ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Non è semplice racchiudere in un piccolo spazio le considerazioni, numerose e complesse, maturate in una esperienza così intensa quale una intera consiliatura. Provo a farlo per mettere a disposizione alcune riflessioni che possano arricchire un dibattito, interno ed esterno alla magistratura, troppo spesso caratterizzato da semplificazioni e dalla proposta di soluzioni salvifiche che in concreto sono di ardua e poco convincente realizzazione.
Muovo dalla piena consapevolezza dei problemi legati al correntismo ed alle degenerazioni che tanto affliggono il sistema del governo autonomo. Non li posso negare e li devo dare purtroppo per presupposti. Le degenerazioni vanno denunciate come un male da combattere tutti i giorni ed in ogni sede, evidenziando storture, deviazioni, debolezze, prevaricazioni. Seguendo in modo attento i lavori consiliari, pretendendo la spiegazione delle scelte operate e sottolineando le contraddizioni. Ma anche operando sul territorio, non solo a livello di consiglio giudiziario o di controllo associativo, ma soprattutto negli uffici, sia ad opera dei dirigenti che dei magistrati tutti.
Dunque innanzitutto controllo diffuso, pretesa di trasparenza e motivazioni chiare di provvedimenti, spiegazioni costanti.
Poi, in via assolutamente prioritaria, un impegno dell’intero sistema ad operare per valutazioni di professionalità effettive e utili alle comparazioni, non burocratiche, non meramente elogiative, ma capaci di far emergere i diversi profili. Un enorme problema della magistratura, mai risolto, forse difficilmente risolvibile, che chiama in causa la capacità dell’intero circuito del governo autonomo, e dunque dei magistrati, di operare giudizi “su stessi”, puntuali, differenziati, genuini. Il sistema attuale è chiaramente incapace di operare in questo senso, e si è rivelato inadatto nella sua concreta attuazione. Per ragioni tecniche? Di sistema? Correntizio? Più in generale per ragioni corporative? E’ la risoluzione di questi interrogativi che può far compiere decisivi passi avanti. Un nuovo sistema, all’interno del governo autonomo, che sia però compatibile con i principi di autonomia ed indipendenza e con la necessità di garantire qualità alla giurisdizione, efficienza ed efficacia all’utenza.
L’effettività delle valutazioni di professionalità è il primo strumento per spiazzare il criterio dell’appartenenza nelle nomine. Per esigere scelte effettive, motivazioni chiare, trasparenza nei percorsi decisionali, occorre mettere a disposizione del Consiglio profili professionali specifici e differenziati, facilmente leggibili, su cui poter innestare un giudizio comparativo “evidente”. Direi che chi oggi vuole cambiare il TU sulla Dirigenza, deve farlo senza iniziare toccando quel testo, ma lavorando in quarta commissione ed aprendo un serio dibattito sulle valutazioni di professionalità, capace anche di superare lo “zero virgola” o poco più che caratterizza le statistiche delle valutazioni non positive /negative, percentuale chiaramente incapace di raffigurare la reale situazione della magistratura come in concreto si manifesta nelle aule di giustizia e viene percepita dall’utenza. Dunque prima le valutazioni di professionalità, l’ampliamento delle fonti di conoscenza, un sistema meno burocratico che sappia misurare quantità e qualità senza il tourbillon dei provvedimenti a campioni, la effettiva verifica della tenuta dei provenienti giudiziari nei controlli giurisdizionali successivi, un ripensamento del contenuto obbligatorio del rapporto del dirigente dell’ufficio; prima la modifica della disciplina della conferma, con l’aumento delle informazioni utilizzabili e dei dati acquisiti dai magistrati dell’ufficio; poi, solo poi, una nuova riflessione sul Testo unico sulla dirigenza, la cui modifica altrimenti rischia di ingenerare solo nuove illusorie attese. Prima un occhio vigile e critico sul funzionamento dei consigli giudiziari, organi di prossimità ben capaci di esigere una piena corrispondenza fra realtà e sua rappresentazione nei pareri. Insomma prima la pretesa di un esercizio responsabile e non corporativo delle valutazione di professionalità da parte dei dirigenti, poi, solo poi, la possibilità di smascherare in concreto l’utilizzo e l’abuso del criterio dell’appartenenza nelle nomine; solo allora sarà davvero possibile e persino semplice operare serie e dettagliate critiche, non solo per i magistrati di base, ma per le stesse correnti che intendessero farsene portatori, perché facilmente sostenibili su basi documentali chiare e differenziate. In mancanza sarà invece facile, per chi intende praticare logiche di appartenenza, continuare su una strada così autolesionista per la magistratura senza dover pagare dazio all’evidenza di forzature e scorciatoie. Difficile, per chi vuole sottrarsi a questo metodo, farlo senza poter utilmente reggere un dibattito pubblico che sarà sempre drogato da motivazioni buone per ogni soluzione. Con la continua necessità di individuare la giusta opzione fra il doversi sottrarre ad un sistema di nomine così complesso (come chi sistematicamente sceglie la comoda posizione dell’astensione), ovvero operare per la riduzione del danno, finalizzata a dare agli uffici le migliori nomine possibili, in un dialogo faticoso, non sempre contenuto nelle fisiologia delle diverse sensibilità culturali, con tutte le componenti consiliari.
Questo, quello delle valutazioni di professionalità, il primo vero obiettivo su cui lavorare.
Un altro fondamentale settore è quello della sdrammatizzazione delle nomine dei dirigenti, pur così importanti per il funzionamento del sistema. Essa passa innanzitutto per un recupero complessivo della dignità e della capacità di attrazione del lavoro del giudice (e del pm). La corsa alla carriera si è accentuata di pari passo col venir meno della appetibilità del lavoro giudiziario, non tanto, o forse non solo, per ragioni ideali, quanto per ragioni concrete legate alla demotivazione conseguente ad un lavoro di cui non si riesce a percepire più come un tempo la capacità di fornire risposte alle esigenze di giustizia dei cittadini. Il progressivo diminuire delle risorse, le farraginose procedure, i tempi infiniti dei processi, il numero spropositato di prescrizioni, qualificano come sostanzialmente inutile il lavoro del magistrato, che si accorge che gran parte del suo sforzo non produce alcuna riposta efficace. Da qui pulsioni centrifughe, fuori della giurisdizione verso gli incarichi fuori ruolo o l’impegno extragiudiziario (come quello nella magistratura tributaria), e pulsioni centripete, verso gli incarichi dirigenziali, ritenuti i soli capaci di far recuperare la “dignità della funzione” e comunque forieri di maggiori soddisfazioni professionali.
A tali considerazione occorre aggiungere la necessità di recuperare il senso dell’incarico dirigenziale come servizio e non come premio alla carriera. Qui va stimolata una complessiva maturazione della magistratura, che fatica ad introitare gli esiti della riforma del 2006 e non ha facilità nel superare l’ancoraggio all’anzianità come criterio selettivo tranquillizzante. Non siamo ancora disposti ad accettare con serenità che, se un magistrato che ha dieci anni di anzianità meno di un altro ma ha una professionalità di rilievo nell'organizzazione, merita di fare il dirigente e può spiegare al collega più anziano come va organizzato il lavoro per renderlo funzionale al risultato finale, che è l'interesse dell'utenza al servizio complessivo. Non abbiamo ancora compreso appieno la sfida dell’organizzazione, la sua complessità culturale, che richiede attitudini e capacità che non possono misurarsi prevalentemente solo col numero di anni trascorsi in giurisdizione. Abbiamo le regole che lo dicono chiaramente, ma quando le attuiamo, continuiamo a vederci troppo spesso uno “scavalcamento” – proprio questo il termine comunemente utilizzato – inaccettabile. Un’idea, questa del recupero dell’anzianità, addirittura tramite punteggi, fuori tempo e fuori della realtà, non solo giudiziaria. Per non parlare dell’eccessivo allarme per alcune esperienze fuori ruolo che, se ben calibrate con l’esperienza giurisdizionale, possono essere un ritorno formidabile per il singolo e per l’ufficio nel complesso. Occorre opporsi fortemente alle carriere parallele, che sono cosa diversa e deleteria per l’intero sistema, ma avere la capacità di valorizzare esperienze ed attitudini anche quando in parte maturate in incarichi fuori ruolo attinenti all’organizzazione della giurisdizione.
