerazione attorno al principio della dignità umana partendo dal presupposto che la persona è immersa in un contesto profondamente sociale, il che evidenzia come l’attività lavorativa –al pari dell’istruzione del resto – sia imprescindibile per la formazione e lo sviluppo della personalità di ciascuno, realizzandosi attraverso un percorso che consente, e in certa misura impone, a tutti di partecipare al progresso del Paese.
D’altronde, non sarebbe possibile immaginare la collocazione di una persona all’interno della società, dove afferma e/o difende la sua personalità, se non fosse posta nelle condizioni di dare un contributo alle relazioni sociali attraverso lo svolgimento di attività materiali o intellettuali che hanno una utilità, diretta o indiretta, per tutti i consociati. La norma costituzionale non si riferisce esclusivamente ad attività contraddistinte da un riscontro in qualche misura economico, poiché ciò che è valorizzato è il positivo riverbero sociale delle mansioni svolte, che perciò possono compiersi anche nella forma del volontariato (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992).
Va da sé, però, che siccome la grande maggioranza dei membri della comunità ha bisogno di lavorare per assicurarsi una sussistenza, tali attività solo raramente si verificano «per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona» (Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992, § 2 Cons. dir.). Di norma, infatti, il contributo dei consociati al progresso del Paese si verifica a valle di un calcolo utilitaristico che presuppone un corrispettivo all’esito dello svolgimento di una funzione, sia anche di carattere sociale (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 202 del 1992).
Si ritiene, dunque, che il lavoro – cioè, come detto, qualsiasi opera che abbia un riscontro per lo sviluppo del Paese – sia in grado di veicolare la dignità perché, per dirlo con parole semplici, senza lavoro non c’è dignità; la relazione biunivoca tra i due termini è trattata in maniera specifica dalla Carta del ‘48, la quale precisa che l’imprenditore deve rispettare la salute, la sicurezza, la libertà e la dignità di chi rende possibile l’attività d’impresa (art. 41, secondo comma).
La tutela dei lavoratori è un valore fondante e nient’affatto subalterno alle ragioni dell’attività d’impresa, tanto che il legislatore ordinario dovrebbe insistere convintamente in questa direzione, se dal caso anche rinunciando al rispetto dei vincoli (forse impropriamente chiamati principi) posti dal livello di governo sovranazionale relativi all’equilibrio di bilancio. È noto che la legislazione europea, ponendo al vertice della “piramide dei valori” la tutela dell’economia e del mercato, ha concorso a danneggiare il lavoro e coloro che, per il suo tramite, ottengono quanto necessario per la sussistenza di sé e della propria famiglia.
Per altro verso, l’onere di rispettare la dignità umana impone ai poteri costituiti di porre le condizioni affinché sia vietato lo sfruttamento della persona che versa in una condizione di “inferiorità” economica e sociale; del resto, il compito della Repubblica e di chi organizza il lavoro è anche quello di tutelare e garantire le posizioni giuridiche soggettive dei lavoratori. Ciò si evince chiaramente dal Testo costituzionale, il quale indica al legislatore il compito di assicurare al lavoratore una retribuzione non solo proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, ma anche in grado di assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma)[2]; di stabilire la durata massima dell’attività lavorativa e di assicurare il diritto al riposo settimanale e annuale (art. 36, secondo e terzo comma). La Carta costituzionale pone, inoltre, precise tutele a favore della donna lavoratrice e dei lavoratori minorenni (art. 37) e, nel solco della nostra forma di Stato sociale, sancisce i diritti al mantenimento e all’assistenza sociale, al sostegno in caso di malattia, infortunio, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria (art. 38).
Queste misure rappresentano emblematicamente l’intento del Costituente di attribuire alla Repubblica il dovere di intervenire attivamente al fine di salvaguardare la personalità e la dignità dei lavoratori, a maggior ragione se subordinati.
È verosimilmente per questa ragione che dalla “trama” e dall’“ordito” della c.d. Costituzione economica emerge un quadro preciso all’interno del quale deve essere organizzato il mondo del lavoro.
2. La stretta connessione tra la dignità sociale e il principio personalista, anche attraverso lo “scudo” della tutela giurisdizionale.
