Sospensione e decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura: una ricognizione, tra regole e principi.
di Andrea Apollonio
L'11 settembre 2024 è stato per la prima volta applicato ad un componente del Consiglio Superiore della Magistratura l'istituto della sospensione. Invero, gli studi sulla normativa che regola il funzionamento dell'organo di governo autonomo, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, lasciano spesso in ombra la (scarna) disciplina della sospensione e della decadenza, fino a ieri mai azionata. Eppure, l'art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che se ne propone una ricognizione, tra regole e principi, volta a superare per via interpretativa le numerose lacune di una normativa disarmonica, perché mai aggiornata.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo - 3. Sospensione e decadenza - 3.1. La ratio dei due istituti - 3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento» - 3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato - 3.4. Le vicende del procedimento penale - 3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento - 3.6. L’impugnativa della delibera - 4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati? - 5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive.
1. Premessa
Negli studi sulla normativa che regola il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, ed in particolare sulla legge 24 marzo 1958, n. 195, spesso sono superficialmente affrontati gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37: questi, in effetti, non riguardano il funzionamento ma – al contrario – una stasi dell'attività del governo autonomo della magistratura, che si traduce nel congelamento della funzione consiliare (la sospensione), fino ad arrivare alla sostituzione del componente del Consiglio (previa decadenza).
Si tratta di regole che, essendo relative a gravi fatti che fatalmente riverberano sulla funzione consiliare, e quindi a patologie del munus, sono risultate, fino a ieri, inutilizzate: una delibera di sospensione di un consigliere, ai sensi dell'art. 37, è stata per la prima volta emanata dal Consiglio Superiore l'11 settembre 2024.
E d'altro canto, nel recente (ed anche meno recente) passato, nei casi che avessero potuto giustificare l'applicazione dei poteri del plenum di cui all'art. 37 – con l'inserimento della relativa pratica nell'ordine del giorno, firmato come noto dal Presidente della Repubblica nella qualità di presidente dell'organo – si è fatto puntualmente ricorso alle dirette dimissioni dalla carica di consigliere, evitando così il delicato passaggio deliberativo[1].
Per altro verso, a stretto rigore nell'ambito dell'art. 37 non possono collocarsi quelle deliberazioni del plenumsollecitate dalla Commissione "verifica titoli" ai sensi dell'art. 33, che è nominata, nel corso della seduta di insediamento, dal Presidente della Repubblica; ritualmente convocata, quindi, ad inizio consiliatura e prima ancora del formale insediamento dei consiglieri (ad es., per un problema di incompatibilità non dichiarato al momento dell'elezione); ovvero convocata in un qualsiasi altro momento della vita consiliare (ad es. per sopravvenute incompatibilità di un consigliere). Casi in cui, ai sensi dell'art. 9 del Regolamento interno del CSM, si deve provvedere alla sostituzione del consigliere incompatibile.
Per queste ragioni, almeno nel recente (ed anche meno recente) passato, la disciplina in materia di sospensione e decadenza non ha mai operato, relegata in un cono d'ombra, tanto da risultare una delle poche "zone franche" non toccate dalla c.d. "riforma Cartabia", che ha profondamente innovato l'ordinamento giudiziario e la stessa legge n. 195/1958.
Ne consegue l'emersione – improvvisa – di una normativa disarmonica, che presenta molteplici problematiche, anche dettate dal mancato aggiornamento del raccordo con altri settori dell'ordinamento.
Eppure, la disciplina di cui all' art. 37 ricopre una notevole rilevanza sistematica, perché si connette indissolubilmente al necessario prestigio dell'organo di governo autonomo, a sua volta specchio del prestigio dell'ordine giudiziario: ed è in quest'ottica che, anche alla luce della prima delibera di sospensione nella storia consiliare, se ne propone una ricognizione, tra regole e principi.
2. Il prestigio dell'organo di governo autonomo
Con la legge 17 giugno 2022, n. 71, uno dei molti provvedimenti esecutivi della "riforma Cartabia", è stato inserito all'art. 1 della legge sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura un nuovo comma. Il capoverso della norma oggi dispone che «All'interno del Consiglio i componenti svolgono le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità».
Si tratta di un principio non certo innovativo, che tuttavia il legislatore ha inteso sancire per tabulas. Basterebbe invero richiamare una nota sentenza della Corte Costituzionale degli anni Ottanta[2], nella quale si ribadisce che essendo la funzione tipica del Consiglio quella di assicurare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, conseguentemente vanno a determinarsi in capo ai componenti «garanzie dirette a consentire la pienezza dei poteri nell'esercizio delle competenze attribuite in via esclusiva al Consiglio». Il quadro delle guarentigie – ma anche dei connessi doveri – in cui opera la magistratura è – circolarmente – pressoché lo stesso in cui opera il Consiglio Superiore, e questo perché, come si è segnalato in dottrina, «la struttura e la composizione del Consiglio sono funzionali all'esercizio dei poteri e delle competenze previste dall'art. 105, essendo peraltro queste ultime ordinate alla realizzazione dell'autonomia dell'ordine giudiziario ed alla indipendenza del giudice»[3].
Tornando però alla formulazione letterale dell'inciso introdotto dalla "riforma Cartabia", è interessante notare come si richiami da un lato l'indipendenza, guarentigia che la Costituzione attribuisce agli organi giurisdizionali (si guardi all' art. 104: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»), e dall'altro l'imparzialità, che connota tradizionalmente l'agere amministrativo (si guardi all'art. 97: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»). E anche qui pare sollevarsi un'altra grande questione di carattere generale, relativa alla natura "mista" dell'organo.
In questa sede, è sufficiente evidenziare che il Consiglio Superiore è organo di (alta) amministrazione nella misura in cui si determinano «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni» (art. 105), ed è giudice disciplinare laddove emana «provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (ancora ai sensi dell'art. 105); ma al tempo stesso, come è stato ricordato, «il contenuto tendenzialmente amministrativo delle sue funzioni e competenze, anche se intesa questa espressione in senso lato, [è] tale da non escludere incidenze politiche, sul piano dei rapporti tra poteri dello Stato»[4]; e, sul punto, basti pensare alla funzione deliberativa di pareri con riguardo all'amministrazione della giustizia[5].
Come ha di recente autorevolmente sintetizzato il Capo dello Stato, «attraverso l’esercizio trasparente ed efficiente del governo autonomo il Consiglio Superiore deve garantire, nel modo migliore, l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione; e deve assicurare agli uffici giudiziari il miglior livello di professionalità dei magistrati, che svolgono con impegno e dedizione la loro attività anche in condizioni ambientali complesse e talvolta insidiose»[6].
Per questa vasta congerie di delicate funzioni pubbliche, tale da non essere consentita alcuna assimilazione con altri enti collegiali, i consiglieri sono tenuti ad espletare il loro incarico con disciplina ed onore, come ogni cittadino cui sono «affidate funzioni pubbliche», ai sensi dell'art. 54 della Costituzione. Con disciplina e onore, e «in piena indipendenza e imparzialità», perché è dall'attività del singolo consigliere che passa il prestigio dell'istituzione consiliare.
