ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Specificità dei motivi e motivi aggiunti in materia elettorale:
effettività della tutela versus celerità processuale?
(nota a CGARS, 3 giugno 2020, n. 380)
di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda. – 3. Specificità dei motivi e interpretazione giurisprudenziale. – 4. Requisiti di contenuto del ricorso e motivi aggiunti in materia elettorale. – 5. Conclusioni.
1. Premessa
La sentenza del CGARS n. 380 del 2020, nell’occuparsi di alcune questioni concernenti i presupposti di validità dei voti espressi in occasione di elezioni comunali, offre preziosi spunti per riflettere sulla specialità del rito elettorale.
È bene anzitutto ricostruire la vicenda nei suoi due gradi giudizio, che, pur conducendo ad esiti analoghi, si fondano su presupposti parzialmente differenti. Ciò in ragione di un supplemento di istruttoria ordinato dal giudice d’appello da cui è discesa la proposizione di motivi aggiunti e, secondo la difesa di parte appellata, un’alterazione della struttura processuale idonea a ledere gli artt. 24 e 125 Cost.
In disparte (l’irrilevanza e) l’infondatezza di un simile dubbio di legittimità costituzionale, argomentata dal Collegio in base alla considerazione per cui “non esiste una regola di diritto vivente che consenta ai motivi aggiunti nel contenzioso elettorale di andare oltre il perimetro circoscritto dal ricorso introduttivo”, il tema della loro ammissibilità, correlato al problema dell’onere di specificità dei motivi di ricorso, non solo depone nel senso della specialità sopra accennata, ma intercetta il rapporto tra declinazioni funzionali del giusto processo[1], in particolare effettività e ragionevole durata dei giudizi, che presenta sfumature peculiari in materia elettorale.
2. La vicenda
Nel 2018 si svolgeva, in provincia di Enna, una competizione per l’elezione di Sindaco e componenti il Consiglio comunale, all’esito della quale risultava escluso dal turno di ballottaggio il ricorrente (terzo classificato) in primo grado. Le censure, giudicate infondate dal T.A.R. Catania[2] per evidenziata impossibilità di risalire all’effettiva volontà degli elettori in questione, venivano riproposte nel giudizio di appello, nell’ambito del quale si rilevava la necessità di disporre una verificazione, al fine di avere piena contezza delle schede elettorali in contestazione.
Discendeva da ciò la proposizione di motivi aggiunti “propri” da parte del ricorrente in appello, che infine limitavano le doglianze ad un numero inferiore di schede, purtuttavia suscettibile di sostenere l’ammissibilità del gravame, viceversa, contestata in relazione all’assolvimento dell’onere di specificazione delle censure e in virtù dell’orientamento in base al quale, in conseguenza di una verificazione, non è possibile contestare tramite motivi aggiunti schede ulteriori o per motivi diversi.
Il CGARS ha respinto dette eccezioni di inammissibilità.
In primo luogo ha affermato che, ai fini dell’ammissibilità dei motivi di ricorso, è sufficiente specificare le questioni “in modo da permettere l’identificazione dei vizi del provvedimento che si vuole denunciare e l’individuazione delle norme ritenute violate”, pure alla luce dell’art. 156 c.p.c. sul raggiungimento dello scopo di un atto processuale idoneo a dimostrare il titolo e la causa delle richieste e delle norme che le giustificano[3]. A tale stregua è stata esclusa la natura meramente esplorativa del ricorso, in quanto, in entrambi i gradi di giudizio, è stata indicata la natura dei vizi, il numero delle schede e le sezioni di riferimento[4].
Quanto all’ammissibilità dei motivi aggiunti, poi, si è evidenziato che il numero di schede così contestate non supera il numero di quelle censurate con il ricorso introduttivo, in tal modo sviluppandosi vizi di legittimità, in precedenza articolati, riguardanti talune invalidazioni determinate da errori di scrittura del nome del candidato o di apposizione del crocesegno. Infatti, non può considerarsi “nuovo” il motivo finalizzato a una migliore specificazione del vizio o della scheda visionata successivamente a verificazione[5].
Tramite detto strumento il giudice amministrativo ha avuto la possibilità di accedere al “fatto storico” oggetto della controversia, ossia le schede elettorali, e quindi esercitare correttamente la propria giurisdizione, pur confermando nella sostanza la pronuncia del T.A.R. In altri termini, il CGARS si è avvalso del potere che l’art. 104, comma 2, c.p.a. riconosce al giudice di secondo grado ove nuove prove appaiano indispensabili per la decisione della causa, e lo ha fatto in una di quelle materie in cui storicamente al giudice amministrativo non è stata preclusa la cognizione della quaestio facti[6].
Tutto ciò allo scopo di emettere una sentenza “giusta”, cioè in grado di realizzare il fine della giurisdizione[7], essendo di comprensione più immediata censure poste in collegamento diretto con le schede in contestazione, con evidenti ripercussioni, inoltre, sul potere di azione della parte a mezzo di motivi aggiunti. Non risultano difatti violate le regole sul divieto di nova in appello, né quelle desumibili dal diritto vivente rappresentato dalla giurisprudenza amministrativa stratificatasi in materia elettorale sotto il profilo (dell’attenuazione) dell’onere di specificità dei motivi e successivo ricorso per motivi aggiunti.
Per comprendere la portata di simili affermazioni, e coglierne le peculiarità rispetto alla disciplina generale, è opportuno muovere dall’analisi di quest’ultima. Ciò consentirà di valutare in concreto l’idea secondo cui il contenzioso in argomento, data la presenza di “barriere” all’effettivo esercizio della tutela giurisdizionale[8] giustificabili – si suole affermare – in ragione del principio di democraticità e regolare funzionamento delle istituzioni, che a sua volta legittima una significativa contrazione della tempistica processuale, è essenzialmente preordinato al soddisfacimento di preminenti interessi pubblici[9] che collocano il “microsistema”[10] elettorale ai margini di una giurisdizione di tipo soggettivo.
3. Specificità dei motivi e interpretazione giurisprudenziale
L’articolazione dei motivi su cui si fonda il ricorso, ossia delle ragioni della domanda (causa petendi), ha valenza cruciale, in quanto è su essi che il giudice è chiamato a pronunciarsi. In un processo di parti improntato al principio della domanda, allora, sono del tutto comprensibili norme come quelle delineate dall’art. 40, comma 1, lett. d), e comma 2, c.p.a., dove la specificità dei motivi di ricorso è richiesta a pena di inammissibilità, ovvero dell’art. 101, comma 1, c.p.a., dove il riferimento è operato alle “specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”.
Attraverso i motivi di ricorso si cristallizza il thema decidendum; il che presuppone un’adeguata consistenza delle censure dedotte in giudizio[11], non risultando di regola ammissibili ragioni formulate in via ipotetica o, comunque, incentrate su mere supposizioni. In altri termini, il ricorso non può possedere natura meramente esplorativa[12], o propagandistica[13], e l’analiticità delle contestazioni diviene essa stessa indizio di attendibilità della ricostruzione che sorregge le doglianze[14].
In presenza di motivi generici, non potrebbe neppure essere invocato il principio iura novit curia. La conoscenza del giudice delle norme ordinamentali, infatti, non incide sull’onere delle parti di specificare adeguatamente le proprie richieste, in quanto il giudice non è tenuto ad ovviare, con la sua attività, all’incapacità delle parti di reperire il fondamento delle rispettive pretese[15].
Se così fosse, problemi di effettività del contraddittorio a parte, risulterebbe irrimediabilmente compromesso il canone della corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., applicabile in sede di giudizio amministrativo in base alla norma sul rinvio esterno (art. 39 c.p.a.), materializzandosi un vizio di ultrapetizione ogniqualvolta il giudice dovesse giungere all’accoglimento del ricorso alla stregua di un motivo non prospettato[16].
In tale apparato concettuale, è appena il caso di osservare come lo stesso potere del giudice amministrativo di qualificare l’azione in base ai suoi elementi sostanziali, da cui consegue quello di conversione ex art. 32 c.p.a.[17], è soggetto a limitazioni, anzitutto, percepibili sul piano squisitamente processuale, ma rilevanti, altresì, dal punto di vista del rapporto tra azioni. Sotto il primo profilo, può essere utile richiamare l’esempio del ricorrente che si veda convertire l’azione avverso il silenzio in un’azione di ottemperanza[18]. Sotto il secondo, invece, può brevemente accennarsi alla sentenza n. 4/2015 con cui l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, occupandosi dei rapporti tra tutela costitutiva e tutela risarcitoria, ha fornito importanti chiarimenti in merito al principio della domanda.
La prima forma di tutela presuppone una domanda che si caratterizza per i seguenti elementi identificativi: una causa petendi consistente nella illegittimità e un petitum di annullamento dei provvedimenti impugnati; con riguardo alla seconda, la causa petendi è rappresentata dalla illiceità e il petitum dalla richiesta di condanna al risarcimento in forma generica o specifica. L’Adunanza Plenaria ha escluso la possibilità di addivenire a una sentenza di condanna a fronte di un’azione di annullamento, a prescindere dagli inconvenienti, nel caso di specie, legati al tempo trascorso dall’adozione dei provvedimenti impugnati e ai pregiudizi per i controinteressati. Una simile conclusione si fonda sul presupposto che il giudice amministrativo non può “modulare” le forme di tutela a scapito di quanto richiesto dalle parti, ma solo determinarne la portata in ragione dei motivi di ricorso e dell’interesse del ricorrente.
Il generale onere di specificità della domanda si traduce, in un giudizio di annullamento, in quello di specificità, in primo grado, dei motivi di impugnazione del provvedimento. Ne discende, sul piano logico-giuridico, il divieto di nova in appello, riferibile sia agli atti impugnati, sia alle doglianze proposte[19], giacchè è il ricorso introduttivo a delineare il perimetro della controversia[20].