Infine occorre accettate l’idea che sia il CSM (!), nell’esercizio della sua discrezionalità, a decidere chi è il più adatto a ricoprire quel ruolo, e dunque accettare l’idea che in quel consesso debba formarsi una maggioranza capace di investire su quella persona per quell’incarico. Affermazione che può essere oggetto di una interpretazione semplicistica e negativa (appunto il rifugiarsi nell’appartenenza ed il praticare la logica dello scambio), oppure capace di far riflettere sul valore delle idealità e del confronto fra diverse sensibilità nella lettura e valutazione dei profili professionali. Il ché rimanda anche al valore della dirigenza ed alla importanza e delicatezza dell’attività in quinta commissione (e in terza) quando si rinnova la classe dirigente degli uffici. Si tratta, quella della Dirigenza, di un anello della catena dell’autogoverno che oggi rappresenta il fulcro del sistema, tanto nel settore requirente quanto nel settore giudicante, proprio in conseguenza della riforma del 2006. Il legislatore del nuovo ordinamento giudiziario ha “investito” in misura rilevante sulla Dirigenza degli uffici per ottenere qualità ed efficienza; ne ha conseguentemente aumentato i poteri, introducendo una gerarchizzazione marcata, piuttosto evidente nelle Procure, ma sensibile anche negli uffici giudicanti. E’ fisiologico ci sia, in Consiglio, chi preferisca un dirigente che segue un modello caratterizzato da partecipazione, cultura della giurisdizione e della prova, efficienza e qualità delle decisioni, coinvolgimento dei magistrati nelle scelte decisionali organizzative, e chi un modello che privilegia una efficienza più aziendalista ed una più evidente gerarchia interna. Chi un maggiore rigore valutativo del lavoro del magistrato e chi una più diffusa accettazione di un metodo inclusivo e meno selettivo. Se pensiamo ai poteri del Procuratore della Repubblica, a come i dirigenti esercitano il potere valutativo nelle valutazioni di professionalità, a quanto sano diversi gli approcci al tema dell’organizzazione, ci rendiamo conto che avere un dirigente, piuttosto che un altro, pur fra magistrati di pari livello attitudinale e di merito, significa delineare diversi modelli di giurisdizione in un dato territorio. Con esiti assai diversi per l’utenza e perfino per l’interpretazione (si pensi al ruolo di un presidente di sezione).
Da qui la faticosa opera di dialogo e confronto fra tutte le componenti, non ultime quelle laiche, che portano sensibilità assai diverse da quelle interne e che possono giocare un ruolo decisivo. Un dialogo che se attuato con la esclusiva lente dell’appartenenza determina esiti nefasti per la singola nomina e per l’intero sistema, e se invece attuato per la ricerca della migliore soluzione possibile, nel confronto fra le diverse componenti, diventa l’ineludibile strumento di un buon governo. Tanto per i togati quanto per i laici, il cui operato troppo spesso viene ignorato nel dibattito sul buon funzionamento dell’organo, e che invece sono essi stessi capaci di indirizzare il confronto o positivamente, attraverso un fisiologico apporto di conoscenze, oppure negativamente, attraverso il sostegno a candidati sulla base di fattori esogeni e imperscrutabili.
La complessità dell’organo ne costituisce la forza e la capacità di tenuta, nei diversi tempi in cui l’istituzione è chiamata a governare la magistratura. Un’istituzione di cui nel dibattito interno si valuta solo l’attività che in qualche modo incide all’interno della categoria, in una accezione assai restrittiva del suo ruolo e della funzione, certamente individuata dall’art. 105 Cost., ma che la legge istitutiva e la prassi costituzionale hanno assai ampliato, facendone un organo capace di dialogare con le maggiori istituzioni del Paese sui temi della giustizia (Presidente della Repubblica, Ministro della Giustizia, Parlamento, istituzioni europee ed internazionali), e dunque portatore di una anomala ma autorevole rappresentanza esterna della magistratura, nonché portatore di un potere di indirizzo e promozione che ne fa il vertice organizzativo degli uffici giudiziari.
Da questa premessa derivano alcune considerazioni.
La prima è legata alla funzione rappresentativa della componente togata. Funzione disciplinata dalla Costituzione che esige la “elezione” dei togati e, di conseguenza, un sistema democratico di rappresentanza all’interno dell’organo. Ne consegue il rilievo dei gruppi associativi quali soggetti portatori di un programma, di un progetto per il governo autonomo, di idee e di sensibilità presentate all’elettorato per agganciare la rappresentanza al consenso interno alla magistratura, secondo un criterio democratico irrinunciabile. In altre sedi ed in maniera più diffusa si è risposto a chi sostiene il sorteggio come strumento di selezione della rappresentanza. Vorrei solo ricordare che il sorteggio individua “singoli” senza alcun aggancio ad idee e pregressi percorsi professionali e associativi. “Singoli” di cui non si sa nulla e nemmeno se siano buoni magistrati. E, seppure lo fossero, deve essere chiaro che essere bravi magistrati, o eccellenti in alcuni casi, non basta per fare bene il consigliere superiore. La considererei una condizione importante (vorrei dire necessaria) ma assolutamente non sufficiente. Ed anche il sorteggio temperato, con una preselezione a cui far seguire le elezioni, si rivela uno strumento in parte inidoneo a raggiungere il preventivato scopo (i sorteggiati sarebbero o già legati ai gruppi associativi o fisiologicamente portati a farlo prima dell’elezione), in parte certamente capace di affidare al caso la scelta e dunque non necessariamente con esiti di qualità (ove si parta dal presupposto che dire che tutti sono in grado di svolgere la funzione perché del resto si tratta di magistrati chiamati quotidianamente ad esercitare la giurisdizione ed applicare la legge, è davvero una considerazione del tutto semplicistica e riduttiva del ruolo e della funzione del Consiglio e dei singoli consiglieri). Dunque sicuramente no al sorteggio, e si ad una nuova legge elettorale. Sicuramente si ai gruppi per le ragioni sopra esposte e perché la rappresentanza esige responsabilità. Ed i gruppi associativi, in quanto costantemente rivolti all’elettorato per la verifica dl consenso conseguente all’operato dei vari rappresentanti, garantiscano che componenti eletti e non rieleggibili siano ancorati ad una responsabilità “politica” di cui gli stessi consiglieri sentono costantemente il bisogno. Ed è corretto che la proiezione di questi rappresentanti sia la costituzione di gruppi consiliari che consentono in maniera trasparente di portare avanti il programma sottoposto agli elettori e di contribuire al buon funzionamento dell’organo ed alla composizione equilibrata delle commissioni (in teoria capace di riprodurre in proiezione la composizione del plenum).
Seguendo questa linea, voglio però completare la riflessione sul rapporto fra consiglieri e gruppi associativi di riferimento, rapporto del quale ho sottolineato la natura virtuosa e gli effetti positivi, nella misura in cui l’appartenenza non diventi il criterio guida nelle nomine. Il legame al gruppo consente un ancoraggio al programma ed alle idee condivise con gli elettori, e la costante verifica, nel dibattito che ne segue, dell’adeguatezza dell’azione consiliare rispetto alle attese dei magistrati.
Ma … ciò che spesso sfugge nel dibattito interno è che la dimensione principale e prioritaria del consigliere resta quella “istituzionale”, che richiama innanzitutto a scelte effettuate secondo scienza e coscienza per il buon funzionamento del sistema giudiziario. Spesso si assiste a considerazioni che richiamano valutazioni di opportunità o di strategia che stridono con la necessità di confrontarsi innanzitutto con il quadro normativo ed ordinamentale e, in secondo luogo, con scelte compiute esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione. Che, in alcuni casi, in concreto, potranno significativamente discostarsi dal programma iniziale sottoposto agli elettori o dai contenuti discussi nel gruppo associativo. Sarà utile spiegare le ragioni, rappresentare la natura della scelta eventualmente dissonante con il programma elettorale. Il consigliere opera avendo sempre chiaro di essere il rappresentante di tutta la magistratura e non solo di quella che lo ha sostenuto dal punto di vista elettorale e della acquisizione del consenso. Insomma si è prima componente dell’istituzione, poi rappresentante di tutti i magistrati, infine magistrato legato ad un gruppo associativo ed al suo programma ideale di contenuto e valori. Questi, i contenuti ed i valori di riferimento orienteranno fisiologicamente le scelte e le decisioni, conformando naturalmente l’agire del consigliere ed il suo operato complessivo, ma le “attese” del gruppo associativo di riferimento o di singoli elettori non potranno influenzarne l’agire istituzionale. E’ dalla consapevolezza di questa poliedrica accezione che si ricava la traccia per un corretto compimento del mandato consiliare. Durante il quale ti soccorreranno due irrinunciabili guide: la tua esperienza professionale nella giurisdizione pregressa ed il contatto che con essa saprai mantenere, e un forte dimensione deontologica a cui legare l’esercizio della funzione e della responsabilità, da una postazione in cui ti accorgi di esercitare un enorme potere.