A garantire i principi appena richiamati soccorre l’articolo 3 Cost. che, com’è noto, prima di indicare le condizioni rispetto alle quali non possono verificarsi discriminazioni, precisa che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale. In questi termini la dignità prescinde da una specifica collocazione sociale riferibile a una situazione di fatto (il lavoro) poiché la norma enuncia un principio di portata generale, richiamando la necessità che siano gli organi di indirizzo politico a garantire il valore della dignità nei confronti di ogni persona, indipendentemente dalle posizioni di partenza nella “gara della vita”.
Si tratta, pertanto, di un principio che riguarda ai diritti della personalità, cioè a quei diritti che devono essere salvaguardati dai poteri costituiti, se dal caso anche attraverso l’intervento proattivo di rimozione degli ostacoli che possono frapporsi fra il pieno sviluppo della personalità e la partecipazione alla vita della comunità.
La dignità sociale dovrebbe condizionare, dunque, l’azione politica di ogni livello di governo, giocando il ruolo di un “imperativo categorico” nella determinazione di decisioni politiche che restano comunque, quanto alle loro modalità di affermazione, nella libera disponibilità del legislatore. Attraverso le politiche attive volte a promuovere e a salvaguardare la dignità sociale, ciascuno è posto (rectius: dovrebbe essere posto) nella posizione di esplicare i diritti della propria personalità, quelli personalissimi, inalienabili e irrinunciabili (ad esempio, al nome, alla riservatezza, all’identità personale) rispetto ai quali sussiste una certa inerzia del legislatore, cui cerca di sopperire il Giudice costituzionale, invero sempre più frequentemente investito della risoluzione anche delle c.d. questioni eticamente sensibili.
Queste ultime si legano, fra l’altro, alla garanzia del principio personalista, che per essere salvaguardato esige che l’assetto organizzativo della Repubblica sia informato al principio democratico. Il tema è ampio e, anche in considerazione di una delle riforme costituzionali in cantiere – segnatamente quella relativa al Titolo IV, Parte II, della Costituzione – vale la pena tornare a insistere sul fatto che non può essere assicurato il principio sancito dalla prima parte dell’art. 2 Cost. se la Repubblica non garantisce a ogni cittadino la possibilità di rivolgersi a un giudice posto in posizione di indipendenza, terzietà e imparzialità rispetto agli altri poteri dello Stato – specialmente dall’Esecutivo – onde tutelare i propri diritti e interessi legittimi[3].
Il principio democratico richiama, inoltre, la necessità di insistere convintamente sulla stretta interdipendenza tra la Prima e la Seconda parte della Costituzione, dal momento che, per salvaguardare il principio personalista, è necessario cheanzitutto l’organo legislativo sia posto nella condizione di esprimere una decisione politica orientata in questo senso. Ma è altresì fondamentale che l’organizzazione dei poteri sia completata da organi di garanzia in grado di valutare, ancorché con metodi e gradi di incisività profondamente differenti, la conformità ai principi costituzionali delle decisioni politiche espresse dal Parlamento.
Di fronte a evidenti esempi di diseguaglianza e di disattenzione nei confronti delle fondamentali posizioni giuridiche soggettive dell’essere umano va rilevata, nondimeno, una certa inefficienza dell’azione del legislativo e dell’esecutivo, così come delle parti sociali. Si tratta di quel difetto politico, giuridico e sociale che in diverse occasioni induce a denunciare la mancata soddisfazione del principio sancito dall’art. 3, primo comma, Cost., e talvolta anche l’inadempienza dei doveri costituzionali cui è investita la Repubblica ai sensi del secondo comma.
Ciò non toglie che l’eguaglianza sostanziale, il raggiungimento della piena ed effettiva dignità sociale, la capacità di rispondere a qualsiasi forma di discriminazione, la possibilità per ogni consociato di esprimere la propria identità personale, siano obiettivi difficilmente realizzabili; essi, difatti, sono e restano per lo più un traguardo (tecnicamente irraggiungibile se osservati nell’ottica del continuo miglioramento volto al benessere della persona) che, tuttavia, per gli organi investiti del compito di assumere decisioni valide erga omnes rappresentano la rotta da seguire.