4. Requisiti di contenuto del ricorso e motivi aggiunti in materia elettorale
Si tratta, a questo punto, di comprendere in che modo simili regole si atteggiano nel contenzioso elettorale e, per farlo, è necessario considerare il ruolo della giurisprudenza sovente chiamata a conciliare interessi in gioco contrapposti: da un lato l’effettività della tutela giurisdizionale, dall’altro la celerità che, in ogni caso, il giudizio elettorale deve assicurare[21].
Ancorché si richieda sempre, ai fini dell’ammissibilità del ricorso o delle singole doglianze, che l’atto introduttivo, come già accennato, indichi natura dei vizi denunziati, numero delle schede contestate e sezioni cui esse si riferiscono, è stato a più riprese affermato che nei giudizi elettorali “il principio della specificità dei motivi di censura e dell’onere della prova è da considerarsi attenuato […] in considerazione della peculiare situazione di (obiettiva) difficoltà in cui si trova il soggetto che ha interesse ad aggredire le operazioni elettorali illegittime, sulla base di semplici informazioni, pur formalmente dichiarate e acquisite agli atti del giudizio, ma necessariamente indiziarie” e, a tale stregua, si è concluso che “possono ritenersi ammissibili censure anche parzialmente generiche o che risultino poi affette da errata individuazione del fatto che ha provocato la determinazione illegittima”[22]. In sostanza, resterebbe preclusa la sola proposizione di ricorsi con finalità esplorative o, comunque, diretti a stimolare l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice.
In realtà, non è sempre facile valutare se il ricorso elettorale intenda, o meno, perseguire simili finalità, tanto più che lo svolgimento dell’attività istruttoria – come dimostra il primo grado di giudizio della vicenda in esame – spesso si rivela incompleto, impedendo all’organo giudicante un pieno accesso al fatto. Tale considerazione resta valida, ad avviso di chi scrive, sebbene la disciplina del procedimento elettorale, nel prevedere particolari forme di pubblicità delle operazioni, attribuisca un ruolo di controllo e di partecipazione ai candidati, ai rappresentanti di lista e, sia pure in forma più attenuata, agli elettori. Le contestazioni incentrate sulla deduzione a verbale delle pretese irregolarità nella valutazione delle espressioni di voto, in particolare, dovrebbero assicurare una forma di contraddittorio durante le operazioni elettorali e agevolare l’individuazione del materiale istruttorio nell’ottica di un eventuale ricorso giurisdizionale[23].
Il problema, a tacer d’altro, può essere in primo luogo rappresentato dall’ubicazione della competizione elettorale. Non si può infatti prescindere dalle connotazioni culturali, sociali ed economiche locali per valutare effettivamente la regolarità delle espressioni di voto. È questo, d’altro canto, il criterio impiegato dalla giurisprudenza per interpretare le disposizioni (v. in particolare l’art. 64 del d.P.R. n. 570/1960) concernenti la nullità dei voti contenuti in schede recanti scritture o segni idonei a rivelare la volontà dell’elettore di farsi riconoscere poiché “estranei alle esigenze di espressione del voto”, non trovando “ragionevoli spiegazioni nelle modalità con cui l’elettore ha inteso esprimere il voto stesso”[24].
Si deve, inoltre, considerare che la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta dei propri rappresentanti – di cui si rinviene traccia sia nell’art. 48 Cost.[25], sia negli artt. 39 della Carta di Nizza e 3 del I Protocollo addizionale alla Cedu[26] – ha reso dirimente, come criterio esegetico, il favor voti “che restringe l’applicazione della sanzione di nullità in limiti rigorosi, trovando la propria ratio nella necessità di garantire il rispetto della volontà espressa dal corpo elettorale e di assicurare a tutti gli elettori di effettuare le loro scelte e, quindi, anche a coloro che non siano in grado di apprendere e di osservare appieno le istruzioni ai fini dell’espressione di voto”[27].
Il sistema mira a preservare le manifestazioni di volontà del corpo elettorale ed è proprio in tale ottica che bisogna intendere statuizioni come quella per cui “le modifiche o il sovvertimento del risultato elettorale non possono dipendere dalla effettiva conoscibilità dei vizi eventualmente sussistenti”[28]. Infatti, da un lato l’interesse di ogni candidato è quello di partecipare alla consultazione in un definito contesto politico e ambientale[29], dall’altro tale speditezza custodisce l’interesse della comunità territoriale allo svolgimento delle elezioni nei tempi designati, alla stabilità e alla certezza dei risultati elettorali.
In tale prospettiva, la giurisprudenza suole subordinare l’ammissibilità del ricorso per motivi aggiunti al fatto che essi rappresentino un sostanziale sviluppo logico delle prime doglianze[30], cosicchè la loro proposizione è circoscritta ai casi in cui le censure originarie possano trovare ragioni di esplicitazione e puntualizzazione nelle risultanze degli accertamenti istruttori disposti dal giudice[31]. In base a tali premesse, nel caso di specie, il CGARS ha escluso che i motivi aggiunti proposti a seguito della verificazione abbiano determinato un ampliamento del thema decidendum, essendo piuttosto deputati a specificare le censure originarie.
La regola secondo cui il ricorrente, in ragione della disparità in cui può concretamente trovarsi al cospetto dell’amministrazione, è legittimato a produrre un principio di prova, a maggior ragione, si applica al contenzioso elettorale e si correla all’attenuazione del rigore richiesto ai fini della specificità dei motivi di ricorso[32]. La parte è quindi legittimata a proporre motivi aggiunti ogniqualvolta gli stessi non denuncino schede ulteriori o per motivi diversi, in conseguenza di attività istruttoria, ma si collochino nel perimetro circoscritto dal ricorso.
L’interesse pubblico allo svolgimento delle elezioni nei tempi prestabiliti e alla certezza dei risultati, in sostanza, può realmente incidere sull’effettività della tutela giurisdizionale, e le regole del rito elettorale, a parte quanto si è finora osservato circa contenuto del ricorso e ammissibilità (limitata) di motivi aggiunti, si rivelano tuttora idonee a qualificarlo come “microsistema rimasto pressochè indenne ai profondi cambiamenti subiti dal processo amministrativo”[33]. Si rifletta, solo per fare qualche esempio, sulle norme concernenti la difesa personale nel primo grado di giudizio (art. 23 c.p.a.), l’esenzione dagli oneri fiscali (art. 127 c.p.a.), la sottoposizione del ricorso ex art. 129 c.p.a. al termine di tre giorni dalla pubblicazione o, se prevista, dalla comunicazione degli atti impugnati, ovvero sull’azione popolare di cui all’art. 130, comma 1, c.p.a., alla quale si accompagna l’inversione della classica sequenza notifica-deposito del ricorso per consentire al presidente del tribunale di fissare l’udienza di discussione della causa “in via di urgenza”[34].
5. Conclusioni
La ratio acceleratoria cui risulta improntato il contenzioso elettorale, in definitiva, emerge sia dal punto di vista normativo che dell’interpretazione giurisprudenziale, ma non sempre si accompagna alla valorizzazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ciò in ragione di preminenti interessi pubblici – allo svolgimento delle elezioni nei tempi designati, alla stabilità e alla certezza dei risultati elettorali – i quali richiedono che il giudizio sia organizzato e celebrato in tempi adeguati a garantirli in concreto[35].
Merita ricordare che, in base a tali presupposti e all’ampliamento dei poteri istruttori del giudice amministrativo, il Consiglio di Stato aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto “la riserva al giudice ordinario dei giudizi di accertamento della falsità di atti pubblici attraverso la speciale procedura della querela di falso e la preclusione per il giudice amministrativo dell’accertamento, anche solo incidentale, di tali falsità”[36]. Una simile evenienza, infatti, in considerazione dei tempi necessari per la definizione della causa pregiudiziale di falso dinanzi al giudice ordinario, è suscettibile di vanificare la suddetta ratio.
Invero, solo se la struttura processuale è adeguata il giudizio può realizzare il fine della giurisdizione. Se ne trae implicita conferma nelle soluzioni adottate dalla giurisprudenza chiamata a conciliare effettività della tutela giurisdizionale e celerità che, in ogni caso, i giudizi elettorali devono assicurare.
Il rapporto tra attenuazione dell’onere di specificità dei motivi di ricorso e ammissibilità dei motivi aggiunti, analizzato alla luce della sentenza n. 380/2020 del CGARS, conferma tale assetto e contribuisce alla rappresentazione della specialità del contenzioso elettorale.
[1] Cfr. F.G. Scoca, I principi del giusto processo, in Id. (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2017, 164. Si vedano, inoltre, F. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 9, che riconosce al giusto processo il “ruolo” di principio guida; E. Picozza, Il “giusto” processo amministrativo, in Cons. Stato, II, 2000, 1061 ss., successivamente alla novella recata all’art. 111 Cost. dalla l. cost. n. 2 del 1999.
[2] Tar Sicilia, Catania, sez. II, 12 dicembre 2018, n. 2366.
[3] V. ex multis Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2011, n. 1792, secondo cui “ai fini della regolarità e ammissibilità dei motivi del ricorso, basta quindi che siano sufficientemente specificate le questioni che si intendono proporre al Giudice, in modo da permettere l’identificazione dei vizi del provvedimento che si vuole denunciare e l’individuazione delle norme ritenute violate, ancorché gli uni e le altre non siano precisamente ed espressamente specificati, poiché la formulazione alquanto sintetica dei motivi non impedisce al Giudice ed alle parti resistenti di coglierne il contenuto, considerato anche che l’art 156 c.p.c. esclude la dichiarazione della nullità per inosservanza di forme di un atto processuale che abbia raggiunto il suo scopo”.