Può certo essere considerata la vicinanza suggerita dalla stessa norma di nuovo conio, con lo status del magistrato che importa diritti e doveri di particolare rilievo ordinamentale, tanto da scavalcare la funzione giudiziaria e proiettarsi nella vita privata; può essere all'uopo richiamato quel principio, dall'ampia portata, che collega a sanzione disciplinare il magistrato che abbia tenuto «in ufficio o fuori, condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'Ordine giudiziario»[7].
Una indicazione, via via ripresa e aggiornata dalla giurisprudenza disciplinare e costituzionale, volta a preservare quel bene primario che è la fiducia che i cittadini ripongono – o dovrebbero riporre – nel sistema-giustizia: bene di pari rango rispetto al diritto-dovere dell'indipendenza da parte del magistrato, e al diritto-dovere dell'indipendenza del consigliere superiore: che si traduce in un più radicato dovere di imparzialità e terzietà laddove il consigliere eserciti la funzione disciplinare.
Una fiducia che, essa soltanto, è in grado di rendere credibile l'istituzione in cui si opera.
3. Sospensione e decadenza
3.1. La ratio dei due istituti
Rispetto a queste direttrici programmatiche, il legislatore del 1958 ha previsto alcune situazioni in cui il prestigio e il decoro dell'istituzione, la sua credibilità intrinseca, sembrerebbero messe a repentaglio dal comportamento del singolo consigliere, individuando al contempo quegli strumenti volti a ripristinare la piena funzionalità dell'organo in condizioni di autorevolezza. Per questa ragione, gli istituti della sospensione e della decadenza, da un lato possono essere assimilati alle sanzioni disciplinari per i magistrati (che presentano perlopiù un indubbio contenuto punitivo rispetto ad una censurabile condotta posta in essere nell'esercizio della funzione, o che sulla funzione si riverbera), e dall'altro sembrano condividere la ratio di un diverso istituto ordinamentale: il trasferimento per incompatibilità, che si applica ai magistrati «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità»[8]: di là di un giudizio di responsabilità personale, la norma presenta un contenuto ripristinatorio della piena funzionalità dell'organo giuridizionale e quindi, in una prospettiva più ampia, del prestigio dell'autorità giudiziaria, che non può essere offuscato da situazioni di sostanziale incompatibilità del magistrato.
È in questa cornice sistematica che possono essere illustrati i due istituti, entrambi contemplati all'art. 37 della legge n. 195/1958: norma che, pur dando attuazione al principio di piena e impregiudicata funzionalità del CSM di cui all'art. 108 Cost., è alquanto scarna.
Per tutti i membri del consesso si prevede infatti una sospensione facoltativa («possono essere sospesi dalla carica») ove «sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo», e una sospensione di diritto «quando contro di essi sia emesso ordine o mandato di cattura ovvero quando ne sia convalidato l'arresto per qualsiasi reato»; per i soli consiglieri togati vale inoltre la sospensione di diritto dalla carica «se sottoposti a procedimento disciplinare».
Si tratta di una chiara previsione cautelativa, laddove il comportamento del consigliere (nell'esercizio o meno delle sue funzioni) abbia consentito – al di fuori dell'ipotesi estrema dell'arresto – l'apertura di un procedimento, penale o disciplinare: si determina infatti, in questo caso, una situazione di sostanziale incompatibilità, tra il componente dell'organo di governo autonomo della magistratura e la magistratura stessa, chiamata a indagare e giudicare il consigliere sottoposto a procedimento penale; incompatibilità ancora più marcata nel caso in cui il magistrato sia sottoposto a procedimento disciplinare, innanzi allo stesso Consiglio Superiore, che giustifica in quest'ultimo caso una sospensione non facoltativa ma obbligatoria.
Può dirsi a questo punto, a meglio considerare il testo di legge, che il prestigio dell'istituzione è messo in pericolo dal deprecabile comportamento del singolo consigliere solo in via mediata, perché in via immediata – e sotto il profilo procedurale – soccorre l'incompatibilità della funzione consiliare rispetto all'esercizio della funzione giurisdizionale (ordinaria o disciplinare) sulla medesima persona, che può minare alla radice la credibilità del CSM rispetto ai suoi compiti e alle sue prerogative.
In questo senso, l'art. 37 sarebbe da leggere come una estensione delle ipotesi di incompatibilità previste all'art. 33: norma che, pur non indicando espressamente quale conseguenza dell'incompatibilità la decadenza, di fatto la determina; questo, anche a riprova della complementarità tra gli artt. 33 e 37.
Venendo quindi alla decadenza, essa deve in ogni caso pronunciarsi ex lege per quei consiglieri «condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo»; anche qui, per i soli consiglieri togati vale la decadenza di diritto dalla carica «se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento».
La legge non specifica se la decadenza (che logicamente può seguire la sospensione) sia ex tunc o ex nunc: ipotesi, quest'ultima, preferibile perché avvalorata dai principi generali dell'ordinamento, secondo i quali si prediligono in via ordinaria gli effetti giuridici ex nunc, riservando quelli ex tunc a casi eccezionali o a gravi patologie di atti o comportamenti, comunque indicati dalla legge.
Sotto l'aspetto procedurale, all' art. 9 del Regolamento interno del CSM si prevede che «nei casi previsti dall'art. 37 della legge 24 marzo 1958, n. 195, il consiglio delibera in ordine alla declaratoria di sospensione o di decadenza sulla base di una relazione del Comitato di presidenza»[9], completando così il secco enunciato della legge del 1958 («La sospensione e la decadenza sono deliberate dal Consiglio Superiore»), ove però si specifica che (soltanto) la sospensione facoltativa «è deliberata a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti». Sono dunque previste, in questo caso, garanzie procedurali forti per il singolo consigliere coinvolto, accentuando così l'importanza di una scelta politica (nel senso di governo dell'organo) in base alla valutazione – in via mediata – di fatti o condotte censurabili realizzate dal consigliere e posti a base di un procedimento (penale o disciplinare) e – in via immediata – della peculiare situazione di incompatibilità che si viene a creare.
Va sottolineato che, oltre quella in commento, l'altra previsione di legge di scrutinio segreto nell'ambito delle deliberazioni consiliari riguarda l'elezione dei componenti della sezione disciplinare: in entrambi i casi, la prassi consiliare che si è fin qui affermata preclude il dibattito, attesa la ristretta composizione dell'organo (che renderebbe palesi le intenzioni di voto) in uno con la delicatezza istituzionale del passaggio deliberativo[10].
In tutti gli altri casi (sospensione e decadenza "di diritto"), in assenza di una previsione di legge, la votazione sarà palese (con facoltà di esprimere le intenzioni di voto), a maggioranza semplice, con la peculiare regola di cui all'art. 5 («Le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti e, in caso di parità, prevale quello del Presidente»). Va tuttavia specificato che trattandosi di un effetto ope legis, la deliberazione rappresenterebbe, in questo caso, una mera presa d'atto – imposta dall'ordinamento – della sussistenza dei presupposti indicati dalla legge del 1958.
