La giustizia politica come giustizia della costituzione*
Fabrizio Sciacca
I diritti fondamentali non hanno un valore strumentale. In tal senso, la giustizia politica è sempre giustizia della costituzione. Questa è una delle risorse più utilmente promettenti della morale giuridica europea. La giustizia politica come giustizia della costituzione è radicata in un sistema di libertà eguale. L’idea è quella di «costruire una concezione della giustizia per un regime costituzionale tale che coloro che sostengono quel tipo di regime o potrebbero essere indotti a sostenerlo possano fare propria anche quella concezione politica, pur avendo visioni comprensive diverse»; in tal modo, «arriviamo a pensare una concezione politica della giustizia che parta dalle idee fondamentali di una società democratica e non presupponga alcuna dottrina più ampia; e non frapponiamo ostacoli dottrinari alla possibilità che una simile concezione si guadagni il sostegno di un consenso per intersezione ragionevole e duraturo»[1].
Una conseguenza controfattuale del concetto di giustizia politica è che i problemi di diseguaglianza sono determinati da disfunzioni distributive. In quanto giustizia della costituzione, la giustizia politica è relata a due elementi, uno strumentale e uno finale. L’elemento strumentale implica che la costituzione sia descritta come una procedura giusta (una procedura si dice giusta quando è in grado di soddisfare i requisiti di eguale libertà); l’elemento finale implica che la costituzione, tra tutti gli assetti giusti praticabili sia quello più in grado di raggiungere il risultato più probabile. La costituzione giusta è un esempio di giustizia procedurale imperfetta (una giustizia procedurale si dice imperfetta quando garantisce il raggiungimento di un risultato p, ma senza che ciò autorizzi a considerare le norme giuridiche capaci di conseguire sempre un risultato corretto q).
Il cuore di una siffatta giustizia politica è il nucleo dei diritti fondamentali all’esercizio della libertà individuale. Per questo le ragioni della discussione pubblica dovrebbero essere neutrali. Dovrebbero, cioè essere fondate sull’idea dell’eguale rispetto dopo l’accettazione della premessa secondo la quale la c.d. “verità” delle concezioni del mondo è nella migliore delle ipotesi un tipo di verità parziale, e non è affatto desiderabile che venga imposta a tutti. Questo che propongo in sintesi è, naturalmente, un discorso normativo che non viene intaccato dalle asimmetrie della vita reale.
2. Come si concilia questo discorso valido sul piano normativo con il piano personale? La morale personale presuppone la realizzazione di sé attraverso l’atto. Così, il significato di “compiere un atto” non si identifica con la sua operatività. È indubbiamente qualcosa di collegato all’autodeterminazione, come ha sostenuto diverse volte Georg Henrik von Wright: qualcosa che interconnette determinazione, azione e libertà.
Di solito gli enunciati normativi sono espressioni di prescrizioni ( “si deve fare p”), permessi (“si può fare p”), divieti (“non si deve fare p”). Da un certo punto di vista, si può dire che questi enunciati non siano né veri né falsi. Sì, possono essere strumentali a certi obiettivi o scopi; ma non dicono nulla sulla verità di questi, né sul loro oggetto.
Per alcuni, la morale personale rinvia non a torto al problema dei valori. Ma se la teoria dei valori ha uno statuto chiaro, il suo oggetto è filosoficamente opaco: per alcuni sono valori i diritti, la democrazia, le libertà; per altri esistono “valori europei”, “valori asiatici” e così via; per altri ancora, sono valori le opere d’arte, le religioni o le squadre di calcio. Non è privo di senso, al proposito, considerare che qui non si sta proprio parlando di valori, ma di valutazioni: «un atteggiamento di approvazione o di disapprovazione da parte di un soggetto s rispetto a un oggetto o»[2]. Si ha a che fare, in particolare, con atteggiamenti di approvazione o di disapprovazione che possono essere condivisi e duraturi, ma sempre soggettivamente: non possiedono una validità universale. Al massimo, possono avere una validità (non oggettiva, ma) oggettivizzata di tipo storico, cioè in un determinato tempo t1...t2. In tal senso, non esistono valori universali, e nemmeno, a rigore, valori come entità, ma enunciati linguistici che descrivono atteggiamenti emotivi soggettivi o condivisi (“a Y piace p”, “a Z non piace p”: vuol dire solo che può esser vero che “a Y piaccia p”, ma non vuol dire che ciò sia anche moralmente vero, cioè “buono”).