[4] Cfr. Cons. Stato, ad. plen., 20 novembre 2014, n. 32.
[5] Come noto, la verificazione consiste in un incombente a natura illustrativa volto a completare la conoscenza di fatti non immediatamente desumibili dalle produzioni documentali (v. Cons. Stato, sez. VI, 12 novembre 2014, n. 5552), in nessun caso adoperabile come strumento di valutazione diretta delle censure oggetto di ricorso (Cons. Stato, sez. V, 25 febbraio 2016, n. 785).
[6] Ad avviso di P.G. Ponticelli, La giurisdizione di merito del Consiglio di Stato. Indagini storiche, Milano, 1958, 161, quella di merito è “una giurisdizione più ampia creata ad analogia del giudice ordinario di merito e costituente essenzialmente un giudizio completo in fatto, oltreché in diritto”. Su questa linea, si veda già A. Amorth, Il merito dell’atto amministrativo, Milano, 1939, 112 ss., e, più di recente, A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, I, Padova, 2000, 35 ss. Si concentrano sui maggiori poteri del giudice amministrativo in sede di giurisdizione di merito, fra i molti, M.S. Giannini - A. Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 261.
[7] Sul punto cfr. G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 81.
[8] Cfr. F. Cintioli, L’azione popolare nel contenzioso elettorale amministrativo, in Dir. amm., 2008, spec. 346 e 356.
[9] Così, infatti, Cons. Stato, ad. plen., 24 novembre 2005, n. 10, con nota di C.E. Gallo, L’ambito del giudizio elettorale nella decisione dell’adunanza plenaria n. 10 del 2005, in Foro amm. - C.d.S., 2005, 3244 ss.
[10] P.M. Vipiana, Contenzioso elettorale amministrativo, in Dig. disc. pubbl., IV, Torino, 1989, 14.
[11] Come si legge nella stessa sentenza del CGARS n. 380 del 2020, “i motivi di ricorso devono considerarsi muniti di adeguata consistenza e specificazione (che ne impone l’esame da parte del giudice) non già quando descrivono le conclusioni cui essi sono indirizzati, ma se e quando indicano pure le ragioni che vengono poste a base di siffatte conclusioni e danno dimostrazione, secondo l’intendimento del ricorrente, del titolo e della causa delle richieste e delle norme che le giustificano”.
[12] Sul punto cfr. Cons. Stato, ad. plen., n. 32 del 2014. In tale prospettiva, merita ricordare che la giurisprudenza amministrativa si è espressa in diverse occasioni sul principio della c.d. prova di resistenza, ponendolo in collegamento diretto col principio del favor voti e con il “canone antiformalistico positivamente scolpito all’art. 21-octies della l. n. 241/1990”: così Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 28 novembre 2012, n. 1163. Più di recente v. Tar Umbria, sez. I, 29 gennaio 2020, n. 37; Tar Basilicata, sez. I, 3 ottobre 2019, n. 733; Tar Toscana, sez. II, 24 settembre 2019, n. 1283.
[13] Cons. Stato, ad. plen., n. 10 del 2005.
[14] Cfr. Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 2 ottobre 2019, n. 860; Tar Campania, Salerno, sez. I, 3 dicembre 2012, n. 2186; Tar Lazio, Roma, sez. II, 10 febbraio 2010, n. 1860.
[15] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2012, n. 551; Cons. Stato, sez. V, 22 settembre 2011, n. 5345; Cons. Stato, sez. V, 8 febbraio 2011, n. 854; Cons. Stato, sez. V, 13 luglio 2006, n. 4419; Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2004, n. 7621; Tar Campania, Salerno, sez. I, 5 novembre 2018, n. 1550; Tar Lazio, Roma, sez. II, 25 novembre 2014, n. 11768; Tar Sicilia, Catania, sez. III, 7 marzo 2012, n. 581. Sulla portata applicativa del principio iura novit curia, da ultimo, si veda Cass. civ., sez. III, ord. 13 maggio 2020, n. 8883.
[16] Per un inquadramento teorico della tematica, si veda M. Nigro, Domanda (principio della) (dir. proc. amm.), in Enc. giur., XII, Roma, 1989. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 6 giugno 2012, n. 3337), la regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato costituisce espressione del potere dispositivo delle parti: il giudice non può pronunciare oltre i limiti della concreta ed effettiva questione che le parti hanno sottoposto al suo esame, ossia eccedendo i limiti del petitum e della causa petendi. A tale stregua, il vizio di ultrapetizione sussiste qualora il giudice abbia attribuito alla parte un bene della vita non richiesto, ovvero abbia esaminato e accolto il ricorso per un motivo non prospettato dalle parti. La dottrina (cfr. F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 50 ss.) ha rilevato da tempo che l’esercizio di poteri officiosi non può comunque comportare il governo del giudice sulle affermazioni del ricorrente. Sul rapporto tra principio dispositivo e poteri del giudice amministrativo, si veda A. Romano Tassone, Poteri del giudice e poteri delle parti nel nuovo processo amministrativo, in Scritti in onore di Paolo Stella Richter, I, Napoli, 461 ss.
[17] Sul punto cfr. G. Corso, Art. 32, in A. Quaranta - V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 325.
[18] Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. V, 15 ottobre 2012, n. 4119.
[19] In tal senso v. Cons. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2168. Si veda, inoltre, Cons. Stato, sez. VI, 28 dicembre 2017, n. 6142.
[20] Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2018, n. 1859.
[21] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2018, n. 6126.
[22] Così la sentenza in nota.
[23] Cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. III, 9 luglio 2003, n. 1110, cui adde F. Saitta, Giudizio in materia di operazioni elettorali ed onere della prova: attenuazione o… aggravamento?, in Foro amm. - Tar, 2003, 2825 ss.
[24] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 18 gennaio 2016, n. 142; Cons. Stato, sez. V, 7 gennaio 2013, n. 12; Cons. Stato, sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6608; Cons. Stato, sez. V, 18 novembre 2011, n. 6070. Pertanto, le mere anomalie del tratto, le incertezze grafiche, le indicazioni di incerta identificazione della volontà o suscettibili di spiegazioni diverse non invalidano di per sé il voto espresso.
[25] Sulla natura fondamentale del diritto di voto v. Corte Cost., 13 gennaio 2014, n. 1.
[26] In tema v. F. Goisis, Pretesa sostanziale del cittadino elettore nel contenzioso elettorale avanti al giudice amministrativo e profili di incostituzionalità dell’art. 129 c.p.a., in Dir. proc. amm., 2013, 160.
[27] Cons. Stato, sez. V, 22 febbraio 2001, n. 1020.
[28] Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2014, n. 755.
[29] In questi termini Corte Cost., 7 luglio 2010, n. 236, in Giur. cost., IV, 2010, con note di R. Chieppa, Riflessi della sent. 236 del 2010 sulla tutela degli atti di procedimento preparatorio alle elezioni (codice del processo amministrativo e procedimento elettorale politico), 2905 ss., e E. Lehner, Finalmente sancita l’immediata impugnabilità degli atti preliminari alle elezioni locali e regionali, 2908 ss. La Corte era stata investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del d.P.R. n. 570/1960 nella parte in cui risultava esclusa la possibilità di un’autonoma impugnazione degli atti endoprocedimentali elettorali, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti: cfr. Tar Liguria, sez. II, ord. 28 maggio 2009, n. 90, con nota di C.E. Gallo, Nuovamente alla Corte Costituzionale l’impugnabilità immediata dei provvedimenti di esclusione dalla competizione elettorale, in Giust. amm., 2009, 151 ss.
[30] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 21 novembre 2016, n. 4863.
[31] In tal senso v. Cons. Stato, sez. V, 11 luglio 2002, n. 3902.
[32] L’osservanza dell’onere di specificità dei motivi, chiaramente, non assorbe l’onere della prova. Un ricorso recante l’esplicazione dettagliata delle irregolarità in cui sia incorsa la sezione elettorale, infatti, dovrebbe comunque essere sorretto “da allegazioni ulteriori rispetto alle affermazioni del ricorrente” (Cons. Stato, ad. plen., n. 32 del 2014).
[33] P.M. Vipiana, Contenzioso elettorale amministrativo, cit., 14.
[34] Per approfondimenti ulteriori, sia consentito rinviare a G.A. Primerano, Il contenzioso elettorale davanti al giudice amministrativo nella recente evoluzione normativa e giurisprudenziale (a margine di Adunanza Plenaria n. 22 del 2013), in Dir. proc. amm., 2014, 927 ss.
[35] Sul punto cfr. A. Pajno, Fase preparatoria delle elezioni politiche e contenzioso elettorale. Verifica dei poteri, regolazione della giurisdizione e transizione italiana, in Corr. giur., 2008, 1693.
[36] Cons. Stato, sez. V, ord. 16 febbraio 2011, n. 1000. La questione di legittimità costituzionale è stata, tuttavia, dichiarata infondata da Corte Cost., 11 novembre 2011, n. 304. Per una rivisitazione critica di tale sentenza, e per ulteriori sviluppi, cfr. G.A. Primerano, La pregiudizialità civile nel processo amministrativo, Torino, 2017, spec. 275 ss.
Intervista alle correnti. Cesare Bonamartini, Autonomia & Indipendenza
di Riccardo Ionta
Deriva e scarroccio. L’imbarcazione subisce uno scostamento e la rotta effettiva non coincide più con quella necessaria. Deriva è l’effetto della corrente, massa in movimento verso una direzione sotto il filo dell’acqua, difficile da percepire in assenza di punti di riferimento. Scarroccio è l’effetto del vento, viene da una direzione battendo sulla superfice emersa, ed è sufficiente sentirne la forza. Correnti e venti possono perturbare la navigazione, sfavorirla. Possono anche, tuttavia, favorirla sospingendo l’imbarcazione nel giusto senso. Dipende dalla direzione delle forze, dal loro combinarsi, dalla consapevolezza di chi naviga.