Fra mille cose, una riflessione ulteriore vorrei riservarla, poi, al funzionamento della sezione disciplinare.
Non mi sfugge quanta prudenza occorra per trattare questa materia e quanto delicato sia il tema delle incompatibilità fra l’attività di amministrazione e quella giurisdizionale interna al Consiglio. Assai problematica per molteplici aspetti e difficile da affrontare in una prospettiva di riforma per l’impossibilità di controllare gli esiti di una discussione pubblica che facilmente scivolerebbe verso derive pericolose. Né voglio assecondare la suggestione, periodicamente riproposta, per cui “chi nomina non giudichi e chi giudica non nomini”. Ma è chiaro a tutti che la sezione disciplinare accrescerebbe ulteriormente la sua autorevolezza e apparenza di imparzialità se la funzione giurisdizionale interna al Consiglio, con le stesse caratteristiche di composizione e di eleggibilità, fosse separata dalla diversa e complessa funzione amministrativa. Ma non è tempo per parlare di riforme in questo settore. Piccole cose però si possono fare. Una, con un piccolo sforzo organizzativo interno, può essere quella di evitare che almeno i componenti titolari della sezione disciplinare compongano la prima commissione. Evitare che il giudice, per le inevitabili sovrapposizioni di alcune vicende fra profili disciplinari e paradisciplinari che di fatto si realizzano in prima commissione, sia stato partecipe delle attività di commissione, abbia svolto attività istruttoria, sia stato relatore di pratiche i cui fatti poi si trova a giudicare in disciplinare. Una minima soluzione, forse solo estetica, che però può rappresentare un segnale di attenzione per i magistrati incolpati.
Inoltre è utile e necessario prestare la massima attenzione all’organizzazione tabellare della sezione, alla gestione dei carichi di lavoro, alla ricorrenza degli impedimenti dei giudici ed alle conseguenti sostituzioni, alla predeterminazione dei collegi, alla gestione dei rinvii fuori udienza, alla effettiva partecipazione del Vice presidente alle udienze ed alla generale attività di direzione della sezione. Occorrono provvedimenti organizzativi che il Vice Presidente deve assumere, quale Presidente della Sezione disciplinare, e che, a mente del nuovo Regolamento, deve portare in plenum per la presa d’atto.
Più in generale, poi, mi pare giunto il tempo per una riflessione sulle regole che caratterizzano il processo disciplinare e sulle garanzie per l’incolpato.
Ma di questo e altro non è possibile trattare in questa sede, di confusi e sparsi pensieri di un ex Consigliere.
Antonello Ardituro
Riflettere sulla giustizia e sulla verità significa scontrarsi con la loro naturale ineffabilità, ma esse tuttavia rappresentano quanto di più afferente alla vicenda umana.
Da questa consapevolezza si sviluppa il contributo di Enrico Opocher: giustizia e verità devono essere riferite all’esperienza concreta, all’azione nel suo dinamico e concreto manifestarsi.
In tal senso devono essere considerate come valori.
In questa prospettiva il processo è il luogo in cui la verità, processualisticamente intesa come conformità all’ordine degli accadimenti, esalta la dimensione umana, scevra da dogmatismi e calata nel fermento della società civile. L’uomo e le sue vicende sono quindi l’humus dell’esperienza giuridica e della giustizia.
L’esaltazione della dimensione umana è il baricentro nonché il fil rouge che lega in una prospettiva comparativistica le riflessioni di Paul Ricoeur e John Rawls a quella di Enrico Opocher, con risultati eterogenei e di notevole vigore speculativo.
1. La verità processuale e l’indefettibile imperfezione della giustizia. - 2 La crisi del diritto come crisi della verità: un ripensamento della giustizia in chiave valoriale. - 3. L’idea di Giustizia come elemento comune nelle speculazioni di Enrico Opocher, John Rawls e Paul Ricoeur
1. La verità processuale e l’indefettibile imperfezione della giustizia.
Sebbene la filosofia del diritto si sia sempre confrontata con il problema della giustizia, cercare di comprenderne oggi il significato e il ruolo, in quello che è un mondo globalizzato e dinamico, è un obiettivo imprescindibile.
Questa “umanissima idea carica di tutta la disperazione e di tutta la speranza che alimentano le alterne vicende della condizione umana”[1] è stata oggetto di un originale contributo ad opera del giurista e filosofo contemporaneo padovano Enrico Opocher [2]
L’intento del suo apporto giusfilosofico è quello di cogliere a pieno le criticità riferibili alle dinamiche sussistenti tra giustizia e diritto, alla luce dei concetti di valore e verità.
La giustizia si manifesta come riconoscimento della verità, intesa non in senso assoluto bensì come valore, strettamente legata ad una dimensione fattuale e conforme all’ordine degli accadimenti[3].
Solo in questa prospettiva si può comprendere l’autentica portata della tematica; esclusivamente in riferimento a situazioni contingenti ha senso invocare la giustizia e la verità dando così un’autentica legittimazione alla dimensione del diritto.
L’esaltazione della concretezza e l’invito ad un riferimento continuo alla vita nel suo pratico dispiegarsi, ha come canale preferenziale la dimensione del processo nel cui dinamismo i fatti, l’esperienza e le istanze delle parti trovano compiuto accoglimento.
Non si vuole in tal modo sancire una sorta di priorità del processo rispetto al diritto sostanziale; l’intento è piuttosto quello di sottolineare come nella prospettiva processuale, diversamente e in maniera più pregnante rispetto ad altri ambiti del diritto, si incarni l’idea di giustizia come riconoscimento della verità.
Il giudice si trova a dover decidere quale delle ricostruzioni della verità sia da preferire, poiché maggiormente conforme all’ordine degli accadimenti.
Si tratta quindi di una verità processuale, così come ricostruita attraverso gli strumenti che l’ordinamento offre, attraverso il lavoro dei giudici e in generale degli operatori del diritto. Una giustizia che essendo umana può e deve essere imperfetta, laddove imperfezione non implica irragionevolezza e diseguaglianza ma attinenza alla natura umana che è per definizione defettibile.
Il processo diventa, nella riflessione opocheriana, sulla base delle intuizioni mutuate dall’amico e maestro Giuseppe Capograssi, il baricentro della esperienza giuridica.
Luogo in cui dialetticamente si passano in rassegna tutti gli aspetti della esperienza, in cui la priorità è di giungere ad un momento conclusivo, ossia la sentenza, che in qualche modo sia autentico, come momento in cui “la questione del vero si rivela come necessaria ed insieme irrisolvibile”[4].
Nella dimensione processuale la ricerca del vero si attua dialetticamente attraverso il confronto con tutta la varietà del reale, attraverso le maglie delle vicende umane, avendo come obiettivo primario il dotare di senso l’esperienza giuridica, che diversamente non avrebbe ragion d’essere[5], senza cioè quel contributo conferitole dal continuo mettersi in discussione.
Portando dinanzi alla terzietà del giudice le rispettive storie e così facendo la storia, il processo assume una prospettiva corale[6]; palesando una vocazione collettiva nella misura in cui “tocca tutte le persone e tutti gli interessi: seppure è un problema tecnico, al di sotto c’è come in ogni problema tecnico, un problema di vita, un problema della vita”[7].
Il processo è “l’unico momento in cui l’esperienza si trova a ripensare se stessa” [8], a riflettere sugli accadimenti, sulle azioni degli uomini e sul significato che esse assumono in una prospettiva giuridica.
Il giudice terzo si trova a dover passare al vaglio eventi passati, deve interpretarli alla luce delle norme, ripensare i vari significati e trovarne di nuovi.
