Paolo Ricca, scomparso il 14 agosto scorso, è stato per decenni la voce pubblica del piccolo mondo protestante italiano. Già l’aggettivo, «protestante», è estraneo alla cultura del nostro paese: gli italiani e le italiane credono di sapere chi sia un ebreo, o un islamico, ma un protestante? Contro chi protesta esattamente (la domanda mi è stata effettivamente rivolta da un preside di scuola media superiore)? Mediante migliaia di conferenze, interviste, articoli, Ricca ha permesso a una piccola, ma significativa parte dell’opinione pubblica del Paese di entrare in contatto con questa realtà aliena, un modo di essere cristiane e cristiani altro rispetto a quello storicamente dominante. in Italia Ma chi era quest’uomo e quale è stata la sua storia?
Ricca nasce nel 1936, nelle cosiddette Valli Valdesi, sopra Pinerolo: l’unica area italiana nella quale la presenza protestante è sociologicamente significativa. Il padre è pastore, la madre cristiana evangelica praticante e Paolo, le sue sorelle e suo fratello ricevono una tipica educazione protestante di quel tempo. Il clima familiare è caldo ma, come mi racconterà Paolo, l’espressione degli affetti avviene «sub specie severitatis». Anch’egli sarà sempre una persona sobria, ma esplicita e generosa nell’esprimere i sentimenti. Chi lo ha incontrato ha sempre avuto l’opportunità di un rapporto realmente personale, che il prestigioso interlocutore viveva a fondo e con interesse vero e percepibile.
Dalle Valli il pastore Ricca è trasferito a Firenze, dove le sue figlie e i suoi figli si formano e dove trascorreranno la loro vita, tranne Paolo, che segue le orme paterne. Dopo gli studi di teologia alla Facoltà Valdese di Roma, trascorre un anno negli Stati Uniti. Il grande specialista di Nuovo Testamento Oscar Cullmann, regolarmente invitato alla Facoltà, gli propone di conseguire un dottorato a Basilea. La direzione ecclesiastica permette al brillante virgulto di andarsene per due anni, a patto che lo studio venga affiancato dal lavoro pastorale nelle comunità di lingua italiana di Basilea e di Zurigo. Venticinque anni dopo, qualcosa del genere toccherà a me (solo a Zurigo): in quell’occasione mi sono reso conto che Ricca non era un ricordo in quelle comunità, ma una leggenda. Il dottorato è conseguito con una dissertazione sull’escatologia del IV Evangelo, tema dibattutissimo, allora come oggi, tra gli specialisti.
Il primo incarico pastorale in Italia è nella piccola comunità di Forano Sabino, a una settantina di chilometri da Roma. In questa fase, il giovane pastore è anche incaricato di seguire il Concilio Vaticano II: egli è allora fortemente influenzato da Vittorio Subilia, il professore di dogmatica della Facoltà, molto severo nei confronti del cattolicesimo. La sede successiva è Torino, negli anni Settanta ancora la città della Fiat e delle grandi lotte sindacali, nonché della comunità valdese meno piccola d’Italia, in quanto approdo naturale per chi, dalle Valli, scendeva in città in cerca di lavoro. Gli anni Torinesi fanno di Ricca uno dei giovani pastori più in vista della chiesa. Accade così che nel 1976, quando i due maggiori teologi della Facoltà, Valdo Vinay e Vittorio Subilia, vanno in pensione, Ricca sia chiamato a sostituire il primo, sulla cattedra doppia di storia e teologia pratica (quest’ultima è la disciplina che si concentra sull’«addestramento» della persona candidata al ministero, nei suoi vari compiti).