Giustizia Insieme è un’endiadi, uno spazio di libertà per la giustizia e il pluralismo, e nel momento in cui la magistratura è trascinata dalle correnti e battuta da plurimi venti, ha posto delle domande a quattro magistrati, (al momento dell’intervista) componenti di vertice dell’A.N.M., eletti per Area (Luca Poniz), Unicost (Giuliano Caputo), Autonomia e Indipendenza (Cesare Bonamartini), Magistratura Indipendente (Paola D’Ovidio).
Venti e correnti, prima o dopo, passano. E in una lunga traversata, prima o dopo, altri e altre ne ritornano. In ogni caso, l’importante è aver ben chiara la destinazione, conoscere sia i venti, sia le correnti, ed avere comunque un buon governo del timone.
La seconda intervista è a Cesare Bonamartini (Autonomia e Indipendenza).
La prima intervista a Luca Poniz (Area) è raggiungibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1182-intervista-alle-correnti-luca-poniz-area
Sommario: 1. Perugia; 2. Populismi; 3. Le correnti; 4. C.S.M.; 5. A.N.M. e C.S.M.; 6. Pesi e contrappesi; 7. Pubblici ministeri e A.N.M.; 8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale; 9. Le elezione dei Consigli Giudiziari; 10. Futuro Prossimo.
1. Perugia
L’indagine di Perugia è un’indagine su ipotesi di reato di un ex consigliere del C.S.M. sfociata in un’inchiesta sul “dietro le quinte” del C.S.M.? Perché L’A.N.M. ha chiesto la trasmissione integrale degli atti dell’indagine di Perugia?
L’indagine di Perugia ha, in primo luogo, reso manifesta la degenerazione correntizia ormai radicatasi all’interno del C.S.M., fondando, purtroppo, i più foschi timori ormai da tempo manifestati da vari voci critiche all’interno della Magistratura, tra cui il gruppo di A&I.
Tuttavia, l’indagine di Perugia ha evidenziato anche una preoccupante tendenza dei componenti dell’organo di Autogoverno a consentire alla politica – o meglio a quella parte della politica che al confronto istituzionale aperto e leale preferisce contatti paralleli per lo più non conoscibili dalla collettività – di intromettersi in scelte riservate al C.S.M., rispetto alle quali ogni soggetto politico dovrebbe essere rigorosamente escluso.
La circostanza che alcuni dei politici fossero magistrati in aspettativa per mandato parlamentare, come Cosimo Ferri o Donatella Ferranti (comparsa nelle chat da ultimo pubblicate dalla stampa), non consente di ritenere in alcun modo legittimo, né opportuno il loro interessamento alle decisioni riservate al Consiglio Superiore, concretando tale ingerenza un vulnus al principio fondamentale della separazione dei poteri.
Personalmente, trovo stupefacente che non tutti i colleghi provino un sentimento di profondo sdegno di fronte a tali intromissioni, accettandole in virtù dello status di magistrati dei parlamentari coinvolti, perché in questo modo si verifica una lesione inaccettabile al governo autonomo della magistratura, che è presidio dell’indipendenza dell’Ordine Giudiziario.
L’immagine della magistratura che è stata restituita dalle notizie di stampa relative all’indagine di Perugia ha gravemente incrinato la credibilità dell’ordine giudiziario anche se, all’evidenza, i fatti riguardano solo una parte non cospicua di magistrati e non afferiscono strettamente all’attività giurisdizionale. Anzi, l’esercizio della giurisdizione resta sostanzialmente preservato anche se temo che questa campagna di stampa rischi di ingenerare nei cittadini una sfiducia, in realtà ingiustificata, nella giustizia.
Considerato che l’ANM rappresenta oltre il 90% dei magistrati italiani, è evidente l’assoluto interesse ad avere compiuta conoscenza del contenuto delle indagini, anche, a mio avviso, in un’ottica risarcitoria per il danno arrecato all’immagine della magistratura intera mediante costituzione di parte civile nell’eventuale processo che dovesse essere celebrato.
La disponibilità degli atti di indagine consentirà poi di valutare eventuali illeciti disciplinari ascrivibili agli associati che abbiano posto in essere condotte contrarie alle finalità dell’ANM o che abbiano gettato discredito sull’ordine giudiziario o violato il codice etico della magistratura.
2. Populismi
L’appello a un’immagine ideale del popolo, incitato a riprendere il ruolo che qualcuno gli ha indebitamente sottratto, è considerata una delle principali caratteristiche dei populismi. Esiste davvero un populismo giudiziario oppure esiste davvero una magistratura onesta e una magistratura disonesta?
Faccio fatica a calare la nozione di populismo sia nell’ambito dell’attività giurisdizionale che in quello della politica associativa. Il magistrato deve applicare la legge e, in quanto tale, l’attività giudiziaria non può essere populista.
Quanto all’attività associativa nelle proposte di riforma della magistratura, anche quelle che personalmente non condivido, quale l’introduzione del sorteggio per i componenti del CSM, è sempre presente una rivisitazione critica del sistema istituzionale per superarne i difetti visibili a tutti.
Non credo neppure in una distinzione tra magistratura onesta e disonesta, anche se, allargando lo sguardo, l’adozione di decisioni secondo logiche di appartenenza correntizia finisce per minare l’onestà intellettuale delle scelte adottate.
Tuttavia, credo sia necessario segnalare che anche nell’attività di alta amministrazione riservata al Consiglio Superiore della Magistratura gli ambiti in cui tali logiche correntizie hanno operato sono, tendenzialmente, limitati a pochi posti, più ambiti e spesso localizzati geograficamente.
Al di là degli inaccettabili casi di fatti criminali commessi da magistrati, credo necessario che l’onestà si esplichi quotidianamente nell’attività giudiziaria, avendo ben chiaro – in punto di impegno - che i procedimenti trattati corrispondono ad interessi nella vita delle persone e tenendo sempre presente, come detto da Papa Francesco proprio in occasione di un incontro con l’ANM, “la superiorità della realtà sull’idea” ad evitare che la nostra chiave di lettura deformi quanto abbiamo di fronte, adeguandolo al nostro pensiero.
3. Le correnti
Le correnti. Sono gruppi di pensiero organizzato, gruppi organizzati di potere o cosa sono?
A mio avviso attualmente le correnti hanno perso, in gran parte, la loro connotazione di gruppi di pensiero organizzato anche perché gran parte dell’elaborazione culturale offerta riguarda non tanto la giurisdizione, ma si rivolge essenzialmente verso l’attività consiliare e la sua organizzazione.
Credo che tale dato sia il presupposto logico che ha condotto le correnti a perdere l’originaria vocazione culturale e a dedicarsi soprattutto alla gestione della discrezionalità propria dell’attività del C.S.M..
Così ridefinito l’ambito principale di operatività delle correnti, su di esso si è innestata la degenerazione spartitoria resa evidente dall’indagine di Perugia, dovendosi rimarcare come non sempre i colleghi si siano avvicinati ad un gruppo associativo perché ne condividevano le impostazioni culturali o i programmi ma, piuttosto, perché pensavano che il sostegno di una corrente fosse l’unico modo per poter coltivare con successo eventuali domande per i posti ambiti (di solito direttivi, semi direttivi o di legittimità).
4. C.S.M.
Il C.S.M. è titolare di molteplici poteri discrezionali - non solo riguardo alle nomine - nelle cui sfuggenti dinamiche si insinuano le derive correntizie, anche perché i magistrati interessati non godono di forme di partecipazione. E’ necessario ridurre i poteri, la discrezionalità? E’ sufficiente implementare la trasparenza del potere e le forme di partecipazione?
Credo che certamente la previsione di forme di pubblicità (penso alla pubblicazione dei curricula dei candidati ad incarichi direttivi) e di partecipazione (con audizioni degli interessati, come già ora avviene più di frequente), possa dare un ausilio nella direzione del buon andamento dell’amministrazione consiliare.
Tuttavia, non posso non notare che, quando sono entrato in magistratura, nel 1998, il funzionamento del C.S.M. era sostanzialmente oscuro ai più, mentre a partire dal 2006 hanno avuto inizio una serie di comunicazioni volte a consentire di seguire i lavori consiliari, con una rincorsa che degenera, non di rado, in una vera e propria gara da parte delle correnti per fornire per primi le informazioni ai colleghi così ingenerando l’idea, invero non corretta, di “monopolio” delle correnti medesime di accesso alle fonti di conoscenza privilegiate e influenti.
Tale pubblicità, tuttavia, non ha in alcun modo inciso sulle trasparenza delle nomine per i posti direttivi e semi-direttivi, rispetto ai quali il testo unico licenziato nella passata consiliatura ha consentito di fare uso di una discrezionalità prossima all’arbitrio.
Credo che sia indispensabile, pertanto, che il Consiglio introduca criteri chiari di valutazione dei magistrati al fine di limitare gli eccessi di discrezionalità.
Mi permetto, peraltro, di segnalare la necessità che tutti coloro che operano a livelli diversi nella redazione dei profili dei magistrati abbiano maggiore attenzione a restituire un quadro fedele della professionalità dei colleghi, perché la redazione di rapporti e pareri in chiave costantemente elogiativa non consente di apprezzare le differenze che indubbiamente sussistono tra i magistrati, finendo per condurre ad una palude di opacità in cui è pressoché indistinguibile – in virtù dei dati formali - il magistrato che è punto di riferimento di un ufficio giudiziario da quello che “vivacchia”, magari collezionando incarichi apparentemente indicativi di grande professionalità.