3.2. La sospensione facoltativa e il problema del «procedimento»
Si è visto che la sospensione facoltativa si basa sul presupposto oggettivo dell’essere sottoposti a procedimento penale per un delitto non colposo. La legge del 1958 rinviava però ad un modello processuale diverso dall’attuale, puramente accusatorio, e in definitiva a un diverso codice di rito: il codice “Rocco” del 1930, soppiantato dall'attuale nel 1988. È dunque opportuno chiedersi se il «procedimento penale» cui fa riferimento l’art. 37 debba intendersi nel senso in cui oggi si intende il procedimento penale, che formalmente si avvia con la mera iscrizione nel registro delle notizie di reato ai sensi dell’art. 335 cpp.
È indubbio che i due modelli siano profondamente diversi: una diversità palese fin dall’art. 1 del “vecchio” codice di rito, che dovendo individuare il momento di impulso del «procedimento» afferma: «L’azione penale è pubblica e, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza è iniziata d’ufficio a seguito a rapporto, a denuncia o ad altra notizia di reato». L’indagato in quanto tale (così come noi oggi lo intendiamo) non esisteva, trovava posto solo la qualità di imputato (sempre sulla scorta delle attuali categorie processuali), la quale, secondo l’autorevole dottrina del tempo, «si conserva fino al termine del procedimento»[11].
Se dunque nel “vecchio” rito il procedimento era unitario e si distingueva solo per fasi che gradualmenteconducevano al giudizio (l’esclusiva azione del pubblico ministero, l’intervento del giudice istruttore, la valutazione delle prove da parte del tribunale), non può negarsi il chiaro intendimento del legislatore storico di “suonare” un campanello d’allarme (creando i presupposti per la sospensione facoltativa) allorquando l’esercizio anche primigenio della giurisdizione penale riguardi un consigliere del Consiglio Superiore; e per la ragione – di sostanziale incompatibilità – sopra esposta.
È vero che l’azione penale si riferiva all’avvio formale del procedimento (e che la qualifica di indagato era in totoassimilata in quella di imputato): a contrario, potrebbe allora dirsi che per «procedimento» si intenda quella fase che oggi definiamo squisitamente processuale, che si avvia con la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio o l'adozione di provvedimenti d'impulso similari, che fanno dell'indagato un imputato. Ma è altrettanto vero che non si può trasporre il significato di un’azione processuale da un modello all’altro optando per il contenuto semantico più favorevole, a discapito della ratio legis. Il dato di legge rimane chiaro anche dopo l’intervento riformatore del 1988: e si riferisce all’avvio del procedimento, all'inizio delle indagini (il campanello d'allarme), e non alla (attuale) fase processuale avviata con l’esercizio dell’azione penale; atto processuale che d’altronde, nel codice del 1930, aveva un valore radicalmente diverso. Se la legge impone l'adozione di categorie giuridiche settoriali, quali quelle processuali, esse devono necessariamente essere calate nel contesto semantico da cui originano e nel quale si sviluppano; in assenza, s'intende, di qualsiasi interpretazione autentica proveniente dallo stesso legislatore.
Se dunque ai sensi dell’art. 37 si inverano i presupposti oggettivi della sospensione facoltativa allorquando il consigliere sia sottoposto a procedimento penale per un delitto non colposo, a partire quindi dalla formale iscrizione del suo nominativo nel registro delle notizie di reato per una fattispecie dolosa, va svolta un’ulteriore riflessione sulla scorta della regola procedurale, recentemente introdotta dalla “riforma Cartabia”, di cui all’art. 335-bis cpp., con cui si stabilisce che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli in sede civile o amministrativa.
Si potrebbe infatti obiettare che tale fattispecie (essendo lex posterior) abbia tacitamente abrogato tutte le norme che fanno discendere, dalla mera iscrizione, diretti effetti pregiudizievoli nella sfera dei diritti soggettivi. L’ordinamento presenta ipotesi di tal fatta, che ipso jure determinano effetti in malam partem: non è però il caso che ci occupa.
L’art. 37, in punto di sospensione facoltativa, non determina in via diretta un effetto pregiudizievole. L’iscrizione conduce invece all’inverarsi dei presupposti della valutazione del plenum in ordine alla sospensione di un suo componente: crea il presupposto rispetto all’esercizio di un potere assegnato dalla legge al Consiglio Superiore nell’ambito della sua autodichia. L’effetto pregiudizievole, piuttosto, è la delibera del CSM, adottata sulla scorta di una valutazione discrezionale, ma limitatamente discrezionale: così definita per le ragioni che tra poco si rimarcheranno.
Non c’è dunque antinomia tra le due fattispecie: da un lato si ha una norma processuale (l’art. 335-bis) che, condivisibilmente, mira ad espungere ogni automatismo pregiudizievole a seguito dell'iscrizione nel registro degli indagati; dall’altro, una norma ordinamentale che mette nelle condizioni il Consiglio Superiore di svolgere una valutazione in ordine all'opportunità di rimuovere una situazione di incompatibilità tra l'esercizio delle funzioni consiliari e quelle giudiziarie esercitate da un diverso organo.
In questa prospettiva si colloca, peraltro, la relazione del Massimario della Corte di Cassazione sulle modifiche processuali introdotte dalla “riforma Cartabia”, secondo cui «se è vero che l’autorità amministrativa o civile non può valorizzare il solo dato dell’iscrizione nell’adozione dei provvedimenti, non è espressamente impedito l’utilizzo autonomo in sede civile o amministrativa degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione»[12]. È evidente, in altri termini, che l'iscrizione è intesa come possibilità di utilizzo a fini diversi di fatti che, per altre finalità rispetto a quelle giudiziarie, possono essere autonomamente valutati.
3.3. (segue) Un giudizio (limitatamente) vincolato
È bene, a questo punto, e per assegnare continuità all’argomentazione svolta, chiarire la principale tesi di questa indagine, volta a lumeggiare istituti mai approfonditi (forse) perché mai applicati.
Come si è detto, la ratio della sospensione non è tanto quella di sanzionare acriticamente quella condotta che ha determinato la (mera) iscrizione, ma quella di “congelare” una funzione potenzialmente incompatibile in un frangente temporale in cui sono in corso le indagini dell’autorità giudiziaria (o, per il consigliere togato, è in corso un procedimento disciplinare).
La decisione del plenum di deliberare la sospensione facoltativa (dacché quella di diritto dovrebbe come detto rappresentare una mera presa d'atto di un effetto voluto dalla legge del 1958) attiene, a ben vedere, a due aspetti: da un lato, alla verifica della – pur astratta – fondatezza della notizia di reato, alla non pretestuosità della stessa, avanzando una valutazione sul fatto che lo ha determinato: e sempre in una prospettiva sistematica, va ricordato che la stessa “riforma Cartabia” è su altro fronte intervenuta (introducendo il co. 1-bis all’art. 335) nell’ottica di evitare il rischio che si proceda a iscrizioni arbitrarie ed eccessive, esclusivamente formali e generiche di fatti, ma soprattutto di soggetti solo "sospettati" e che dall’iscrizione potrebbero subire un grave nocumento[13]; dall’altro alla conseguente verifica dell' inopportunità della prosecuzione dell’esercizio della funzione consiliare in ragione, appunto, di una situazione di incompatibilità venutasi a creare; lesiva – andrebbe aggiunto – del prestigio dell'organo.