Il tempo, le esperienze e i fatti vengono cioè ripercorsi, ricostruiti: “ il processo è la vera e sola ricerca del tempo perduto che fa l’esperienza pratica” [9] , teleologicamente teso a risolvere problemi ed appianare liti.
2. La crisi del diritto come crisi della verità: un ripensamento della giustizia in chiave valoriale.
La riflessione di Enrico Opocher si innesta nel tronco di un dibattito giusfilosofico eterogeneo e fecondo, il cui comune denominatore è rinvenibile nell’esigenza di rinvigorire il ruolo del diritto.
La filosofia opocheriana ha inteso la crisi del diritto come una crisi della verità, cui è correlato uno svuotamento dell’idea di giustizia.
Il depauperamento del ruolo del diritto è legato storicamente secondo Enrico Opocher allo smarrimento contenutistico che ha caratterizzato Novecento, in cui esso appare svincolato dall’idea di giustizia e piegato a centri di potere diversamente influenti: perdendo la sua autonomia diventa incapace di essere portatore di una qualsivoglia forma di giustizia e verità.
Per comprendere al meglio le ragioni della crisi, occorre determinare con precisione quale significato dare al concetto di verità. L’intenzione non è di esaltare un’accezione assolutistica di verità, poiché Opocher rifiuta nettamente concezioni dogmatiche o visioni assolutistiche del reale.
D’altro canto, tale circostanza non deve far pensare alla predilezione per una visione relativista o, all’estremo, nichilista. Questa deduzione oltre ad essere semplicistica, pecca di superficialità.
Il rischio di intendere la verità in maniera assoluta o, al contrario, totalmente priva di significato è innegabile, specie in una società multiculturale e in un’epoca difficile come quella attuale.
Allo stesso modo il relativismo a tutti i livelli crea smarrimento e senso di vuoto: la mancanza di appigli e contenuti, l’indifferenza, la massificazione e l’individualismo possono essere considerati, del resto, il nostro mal du siècle.
L’obiettivo cui devono tendere gli operatori di diritto è quello di rinvigorire l’ordinamento giuridico attraverso un ripensamento dell’idea di giustizia, intesa come valore; ciò si traduce preliminarmente nel riconoscere agli atti e alle azioni dell’uomo una ratio nonché una potenzialità di lasciare un segno nel mondo, in cui la giuridicità sublimata a valore sia, in primis per l’agire, una sorta di parametro orientativo.
Il messaggio opocheriano ci invita a concepire la giustizia come valore al fine di rinvenire in essa un substrato contenutistico imprescindibile, nella misura in cui essa è declinata in riferimento al concetto di verità.
3. L’idea di Giustizia come elemento comune nelle speculazioni di Enrico Opocher, John Rawls e Paul Ricoeur
Nell’ottica di un approccio di tipo comparatistico si inserisce l’interesse nei riguardi di filosofi e pensatori contemporanei, i quali hanno discusso e avuto a cuore, come Enrico Opocher, il tema della giustizia.
Intrecciare le esperienze filosofiche di tre contemporanei come Enrico Opocher, John Rawls[10] e Paul Ricoeur [11] significa mettere a confronto contributi e soluzioni eterogenee: la crisi della giustizia, vissuta e dibattuta in contesti geopolitici diversi — rispettivamente Italia, Stati Uniti e Francia — pensata alla luce di esperienze e sensibilità differenti.
Il contributo rawlsiano consta di un approccio procedurale al problema della giustizia, sulla base di principi di equità e giusta distribuzione.
La concezione di giustizia proposta da Rawls si presenta come un modello di giustizia sociale[12], intesa soprattutto come equità, il cui obiettivo è porre rimedio alle diseguaglianze per garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa.
I cittadini di uno Stato democratico non dovrebbero mai accettare le diseguaglianze socio-economiche, causate e perpetuate da un assetto istituzionale che non sia in grado di legittimarle a livello etico e morale: allorquando non si possa giustificare moralmente una disparità di trattamento essa non risulta essere democraticamente accettabile.
Rawls intende perciò la giustizia come meccanismo di redistribuzione delle risorse, al fine di colmare quei deficit di opportunità e di uguaglianza che la natura ha negato agli individui ab origine, il tutto attraverso strumenti messi a disposizione dal diritto e dalle istituzioni: “la struttura fondamentale della società è l’oggetto principale della giustizia”[13] .
Tale impostazione, in aperta polemica con le teorie di matrice utilitaristica, viene criticata da Paul Ricoeur con cui Rawls condivide la necessità di ridefinizione e rivalutazione dell’idea di giustizia.
Il pensiero ricoeuriano si sviluppa attraverso un confronto dialettico tra amore e giustizia, attuato grazie una disamina del linguaggio amoroso e giuridico, oltre che attraverso un attenzione al significato sostanziale dei concetti.
Ricoeur ha dato vita ad un tentativo di conciliazione delle istanze sottese al rapporto amoroso e al rapporto giuridico, avendo come denominatore comune il concetto di riconoscimento[14].
In quest’ottica, valori di solidarietà, mutuo riconoscimento e compassione hanno il compito di rinforzare e dotare di una diversa carica di senso le logiche della giustizia; questo obiettivo è raggiungibile sostanzialmente perché entrambi gli aspetti — giustizia e amore — afferiscono alla condizione umana, la determinano e la definiscono come momenti di massimo fulgore della dimensione antropologica, seppure diversamente declinati[15].
Il filo conduttore tra le riflessioni proposte da Rawls, Ricoeur e Opocher è rinvenibile nell’esaltazione della dignità umana, del rispetto reciproco e del valore dell’alterità, vissuti alla luce dell’idea di giustizia come principio fondante di una società che possa dirsi libera, giusta e democratica.
Se Opocher ha inteso rinvigorire l’idea di giustizia e conseguentemente la funzione del diritto conferendo loro un determinante appiglio valoriale, il medesimo intento è stato perseguito da Rawls e Ricoeur, seppure con metodi e strumenti differenti.
Non deve pertanto stupire se l’invito opocheriano a concepire il diritto e la giustizia come valori, assuma un senso originale ed inedito, nella misura in cui fornisce strumenti interpretativi adatti a cogliere con consapevolezza le complesse e spesso contraddittorie vicende del nostro tempo.
Lungi dal proporre la giustizia quindi come verità universale e assoluta, appare più coerente pensare ad essa come l’alfa e l’omega di un percorso accidentato e tortuoso, un cammino complesso e faticoso, una sorta di ‘motore immobile’ per l’intera società civile, in un quadro che coinvolge simultaneamente la politica, la filosofia e il diritto.
Katia Laffusa
[1] E. Opocher, Analisi dell’idea di giustizia , Milano, 1977, p. 3.
[2] Filosofo italiano del diritto (Treviso 1914 - Padova 2004). Allievo di Ravà e Capograssi, divenne professore di filosofia del diritto nell’università di Padova dal 1948 al 1984 (dal 1990 emerito); fu (1976-83) presidente della Società italiana di filosofia giuridica e politica. Dall’iniziale interesse per il valore dell’individualità nell’idealismo fichtiano, Opocher si avvicinò ai principi dell’esistenzialismo e della filosofia dell’esperienza di Capograssi e, attraverso la critica agli approcci normativisti, diede vita a una «prospettiva processuale del diritto» in cui l’esperienza giuridica viene concepita come valore sia in senso soggettivistico sia nell’accezione di ‘far valere’, ossia di rendere più generalmente valide, nel risultato processuale, posizioni soggettive. Tra le opere principali si ricordano: Fichte e il problema dell’individualità (1944); Il valore dell’esperienza giuridica (1948); Lezioni di filosofia del diritto (1949; ultima ed. 1984); Il problema della natura della giurisprudenza (1953); Analisi dell’idea di giustizia (1977); Giuseppe Capograssi filosofo del nostro tempo (1991). Da Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Treccani.
[3] “Certo il senso del valore suggerisce alla coscienza l’idea dell’assoluto. Ma la suggerisce sul piano della coscienza dell’uomo e quindi dell’esistenza e della storia, secondo un processo ascendente. Riferiti all’assoluto i valori perdono ogni significato perché l’assoluto è ciò che deve essere, mentre riferiti all’uomo esprimono la costitutiva esigenza di assoluto che, in ragione della sua contingenza caratterizza la nostra umanità”. Enrico Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1993 p. 46.