Essenziale è, poi, la valorizzazione dei pre-requisiti di equilibrio, indipendenza ed imparzialità che costituiscono l’essenza del magistrato ed in assenza dei quali l’esercizio della giurisdizione non può mai essere apprezzabile.
Peraltro, a mio avviso è essenziale una preliminare opera “culturale” che chiarisca nuovamente ai colleghi che i magistrati si distinguono solo per funzioni, in modo da ridurre la corsa sfrenata ai posti direttivi e semidirettivi, cui è sottesa l’idea che l’esercizio della giurisdizione svincolato da tali incarichi sia “minore”, quando dovrebbe essere chiaro a tutti che abbiamo superato il concorso per fare i giudici e i pubblici ministeri e non gli “organizzatori”.
5. A.N.M. e C.S.M.
A.N.M. e C.S.M. rappresentano la stessa sostanza sotto forme diverse?
Nonostante la sostanziale identità degli aventi diritto al voto e la presenza di gruppi corrispondenti in seno ad ANM ed al C.S.M., con ovvia possibilità di comunicazione, non credo possa affermarsi l’identità di linea “politica” tra le due realtà.
Credo, però, che sia auspicabile un allentamento del collegamento tra correnti, e loro interessi, rispetto alle dinamiche di costituzione e funzionamento del C.S.M., che consentirebbe anche all’Associazione un dibattito “politico” sulle generali direttive di azione e decisione di quest’ultimo, non più tarpato da patti tacitamente rispettati, nell’osservanza del principio di reciprocità, per non disturbare il manovratore.
6. Pubblici ministeri e A.N.M
Perché i vertici dell’A.N.M. sono quasi sempre ricoperti da pubblici ministeri?
Ho imparato sulla mia pelle, durante l’anno passato in GEC, che l’attività associativa richiede, oltre che impegno, assidua presenza fisica.
Alla luce di tale esperienza credo che la relativa maggiore rappresentanza dei magistrati requirenti abbia due ragioni, una delle quali, assai banalmente, è di carattere “logistico”, in quanto non è prevista, neppure per i vertici nazionali della A.N.M., esenzione alcuna dal lavoro giudiziario. I requirenti sono in generale più liberi di organizzare i propri impegni di servizio, essendo il pubblico mistero un ufficio impersonale, mentre i giudicanti hanno vincoli tabellari rigidi in termini di calendari di udienze, composizione dei collegi, immutabilità del giudice: ciò è difficilmente compatibile con impegni associativi a livello nazionale che, per i vertici, richiedono gravosi, frequenti e a volte repentini impegni istituzionali e trasferte.
È poi vero che, sempre in generale, il dibattito su temi ordinamentali e processuali di interesse associativo involge maggiormente quelli relativi alla giurisdizione penale e, dunque, la sensibilità e l’impegno dei penalisti in A.N.M. può essere statisticamente più frequente di quello dei civilisti.
7. Pesi e contrappesi
La realizzazione degli scopi statutari sembra richiedere all’A.N.M. di attivarsi anche, e forse soprattutto, nel controllo dell’organo di autogoverno. E’ mancato questo controllo?
Francamente credo che questa sia una delle principali critiche che si può muovere all’attività dell’A.N.M..
In seno alla A.N.M. si sono spontaneamente strutturati i diversi gruppi, o correnti, sulla base delle diverse sensibilità e visioni culturali - e latamente politiche - dei magistrati. Sul versante dell’elezione dei componenti togati del C.S.M., secondo il modello costituzionale, è stato fisiologico il ruolo di corpi intermedi tra rappresentanti e rappresentati che, naturalmente, è stato svolto da quegli stessi gruppi associativi, anche per la sostanziale coincidenza dei due corpi elettorali. La corrente tradizionale è così divenuta un “Giano bifronte”, che si manifesta sia come gruppo associativo, che come gruppo consiliare.
Ciò ha, spesso fatto, impedito alla A.N.M. di assumere posizioni realmente ed efficacemente critiche di fronte a prassi e decisioni (o mancate decisioni) consiliari censurabili: ricordo distintamente, a fronte di una delibera consiliare relativa a ricollocamento in ruolo dopo mandato parlamentare, un comunicato del C.D.C. che si esprimeva in termini di auspicio rivolto verso i colleghi ad usare “misura” nelle proprie aspirazioni, a mio avviso con ben poca incisività.
Orbene, la A.N.M non può essere certo una sorta di controllore delle singole decisioni dell’organo di governo autonomo, per la semplice ragione che non è quello il suo compito, ma certamente deve avere una attenzione critica verso i provvedimenti consiliari, con una sorta di “monitoraggio culturale” della relativa attività per essere pronta – e libera – per denunciare eventuali situazioni scarsamente comprensibili alla luce della normazione secondaria vigente.
8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale
La mancanza di condizioni per l’azione politica - diversamente argomentata da ogni corrente - ha portato al ritiro “politico” dalla G.E.C di praticamente tutti i componenti. Perché, viste anche le annunciate riforme, ciò non ha condotto allo svolgimento immediato delle elezioni del Comitato Direttivo Centrale?
Devo precisare che, quale componente di GEC di A&I, non ho mai inteso revocare la disponibilità del mio gruppo a comporre la giunta esecutiva centrale perché, in un momento in cui la politica, anche fondando la propria determinazione sulle notizie di stampa comparse, manifestava le prime intenzioni di procedere a riforme dell’ordinamento giudiziario, ritenevo necessario avere una A.N.M. forte e pienamente rappresentativa.
Ciò premesso e dato atto delle decisioni altrui, a me – invero - parse scarsamente intellegibili durante la seduta, osservo che l’individuazione della data di ottobre per il voto discende dalla delibera, adottata nel corso della medesima seduta del CDC all’unanimità, compresa Magistratura Indipendente, che ha previsto lo svolgimento delle elezioni con modalità telematica e con spoglio a livello nazionale.
Tale modalità di voto, prescelta per i noti motivi di ordine sanitario e, comunque, essenziale per eliminare – finalmente - qualsiasi possibilità di controllo del voto (che era possibile soprattutto in distretti piccoli), richiede la costituzione dell’elenco degli aventi diritto al suffragio, comprensivo dei loro recapiti telefonici (di cui ANM non dispone al momento) cui dovranno essere inviate le credenziali e l’OTP (come per le operazioni di home banking) necessario per garantire che il voto telematico sia personale e segreto.
Considerato che la costituzione dell’elenco dipende anche dalla diligenza e tempestività nella risposta da parte degli iscritti all’A.N.M. e che si tratta del primo esperimento di voto telematico, pertanto da costruire ex novo e con maggiore attenzione, e tenuto conto delle indicazioni “cronologiche” ricevute dalla società cui è stata affidate parte delle operazioni materiali di organizzazione era materialmente impossibile svolgere le elezioni prima dell’estate.
Né appare possibile, ora, prevedere lo svolgimento delle elezioni in forma tradizionale a fine luglio, considerando che tale cadenza temporale non consente di disporre di un periodo congruo per un effettivo confronto sui progetti che devono costituire “l’azione di governo dell’A.N.M” proposti dai candidati, circostanza che, inevitabilmente, consegnerebbe l’espressione del voto alla mera vicinanza correntizia, a prescindere dalle idee concretamente espresse.
9. Le elezioni dei Consigli giudiziari
In occasione delle elezioni suppletive per il C.S.M., l’A.N.M. ha cercato di favorire un metodo di candidatura svincolato dalle correnti. E per le elezioni dei Consigli giudiziari?
La attuale legge elettorale dei Consigli Giudiziari prevede un sistema proporzionale a liste contrapposte: è naturale conseguenza che esse rispecchino quei “corpi intermedi” che, anche a livello locale, sono i diversi gruppi associativi, o correnti. Tuttavia, in una dimensione distrettuale, la conoscenza diretta personale e professionale dei candidati, da parte degli elettori, e successivamente il controllo immediato dell’attività degli eletti in C.G., consentono già non solo un suffragio meno vincolato alla appartenenza, ma anche l’elezione di candidati “indipendenti”, e a volte anche la presentazione di liste indipendenti. A livello locale e almeno in certe realtà, insomma, questo relativo svincolo tra candidature e correnti che la A.N.M. oggi persegue anche a livello nazionale è già lo stato delle cose.
10. Futuro prossimo
Quale futuro si prospetta per le correnti e l’A.N.M.?
Personalmente ritengo che il pluralismo dell’associazionismo giudiziario sia un bene da preservare, ma è necessario che venga abbandonata la logica del correntismo, quale conseguenza patologica, fine a se stesso ed espressione di potere, e che le correnti tornino ad essere centri di elaborazione culturale maggiormente orientati verso la giurisdizione.
Il modello di giurisdizione, la sua evoluzione, la sua attualità, efficienza e adeguatezza rispetto alle trasformazioni sociali, oggi sempre più veloci, che ci pongono di fronte a sfide anche estremamente complesse in ordine alla tenuta del sistema e alla relativa necessità di attrezzarsi, dovrebbe essere il tema centrale d’interesse e di confronto di tutti i magistrati come singoli e come gruppi strutturati.
Credo che in questo modo anche l’ANM potrebbe realmente dare un supporto ai magistrati nello svolgimento delle funzioni, che deve essere sempre considerato il profilo essenziale dell’attività di magistrato.
Intervista alle correnti. Luca Poniz, Area
di Riccardo Ionta
Deriva e scarroccio. L’imbarcazione subisce uno scostamento e la rotta effettiva non coincide più con quella necessaria. Deriva è l’effetto della corrente, massa in movimento verso una direzione sotto il filo dell’acqua, difficile da percepire in assenza di punti di riferimento. Scarroccio è l’effetto del vento, viene da una direzione battendo sulla superfice emersa, ed è sufficiente sentirne la forza. Correnti e venti possono perturbare la navigazione, sfavorirla. Possono anche, tuttavia, favorirla sospingendo l’imbarcazione nel giusto senso. Dipende dalla direzione delle forze, dal loro combinarsi, dalla consapevolezza di chi naviga.