Come il suo predecessore, Paolo Ricca non è uno storico di formazione. Mentre però Vinay si era messo di impegno ad acquisire i ferri del mestiere (archivistica, diplomatica ecc.), Ricca diviene soprattutto un esegeta di testi, in particolare del XVI secolo. Questa propensione culmina, a partire dagli anni Ottanta, in quello che egli considera l’opus magnum della sua vita, cioè la collana Opere Scelte di Lutero, che egli dirige con grande passione, curando personalmente numerosi volumi. Gli anni Settanta sono ancora dominati, in ambito ecumenico, dall’entusiasmo postconciliare e Ricca diviene il «ministro per l’ecumenismo» della Chiesa valdese, sia in Italia, sia all’estero, dove entra a far parte di Fede e Costituzione, l’importate commissione teologica del Consiglio Ecumenico.
L’attività internazionale è aiutata dall’eccellente conoscenza delle lingue. Nella sua famiglia si è sempre parlato francese, l’inglese è stato consolidato negli USA, ma è in tedesco che Paolo dà il meglio di sé, sfruttando con autentica genialità le grandi possibilità espressive di quella lingua. La sua popolarità in Germania è immensa, così come la sua autorevolezza. Ricca non sarà mai uno specialista nel senso teutonico del termine, piuttosto un «generalista». La sua originalità di pensiero, tuttavia, gli consente assai spesso di stupire l’uditorio. Una sua conferenza sul tema della «diaconia» (il lavoro sociale delle chiese) gli varrà un dottorato ad honorem da parte di un’istituzione specializzata: e posso testimoniare che Paolo non fu mai un esperto di ciò che i tedeschi chiamano «scienza diaconale».
Caratteristica saliente del ministero di quest’uomo era poter essere un giorno a Berlino, in una grande assise internazionale, e il giorno dopo a tenere una conferenza su Lutero a quindici persone in una microscopica comunità evangelica italiana. I suoi itinerari seguivano la sola logica della successione degli inviti: Roma – Parigi – Ancona – Strasburgo, ad esempio.
La conferenza e la predica erano le sue forme favorite di comunicazione. Ma anche le conferenze erano prediche. Il punto di vista di Paolo era sempre quello del testimone dell’evangelo. Senza nulla togliere al rigore dell’esposizione, egli intendeva coinvolgere l’uditorio nel nucleo del tema, che era sempre, in una forma o nell’altra, il nome di Gesù Cristo. Chi scrive l’ha ascoltato centinaia di volte e posso dire, senza esagerazione, di non essermi mai annoiato, nemmeno quando, negli ultimi anni, avrei potuto anticipare la conferenza, comprese le formulazioni icastiche, dopo averne ascoltato le prime battute. Ancora più efficace, se possibile, la sua predicazione nel corso del culto. Oggi si ritiene che una predica protestante (comunque assai più lunga di quella della messa cattolica) non dovrebbe superare i quindici minuti. Credo che Paolo non abbia mai impiegato meno di mezz’ora e, specie nell’età avanzata, arrivava a volte a quaranta – quarantacinque minuti. L’attenzione dell’uditorio, però, si poteva avvertire fisicamente, nella chiesa immersa in un silenzio assoluto, rotto solo dalla sua elocuzione lenta, precisa e a volte virtuosistica, non aliena da ridondanze, perché il concetto doveva essere chiaro.
Una figura del genere occupa molto spazio intellettuale ed emotivo. Per almeno vent’anni, ho professato un personale e alquanto bizzarro dogma protestante dell’infallibilità del prof. Ricca: non credo però che egli abbia «clonato» i suoi allievi: ci ha plasmati, questo sì, profondamente e il legame di amicizia tra alcuni di noi passava attraverso il rapporto con lui e, oggi, attraverso il suo ricordo.
La Chiesa valdese è ora senz’altro più povera, non esiste una figura in grado di «sostituire» Paolo Ricca e anche i tempi e le circostanze sono cambiate. Io penso però che la sua eredità non sia esaurita. Egli ha detto, scritto a fatto più di quanto noi abbiamo potuto finora recepire: in forma assai diversa e non senza acuta nostalgia, il dialogo continua.