[4] A. Punzi, Dialettica persuasione Verità , La pratica della ragione giuridica negli scritti postumi
di Giuseppe Capograssi , in G. Capograssi, La vita etica , Milano, 2008, p. 847.
[5] Cfr. ibidem.
[6] La caratteristica della coralità del processo è stata oggetto di interesse non solo giuridico, ma anche storico-antropologico: è stato assimilato il processo al teatro, e in particolare alle sacre rappresentazioni che si tenevano nei villaggi medievali; si rammenta come durante la pantomima fosse permesso, anche solo per qualche ora, a cittadini di ogni estrazione sociale e particolarmente ai poveri, ai bambini, agli emarginati, di essere il perno della vita collettiva. Questa operazione messa in atto dal teatro, di focalizzazione sulle vicende di soggetti che in genere vivevano invece ai margini della società, è la medesima che si presenta durante il processo; sulla scena, in giudizio ci sono soggetti cui solo la dimensione giuridica ,insieme a poche altre, conferisce una forma di dignità e riconoscimento, riuscendo laddove solo l’arte e in questo caso specifico una rappresentazione teatrale è riuscita.
Cfr. P. Grossi, Uno storico del diritto in colloquio con Capograssi , in Riv. int. fil. dir ., p. 34.
[7] G. Capograssi, Giudizio, Processo, Scienza, Verità in Opere, V, Milano,1959.p. 53.
[8] Ibidem
[9] Ivi, p. 58
[10] (Baltimora, 21 febbraio 1921 – Lexington, 24 novembre 2002)
[11] (Valence, 27 febbraio 1913 – Châtenay-Malabry, 20 maggio 2005)
[12] “La giustizia è la prima virtù dei sistemi sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero”. Si tratta delle prime pagine di Una teoria della giustizia, che Rawls apre con un parallelismo tra i sistemi sociali e i sistemi di pensiero, rinvenendo rispettivamente la giustizia e la verità come elementi fondanti e strutturali. Il testo così prosegue: “Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata e modificata se non è vera. Allo stesso modo leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”. J.Rawls, Una teoria della giustizia , cit., p. 21.
[13] Ivi, p. 24.
[14] Il maggior apporto speculativo sull’argomento si rinviene in P. Ricoeur, Amore e Giustizia, Brescia, 2007
[15] “amore e giustizia si rivolgono all’azione, ciascuno a proprio modo: l’uno e l’altra la rivendicano” appartengono all’uomo con lo stesso impeto e la stessa intensità. Entrambe hanno il potere di spingerlo all’azione, lo trascinano in una dimensione di ineludibile socialità e lo invitano costantemente a prendersi cura degli altri e del mondo, sradicandolo dal suo solipsismo e gettandolo così nella trama delle vicende umane. Cfr Ivi, p 31.
La tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, rispetto a quella di qualsiasi altro funzionario di un’amministrazione pubblica, presenta peculiari profili problematici legati essenzialmente all’esistenza di un organo di autogoverno, competente per l’adozione dei provvedimenti relativi allo status del personale (nomine, promozioni, trasferimenti, disciplina etc). Tali competenze vengono così sottratte a quella che sarebbe altrimenti l'amministrazione titolare del potere di provvedere in materia, ed affidate ad un organo che non ha natura amministrativa, ponendo con ciò il problema di capire se e come le sue decisioni siano eventualmente impugnabili. Il fenomeno non è solo della magistratura ordinaria, ma caratterizza ormai anche le magistrature speciali, il cui ordinamento si è progressivamente avvicinato al modello di autogoverno della prima con il crescere del distacco dal potere esecutivo, nelle cui articolazioni erano precedentemente assorbite [1].
Il modello dell’autogoverno caratterizza il rapporto di servizio del personale di magistratura in ragione della necessità di assicurare il rispetto dei principi costituzionali che vogliono che il giudice sia soggetto “soltanto alla legge” (art. 1001 Cost.) e che la magistratura sia costituita in “ordine autonomo e indipendente da ogni altri potere” (art. 104 Cost.); principi che evidentemente escludono che i magistrati possano essere governati, così come qualsiasi altro dipendente pubblico, da organi appartenenti al sistema dell’amministrazione pubblica e che rendono con ciò peculiare il problema della tutela giurisdizionale avverso gli atti di un pubblico potere non riducibile ad una pubblica amministrazione.
Per i magistrati ordinari, il problema sembrerebbe espressamente risolto dall'art 17 della legge 24 marzo 1958 n. 195, che, nel prevedere che “tutti provvedimenti riguardanti i magistrati sono adottati, in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore, con decreto del Presidente della repubblica controfirmato dal Ministro; ovvero, nei casi stabiliti dalla legge, con decreto del Ministro per grazia e giustizia”, dispone altresì che “contro i predetti provvedimenti, è ammesso ricorso al Consiglio di Stato per motivi di legittimità” e che “contro i provvedimenti in materia disciplinare, è ammesso ricorso alle sezioni unite della Corte suprema di Cassazione”.
Se la ricorribilità in Cassazione avverso i provvedimenti disciplinari tutto sommato non ha mai creato particolari problemi, in quanto l'attività del Consiglio in tal caso viene qualificata come giurisdizionale (ad vocem), più di un dubbio è stato invece avanzato con riferimento alla previsione dell'impugnabilità dei provvedimenti incidenti sullo status innanzi al giudice amministrativo, sia per l'intrinseca impugnabilità degli atti, sia per la scelta del giudice amministrativo. Sotto questo profilo, la norma dà per scontata la soluzione affermativa del problema dell'ammissibilità della tutela giurisdizionale avverso gli atti del Consiglio Superiore della Magistratura, e l’individuazione del giudice naturale in quello amministrativo.
L'articolata soluzione proposta dal citato art. 17 della l. 195/1958 appare oggi consolidata in giurisprudenza, nonostante la dottrina non sia mai stata del tutto convinta della bontà della soluzione e sia rimasta comunque perplessa [2]. Il fatto è che quello della tutela giurisdizionale per le violazioni della normativa in materia di ordinamento giudiziario rimane pur sempre un problema particolarmente delicato e complesso, in quanto tocca principi costituzionali fondamentali (la tutela dei diritti ed interessi legittimi riconosciuta come diritto inviolabile di ogni cittadino – magistrati compresi – dall' art. 24 Cost.) e le fondamenta stesse dell'ordinamento repubblicano (il principio di separazione dei pubblici poteri e della soggezione del giudice soltanto alla legge – artt 101 e 104 Cost.).
Nella loro essenza, i termini della questione sono riassunti e ponderati nella pronuncia della Corte Costituzionale n. 44 del 14 maggio 1968 [3], occasionata dalle già ricordate disposizioni recate dall'art. 17 della legge 24 marzo 1958 n. 195 .
Sotto un primo profilo, il problema si riassume nella necessità di chiarire se il buon adempimento della funzione strumentale affidata al Consiglio Superiore della Magistratura esiga la sua sottrazione ad ogni interferenza, non solo dei poteri attivi (ed in specie di quello esecutivo) ma anche del potere giurisdizionale. Contrapposta, è la già ricordata esigenza di assicurare a tutti i cittadini, compresi quelli appartenenti alla categoria dei magistrati, la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi.
Sotto un secondo profilo, il problema riguarda l'individuazione del giudice competente. Le esigenze che si contrappongono, nell'affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa o ordinaria, sono, rispettivamente, quella di evitare di qualificare e considerare semplicemente come pubblica amministrazione il Consiglio Superiore della Magistratura; e di evitare “la confluenza che verrebbe a verificarsi negli appartenenti allo stesso ordine di destinatari dei provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura e di giudici della regolarità dei medesimi”.
Affermata la prevalenza dell'esigenza di tutela giurisdizionale su quella d'indipendenza del Consiglio, con l'affermazione della sussistenza della giurisdizione amministrativa è altresì evidentemente prevalsa l'esigenza di evitare la confluenza nel medesimo ordine sulle decisioni dell'organo di autogoverno; superando il problema della non appartenenza al potere esecutivo del Consiglio Superiore della Magistratura senza limitarsi al fatto che le decisioni vengono formalmente recepite in decreti ministeriali, ma sottolineando la natura sostanzialmente amministrativa dell'attività svolta (in tal senso v. già Corte Cost. 168/1963).