3. Dalla dignità della persona alla salvaguardia dei suoi nuovi diritti, passando per l’evoluzione della sensibilità sociale.
Dei diversi esempi che potrebbero essere offerti circa la necessità che il legislatore – ma i poteri costituiti in generale – segua la “stella polare” del principio di eguaglianza, specialmente sostanziale, sembra opportuno porre l’accento sulla differenza di metodo impiegato nel tempo dal potere legislativo per disciplinare questioni senza dubbio rilevanti che vengono attratte nella sfera del diritto pubblico in generale.
L’accostamento può sembrare forzato, eppure si ritiene che esso sia in grado di porre genuinamente in luce le difficoltà, in primis culturali, che stressano la nostra democrazia. Da un lato, la violenza e disparità di genere; dall’altro lato, il fenomeno relativo al cambiamento climatico e alla cura per quelli che vengono definiti beni comuni.
Sotto il primo aspetto, nulla di nuovo nell’affermare che il nostro Paese fatica a soddisfare il valore socioculturale, prima ancora che il principio giuridico, relativo alla eguaglianza e parità di genere, nonostante i “grimaldelli” rappresentati dai principi personalista e di eguaglianza. È forse per questa ragione che il legislatore ha ritenuto di introdurre norme, anche di rango costituzionale, che consentano di soddisfare, perlomeno a livello istituzionale, le pari opportunità tra donne e uomini (art. 51, primo comma, e art. 117, settimo comma).
L’inclusione delle c.d. quote rosa in Costituzione, la cui disciplina concreta è rimessa alla legislazione ordinaria, rappresenta il riconoscimento di una sorta di fallimento antropologico che le diverse maggioranze che si sono succedute in Parlamento insistono ad affrontare con soluzioni temporanee, piuttosto che con politiche a lungo termine capaci di promuovere prima ancora che realizzare un reale cambiamento socioculturale[4] che non dovrebbe essere limitato alle pari opportunità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, ma che dovrebbe riguardare l’eguaglianza dei sessi «nella vita sociale, culturale ed economica» (art. 117, settimo comma, Cost.).
Ciò è stato emblematicamente definito “femminismo costituzionale”: attraverso questo metodo si intende andare oltre il “semplice” divieto di discriminazione fondato sul sesso (art. 3, primo comma, Cost.), così da superare ostacoli che, di fatto, finiscono per non consentire in molti casi il pieno sviluppo e rispetto della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)[5].
L’interpretazione della Carta costituzionale rispetto al tema della violenza e disparità di genere dovrebbe essere “blind”, partendo dalla volontà di incidere con maggiore consapevolezza sulla ridefinizione delle relazioni di potere, a partire da quello economico anche se non solo, all’interno della società. L’obiettivo, pertanto, non dovrebbe essere quello di rimuovere enfaticamente le differenze tra i sessi, bensì la discriminazione di genere che ostacola effettivamente la libertà e l’eguaglianza dei consociati[6].
Come recentemente posto in evidenza da Giuliano Amato e Donatella Stasio, il Testo costituzionale, pur avendo come presupposto dell’intero “viaggio” (Principi fondamentali, Diritti e doveri dei cittadini, Ordinamento della Repubblica) le relazioni sociali, non cita mai il termine “amore”[7]. Del resto, “amore” e “felicità” costituiscono – si potrebbe obiettare – più condizioni dello spirito che dell’ordinamento giuridico, anche se parole così delicate ed evocative non disturberebbero certamente alcun testo normativo, ancor più se di rango costituzionale. Né, si potrebbe aggiungere, le forze politiche che hanno animato le diverse Legislature si sono mai preoccupate di revisionare la Legge fondamentale dello Stato in modo tale da riconoscere espressamente il diritto-dovere più che “di amare” di rispettare e considerare la diversità, non solo di genere, (si potrebbe parlare di fraternità) quale possibile contrafforte verso la pericolosa involuzione dei rapporti interpersonali (si pensi, in primo luogo, al tasso di femminicidi, invero spaventoso, che ogni anno registra il nostro Paese oltre alle note discriminazioni razziali e omofobe).