Giustizia Insieme è un’endiadi, uno spazio di libertà per la giustizia e il pluralismo, e nel momento in cui la magistratura è trascinata dalle correnti e battuta da plurimi venti, ha posto delle domande a quattro magistrati, (al momento dell’intervista) componenti di vertice dell’A.N.M., eletti per Area (Luca Poniz), Unicost (Giuliano Caputo), Autonomia e Indipendenza (Cesare Bonamartini), Magistratura Indipendente (Paola D’Ovidio).
Venti e correnti, prima o dopo, passano. E in una lunga traversata, prima o dopo, altri e altre ne ritornano. In ogni caso, l’importante è aver ben chiara la destinazione, conoscere sia i venti, sia le correnti ed avere comunque un buon governo del timone.
La prima intervista è a Luca Poniz.
Sommario: 1. Perugia; 2. Populismi; 3. Le correnti; 4. C.S.M.; 5. A.N.M. e C.S.M.; 6. Pesi e contrappesi; 7. Pubblici ministeri e A.N.M.; 8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale; 9. Le elezione dei Consigli Giudiziari; 10. Futuro Prossimo
1. Perugia
L’indagine di Perugia è un’indagine su ipotesi di reato di un ex consigliere del C.S.M. sfociata in un’inchiesta sul “dietro le quinte” del C.S.M.? Perché L’A.N.M. ha chiesto la trasmissione integrale degli atti dell’indagine di Perugia?
Tra fine maggio ed inizio giugno di un anno fa, dalla cronaca giudiziaria si apprese che, nell’ambito di un’indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Perugia nei confronti di un ex consigliere del C.S.M., erano emersi – da intercettazioni telefoniche disposte in relazione alle ipotesi di reato oggetto dell’indagine - incontri tra l’ex consigliere stesso, cinque componenti in carica del C.S.M., e due deputati (uno imputato in un procedimento penale pendente a Roma, un magistrato in aspettativa per mandato parlamentare), volti a “discutere” dell’imminente nomina del Procuratore della Repubblica di Roma. L’indagine di Perugia è stata dunque un’involontaria scoperta di una serie di condotte immediatamente percepite e valutate come gravi in relazione alla possibile interferenza esterna sulla vita del Consiglio Superiore; vi è stata una conseguente reazione dell’A.N.M. (con un duro comunicato unanime del C.D.C. del 5 giugno 2019), e dello stesso C.S.M., dopo un intervento del Presidente della Repubblica.
L’A.N.M. chiese già in quel momento, nel giugno del 2019, la copia integrale degli atti, sul presupposto dell’essere (quantomeno) “soggetto interessato” alla loro conoscenza, sia in relazione alla valutazione della potenziale veste di persona offesa (da valutare naturalmente in concreto, una volta conosciute le incolpazioni formulate) sia, e soprattutto, alla necessità di fornire gli atti stessi al proprio organismo disciplinare (il Collegio dei Probiviri), al fine di valutare la rilevanza delle condotte, tanto quelle penali quanto quelle che, pur non rientranti nelle condotte penalmente illecite, appaiano violare il codice etico adottato dall’A.N.M. Lo scorso anno l’istanza – rivolta alla Procura di Perugia, C.S.M., Procura Generale della Corte di Cassazione, Ministro della Giustizia, in quel momento depositari a vario titolo degli atti – fu rigettata con diverse motivazioni; dalla Procura di Perugia, in ragione del “segreto” in quella fase opponibile a soggetti terzi. A maggio di quest’anno, avuta notizia della formale conclusione dell’indagine, l’A.N.M. ha avanzato nuova istanza, ribadendo il proprio interesse qualificato – in ragione delle proprie finalità statutarie – alla conoscenza degli atti, sul presupposto che gli atti depositati non sono più “segreti” per coloro che processualmente hanno titolo per conoscerli (rimanendo, comunque, non pubblicabili: circostanza smentita dalla cronaca…). Si è anche proceduto alla nomina di un difensore, per coltivare, oltre che tale richiesta, ogni altra iniziativa.
E’ evidente che la richiesta di atti oggi ha un’utilità ulteriore ed evidente, al fine di conoscere e valutare – senza filtri informativi più o meno interessati – quelle che appaiono diffuse ed in alcuni casi gravi condotte, interne ad un “sistema” che esige profonde riforme, oltrechè adeguate risposte disciplinari.
2. Populismi
L’appello a un’immagine ideale del popolo, incitato a riprendere il ruolo che qualcuno gli ha indebitamente sottratto, è considerata una delle principali caratteristiche dei populismi. Esiste davvero un populismo giudiziario oppure esiste davvero una magistratura onesta e una magistratura disonesta?
Il tema è oggi più che mai attuale, ed ha molteplici ricadute. Nel rapporto tra la politica e la magistratura, o forse per meglio dire la giurisdizione, una delle tendenze più ricorrenti, e dei pericoli, è la “rappresentazione” di una magistratura (naturalmente dipinta come “elite”, in quanto tributaria di privilegi non solo ordinamentali…) che “decide” in contrapposizione al sentire comune, al “popolo”. Frequenti, e violente, le campagne di delegittimazione di questo o quel Magistrato che, osando indagare o processare “un eletto del popolo” violerebbe per ciò stesso la sovranità popolare, dimentichi naturalmente che la norma fondamentale della Costituzione – l’art. 1 – prevede che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” . La sovranità “si organizza con il diritto”, secondo una felice espressione di Esposito; ed alla magistratura è costituzionalmente attribuito un essenziale ruolo di presidio della legalità, che non incontra naturalmente limiti nell’investitura popolare, se non quelli espressamente previsti dalle procedure costituzionali. In altre parole, il “consenso” popolare viene invocato come fonte di investitura di un potere che spesso invoca per sé l’ingiudicabilità, ed utilizzato, all’opposto, per delegittimare quello giudiziario, proprio perché di esso privo. Naturalmente è una pretesa fuori dalla Costituzione, con dei rischi altissimi, che investono la fiducia di cui deve godere la magistratura ed il potere giurisdizionale che amministra: si potrebbe dire, in breve, fiducia versus consenso.
Esiste anche il rischio opposto, ma non certo privo di implicazioni meno problematiche: l’aspettativa di un ruolo “moralizzatore” della magistratura, che in non pochi casi è stato delineato, teorizzato, o esplicitamente richiesto da gruppi sociali, movimenti di opinione, organi di informazione, e che ha trovato alcuni convinti sostenitori, ed interpreti, anche nella magistratura. E’ tema troppo complesso per essere riassunto in poche parole: però a me pare indiscutibile che alla magistratura non sia affidato quel ruolo, per l’evidente ragione che l’indagine ed il processo penale non hanno intrinsecamente l’attitudine a giudicare fenomeni, ma fatti. Qui il rischio è che sia la giurisdizione a cercare quel “consenso” che può essere contingentemente consolatorio – specie negli anni degli attacchi esterni, anche violentissimi - ma che è elemento estraneo al fondamento del proprio potere. La magistratura ha bisogno di fiducia, non di consenso; ed ovviamente la può ottenere con un esercizio equilibrato del proprio potere, in ogni momento in cui esso si estrinseca, ad iniziare dalla comunicazione e dall’intervento nel dibattito pubblico. Escludo che oggi il tema sia la contrapposizione tra una magistratura onesta ed una disonesta, se per disonesta si intende proclive all’illecito, magari penale; il tema è piuttosto quello di una magistratura in cui sembrano essersi diffusi - difficile dire con quale dimensione - costumi difformi dal modello di magistrato innamorato della legge, e non del potere, che vorrei che fosse il modello di magistrato “costituzionale”.
3. Le correnti
Le correnti. Sono gruppi di pensiero organizzato, gruppi organizzati di potere o cosa sono?