Pacificamente ammessa nei confronti del decreto presidenziale o ministeriale di recepimento, l'impugnativa è stata dunque ben presto estesa alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura in quanto atto preparatorio del procedimento concluso dal decreto presidenziale o ministeriale[4] e, successivamente, alla deliberazione in quanto tale, indipendentemente dalla circostanza che si traduca in un decreto presidenziale o ministeriale[5].
Su tali basi, può oggi ritenersi definitivamente risolto il problema tradizionale dell'impugnabilità delle decisioni del Consiglio Superiore della Magistratura.
Non possono tuttavia non rilevarsi talune anomalie di sistema derivanti dalla concentrazione in capo al giudice amministrativo della giurisdizione per le controversie riguardanti gli appartenenti tanto alla magistratura ordinaria, quanto a quella amministrativa.
Innanzi tutto perchè è evidente che in tal modo i due ordinamenti giurisdizionali non rimangono separati e distinti, ma vengono collegati in un intreccio contraddittorio: il giudice amministrativo, le cui decisioni sono pur sempre impugnabili, anche se solo per motivi di giurisdizione (art 111 Cost.), in Cassazione, è in condizioni di poter incidere sull'ordinamento giudiziario, compreso il suo organo di vertice. E sotto questo profilo non si tratta di un rischio remoto, poiché gran parte del contenzioso finisce con il riguardare il conferimento degli uffici direttivi e, nel 2007, l'intervento del giudice amministrativo ha riguardato proprio la nomina del Primo Presidente della Corte di Cassazione[6]. Né si tratta di un rischio puramente astratto, se si considera che al giudice amministrativo è riconosciuto anche il potere di adottare le misure necessarie per assicurare l'esecuzione delle proprie decisioni ricorrendo, in caso di inottemperanza, ad un commissario ad acta per sostituire il CSM [7].
In secondo luogo va sottolineato che si ripropone per altro verso quella situazione di “confluenza” ritenuta inammissibile dalla Corte Costituzionale; se solo si considera che la magistratura amministrativa è soggetta all'autogoverno non del Consiglio superiore della magistratura ma del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, e che le decisioni di quest'ultimo rimangono impugnabili innanzi al giudice amministrativo. In sostanza: il giudice amministrativo conosce delle decisioni sui giudici amministrativi (anche quando si tratta di provvedimenti disciplinari, viene esclusa la competenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione)[8].
La disarmonia appena rilevata tocca i principi informatori del sistema complessivamente considerato. Anche scendendo ad analizzare il sistema di tutela concretamente vigente per i magistrati ordinari, si rivela però come esso sia caratterizzato dalla coesistenza non perfettamente armonizzata di una giurisdizione esclusiva e di una giurisdizione generale di legittimità.
Le peculiarità della prima sono più che altro nelle ragioni che hanno giustificato la conservazione dello status pubblicistico del rapporto di servizio dei magistrati. Differentemente dalle altre categorie parimenti sottratte al processo di privatizzazione che ha interessato il personale professionale alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, la conservazione del rapporto di pubblico impiego non è stata imposta dalla necessità di salvaguardare, rispetto allo schema di lavoro privatistico, i tratti autoritari e di subordinazione gerarchica, ma, al contrario, sempre e solo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura[9]. Salva questa precisazione di principio e salvo il fatto che la giurisdizione esclusiva presuppone la sussistenza di un rapporto d’impiego professionale e non onorario, per il resto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per i rapporti d’impiego dei magistrati, almeno sotto il profilo del trattamento economico, non presenta peculiarità di rilievo. Diversamente, la giurisdizione generale di legittimità, proprio a causa dell’imputazione o della partecipazione all’esercizio della funzione amministrativa dell’organo di autogoverno, presenta più di una peculiarità nel concreto svolgimento del giudizio amministrativo e nella sua instaurazione: in ordine al provvedimento impugnabile, alle parti del processo, all’ampiezza del sindacato giurisdizionale[10].
[1] Il Consiglio superiore della magistratura viene istituito con l. 24 marzo 1958 n. 195; il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con l. 27 aprile 1982 n. 186; il Consiglio di presidenza della corte dei conti con l. 13 aprile 1988 n. 117; il Consiglio della magistratura militare con l. 30 dicembre 1988 n. 561. Sul quadro d’insieme in dottrina v. D’Aloia,.L’autogoverno delle magistrature, 71 ss ; S.Senese, Giudice (nozione e diritto costituzionale), in Dig. Disc. Pubbl., VII, Torino Utet, 1991, 218 ss; I. Lolli, L’autogoverno delle giurisdizioni speciali : profili problematici e prospettive di riforma, in Giur. Cost., 1997, 2071 ss
[2] Cfr.: G. FERRARI, Consiglio Superiore della Magistratura, in Enc. Giur. Treccani, VIII, Roma, IPZS, 1988; G. CUGURRA, Atti del Consiglio Superiore della Magistraura e sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 3/1984, 310ss. Più in generale, sul problema dell'impugnabilità delle delibere del C.S.M. v. anche E. CANNADA - BARTOLI, Tutela dei magistrati eletti al Consiglio superiore, giurisdizione del Consiglio di Stato e forma degli atti, in Foro amm., 1972, p. 109 s.; V. SPAGNA MUSSO, Sulla sindacabilità degli atti del C.S.M. da parte del Consiglio di Stato, in Giur cost., 1962, p. 1609 ss; A. M. SANDULLI. , Atti del Consiglio superiore della magistratura e sindacato giurisdizionale, in Giust. civ., 1963, II, 3 ss. ; U. DE SIERVO, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della Magistratura, in Giur. cost., 1968, p.690 ss.
[3] Corte cost. 14.5.1968, n.44, in Foro it., 1968, I, 1396 ss.
[4] Cons Stato, Sez. IV, 14 marzo 1962 n. 248; Id., 22 novembre 1962 n. 752
[5] Tar Lazio, Sez. I, 8 giugno 1983 n. 491
[6] Cfr.: Cons Stato, Sez. IV, 10 luglio 2007 n. 3893)
[7] Corte Cost. 8 settembre 1995 n. 419, in Foro It., 1995, I, 2641; Id. 15 settembre 1995 n. 435
[8] Cfr.. Cass. SU 29 settembre 2000 n. 1049
[9] S. BATTINI, Il personale, in Trattato di diritto amministrativo diretto da S. CASSESE, I, Milano, 2003, 563.
[10] Amplius v. F. FRANCARIO, M. ROSSI SANCHINI, La tutela giurisdizionale amministrativa, in E. ALBAMONTE, P. FILIPPI (a cura di) Ordinamento giudiziario. Leggi regolamenti e procedimenti, Lavis (Tn), 2009, 943 ss.
Senza la magistratura onoraria l’amministrazione della Giustizia non può funzionare e se le risorse umane (le persone) che la compongono sono utilizzate in modo inadeguato si producono effetti negativi per tutti.
La magistratura onoraria ha diverse componenti: i vice procuratori onorari sono indispensabili per le piccole Procure (in molti sedi esposte a periodiche gravi carenze di organico) per lo svolgimento delle udienze e le indagini sui reati minori; il ruolo dei giudici onorari (come pure dei giudici di pace) potrebbe rivisitarsi nell’ambito di una nuova concezione dell’Ufficio del processo.
Per comprendere meglio i problemi attuali, ho intervistato un magistrato togato e un magistrato onorario esperti della materia.
Il primo è Raimondo Orrù, vice Procuratore onorario a Roma e presidente della FEDERMOT.
Il secondo è Ernesto Aghina che, per anni, si è occupato della magistratura onoraria -prima come membro della apposita commissione all’interno del CSM e poi come componente del consiglio direttivo della SSM che si occupa anche della loro formazione - e attualmente ne organizza il lavoro nel circondario del tribunale di Torre annunziata di cui è presidente.
D. I magistrati onorari chiedono al Ministro Bonafede di cambiare la riforma Orlando. Quali sono le criticità poste in evidenza?