Diversa sorte è stata invece riservata alla tematica – che presuppone l’adozione di programmi politici orientati a un orizzonte temporale ancora più esteso – relativa al cambiamento climatico, posto che, com’è noto, la Carta costituzionale custodisce oggi all’interno dei “Principi fondamentali” l’ambiente, la biodiversità, l’ecosistema, inclusa la protezione degli animali e le generazioni future e affida alla Repubblica il compito di tutelarli (legge costituzionale n. 1 del 2022).
Se la violenza e la disparità di genere restano una piaga che interessa anzitutto le generazioni presenti e che è stata affrontata – con risultati alquanto insoddisfacenti – attraverso un metodo prevalentemente punitivo (che oltretutto sembra allontanarsi vieppiù dalla stessa finalità rieducativa della pena richiesta dalla normativa costituzionale vigente: art. 27, terzo comma), gli interventi in tema di sostenibilità ambientale finiscono per essere destinati a produrre effetti più significativi sul lungo (o lunghissimo) periodo. Occorre, da questo angolo di visuale, considerare lungimirante e ben ponderata la scelta del legislatore costituzionale; si è in effetti manifestata chiaramente tale volontà politica, rovesciando il paradigma affermato dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale che, come è noto, in verità dagli anni Ottanta riconosce la necessità di riservare spazio alla tutela dell’ambiente (v. Corte costituzionale, sentenza n. 641 del 1987). Invero, a tale riguardo, se per il potere giudiziario e di garanzia la prospettiva era antropocentrica (la tutela dell’ambiente per il benessere della persona; da qui, il diritto all’ambiente salubre), per il revisore costituzionale del 2022 il modello si tramuta in ecocentrico (la tutela dell’ambiente per sé stesso e, solo in conseguenza di ciò, per il benessere degli esseri umani).
Tuttavia, anche in ragione della collocazione sistematica del principio in parola, non sembra possibile individuare un diritto soggettivo alla tutela dell’ambiente lato sensu inteso, quanto piuttosto un “valore” costituzionale che pone in capo alla Repubblica un facere specifico e continuativo. Non trattandosi di una materia (quale è, invece, quella dell’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.), bensì di un principio, non si pone neppure la questione relativa al riparto di competenze. L’art. 9, terzo comma, Cost. è, infatti, un obiettivo costituzionale che integra e finalizza le competenze di Stato, Regioni ed enti locali che, per quanto di propria spettanza, devono impegnarsi a salvaguardare l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi proprio nell’interesse delle future generazioni.
L’art. 9, terzo comma, primo periodo, Cost. e il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con il riferimento a responsabilità e doveri nei confronti degli altri, della comunità umana e delle generazioni future riescono a stabilire, con efficacia anche giuridica, il rapporto di solidarietà tra le generazioni e a estendere oltre i limiti del presente l’efficacia normativa della Costituzione e della Carta di Nizza poiché affermano una responsabilità intra- e inter-generazionale.
Il richiamo all’interesse delle future generazioni tra i Principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico rende, in ogni caso, complesso definire chi sono queste generazioni (o, meglio, “quanto future esse siano”), così come induce a riflettere attorno alla portata giuridica da attribuire all’interesse. Dovendosi escludere la natura di diritto soggettivo perfetto – non foss’altro perché chi non è ancora “presente” non potrebbe farne valere l’eventuale lesione dinanzi all’autorità giudiziaria – si ritiene di configurarlo quale aspettativa dei posteri che, pertanto, si risolve in un dovere per i contemporanei: quello di salvaguardare i c.d. beni comuni.
Diverse “stagioni” hanno attraversato questa categoria, che dovrebbe essere riempita di contenuti meno vaghi – alla stregua di quanto affermato dalla c.d. Commissione Rodotà, costituita con Decreto del Ministro della giustizia il 21 giugno 2007 – sia prevedendosi beni materiali, sia indicando diritti fondamentali spettanti alla collettività così da perseguire con meno incertezza e (spesso) vuota enfasi, politiche economiche e sociali “sostenibili” – sostenibilità, questa l’espressione magicamente utilizzata nel tempo presente della green economy – per le generazioni presenti e per quelle future.