Che sia proprio questa la ratio della sospensione di cui all'art. 37 lo segnala un tenore letterale che non parla di censurabilità o meno della condotta posta in essere dal consigliere, ma si limita ad enunciare il dato formale della sottoposizione a procedimento. La valutazione di censurabilità o meno della condotta, imprescindibile sopratutto laddove questa abbia acquisito rilevanza mediatica (con una refluenza sul prestigio e la credibilità dell’istituzione), sarà in ogni caso insita nella valutazione circa la necessarietà dell’avvio delle indagini nei confronti del consigliere coinvolto: che appunto determina la sostanziale incompatibilità con la funzione consiliare.
Ecco perché la valutazione del plenum può definirsi limitatamente discrezionale: una discrezionalità non così ampia, forse, da risultare atto politico, ma che non può, per altro verso, sostanziarsi in una attività decisionale vincolata, poiché il giudizio verte sul fatto e non sull'atto giuridico che presuppone e legittima la procedura. È necessario ribadirlo: questa valutazione si basa sul fatto presupposto all’iscrizione, non sull’iscrizione medesima; mentre l’art. 335-bis è chiaro nello stabilire che l’iscrizione nel registro degli indagati non può, «da sola», produrre effetti pregiudizievoli.
D'altronde, se il Consiglio disponesse “soltanto” della comunicazione dell’iscrizione di una notizia di reato, non disporrebbe di alcun elemento su cui effettuare una valutazione; l’eventuale delibera sospensiva, adottata “in bianco”, sarebbe evidentemente affetta da un grave vizio logico, in quanto nulla, se non una mera comunicazione, sarebbe alla base della valutazione svolta: un vizio logico ma anche – in un'ottica di sistema – un atto contrario alla legge stessa, che impedisce l'esplicarsi di qualsivoglia effetto a seguito della "mera" iscrizione. Vizi che ben si potrebbero far valere in giudizio (sulle cui problematiche ci si è soffermati innanzi).
Per altro verso, la valutazione su cui deve basarsi il Consiglio può vertere su elementi di fatto (che possono essere a base della notitia criminis, ma possono anche non esserlo) acquisiti in ogni modo, anche aliunde rispetto al procedimento penale, purché al fatto che l'ha generato siano in qualche modo afferenti.
Elementi che, in ogni caso, andrebbero indicati nella relazione del Comitato di presidenza sottoposta alla votazione. Questa relazione (per non incorrere nei vizi logico-giuridici anzidetti) dovrebbe insomma non solo dare atto della mera iscrizione, ma anche esporre, pur succintamente, i dati di fatto su cui il plenum deve compiere la sua valutazione.
3.4. Le vicende del procedimento penale
È ancora l’istituto che “congela” la funzione consiliare a generare problemi applicativi di non poco conto, adesso considerati nella fase successiva alla delibera consiliare di sospensione. Oltre ad un primo problema – che si pone nell’immediato – di carattere squisitamente indennitario-retributivo[14], un secondo problema, di portata più generale, è relativo alle possibili vicende del procedimento penale che è risultato presupposto di applicazione dell’art. 37 e quindi della delibera sospensiva. Pochi dubbi su ciò che consegue ad un procedimento penale aperto e concluso con una sentenza di condanna: la legge in questo caso prevede l’automatica decadenza del consigliere, in ragione, come si è detto, non (più) di una situazione di incompatibilità, ma di una vera e propria censura (intrinseca nel dato di legge) rispetto ad una condotta deprecabile (il fatto di reato) che intacca il prestigio dell’istituzione. Il precedente giudizio, cautelativo, eventualmente formulato laddove si sia adottata una delibera di sospensione facoltativa, viene superato da un effetto di legge che presenta una diversa ratio.
Ci si può più fondatamente interrogare se nei confronti del consigliere coinvolto interviene un proscioglimento (anche in sede di udienza preliminare): una declaratoria di non luogo a procedere o, anche, un’assoluzione.
Anche qui il vuoto legislativo è conclamato. L’art. 37 si disinteressa delle successive fasi del procedimento penale; e a ben vedere anche l’organo consiliare potrebbe disinteressarsi di tali vicende perché, come si è detto, il plenumsi sarà pronunciato sulla base di dati di fatto autonomamente valutati, attraverso un utilizzo autonomo degli elementi indiziari valutati dal pubblico ministero all’atto dell’iscrizione, o di altri elementi (sempre connessi a quel fatto) comunque indicati nella relazione del Comitato di presidenza.
Tuttavia, non può negarsi che, sul piano sostanziale, la chiusura del procedimento (senza che sia intervenuta una condanna) fa venire meno quella situazione di incompatibilità tra l’azione giudiziaria e le funzioni consiliari che legittima l'adozione della delibera consiliare; e può dunque senz’altro legittimare una riedizione del potere di autodichia da parte del plenum. Se così, non si può escludere – e sarebbe anzi coerente con la ratio dell’istituto sospensivo – una nuova valutazione, la quale potrà essere fatta attraverso una nuova relazione del Comitato di presidenza (eventualmente sollecitata da uno o più consiglieri, anche dallo stesso consigliere coinvolto, con allegazione dei dati di fatto su cui si dovrebbe basare la riedizione del potere – es. allegando il decreto di archiviazione o la sentenza di assoluzione) che verosimilmente sottoponga al voto del consesso la revoca della precedente determinazione. La sospensione è infatti, dal punto di vista giuridico, un atto di per sé revocabile, mediante un contrarius actus. Lo può essere, a fortiori, in ragione della sua natura, squisitamente cautelativa.
Sulla scorta dei richiamati principi generali, sarebbe consentita la retrattabilità di tale atto giuridico, sulla base di una nuova valutazione. Si tratterebbe di una revoca ex nunc perché realizzata sulla scorta di nuovi ed ulteriori dati di fatto (e il nuovo dato può essere anche il provvedimento che "chiude" il procedimento) e non, s'intende, di un annullamento in autotutela perché ciò presupporrebbe l’illegittimità dell’atto, del tutto legittimo ove adottato in base alle pur scarne indicazioni di cui all'art. 37.
Le successive vicende del procedimento che ne determinano la chiusura, con provvedimento diverso dalla sentenza di condanna, potrebbero, quindi, fungere da impulso per una nuova ed autonoma deliberazione presa in ossequio, da un lato, al principio di autodichia del Consiglio Superiore, e dall’altro guardando alla peculiare ratiodell’istituto della sospensione.
Quale ultimo spunto procedurale, potrebbe dirsi che, non essendo prevista l’ipotesi della revoca della sospensione, questa delibera dovrebbe seguire le regole generali di funzionamento dell’assemblea e, soprattutto, di deliberazione, quali quelle di cui all’art. 5: il voto, a questo punto, sarebbe palese, e il dibattito reso possibile. Sennonché, la riedizione di un medesimo potere di governo, in forma diversa, si mostrerebbe come una inaccettabile incoerenza di sistema: l'esercizio di tale potere non può che replicarsi nelle stesse forme in cui è stato originariamente esercitato.