R. La riforma non rilancia la funzione di supporto dei magistrati onorari, imponendo anche a quelli di lungo corso un regime part-time incompatibile con l'incremento di produttività. I diritti economici sono poi completamente disconosciuti
D. Un inquadramento full-time non snaturerebbe il rapporto di servizio onorario?
R. Secondo il Consiglio di Stato il trattenimento in servizio a tempo pieno e sino all'età pensionabile è attuabile in relazione a una specifica platea di destinatari, come avvenne nel 1974 per i vice-pretori onorari.
D. Quali ragioni giustificherebbero una misura straordinaria di questo tipo?
R. Il filo pilota non può che essere l'interesse pubblico. Occorre erodere in modo deciso l'arretrato giudiziario e i tempi medi di durata dei processi, che restano i più alti in Europa. Tale obiettivo non può prescindere dal trattenimento di personale già formato.
D. Si tratterebbe di un reclutamento straordinario nei ruoli ordinari?
R. No. Il magistrato onorario resterebbe tale; l'incarico rimarrebbe revocabile, senza accesso ai ruoli ordinari o al relativo cursus honorum.
D. L'idea è quindi quella di riproporre per intero i contenuti dello schema legislativo usato nel 1974 per i vicepretori?
R. La nostra proposta è di seguire quella impostazione ma con alcune precisazioni: esclusione espressa dell'elettorato attivo e passivo in relazione agli organi di autogoverno; esclusione di progressioni economiche; mantenimento delle attuali competenze.
D. Quale trattamento economico reclamano i magistrati onorari?
R. Quello che rispetti i parametri ritenuti loro applicabili in sede CEDU dal Comitato europeo dei diritti sociali: ossia retribuzione equiparata, pro rata temporis, a quella del magistrato di tribunale, ossia del magistrato di ruolo all'inizio della carriera.
D. Perché ritiene che un inquadramento part-time sia disfunzionale al buon andamento della giustizia?
R. Indurre lo svolgimento di altre attività lavorative conduce a trascurare quella giudiziaria, che non si compone solo di udienze, ma di studio dei procedimenti, di formazione permanente obbligatoria, di aggiornamento specialistico. Inoltre un rapporto full-time elimina in radice le ipotesi di incompatibilità ambientale e professionale, assicurando una maggiore imparzialità e incentivando una qualità professionale adeguata. Insomma: meglio un magistrato onorario a tempo pieno, sempre reperibile e "fidelizzato", di due a tempo parziale.
D. Le coperture finanziarie ci sono?
R. Vanno trovate; ma si parla di aggiungere circa 100 milioni di euro agli attuali stanziamenti; una somma irrisoria rispetto ai benefici macroeconomici correlati all'abbattimento dell'arretrato e della durata media dei processi. Senza contare i benefici fiscali dati dall'aumento delle sentenze percosse dalla imposta di registro e dei risparmi di spesa correlati al congelamento delle retribuzioni attualmente percepite dai numerosi magistrati onorari impiegati in altre amministrazioni come dipendenti pubblici.
D. L'ANM è diffidente sul trattenimento in servizio dei magistrati onorari sino all'età pensionabile.
R. Lo considero un errore strategico. Si tratta di una misura eccezionale, l'alternativa alla quale è aumentare stabilmente il numero dei magistrati di ruolo o fare affidamento su nuovi più rilevanti reclutamenti di magistrati onorari, che però potrebbero essere operativi solo tra alcuni anni, impegnando comunque le medesime risorse finanziarie richieste dal trattenimento di professionisti già formati.
D. Sulla qualità professionale il concorso rimane però una garanzia irrinunciabile.
R. Ne siamo convinti. Per questo riteniamo che la magistratura di ruolo debba essere sollevata dalla gestione del contenzioso di prossimità o seriale, devolvibile a una figura che la coadiuvi stabilmente senza invaderne le prerogative esclusive.
D. Nel caso di anticipata cessazione dall'incarico onorario, cosa accade?
R. La nostra proposta specifica è che il magistrato onorario deve poter tornare a fare il lavoro precedentemente svolto, senza perdere l'anzianità di servizio che avrebbe maturato nel frattempo. Per questo proponiamo che i dipendenti pubblici siano posti in aspettativa non retribuita per la durata dell'incarico e che gli avvocati, per non perdere l'anzianità professionale, possano rimanere iscritti all'albo ma esclusivamente nella sezione dedicata agli avvocati degli uffici legali, ossia senza possibilità di operare su libero mercato.
D. Esiste un unico modello di utilizzo dei magistrati onorari negli ordinamenti giudiziari dell’Unione? In questo contesto come si colloca la situazione italiana?
R. I magistrati onorari sono presenti in molti ordinamenti giudiziari europei, e quasi sempre in numero considerevolmente più elevato rispetto ai magistrati professionali. La loro utilizzazione è variabile ed è tendenzialmente dedicata - come in Italia - alla trattazione dei procedimenti (civili e penali) di minore rilevanza. La nozione di “onorarietà” viene esaltata dalle modalità di selezione, dalla temporaneità dell’incarico e, soprattutto, da una sorta di “onorabilità professionale” che ne costituisce la principale forma di retribuzione, sotto forma di riconoscimento sociale. Del tutto diversa è la situazione italiana, in cui i magistrati onorari si caratterizzano per una sorta di precarietà solamente virtuale, per effetto di un’iterazione di proroghe nell’incarico e per forme di retribuzione stabili.
D. Quali sono le problematiche più ricorrenti per un magistrato dirigente di un ufficio giudiziario nell’utilizzo dei magistrati onorari?
R. I magistrati onorari (nella vigente distinzione tra vice procuratori onorari e giudici onorari di pace) costituiscono per i dirigenti degli uffici di primo grado (Tribunali e Procure della Repubblica) una risorsa ineludibile cui attingere costantemente per fronteggiare le croniche carenze (anche temporanee) nell’organico dei magistrati professionali.
Viene costantemente in rilievo la nozione di “magistratura vicaria” che ha sin qui caratterizzato i v.p.o. e i g.o.t., e ha consentito di affrontare autentiche emergenze e garantire una risposta alla (rilevantissima) domanda di giustizia.
In proposito può essere utile ricordare come i dati offerti dal rapporto del Cepej su “Efficiency and quality of justice” e dall’European Justice Scoreboard della CE collocano l’Italia nella media europea nella percentuale di giudici per abitanti, ma solo in virtù dell’apporto numerico dei magistrati onorari.
Diverso discorso va fatto per i giudici onorari addetti alla giustizia di pace: la riforma del 2017 affida al presidente del tribunale compiti di coordinamento inediti ed onerosi, che vanno affrontati con particolare impegno, perché le dinamiche degli uffici del giudice di pace, fatalmente influenzate da fattori concorrenti (risorse ridotte, compenso a cottimo dei giudici di pace, abuso del processo, ecc..), determinano non pochi problemi gestionali, aggravati da una “separazione” territoriale e culturale dal Tribunale capoluogo di circondario.
D. Non tutti gli appartenenti alla categoria sono soddisfatti della recente riforma (in particolare quelli che per molti anni sono stati inseriti con reiterata precarietà nel sistema), hanno delle buone ragioni? A parte questo, la riforma costituisce un approdo soddisfacente o servirebbero dei correttivi?
R. Nonostante la riforma del d.lgs.vo. 116 del 2017 abbia determinato novità significative, quali l’uniformità di status tra “magistrature onorarie” sin qui troppo diverse tra loro, non vi è dubbio che non tutti i problemi siano stati risolti, principalmente il regime dei magistrati onorari in attività, che vedono bruscamente limitate le loro possibilità di utile impiego.
Ritengo che sia possibile, ed anche auspicabile un intervento correttivo, che accentui il “doppio binario”, pur parzialmente previsto dalla riforma, diretto a differenziare la disciplina applicabile ai magistrati onorari in attività rispetto a quelli di futura nomina, consentendo la permanenza illimitata in servizio dei primi, previo regolamento dei profili di incompatibilità.
Non si tratta peraltro delle uniche criticità della riforma, atteso che - se pure al termine di una fase transitoria - la limitazione nell’utilizzazione in tribunale dei giudici onorari e l’incremento della civile dell’ufficio del giudice di pace aprono dei fronti da presidiare con doveroso anticipo, senza far conto del termine del 2021, in cui la riforma entrerà a regime.
D. Più in generale, c’è ancora una distanza tra magistratura professionale e onoraria che è stata spesso denunziata come presente?