Se non esistono fondamenti universali nell’ambito della giustizia politica, come facciamo a elaborare valutazioni dotate di un qualche senso di giustizia? Rawls adopera il concetto di equilibrio riflessivo, avvalendosi, non a caso, della teoria di un filosofo che non ha mai creduto nell’esistenza di fondamenti, né ha mai pensato che ciò fosse un tema filosoficamente rilevante: Nelson Goodman. Rawls osserva: «si tratta di una nozione che caratterizza lo studio dei principi che regolano le azioni in cui l’introspezione ha particolare rilievo […]. La conoscenza di questi principi può suggerire ulteriori riflessioni che ci inducono a riconsiderare i nostri giudizi».[3] “Equilibrio riflessivo” è in Rawls uno stato di cose, non necessariamente duraturo, per il quale i principi individuali coincidono con i giudizi ponderati: «la miglior rappresentazione del senso di giustizia di una persona non è quella che si adatta ai suoi giudizi prima che una qualunque concezione della giustizia sia presa in esame, ma piuttosto quella che corrisponde ai suoi giudizi in un equilibrio riflessivo». Il giudizio riflessivo non comprende tutti i giudizi esistenti di un individuo, ma solo il caso «in cui si considerano tutte le possibili espressioni a cui potrebbero realisticamente uniformarsi i giudizi di un individuo»[4].
Rawls perfeziona l’argomento di Goodman sull’equilibrio riflessivo nella sua riformulazione dell’idea di giustizia come equità, sostenendo che questo si applica ai giudizi sulla giustizia politica e in particolare a proposito di quei giudizi che sono il prodotto di selezioni meditate: «giudizi, in altri termini, formulati in condizioni nelle quali è massima la probabilità che abbiamo pienamente esercitato la nostra capacità di giudizio, senza che influenze esterne l’abbiano distorta. I giudizi meditati sono ponderazioni, cioè valutazioni formulate quando le condizioni sono favorevoli all’esercizio della facoltà della ragione e del senso di giustizia; in altre parole, in condizioni nelle quali abbiamo la capacità, la possibilità e il desiderio di arrivare a un giudizio ben fondato, o almeno non abbiamo – mancando le tentazioni più ovvie – interessi evidenti per non farlo»[5]. Non è privo di rilevanza, inoltre, che la prospettiva di Rawls permetta, anzi contenga, un uso frequente del concetto di cooperazione sociale: l’equilibrio riflessivo è anche una sorta di equilibrio cooperativo.
L’esito controintuitivo della posizione dell’equilibrio rawlsiano ha un considerevole impatto anche dal punto di vista della percezione del senso di ingiustizia, e quindi anche delle differenze. Alla base di ciò risiede proprio il concetto di reciprocità, che permette la simmetria tra ciò che viene inflitto agli altri e ciò che viene inflitto a noi stessi, eguali solo in quanto persone, quindi per ciò che concerne la nostra attitudine a essere reciprocamente differenti. Il risentimento e l’indignazione presentano una familiarità con i concetti di “giusto”/“ingiusto”: noi esprimiamo valutazioni di approvazione o disapprovazione nei confronti di p.
Rawls nota anche che nei confronti di p possiamo anche provare disprezzo, ma in questo caso il referente non è più l’opposizione “giusto”/“ingiusto”, ma “buono”/“cattivo”. In sostanza, Rawls non mira semplicemente a descrivere stati d’animo, ma ad affermare come i sentimenti morali possono essere indicatori di codici morali di riferimento, vale a dire di «principi che appartengono a parti diverse della moralità»[6].
3. Non è facile porre le basi del principio comprensivo dei diritti alla luce del puzzle delle diverse concezioni del bene e quindi della diversità culturale della società europea. Qui descrivo sinteticamente uno scenario minimo del problema e prospetto tre obiettivi possibili in riferimento al problema della sicurezza, dal momento che il mondo occidentale, nondimeno quello europeo, ha negli ultimi anni assistito alla crescita della rilevanza del concetto di sicurezza.
Dalla mia prospettiva di analisi, osservo che nelle democrazie liberali europee tale problema ha acquistato sempre maggior rilievo anche in relazione all’aumento di dimensioni di fattori di rischio nell’ambito della stabilità dei sistemi sociali (terrorismo, sfaldamento dell’equilibro eco-ambientale del pianeta, indebolimento della capacità di controllo da parte dell’individuo dei dispositivi tecnologici dei mezzi di accesso e di informazione, etc.). In tal senso, considero interessante l’ipotesi di verificare come anche le nuove tecnologie siano, paradossalmente, tanto un elemento di supporto quanto un fattore di disturbo delle istituzioni sociali. Per restare all’Europa, gli stati europei sembrano essere legittimati ad agire tanto a partire dal bisogno di sicurezza dei singoli individui quanto dal dovere di garantire un sufficiente livello di sicurezza sociale[7]. Il problema stringente e interessante per la filosofia politica è quindi il pericolo dello spostamento dell’asse che sostiene l’equilibrio tra le cure istituzionali e le minacce sociali che l’impresa strategica mira a neutralizzare.