3.5. (segue) Lo "strano" caso del patteggiamento
Anche alla luce delle recenti modifiche derivate dalla "riforma Cartabia", appare doveroso interrogarsi, in seconda battuta, se una sentenza di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cpp. determini la decadenza di diritto, al pari di una sentenza di condanna, oppure se si traduce in una vicenda estintiva del procedimento e in quanto tale potenzialmente suscettibile di avviare una nuova, ulteriore valutazione della posizione del consigliere interessato da parte del Consiglio Superiore.
Il legislatore del 2022, al co. 1-bis dell'art. 445, si muove su due diverse piste ermeneutiche. Da un lato, si afferma che «La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile». Si ara una problematica probatoria che, per il vero, non riguarda né la sospensione – adottata sulla scorta di una valutazione di dati di fatto autonomamente considerati, e a fini cautelativi – né tantomeno la decadenza, che guarda alla statuizione e non al suo contenuto.
Più pertinente invece il successivo disposto: «Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna». L'art. 37 non equipara espressamente la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna (perché l'istituto è, come noto, stato elaborato successivamente al 1958), e se così, delle due l'una: o la norma nel prevedere la decadenza dei consiglieri «se sono condannati con sentenza irrevocabile per delitto non colposo» intende riferirsi a qualsivoglia effetto penale di condanna (così implicitamente equiparando la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna), oppure si riferisce in senso stretto alla sentenza penale di condanna, così lasciando fuori dal suo perimetro applicativo quelle sentenze, pur "diverse", che comunque comportano l'effetto penale di condanna.
La prima opzione pare maggiormente condivisibile, poiché è evidente che il legislatore abbia in questo caso voluto rimarcare la censurabilità della condotta, insita in una sentenza di condanna, qualsiasi ne sia la veste – e d'altronde, il legislatore storico avrebbe alquanto faticato ad immaginare un istituto generato e sviluppato dentro un modello processuale radicalmente diverso, di là da venire: squisitamente accusatorio.
Se così, non ci sono ragioni ostative all'applicazione del principio indicato e, per conseguenza, una sentenza di patteggiamento ex art. 444 non potrà ricadere nell'ambito dell'istituto della decadenza disciplinato dall'art. 37 (non produce, questa norma, il suo effetto decadenziale, per espressa previsione di una legge posteriore), «se non sono applicate pene accessorie». Solo in questo caso, infatti, l'equiparazione ad una sentenza penale di condanna sarà preclusa.
Su tale versante chiarisce il significato della legge la Relazione illustrativa alla "riforma Cartabia", che nel senso anzidetto legge la norma di nuovo conio: «ogni qual volta, per effetto della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie [...] vengono meno anche tutti gli altri effetti penali. Per effetti penali si intendono dunque tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una miriade di ipotesi previste dalle leggi speciali»[15]: tra queste, senz'altro rientra l'art. 37 in punto di decadenza.
Ne consegue, indubitabilmente, che se il consigliere nell'ambito del procedimento che funge da presupposto della delibera di sospensione patteggerà una pena che non contempli pene accessorie non potrà aversi l'effetto automatico della decadenza, precluso dal nuovo co. 1-bis dell'art. 444.
Va peraltro specificato che la stessa "riforma Cartabia" agevola a tal punto la possibilità di ricorrere alla definizione del procedimento ex art. 444 consentendo alle parti di chiedere congiuntamente al giudice di non applicare le pene accessorie (art. 444, co. 1), in deroga alle (molte) disposizioni che, sparse nel codice penale e nelle leggi speciali impongono in caso di condanna una pena accessoria. Una considerazione a parte meritano però i reati commessi appunto da pubblici ufficiali, le cui pene accessorie sono governate dal rigoroso disposto di cui all'art. 317-bis[16]: precetto la cui efficacia la "riforma Cartabia" non rimette esclusivamente alle determinazioni delle parti, facendo salvo un ampio margine di valutazione del giudice in ordine all'applicazione delle pene accessorie[17].
L'ipotesi dunque di un patteggiamento che non contempli pene accessorie può considerarsi alquanto frequente; mentre il patteggiamento che le contempli (anche in ragione della disciplina derogatoria di cui al co.1-bis e 1-terdell'art. 444, relativa a specifici reati) sarà considerato alla stregua di una sentenza penale di condanna, ai sensi dell'art. 445, co. 1-bis, ultimo periodo, e come tale – per tornare ai poteri e alle facoltà di autodichia dell'organo consiliare – imporrebbe al plenum l'adozione di una delibera che dichiari la decadenza.
Quel consigliere che sia stato (eventualmente e) precedentemente sospeso e che abbia ottenuto la pronuncia di una sentenza ex art. 444, scevra da pene accessorie, non potrà invece decadere; eppure il procedimento che ha sollecitato la delibera sospensiva si è estinto, non sorreggendo più l'atto consiliare.
Si ricade a questo punto nella già percorsa ipotesi in cui il procedimento si sia estinto in senso maggiormente favorevole all'indagato/imputato, dando la stura ad una diversa valutazione che potrà essere fatta mettendo ai voti una nuova relazione del Comitato di presidenza. Sarebbe in astratto possibile una nuova pronuncia del Consiglio in ordine al mantenimento dell’istituto sospensivo; con una – si immagina – più attenta valutazione dei fatti indicati nella imputazione e nella sentenza, e un focus spostato sulla censurabilità della condotta posta in essere, anziché sulla situazione di incompatibilità venutasi a creare e adesso, con l'estinzione del procedimento, risoltasi.
Ma, si badi: se tale "nuova" delibera fosse adottata in malam partem, e quindi con effetto confermativo della precedente sospensione, potrebbe considerarsi l'ipotesi di essere a questo punto al di fuori del perimetro legale della sospensione (ancora) facoltativa, che pur sempre impone la sussistenza di un procedimento penale, questo estinto con la pronuncia di una sentenza ex art. 444.
E a voler condividere questa tesi, che guarda all'istituto sospensivo come strettamente legato all'esistenza del procedimento penale – simul stabunt, simul cadent – e in quanto tale necessariamente temporaneo, sia in caso di archiviazione o proscioglimento, sia in caso di patteggiamento (senza pene accessorie), dovrebbe procedersi alla revoca della delibera sospensiva per essere venuti meno i presupposti della stessa. Neanche su questo punto la legge fornisce un valido ausilio interpretativo; e da questo vuoto regolamentare emergono conseguenze a tratti paradossali, se è vero che l'istituto della decadenza può attivarsi solo se il patteggiamento contempli nel proprio nomen juris anche la pena accessoria, e qualsiasi essa sia.
3.6. L’impugnativa della delibera
La delibera di sospensione e decadenza adottata ai sensi dell’art. 37, come qualsiasi altro atto del Consiglio Superiore, può essere impugnato innanzi all’autorità giudiziaria.