I doveri inderogabili di solidarietà sociale possono avere, in effetti, una portata ultra temporale poiché orientati a«garantire – nel senso di salvaguardare – e promuovere lo sviluppo della comunità», radicando «una sorta di “dovere interiore” perché tutti beneficiano del diritto […] se tutti, doverosamente, vi contribuiscono»[8]. Questo genere di diritti si contraddistingue, del resto, per «una natura relazionale che implica un (soggetto) erogatore e un beneficiario»[9] e talvolta «la presenza di altri beneficiari» rappresenta un plusvalore «per una soddisfacente fruizione del bene»[10].
È probabilmente questa la logica che ha spinto il revisore costituzionale[11] a prevedere gli “equilibri ecologici” come limite alla libertà di iniziativa economica privata (art. 41, secondo e terzo comma, Cost.), la quale deve essere funzionalizzata «a fini sociali e ambientali». La ratio si ritiene assai simile a quella sottesa agli artt. 81 sesto comma, e 97, primo comma, Cost. e cioè la sostenibilità del debito pubblico (legge costituzionale n. 1 del 2012), volta a proteggere proprio le future generazioni dall’accumulo del debito, che potrebbe compromettere inevitabilmente la capacità di determinazione democratica dei Governi che verranno[12].
La tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità, insieme al fatto che essi costituiscono un limite per il libero esercizio dell’attività d’impresa, si ritengono veicoli necessari per realizzare quell’obiettivo che condiziona tutto il Testo costituzionale, ovvero l’eguaglianza sostanziale delle e tra le persone. In essa trovano sede, non a caso, i principi supremi della pari dignità sociale e del pieno sviluppo della persona umana, che dovrebbero vincolare anzitutto il legislatore a realizzare precisi indirizzi che favoriscano la salvaguardia dell’ambiente nel quale conduciamo qui e ora la nostra esistenza. Questa attenzione per la “qualità” delle politiche pubbliche resta il presupposto fondamentale affinché altri possano continuare a godere alle stesse condizioni dei contemporanei del contesto favorevole nel quale sono maturati e potranno maturare i diritti che accompagnano una esistenza dignitosa degli appartenenti al genere umano, secondo l’impostazione “presbite” accolta dalla nostra Costituzione democratica.
[1] L’articolo costituisce la rielaborazione dell’intervento tenuto in occasione del Seminario “Parole dedicate: dignità e Costituzione”, svoltosi il 29 aprile 2022 e organizzato dal Centro di Promozione per la Legalità della Provincia di Bergamo. L’intervento è stato rivisto e aggiornato con il contributo della Dott.ssa Alessandra Mazzola.
[2] Nonostante la chiara previsione costituzionale, il nostro ordinamento è da qualche tempo in difficoltà nel soddisfare tale principio. La causa è da rinvenire anzitutto nell’azione politica e sindacale, che non riesce a contrastare (la prima) e che gode di strumenti troppo deboli per farlo (il secondo) il c.d. lavoro sommerso. Eppure, la strada per porre dei vincoli al c.d. decent work, al salario giusto e alla durata della giornata lavorativa è nitidamente tracciata dalla Costituzione agli articoli 36 e 39, quarto comma (cfr. A. Apostoli, Il miraggio dell’esistenza libera e dignitosa, in Costituzionalismo.it, 3/2023, pp. 35-60). Neppure la Direttiva UE 2022/2041 sul salario minimo adeguato è riuscita a smuovere la coscienza politica sul punto, posto che l’attuale maggioranza parlamentare ha omesso di recepirla ritenendo, probabilmente, che l’intervento legislativo in materia fosse alternativo e non complementare alla contrattazione collettiva nazionale (le relative proposte di legge sono invero arenate; la proposta A.C. 1275 “Disposizioni per l’istituzione del salario minimo”, che ha assorbito A.C. 141, A.C. 210, A.C. 216, A.C. 306, A.C. 432, A.C. 1053, A.C. 1328, è stata approvata il 6 dicembre 2023 con modifiche rispetto al testo proponente e con il nuovo titolo “Deleghe al Governo in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva nonché di procedere di controllo e di informazione”, è stato trasmesso al Senato della Repubblica (disegno di legge A.S. 957) e il relativo esame non è ancora iniziato). Vero è che il nostro Paese non è obbligato a recepirla perché non sussistono le condizioni che la Direttiva prevede come obbligatorie per l’introduzione della misura (cioè che la contrattazione collettiva copra meno dell’80% dei lavoratori, art. 4, par. 2 e art. 5, par. 1), posto che il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Quadro riepilogativo sul Salario minimo, 12 ottobre 2023 dichiara che quasi il 100% dei lavoratori sono garantiti dalla contrattazione nazionale collettiva di lavoro. Va però osservato che, probabilmente, il report del CNEL omette di considerare il lavoro sommerso, viceversa ben diffuso nel nostro Paese, tanto in campagna quanto in città.