Occorrerebbe, dal mio punto di vista, tenere presenti almeno tre principali obiettivi, che qui mi limito solo a profilare:
(i) indagare quale impatto l’enforcement delle tecnologie di controllo sociale sia in grado di produrre sul livello di disponibilità dei diritti e delle libertà fondamentali degli individui, tenuto conto del fatto che lo scopo finale della sicurezza sociale appare intrinsecamente incapace di rinunciare alla priorità verso un concetto olistico e non atomistico della società, intesa cioè come una collettività piuttosto che come un insieme di individualità aggregate;
(ii) valutare se le strategie istituzionali di sicurezza sociale determinino, nel lungo periodo, una effettiva realizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali a vantaggio di un progetto sociale coerente con i modelli welfaristici e le teorie utilitaristiche, ma probabilmente non compatibile con le teorie modellate liberali dell’egualitarismo semplice,[8] dell’equaglianza complessa[9], dell’eguaglianza di risorse[10], della misurazione della libertà[11], della teoria della giustizia distributiva in un senso più generale;
(iii) ponderare l’impatto effettivo delle strategie politiche e legislative della sicurezza nella misurazione delle relazioni concettuali tra democrazia e costituzionalismo nei sistemi liberali, vale a dire rispetto all’idea di “morale giuridica europea”. Le strategie di sicurezza, adottate con provvedimenti determinati da decisioni politiche del potere esecutivo o legislativo, potrebbero effettivamente rendere molto complicata la disposizione da parte degli individui del set di libertà e diritti fondamentali garantiti dalle costituzioni. A meno che i provvedimenti di sicurezza non riescano (come dovrebbe essere nella loro strumentale natura concettuale) ad assumere un ruolo precario o transitorio, il rischio di una loro cristallizzazione finirebbe infatti per destabilizzare il delicato equilibrio istituzionale tra libertà e legalità, generando buchi neri costituzionali e standardizzando l’errore di una pratica restrittiva dei diritti.
* Il contenuto di questo scritto è una versione rielaborata di parte del cap. V del mio Filosofia dei diritti, Le Lettere, Firenze 20182.
[1] J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione [2001], trad. di G. Rigamonti, a cura di S. Veca, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 210-211.
[2] G.H. von Wright, Valutazioni, o come dire l’indicibile [2003], trad. it. di M. Mastroddi, in Id., Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003, a cura di R. Egidi, Quodlibet, Macerata 2007, pp. 159-169, sp. p. 161.
[3] Rawls, Una teoria della giustizia [1971], trad. di U. Santini, Feltrinelli, Milano 19976, § 9, p. 56.
[4] Ivi, p. 57.
[5] Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione, cit., p. 34.
[6] Rawls, Una teoria della giustizia, cit., § 74, pp. 396-397.
[7] Cfr. ad es. J. Solana, Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza, in appendice a A. Missiroli, A. Pansa, La difesa europea, il Melangolo, Genova 2007, pp. 183-205.
[8] Rawls, Una teoria della giustizia, cit., parte I.
[9] M. Walzer, Sfere di giustizia [1983], trad. di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1987.
[10] R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza [2000], trad. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 61-122. Si tratta della ridefinizione della teoria dell’eguaglianza di risorse già presentata da Dworkin nel 1981 nella seconda parte di What is Equality?. Dworkin si riferisce all’eguaglianza delle risorse di proprietà privata. In una prospettiva di giustizia distributiva si tratta di affrontare e di risolvere le questioni generate da complicazioni dovute all’arbitrarietà e dall’iniquità. Faccio un esempio: il soggetto Y preferisce tutto ciò che gli può tornare in conto riguardo a ciò che gli sarebbe toccato se le risorse iniziali fossero state gestite in maniera più equa. Questo gli consente di superare ciò che egli sostiene essere il test dell’invidia. Egli non prova necessariamente invidia qualora altri godesse di una situazione migliore della sua, ma la cosa che al nostro soggetto Y più preme è appunto vedersi riconosciuto il suo. Al proposito, Dworkin opta per una qualche forma di asta, o in altre parole di mercato. L’idea è di dar vita procedure di allocazione di risorse aperte a tutti – ma questo in realtà presuppone la capacità intesa come requisito di competere all’allocazione di risorse: la capacità di entrare come parte attiva nel mercato, di avere la possibilità di disporre di beni per poter accedere a qualche altro bene.
[11] I. Carter, A Measure of Freedom, Oxford University Press, Oxford 1999.