Una prima e più pressante questione riguarda la giurisdizione, che come noto va individuata in rapporto alla situazione giuridica, di diritto soggettivo o di interesse legittimo, della quale si chiede la tutela.
Si potrebbe adire il giudice amministrativo, affermando che si versa in un’ipotesi di esercizio di poteri autoritativi amministrativi a fronte dei quali sussiste un interesse legittimo, contestando conseguentemente la legittimità del provvedimento e chiedendone l’annullamento.
Va tuttavia sottolineato che le Sezioni Unite, in una pronuncia resa a seguito di regolamento preventivo di giurisdizione[18], hanno affermato che i componenti del CSM acquisiscono «per effetto della scelta compiuta dagli elettori» una posizione soggettiva che si configura come diritto soggettivo perfetto. Con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla vicenda giuridica di tale status. Potrebbe allora dirsi che a seguito della delibera di sospensione si sia implicitamente dichiarato che, almeno temporaneamente e in via cautelativa, non v'è il pre-requisito necessario per mantenere la carica; e al riguardo il Consiglio abbia svolto un’attività di verifica, in punto di fatto. Un’attività di verifica di tale incidenza da riguardare la posizione giuridica stessa del consigliere, tale da non essere idonea a far degradare a interesse legittimo la posizione dell’interessato.
La delibera incide dunque sullo status, previa verifica dei requisiti (che sono di “moralità” – in particolar modo nei casi di decadenza – e di “opportunità”, rispetto alle situazioni di incompatibilità di fatto che si vengono a creare – nei casi di sospensione) di mantenimento della carica. D’altro canto, è pacifico che sia il giudice ordinario ad essere competente delle impugnative delle delibere adottate in sede di verifica dei titoli, come lo è stato allorquando veniva impugnata la delibera che dichiarava la cessazione di un membro togato del Consiglio a seguito del collocamento a riposo per raggiunti limiti di età[19].
La seconda questione riguarda il perimetro del sindacato del giudice ordinario; il quale, a fronte delle valutazioni (limitatamente) discrezionali di cui si è ampiamente detto, che si traducono in una discrezionalità vincolata laddove si tratti di dichiarare la decadenza ovvero l'esistenza dei requisiti della sospensione obbligatoria, deve contenere il giudizio entro i confini dell'accertamento dei presupposti di legalità dell’atto.
Il “contenuto”, e gli effetti stessi della delibera, non sono sindacabili in sede giurisdizionale, poiché non c’è stata alcuna comparazione di diversi interessi e diverse posizioni; né d’altro canto l’iter della decisione è percorribile: la valutazione è compiuta dai singoli consiglieri a scrutinio segreto, senza alcun previo dibattito, sulla base di una relazione del Comitato di presidenza che può essere tanto stringata da limitarsi a individuare i presupposti di cui all’art. 37. In questo senso, può dirsi che la delibera in quanto tale non è corredata da alcuna motivazione.
Per queste ragioni, il giudice ordinario non può esprimere una valutazione di congruità della sospensione; a fortiori, non può stabilire se e come è stato perseguito l’interesse pubblico. Si tratta dunque di svolgere un (mero) controllo di legalità: se la procedura si è svolta secondo le indicazioni di legge, circa la verifica della sussistenza dei presupposti indicati all’art. 37 e dei requisiti di validità della delibera stessa.
4. È giusto distinguere tra consiglieri laici e togati?
Si è visto che l'art. 37 importa, nella sostanza, una distinzione tra membri laici e membri togati, poiché solo i membri togati sono destinatari dell'ipotesi della sospensione obbligatoria se sottoposti a procedimento disciplinare, e della decadenza obbligatoria dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell'ammonimento, determinando per costoro un ampliamento oggettivo – per l'oggettivo approfondimento dell' incompatibilità tra funzione esercitata e organo di appartenenza, chiamato ad esercitare il potere disciplinare – delle ipotesi di sospensione e decadenza. Ampia infatti è la casistica di quelle situazioni che, senza integrare fattispecie di reato, possono condurre ad un procedimento disciplinare: una casistica, peraltro, in esponenziale aumento, a fronte della recente abrogazione dell'abuso d'ufficio, norma residuale del sistema dei reati commessi dai pubblici ufficiali.
Lo scrimine è dettato dalla provenienza "elettiva" del consigliere: da un lato, il consigliere laico eletto dal Parlamento, dall'altro il consigliere togato eletto dal corpo magistratuale. Vale dunque la pena interrogarsi se sia opportuno distinguere, come la norma distingue sul piano dei rimedi volti a ripristinare prestigio e funzionalità dell'organo consiliare, tra le due diverse categorie elettive.
Invero, una distinzione tra "categorie" trova fondamento nello stesso art. 1 della legge del 1958, come modificata nel 2022 dalla "riforma Cartabia", allorché si introduce il concetto di «categoria di appartenenza»[20], che può meglio essere spiegato in base all'art. 4 che regola la composizione della sezione disciplinare, i cui componenti effettivi sono: il vicepresidente del Consiglio Superiore, che presiede la sezione per l'intera durata della consiliatura; un componente eletto dal Parlamento; un magistrato di Corte di cassazione con esercizio delle funzioni di legittimità; due magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso uffici di merito; un magistrato che esercita le funzioni di pubblico ministero presso uffici di merito. Che siano proprio queste le "categorie" indicate lo specifica di seguito l'art. 6: «Il componente che sostituisce il vicepresidente e gli altri componenti effettivi sono sostituiti dai supplenti della medesima categoria. Il componente effettivo eletto dal Parlamento è sostituito dal supplente della stessa categoria».
Quanto invece alla distinzione tra "macro-categorie", e quindi alla distinzione tra appartenenza "laica" e "togata", essa appare più marcata all'art. 5, che dispone sulla validità delle deliberazioni del Consiglio Superiore, per cui «è necessaria la presenza di almeno quattordici magistrati e di almeno sette componenti eletti dal Parlamento».
È sul punto interessante notare che il dato tassonomico della provenienza penetra anche nel quadro dei doveri e dei comportamenti dei componenti del CSM che è stato, da ultimo, ripercorso in una importante delibera consiliare del 20 gennaio 2010, in cui veniva sancito il principio di libera autodeterminazione di ciascun componente del Consiglio, con un accento particolare sulla indipendenza dei consiglieri di nomina parlamentare, ai quali si chiede di non mantenere in vita, anche di fatto, situazioni generatrici di incompatibilità e di attuare una effettiva sospensione delle attività professionali durante la consiliatura.
A questo riguardo si può segnalare che la formula consacrata in Costituzione per l'individuazione della componente "laica" del Consiglio Superiore, le modalità di elezione e la necessità che vi sia ampia convergenza tra le forze politiche, indicano che questa non dovrebbe mai essere espressione di schieramento politico-partitico, ma nell'interesse generale dovrebbe – viceversa – portare nell’organo una sensibilità per l’amministrazione della giustizia, intesa anche come servizio ai cittadini, con la scelta di coloro che, per esperienza accademica e professionale, assicurano il miglior apporto tecnico a questo scopo.