[3] Sotto questo aspetto è emblematico il diritto internazionale, che sconta ancora qualche difficoltà nel poter essere considerato una disciplina giuridica tout court. È noto che quando al di fuori dello Stato viene violata o non rispettata una norma è assai difficile rivolgersi a un giudice affinché ne ripristini l’effettività. Per sanzionare i più efferati crimini contro l’umanità è stato, infatti, necessario istituire tribunali militari internazionali ad hoc(a partire dal Tribunale di Norimberga per arrivare, nel 2002, alla Corte penale internazionale). Al di là dei c.d. crimini di guerra, invece, la violazione del diritto internazionale non è sanzionabile e tale situazione rende difficile riconoscere un “diritto” internazionale, ovvero una disciplina giuridica che prevede meccanismi di controllo e, eventualmente, di sanzione da parte di un’autorità terza, imparziale e indipendente. La circostanza che al di fuori dei confini dello Stato-nazione trovino soddisfazione i diritti inscritti negli ordinamenti nazionali solo con estrema difficoltà, è sintomatica del fatto che l’hard law di diritto interno si scontra con soft law di per sé facilmente derogabili. Su di un piano intermedio mi sembra possa essere collocata la Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale, dopo aver esperito tutti i gradi di giudizio interni, può rivolgersi anche il singolo che ritiene lesa una propria posizione giuridica soggettiva. Com’è noto, tale Corte può condannare lo Stato per il mancato rispetto dei diritti fondamentali purché, però, lo Stato abbia sottoscritto la Convenzione EDU e, con essa, l’impegno a dare esecuzione alle decisioni della relativa Corte.
[4] In questi termini A. Apostoli, La parità di genere nel campo “minato” della rappresentanza politica, in Rivista AIC, 4/2016 e, forse ancor più limpidamente, Id., Rappresentanza paritaria o duale?, in B. Pezzini, A. Lorenzetti (a cura di), 70 anni dopo tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, Torino, 2019, spec. pp. 63-64, la quale sostiene che la logica delle quote ha fatto conquistare un’eguale rappresentanza di facciata, non essendo in grado di superare la logica maschilista che contraddistingue i processi decisionali.
[5] Cfr. A. Apostoli, Per un “femminismo costituzionale”, in G. Azzariti (a cura di), Uguaglianza o differenza di genere? Prospettive a confronto, Napoli, 2022, pp. 53-56.
[6] Si veda sul punto B. Pezzini, Costruzione del genere e Costituzione, in Id. (a cura di), La costruzione del genere. Norme e regole, I, Bergamo, 2012, pp. 25-26.
[7] G. Amato, D. Stasio, Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società, Milano, 2023, p. 168.
[8] A. Mazzola, Il diritto alla salute tra dimensione individuale e dovere sociale, in Consulta OnLine, 2021/II, p. 588.
[9] Ivi, pp. 588-589.
[10] A. Morelli, Il carattere inclusivo dei diritti sociali e i paradossi della solidarietà orizzontale, in Rivista del Gruppo di Pisa, 3/2012, p. 6.
[11] Sul punto si vedano i recenti contributi di M. Ladu, Oltre l’intangibilità dei princìpi fondamentali: la revisione “silenziosa” dell’art. 9 Cost., in Federalismi.it, 1/2023, pp. 39-56 e A. Lauro, Dalla tutela ambientale in Costituzione alla responsabilità politica (anche) verso le future generazioni? Detti e non-detti di un principio di origine giurisprudenziale, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2/2022, pp. 115-134.
[12] Cfr. Tribunale costituzionale federale tedesco, BVerfG, Judgment of the Second Senate of 12 September 2012 – 2 BvR 1390/12.
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