Le correnti sono state, e sono, libere associazioni di magistrati, che hanno svolto e svolgono una funzione essenziale nell’elaborazione culturale e nel dibattito interno alla magistratura. Credo che il riconoscimento più autorevole del ruolo e dell’importanza delle correnti si trovi nelle parole che il Presidente della Repubblica ha rivolto ai Magistrati in tirocinio, il 23 luglio 2018: “Il dibattito culturale all’interno della magistratura costituisce un necessario strumento per favorire l’interpretazione e l’applicabilità delle norme vigenti alla mutevole realtà sociale e, dunque, un utile mezzo per promuovere l’elaborazione di risposte legittime alle pressanti istanze di tutela giudiziaria. Non è certo la riduzione del dibattito culturale, attento e plurale, a poter rendere migliore la magistratura. Va affermato, con chiarezza, che questo diritto ad associarsi liberamente costituisce condizione preziosa, da difendere contro ogni tentativo di indebita intromissione. Occorre, naturalmente, evitare che l’aggregazione associativa, basata su autentiche opzioni culturali e valoriali, possa trasformarsi in corporativismo o - peggio ancora - in forme di indebita tutela, se non di ingiustificato favore, basate sul mero – mortificante - criterio di appartenenza”. Si tratta del riconoscimento di un ruolo essenziale nell’attuazione del modello di giurisdizione costituzione, in quanto coerente con il pluralismo ideale e valoriale garantito nella stessa provenienza dei magistrati, selezionati con il “solo” concorso, e dunque espressione delle diverse sensibilità culturali. Indubbiamente nel tempo hanno assunto una progressiva connotazione di “gruppi organizzati”, dove il problema non è, naturalmente, l’assetto dell’organizzazione, quanto le finalità, gli “obiettivi”, per cosi dire, dell’azione. La storia dell’associazionismo giudiziario – dei singoli gruppi, o correnti, e dell’Associazione Nazionale Magistrati, che è stata importante ed autorevole luogo di sintesi – si è intrecciata virtuosamente a quella della magistratura e della giurisdizione, segnandone in modo incontestabile l’evoluzione, in conformità ai valori costituzionali. La difesa dell’autonomia e dell’indipendenza; la mutata consapevolezza del ruolo della giurisdizione; l’apertura ai temi di diretta derivazione costituzionale, ai nuovi diritti; ma anche la delineazione di un modello di magistratura aperta e non corporativa, forse il segno della “rottura” più evidente determinata dall’impatto del pluralismo ideale sul mondo della magistratura di derivazione pre-costituzionale. Potrei continuare ancora, ad indicare il senso e la virtuosità dell’associazionismo. Naturalmente, oggi non sfugge certo che in esso, e all’ombra di esso, si sono alimentati anche gruppi di potere, ove il consenso sembra ricercato nella logica dello scambio, con la promessa, implicita o esplicita (come pezzi dell’indagine perugina sembrano rivelare chiaramente) di una “protezione”, fondata sul criterio dell’appartenenza. Difficile negare che una simile mutazione, e direi deriva, non sia addebitabile unicamente a chi ha responsabilità politiche nella linea e direzione delle correnti, e non riguardi anche chi, nella “base” dei magistrati, sembra guardare alle correnti stesse con l’aspettativa del vantaggio personale… Si comprende, allora, che la soluzione del problema è complessa, e postula interventi che non riguardano certo solo le correnti e l’associazionismo.
4. C.S.M.
Il C.S.M. è titolare di molteplici poteri discrezionali - non solo riguardo alle nomine - nelle cui sfuggenti dinamiche si insinuano le derive correntizie, anche perché i magistrati interessati non godono di forme di partecipazione. E’ necessario ridurre i poteri, la discrezionalità? E’ sufficiente implementare la trasparenza del potere e le forme di partecipazione?
Il C.S.M. è organo di rilievo costituzionale, posto a presidio degli essenziali beni dell’indipendenza ed autonomia della magistratura. E’ singolare che da ormai molto tempo esso sia al centro del dibattito, e di critiche violente – che ne mettono in discussione il ruolo, dopo averne messo in discussione composizione e criteri di elezione - in relazione ad una parte delle sue attribuzioni, quali la nomina dei dirigenti degli uffici direttivi, nel quale esercizio sono emerse – non solo di recente – le pratiche più deteriori, e dunque il cattivo uso di questa discrezionalità. Ciò rende evidenti (almeno) tre problemi: la centralità che nelle aspettative dei magistrati (e nel conseguente dibattito) assume il problema della carriera; la latitudine del potere discrezionale del C.S..M. concesso, e non sufficientemente regolato, che il legislatore del 2006 ha concesso – sia pure con le migliori intenzioni … - superando il previgente, e criticatissimo, criterio della mera anzianità; l’intersecarsi delle aspettative dei singoli – aumentate a dismisura, anche per effetto del moltiplicarsi dei “posti” direttivi e semidirettivi – con le “promesse” dei rispettivi gruppi di appartenenza. E’ evidente che la soluzione del problema – diventato gigantesco, per portata sistemica - non passa solo per la “trasparenza” e la “partecipazione”, pur essenziali, ma postula una necessaria rimodulazione della stessa carriera, e una serie di altri punti essenziali. Naturalmente, esige anche meccanismi di elezione diversi, e una rigida regolamentazione dei rapporti tra eletti ed elettori, per spezzare logiche purtroppo diffuse. Bisogna difendere con forza il governo autonomo della magistratura, la sua centralità nel sistema dei rapporti tra i poteri dello Stato, e per farlo bisogna renderlo immune da ogni patologia che ne infici la piena credibilità.
5. A.N.M. e C.S.M.
A.N.M. e C.S.M. rappresentano la stessa sostanza sotto forme diverse?
AN.M. e C.S.M sono due ambiti nettamente distinti, non solo per evidente diversità di natura, di assetti e di poteri: l’A.N.M. è un’associazione privata, a partecipazione libera e volontaria, alla quale si iscrivono individualmente i magistrati, senza alcun altro requisito che essere magistrati vincitori di concorso, senza alcun rapporto di “appartenenza” con gruppi o correnti… Le finalità statutarie sono molteplici, e di alto profilo: le prime due, indicate nell’art. 1 dello Statuto, sono quelle di “dare opera affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali; propugnare l’attuazione di un Ordinamento Giudiziario che realizzi l’organizzazione autonoma della magistratura in conformità delle esigenze dello Stato di diritto in un regime democratico”. Si tratta dell’impegno a tutelare valori di rango costituzionale, ciò che ha determinato l’assunzione di un ruolo “istituzionale” da parte dell’A.N.M., ed il costante suo riconoscimento come interlocutore delle istituzioni, dell’accademia, dell’avvocatura, della politica. Nella percezione comune, si spiega forse così quella “similitudine” di almeno una parte del ruolo dell’Associazione con il C.S.M. cui sembra riferirsi la domanda; che però si riferisce, anche, se non di più, alla “composizione” dell’una e dell’altro, alludendo alla comune presenza, con ruoli dominanti, delle correnti e dei loro rappresentanti. Sarebbe agevole replicare che, soprattutto in seno all’A.N.M., il sistema elettorale vigente – che prevede liste contrapposte, e sistema elettorale proporzionale puro, con la presentazione libera di liste, con il solo onere della loro presentazione da parte di 100 soci.. – consente la più ampia e libera partecipazione e dunque offerta di rappresentanza e rappresentatività; e dunque ogni gruppo, ancorchè non organizzato o strutturato, può candidarsi alla guida dell’Associazione, con una propria offerta di valori culturali, opzioni ideali, programmi di azione politica-sindacale. Sicchè se ciò non avviene non è certo per un blocco del “sistema”, ma per quanto fino ad oggi sono stati complessivamente rappresentativi, nel loro insieme, i vari gruppic
6. Pesi e contrappesi
La realizzazione degli scopi statutari sembra richiedere all’A.N.M. di attivarsi anche, e forse soprattutto, nel controllo dell’organo di autogoverno. E’ mancato questo controllo?
E’ vero che una certa “osmosi” tra le carriere associative e quelle consigliari, verificatasi anche nella più recente esperienza, rende più difficile l’esercizio di un potere di iniziativa e anche di critica dell’A.N.M. verso il Consiglio, che io reputo essenziale nella fisiologia stessa della vita di un organo rappresentativo. Non credo però che possa parlarsi correttamente di un “controllo”, trattandosi di un organo elettivo, ed essendo i suoi atti – diversi da quelli della sezione disciplinare, che sono giurisdizionali – sottoponibili al controllo della giurisdizione amministrativa. Parlerei invece di un’azione di impulso, di sollecitazione e certamente anche di critica delle sue linee di azione, se necessario, con un’autonomia che, quanto più forte sappia essere, tanto più rafforzerà la credibilità sia dell’azione associativa, sia dello stesso organo consigliare.
7. Pubblici ministeri e A.N.M
Perché i vertici dell’A.N.M. sono quasi sempre ricoperti da pubblici ministeri?
Credo si tratti in buona parte di una ragione legata alla modalità del lavoro del Pubblico Ministero, in ufficio caratterizzato da “impersonalità” delle funzioni, ciò che consente una più agile e snella “organizzazione” degli impegni professionali con quelli legati all’incarico, spesso imprevedibili. Un Pubblico Ministero può essere sostituito in un impegno d’ufficio senza che ciò comporti alterazioni, e dunque disfunzioni, della giurisdizione, diversamente da un giudice, la cui assenza –non programmabile – determina inevitabilmente rinvii. Aggiungo alla domanda che il più delle volte si è trattato di colleghi operanti in uffici romani, ciò che completa la valutazione sulla maggiore compatibilità con impegni politico- associativi, il più delle volte concentrati nella Capitale (dove peraltro ha sede l’Associazione). Non esistendo una previsione che “dispensi” dal lavoro giudiziario, è facile comprendere, dunque, il perché sia più agevole svolgere ruoli associativi apicali in uffici requirenti, soprattutto se nella Capitale. Innegabile, poi, che in alcuni casi, si sia trattato di colleghi che hanno goduto di una maggiore visibilità, anche quando transitati a funzioni diverse: questo ha, ovviamente, a che fare con il consenso che, anche da ciò, si è acquisito tra i colleghi, che, non si dimentichi, votano e dunque “scelgono”. La politica associativa è però determinata da organi collegiali, il Comitato Direttivo Centrale e la Giunta Esecutiva Centrale, che hanno ampia rappresentatività territoriale, professionale, e di genere, e come tale pienamente capaci di esprimere posizioni in ogni ambito, con equilibrio tra le varie funzioni.
8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale
La mancanza di condizioni per l’azione politica - diversamente argomentata da ogni corrente - ha portato al ritiro “politico” dalla G.E.C di praticamente tutti i componenti. Perché, viste anche le annunciate riforme, non ha condotto allo svolgimento immediato delle elezioni del Comitato Direttivo Centrale?