Questo aspetto venne più volte sottolineato in Assemblea Costituente[21]: i "laici" devono essere scelti dal Parlamento non come espressione di una parte politica, ma per la loro qualificata preparazione sui problemi della giustizia da un lato, e dall'altro per la – contestuale – capacità di fornire sufficienti garanzie di indipendenza rispetto al contesto professionale o accademico di provenienza[22].
L'elezione da parte dei magistrati (un corpo elettorale, dunque, "qualificato") della componente "togata" da un lato, l'elezione del Parlamento (un corpo elettorale altrettanto "qualificato"), dall'altro, dovrebbe in definitiva assicurare il medesimo livello di competenze, e racchiudere nello stesso quadro di doveri e responsabilità tutti i consiglieri. Doveri e responsabilità che, in effetti, possono declinarsi diversamente in ragione della "provenienza" e delle "storie" professionali di ciascuno, senza condurre ad un risultato che non sia, per tutti, la tutela dell'autonomia di giudizio e valutazione, quindi del prestigio e della credibilità, dell'organo di governo (appunto, autonomo) della magistratura.
Anche in questo caso, può farsi leva sulla felice sintesi del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura: «I componenti del CSM si distinguono soltanto per la loro “provenienza”. Hanno le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività consiliare e sono chiamati a svolgere il loro mandato senza doversi preoccupare di ricercare consenso per sé o per altri soggetti. Laici e togati interpretano – con doverosa piena indipendenza da ogni vincolo – un ruolo fondamentale nel funzionamento del nostro sistema, sempre seguendo, quindi, il dettato costituzionale»[23].
Venendo alla questione che l'art. 37 solleva, la distinzione tra consiglieri laici e togati, se è vero che trova fondamento nella struttura stessa dell'organo consiliare, non può vedere diversificarsi il perimetro applicativo di sospensione e decadenza, perché, come evidenzia la ricostruzione storico-sistematica svolta, non è di diversa portata il perimetro dei doveri dell'una e dell'altra "categoria". In questo senso, la normativa del 1958 – frutto di una stagione politica che era ancora segnata dall'esperienza di vasto profilo istituzionale dell'Assemblea Costituente, alla quale erano stati chiamati a partecipare, in effetti, cittadini dagli altissimi meriti in ogni campo – dimostra, pur nel quadro di una necessaria distinzione tra consiglieri laici e togati, di non avere adeguatamente considerato, in una prospettiva futura, tutte le possibili situazioni che possono legittimare la sospensione e la decadenza dalla carica di componente del Consiglio Superiore della Magistratura; al punto da far intravedere – oggi – una possibile disparità di trattamento rilevante sul piano dei principi costituzionali e, in ogni caso, auspicare un rapido intervento normativo volto a rendere cogenti le «condizioni di parità»[24], e la parità dei doveri, tra ogni componente del Consiglio Superiore.
5. L'impermeabilità della funzione consiliare: osservazioni conclusive
Il prestigio e il decoro del singolo magistrato, che si riflette sulla credibilità dell'ordine giudiziario nel suo complesso, è un processo osmotico imposto non solo – giuridicamente – dal principio di immedesimazione organica e quindi di imputazione degli atti nell'esercizio della funzione, ma anche – istituzionalmente – dall'indicazione dell'art. 98 della Costituzione, per cui «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione».
I Padri Costituenti, con questa indicazione programmatica intendevano chiaramente riferirsi alla impermeabilità delle decisioni assunte – e comunque delle funzioni esercitate – dai pubblici agenti nell'alveo degli organi che compongono la macchina-Stato: in tutti i gangli della pubblica amministrazione, fino ad arrivare, sensibilmente, agli organi giurisdizionali – che sono caratterizzati da autonomia e indipendenza – e necessariamente all'organo collegiale che attende al buon funzionamento di questa imprescindibile funzione statuale e che, tra l'altro, giudica sul piano disciplinare gli stessi magistrati: il Consiglio Superiore della Magistratura. Anch'esso è, o dovrebbe essere, autonomo e indipendente nelle proprie deliberazioni.
Impermeabilità che si esplica rispetto alle pressioni esterne, d'ogni genere esse siano, a tutela della fiducia che i cittadini devono riporre in coloro che assicurano il buon andamento della giustizia ordinaria nel Paese: perché questa è la più autentica garanzia di genuinità delle decisioni che direttamente influiscono sulla vita delle persone.
Per meglio descrivere il processo osmotico magistratura/governo autonomo della magistratura, cui si è fatto riferimento nel corso dell'indagine, può, anche in questo caso, soccorrere l'autorevole sintesi del Capo dello Stato: «il CSM è chiamato all’impegno di contribuire ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni sempre assunte con senso delle istituzioni»[25].
Il magistrato agisce «con senso delle istituzioni» quando applica la legge e obbedisce soltanto alla legge, come afferma la Costituzione; questo vuol dire che il magistrato deve saper "disobbedire" ad altri poteri e ad altri comandi che non siano quelli del legislatore. Il Costituente, per altro verso, non ha espressamente sottoposto "soltanto" alla legge anche l'attività del Consiglio Superiore e dei suoi componenti: è nella sua essenza un'attività di alta amministrazione, che beninteso risponde al principio di legalità come – e più di – qualsiasi altra azione amministrativa.
Ma va da sé che l'organo che governa la magistratura non può a sua volta consentire permeabilità e contaminazione dall'esterno, nelle funzioni consiliari e, tra queste in particolar modo, nella funzione para-giudiziaria di giudice disciplinare, ove i doveri assumono una intensità ancora maggiore.
In definitiva, anche le decisioni del Consiglio Superiore, nel suo complesso, devono essere «sempre assunte con senso delle istituzioni».
In caso contrario, ad essere compromesso è il prestigio e l'autorevolezza dell'organo, cui guardano gli istituti della sospensione e della decadenza, sommariamente disciplinati dall'art. 37; e che per tale sommaria disciplina, come si è illustrato nell'indagine svolta, trascinano con sé molteplici problemi applicativi; di cui, in via interpretativa, si è tentato di fornire possibili soluzioni.
Per questo, anche considerando lo scenario in cui già da alcuni anni ci si muove, si potrebbe immaginare di mettere mano ai due istituti elaborati dal legislatore del 1958: che mai, questi scenari, avrebbe potuto immaginare.
[1] Un precedente consiliare – anche piuttosto noto – di votazione di una delibera di sospensione facoltativa ex art. 37 risale al 3 febbraio 1983: sei componenti del Consiglio avevano comunicato di essere indagati dalla Procura di Roma per opinioni espresse nell'ambito di un dibattito consiliare relativo ad una procedura di nomina, a seguito della denuncia del magistrato interessato. In quell'occasione il plenum deliberava all'unanimità, senza la partecipazione al voto degli interessati, la non sospensione, in quanto si era di fronte a fatti relativi a comportamenti espressione del libero convincimento personale formato in ampia e articolata discussione nel plenum. La vicenda è ben illustrata da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell'Italia repubblicana, Roma-Bari, 2019, p. 137 ss.
[2] Corte Cost., 3 giugno 1983, n. 148.