R. Non posso negare che in passato sia esistita una scarsa attenzione alle problematiche della magistratura onoraria da parte della magistratura professionale, ma il clima è (molto) cambiato da tempo.
I magistrati onorari non sono più considerati una sorta di “extracomunitari del diritto”, bensì una componente insostituibile della giurisdizione.
Per questo si è investito nella loro formazione e aggiornamento professionale (prima da parte del C.S.M. e poi della Scuola superiore della magistratura), nel costante confronto operato dall’ A.N.M. con le componenti sindacali (troppe..!!) dei giudici onorari, e più in generale nel rapporto che lega negli uffici magistrati professionali ed onorari.
Se esiste ancora una “distanza” forse oggi è più accentuata quella che separa la magistratura onoraria dall’avvocatura, di cui pure i magistrati onorari fanno parte a pieno titolo.
Oggi si parla della “presa delle funzioni”, della presa delle funzioni qui, a Catanzaro e in Calabria.
E credo che per parlare di questo, dell’esperienza che qui vi aspetta, il discorso debba esser fatto al passato e al presente, ma soprattutto al futuro, guardando all’esperienza che è stata, ed è, ma ancor di più all’esperienza che potrebbe essere.
Per questa ragione il mio intervento è un discorso su quelli che mi sembrano essere i punti critici dell’esercizio della giurisdizione in questa sede. Una critica, quindi, che da un lato è una autocritica e, dall’altro, un appello a chi ha appena preso le funzioni qui per tentare di mettere in moto qualche cambiamento.
Sono quattro le parole che possono sintetizzare quello di cui vorrei parlare. Le prima parola è numeri. La seconda è timore. La terza è dialogo. La quarta parola, invece, la lascio per la conclusione.
La prima parola è “numeri”, intesi come scusa e pretesto.
“I numeri sono alti perché le iscrizioni e pendenze elevate, dai numeri si giudica la giustizia e quindi la giustizia si assicura garantendo buoni numeri”. Tra le tante cose che si dicono, il rumore di sottofondo che spesso si sente durante le giornate di lavoro è questo.
In una realtà giudiziaria come quella attuale - in cui si tenta di svuotare il mare con una disorganizzata conchiglia - l’affanno costante, e proclamato, sui numeri determina inevitabilmente un approccio all’esercizio della giurisdizione basato sulla perenne emergenza.
Questo ha due conseguenze immediatamente percepibili.
La prima è che i numeri, e quindi l’approccio d’emergenza, sono la scusa per ogni cosa, per ogni prassi, anche la più svilente e deleteria. E ciò perché, si dice, non si può fare altrimenti. Udienze-mercato con decine e decine di procedimenti; gestione del ruolo con la finalità prevalentemente della statistica; decadente qualità delle decisioni e della gestione delle udienze (che forse non bisogna dimenticare è il principale veicolo attraverso cui la cittadinanza vede e percepisce i magistrati e la giustizia); un complessivo caos che aumenta in modo ipertrofico e ingiustificato il potere del magistrato (che con un rinvio, sempre giustificato dal “carico del ruolo”, può decidere le sorti di un procedimento); l’impossibilità di individuare le effettive responsabilità di una mala gestione dei ruoli e delle sezioni.
La scusa dei “numeri” porta a trasformare tutto in carta. Le cause sono carte da “smaltire” (e di “smaltimento” parlano i piani di gestione), i diritti dei cittadini sono carte, le persone sono carte e le responsabilità sono solo sulla carta. Con la conseguenza che anche la giustizia diventa di carta, una tigre di carta che perde progressivamente la fiducia e il rispetto della cittadinanza.
La seconda conseguenza è che i “numeri”, l’approccio d’emergenza sui “numeri”, determinano nel magistrato, soprattutto alle prese con le prime funzioni, quell’occupazione costante che contribuisce a formare e a consolidare il disinteresse e la mancanza di partecipazione dei magistrati nell’esercizio della giurisdizione. Esercizio della giurisdizione che significa anche organizzare la giurisdizione, progettare la giurisdizione e non limitarsi a scrivere provvedimenti.
E così non c’è il tempo per fare la spesa, figuriamoci se c’è tempo per dialogare, discutere e occuparsi di cambiare prassi, organizzazione, di politica giudiziaria, figuriamoci se c’è tempo di curare orientamenti o sentenze che possano contribuire alla giurisprudenza.
La giurisdizione così perde l’apporto soprattutto delle sue forze più fresche, e smorza gli entusiasmi, affogando tutto nei numeri e nell’emergenza perenne. Risulta sempre più difficile risolvere i problemi alla radice e la Giustizia si mostra debole nel cambiare se stessa, debolissima nel contribuire al progresso della società in cui opera.
La seconda parola è “timore”, intesa come presenza.
E’ il timore dello spauracchio del disciplinare, delle valutazioni di professionalità, di intoppi nella carriera.
Un timore che si fonda, credo, su tre cose: ritmi che rendono l’errore inevitabile e il senso di stare in difetto costante; la scarsa trasparenza delle regole, dei dati, dei procedimenti e delle logiche delle decisioni dei direttivi e dell’autogoverno; la diffusa pratica della vicinanza correntizia usata in modo, diciamo, poco ortodosso.
Il risultato è che il sistema attuale si è sviluppato in un modo tale che chi non dovrebbe temere niente, chi esercita la giurisdizione in modo serio, comunque un poco teme e in qualche modo si ritira, si mette da parte.
Colui che, invece, dovrebbe temere - chi non esercita seriamente la giurisdizione - vivacchia abbastanza indisturbato, raggiunge le giuste statistiche, si occupa di presenziare all’evento giusto, nella consapevolezza che ci sarà sempre qualcuno pronto a mettersi una mano sul cuore.
Il timore è poi anche quello di scontentare, di cambiare.
E non mi riferisco alle sentenze ma a al timore di prendere decisioni relative a come si esercita la giurisdizione. Decisioni che scontentano colleghi, direttivi o il foro ma che possono cambiare tante prassi e tanti atteggiamenti di compromesso al ribasso che bloccano la giurisdizione effettiva in favore di una giurisdizione burocratica e difensiva.
E c’è da dire che tante volte il magistrato, soprattutto se di prima nomina e con almeno quattro anni davanti nella stessa sede, è costretto a far buon viso a cattivo gioco e a preferire di accettare la prassi o la decisione sbagliata per non mettere a rischio i rapporti con colleghi e direttivi che dovrà vedere ogni giorno in ufficio.
La terza parola è “dialogo”, inteso come assenza.
Il dialogo, il confronto partecipato sui problemi e le soluzioni, manca tra magistrati, tra i direttivi, tra le sezioni, tra i diversi uffici, manca con la cittadinanza.
La mancanza di dialogo è sia causa che effetto della totale assenza di progettualità.
I problemi della giurisdizione sono male inquadrati e affrontati con soluzioni precarie e istantanee, di regola autoritative, che mostrano la loro fragilità dopo poco tempo.
Non vi sono progetti che riguardano l’esercizio della giurisdizione, la giurisdizione non è progettuale, non vi è coinvolgimento, soprattutto dei magistrati di prima nomina, in un pensiero organizzato ed orientato ad un futuro più lungo del problema che si presenta quel giorno alla porta.
Il Tribunale si riduce così ad essere un posto in cui si esercita solo il potere della decisione, invece di essere un luogo in cui si esercita la responsabilità della giurisdizione.
L’ultima parola è “opportunità”, parlo dell’ opportunità di cambiare tante cose.
L’esperienza calabrese è per tanti versi unica, da nessuna parte vi è un così alto tasso di giovani all’interno degli uffici che provengono da esperienze diverse da ogni parte d’Italia. Da nessuna parte si assumono così rapidamente ruoli delicati ed importanti.
La giurisdizione poi, qui in Calabria, è qualcosa di davvero importante, ha una netta forza conformativa nei confronti della società che va oltre il diritto.
Quel che voglio dire è che la presa delle funzioni qui, deve essere considerata come presa delle responsabilità che la giurisdizione comporta, non solo la presa d’atto che bisogna scrivere dei provvedimenti.
La maggior parte di noi qui in Calabria - e concludo - sono di passaggio, e sappiamo bene che fra qualche anno ce ne andremo. Ma questo non significa che non possiamo fare qualcosa e soprattutto lasciare qualcosa.
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