[3] F. Bonifacio, G. Giacobbe, La Magistratura. Tomo II - Art. 104-107, in AA.VV., Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1986, p. 118.
[4] G. Volpe, Ordinamento giudiziario (voce), in Enc. dir., XXX, 1980, p. 851.
[5] Così recita l'art. 10 della legge n. 195/1958: «Può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie».
[6] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia di commiato dei componenti il CSM uscenti, Palazzo del Quirinale, 24 gennaio 2023, in quirinale.it.
[7] Art. 18 del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[8] Art. 2, co. 2, del r.d.lp. 31 maggio 1946, n. 511.
[9] Va specificato che il Regolamento interno del CSM, che prevede tale disposizione, è stato approvato il 26 settembre 2016. Nel precedente del 1982 richiamato, la non sospensione dei consiglieri indagati è avvenuta, alla presenza del Presidente, mediante l'approvazione all’unanimità un "documento" con il quale, preso atto che «il procedimento attiene a comportamenti che sono comunque espressione di convincimento liberamente formatosi all' interno del Consiglio in ampio ed articolato dibattito sui necessari elementi di giudizio», il CSM delibera di non sospendere i sei consiglieri (cfr. verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[10] È tuttavia ben legittima la facoltà di contraddittorio, nello stesso plenum chiamato a deliberare la sospensione, da parte del consigliere coinvolto. Sul punto, ancora in chiave storica, appaiono illuminanti le parole pronunciate nella già percorsa seduta del plenum del 3 febbraio 1983 di Salvatore Senese, membro togato indagato e potenzialmente soggetto alla sospensione facoltativa: «Non troverei nulla di men che legittimo nel fatto che, in vista di una delibera che può incidere sullo status dei consiglieri, questi esponga previamente il proprio punto di vista, la propria "verità", direi. Il contraddittorio – è noto – costituisce regola elementare di ogni procedimento che può incidere su situazioni soggettive tutelate dalla legge, pubbliche o private che siano tali situazioni. Nella ipotesi, poi, d'imputazione elevata nei confronti di un membro di quest'assemblea un doveroso riguardo verso i colleghi ed il consiglio tutto suggerirebbe, in astratto, che l'interessato dia delle spiegazioni ai suoi colleghi, a coloro che lo hanno eletto, al Paese»(cfr., ancora, verbale della seduta del 3 febbraio 1983 del Consiglio Superiore della Magistratura, rinvenibile in csm.it).
[11] A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, Napoli, 1938, p. 74.
[12] In questi termini si esprime la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione sulla "Riforma Cartabia", rinvenibile in sistemapenale.it, 10 gennaio 2023, p. 66.
[13] È ancora la relazione n. 2 /2023 del 5 gennaio 2023 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, cit., p. 60.
[14] Va ricordato che ai componenti del CSM spetta un assegno mensile ai sensi dell’art. 40 della legge del 1958. Si tratta di un assegno legato alla carica, e non invece all’esercizio concreto della funzione, a cui invece sono legate le indennità, quali le indennità di seduta, quelle di missione ecc., almeno in parte disciplinate sempre all’art. 40. Ed è bene precisare che il consigliere, pur a seguito di sospensione, rimane in carica: ciò significa che costui continua ad essere componente del Consiglio Superiore, con relativa facoltà di accesso alla sede e ai propri uffici; quanto invece alla facoltà di disporre della propria segreteria e dei propri collaboratori, è verosimile ipotizzare un "congelamento" di tutte le collaborazioni esterne al Consiglio e una diversa destinazione delle risorse interne al Consiglio originariamente assegnate al consigliere, poi sospeso: sarebbe infatti una inutile spesa (che potrebbe anche avere riflessi contabili) quella relativa all'infruttuoso mantenimento di un apparato di segreteria, che è per sua natura volto a supportare il concreto esercizio della funzione consiliare. Difatti, è precluso, in concreto, l'esercizio delle funzioni consiliari, non potendo per l’effetto il consigliere partecipare alle sedute delle commissioni e del plenum. Se così, l’assegno mensile – legato alla carica – dovrebbe essere comunque dovuto, e nella sua interezza: in particolare laddove il consigliere non abbia un proprio trattamento stipendiale “trascinato” nel quadro del trattamento economico predisposto dal Consiglio Superiore (se, ad es., provenga dalla professione forense, necessariamente interrotta in ragione del mandato consiliare).
[15] Relazione illustrativa aggiornata al testo definitivo del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 pubblicata in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 - Suppl. Straordinario n. 5), in sistemapenale.it, 20 ottobre 2022, p. 130.
[16] «La condanna per i reati di cui agli articoli 314, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter(1), 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici(2) e l'incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Nondimeno, se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni o se ricorre la circostanza attenuante prevista dall'articolo 323 bis, primo comma, la condanna importa l'interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a cinque anni né superiore a sette anni».
[17] L'art. 444, co. 1-bis afferma infatti che «L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis»; disposizione, questa, che prevede: «Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis del codice penale, la parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia all'esenzione dalle pene accessorie previste dall'articolo 317 bis del codice penale ovvero all'estensione degli effetti della sospensione condizionale anche a tali pene accessorie. In questi casi il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale non possa essere concessa, rigetta la richiesta».
[18] Così ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 6 aprile 2012 n. 5574.
[19] Cfr. Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sentenza del 13 novembre 2020 n. 11814.
[20] A seguito della riforma l'art. 1 della legge del 1958 contempla il principio per cui «I magistrati eletti si distinguono tra loro solo per categoria di appartenenza».
[21] Si veda sul punto l'interessante ricostruzione di F. Biondi, Il C.S.M.: le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione, in giustiziainsieme.it, 17 luglio 2021.
[22] Va per altro verso segnalato che un vasto dibattito si accese sull'opportunità stessa di inserire gli avvocati nel Consiglio Superiore. Veniva sollevato il problema dell'indipendenza, onde «evitare il rischio che la semplice cancellazione dall'albo per la durata della carica di componente del Consiglio Superiore non sia garanzia sufficiente, quale abbiamo diritto di stabilire e di attendere, di indipendenza dei componenti del Consiglio che provengono dall'avvocatura»: e a segnalarlo era proprio un avvocato, Giuseppe Perrone Capano, nella seduta dell'Assemblea del 25 novembre 1947; nella stessa seduta il professore universitario Orazio Condorelli aggiungeva: «Non penso soltanto alla possibilità che gli avvocati continuino ad esercitare la professione, pur non essendo cancellati dall'albo, attraverso sostituti od amici, ma penso anche alla categoria di persone che potrebbero trovarsi nella situazione di eleggibili».
[23] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, Roma, 16 aprile 2024, in quirinale.it.
[24] Si fa riferimento all'art. 10 del Regolamento interno del CSM. «I componenti partecipano ai lavori e alle deliberazioni del Consiglio e delle Commissioni in condizioni di parità».
[25] È ancora richiamato l'intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia di intitolazione del Palazzo sede del C.S.M. alla memoria di Vittorio Bachelet, cit.
Contributo sottoposto a referaggio anonimo.