Come noto, le elezioni per il rinnovo del C.D.C. erano state fissate, per scadenza naturale del mandato, il 22, 23 e 24 marzo del 2020; la presentazione delle liste era stata chiusa e convocati i comizi elettorali. Purtroppo la grave emergenza sanitaria, sopravvenuta con la pandemia, ha portato il C.D.C. del 7 marzo, l’ultimo previsto prima del rinnovo, a deliberare unanimemente un primo rinvio delle elezioni, fissandole al 24, 25 e 26 maggio, nella convinzione – e speranza, in quel momento – che l’emergenza sarebbe terminata. Purtroppo non è accaduto, ed anzi la situazione ha presentato una così grave evoluzione da aver imposto il rinvio di ogni appuntamento elettorale istituzionale, incluso quello dei Consigli Giudiziari. Così, nella seduta del C.D.C. del 9 maggio, convocata per valutare la perdurante situazione emergenziale, è stato unanimemente votato un ulteriore rinvio (anche se con diverse indicazioni sulle date, oscillanti tra settembre ed ottobre) e, sempre all’unanimità, deciso di organizzare – per la prima volta nella storia dell’A.N.M. – il voto telematico, immediatamente avviando una complessa ed impegnativa procedura tecnico-organizzativa per realizzarlo, nei tempi i più brevi possibili, ma certo non compatibili – come più volte evidenziato in ogni sede – con un voto anticipato rispetto a quello già stabilito. Anzi, solo un serrato impegno organizzativo, ovviamente in essere, può consentire la riuscita del voto con la nuova, e rivoluzionaria, modalità (che sarà, così, pronta per ogni appuntamento futuro) dopo l’estate: evidenziando che la riuscita del voto, che postula la certezza di aver “raggiunto” per l’accreditamento al voto ogni singolo associato, significa assoluto rispetto delle regole di partecipazione e democrazia, senza dimenticare lo scrupolo che deve accompagnare la verifica di ogni passaggio tecnico della procedura. Dunque, nessuna valutazione “libera” sulla data del voto, ma solo irrinunciabili passaggi tecnici.
9. Le elezioni dei Consigli giudiziari
In occasione delle elezioni suppletive per il C.S.M., l’A.N.M. ha cercato di favorire un metodo di candidatura svincolato dalle correnti. E per le elezioni dei Consigli giudiziari?
In occasione della crisi conseguente alle dimissioni di alcuni componenti del C.S.M, l’A.N.M. ha ritenuto di fare una “proposta” politica all’interno di un sistema elettorale - da sempre criticato – di cui si era notata la formidabile idoneità a consentire “blocchi organizzati”, candidature pilotate; il collegio unico nazionale, nella categoria dei P.M. aveva portato all’intollerabile candidatura di quattro P.M. per quattro posti. L’idea è stata quella di “aprire” e dunque favorire candidature plurime nel numero, e plurali nella provenienza, al fine di consentire una opposta dinamica nell’elettorato passivo, e in quello attivo, cercando di restituire all’elezione il suo senso vero. E’ evidente che nelle elezioni nazionali l’organizzazione delle correnti ha avuto e ha un peso – con questo sistema – decisivo, nella scelta e “selezione” di candidati che, in tal modo, saranno eletti (in tal senso sono apprezzabili gli sforzi fatti in senso a taluni gruppi di procedere almeno con elezioni primarie); nelle elezioni dei C.G. il problema ha caratteristiche del tutto diverse, trattandosi di voto locale, dove peraltro ogni magistrato può candidarsi con modesto sforzo organizzativo, e cercare di valorizzare, da sé, il proprio percorso professionale, su cui richiedere più facilmente il voto.
10. Futuro prossimo
Quale futuro si prospetta per le correnti e l’A.N.M.?
Più facile dire ciò che vorrei: correnti che si fanno portatrici di idee e proposte, e che lavorano nell’interesse della giurisdizione, funzione essenziale dello Stato, e della democrazia. Che mettono le proprie idee, ed i propri progetti, al servizio del diritto. Che respingono l’idea dell’appartenenza interessata, in cui si annida il pericolo anche del corporativismo, malattia mortale della magistratura. L’A.N.M. deve essere il luogo in cui la progettualità e le idee trovano la sintesi più alta, e pressoche’ tutta la magistratura si riconosce pienamente nel suo ruolo, e nella sua imprescindibile funzione, come fino ad oggi è stato.
I “tempi” dell’annullamento d’ufficio (nota a C.g.a.r.s., sez. I, 26 maggio 2020, n. 325)
di Giordana Strazza
Sommario: 1. Premessa - 2. L’annullamento (o gli annullamenti) “a più tempi” - 3. Conclusioni
1. Premessa
“Whether it’s the best of times or the worst of times, it’s the only time we’ve got”[1].
Allo stato attuale, la pubblica Amministrazione che intenda procedere all’annullamento d’ufficio[2] sembrerebbe dover muovere da questa consapevolezza.
Il potere posto a fondamento degli atti di ritiro non è immune dal fluire del tempo[3] che – tramite il veicolo della legge – lo regola, lo condiziona e lo limita.
L’inconfutabilità dell’assunto deve fare i conti, però, con il distinguo, tutt’altro che agevole, tra le “manifestazioni” diverse e le variabili di (uno stesso) annullamento e le eventuali ipotesi che celano (o sembrerebbero celare), invece, annullamenti in tutto o in parte differenti.
Del resto, la stessa disciplina generale dell’annullamento d’ufficio, contenuta nell’art. 21-nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, si biforca ormai in due modelli: quello sottoposto “solo” al limite temporale indeterminato ed elastico (comunque ancorato al canone della ragionevolezza), e quello ulteriormente circoscritto da un riferimento temporale massimo predeterminato in modo puntuale e rigoroso (che viene meno in caso di falso accertato con sentenza penale passata in giudicato[4]).
L’art. 6, l. 7 agosto 2015, n. 124[5] (c.d. legge Madia) ha previsto, infatti, un “nuovo paradigma”[6] nei rapporti tra privato e p.A. caratterizzato da un termine rigido, pari a diciotto mesi, accanto a quello “ragionevole”, per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio sui “provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, nonché in caso di silenzio-assenso e di intervento tardivo sulla segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.)[7].
Senza dubbio l’introduzione del termine massimo di diciotto mesi per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio (o dei poteri conformativi, inibitori e repressivi “posticipati” sulla s.c.i.a.) rafforza il vincolo sul “quando”, a salvaguardia della stabilità della situazione di vantaggio conseguita.
Le certezze si sgretolano, però, già sull’esatta portata dell’espressione “provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”[8] (si pensi, ad esempio, alla querelle sulla possibilità di ricomprendervi anche l’aggiudicazione[9]) e si riducono ulteriormente a causa della lettura riduttiva dell’articolo 21-nonies, co. 2-bis, l. n. 241 del 1990, ormai invalsa nella giurisprudenza prevalente[10], che richiede il giudicato penale, per superare il limite dei diciotto mesi, solo in caso di dichiarazione falsa o mendace e non anche in caso di falsa rappresentazione.
Senza contare gli annullamenti “travestiti”, ossia le reazioni – di fatto – di autotutela caducatoria ex tunc al conseguimento ab origine illegittimo del vantaggio/del beneficio che, seppur non formalmente qualificate come “annullamento”, ne mutuano la sostanza (ma non i limiti).
A tale riguardo, il monito dei pareri del Consiglio di Stato[11] sull’uso improprio delle “etichette” “revoca”, “risoluzione” e “decadenza” (e sul conseguente divieto di aggirare la disciplina del 21-nonies) è stato “tranchant”, ma non sembra sia stato recepito con la fermezza adeguata[12].
Il tema si complica ulteriormente se si considerano i rapporti tra il citato art. 21-nonies e le altre fattispecie di annullamento (testualmente qualificate come tali) previste da discipline di settore o, più in generale, disseminate nell’ordinamento giuridico.
2. L’annullamento (o gli annullamenti) “a più tempi”
Ai fini che qui rilevano, valga l’esempio dell’annullamento regionale di cui all’art. 39, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (t.u. edilizia)[13].
Si tratta di un potere di annullamento straordinario, avente ad oggetto le deliberazioni e i provvedimenti comunali non conformi alle norme urbanistiche ed edilizie, sottoposto a un duplice termine perentorio, in quanto esercitabile entro dieci anni dalla loro adozione e comunque non oltre diciotto mesi dall’accertamento del vizio[14].
Premesso che il più risalente antecedente di tale disposizione, ossia l’articolo 27, l. 17 agosto 1942, n. 1150[15] (c.d. legge urbanistica) ammetteva tale potere caducatorio “in qualunque tempo” (cosicchè la successiva perimetrazione decennale ha realizzato un annullamento “a tempo” ante litteram), permangono ancora dubbi sulla sua qualificazione giuridica.
Di conseguenza, i presupposti e le condizioni che ne regolano l’esercizio sono, tuttora, incerti.
In alcuni casi, qualificato come strumento di controllo; in altri come meccanismo sostitutivo[16], secondo la tesi prevalente si tratterebbe di un potere da ricondurre all’art. 118 Cost., ai sensi del quale le Regioni hanno competenza amministrativa nelle materie a legislazione concorrente[17].
Ai fini che qui rilevano, occorre domandarsi se il potere caducatorio di cui al citato art. 39, che consente alla Regione di partecipare alla complessiva azione di “governo del territorio”[18] (art. 117, co. 3, Cost.) sia comunque assimilabile o riconducibile, in un rapporto di species a genus, a quello di cui all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
La giurisprudenza più recente[19] sembrava orientata a negare l’ascrivibilità dell’art. 39 allo schema dell’autoannullamento, che, per espressa previsione di diritto positivo, è sottoposto – tra l’altro – al principio del bilanciamento dei contrapposti interessi[20], ma – da ultimo – il C.g.a. della Regione siciliana, con la sentenza del 26 maggio 2020, n. 325, resa dalla prima sezione, ne ha sostenuto la riconducibilità alla cornice del 21-nonies[21].
Secondo il Collegio, infatti, si tratta sempre di un potere di autoannullamento, seppur speciale, perché l’atto non è “dovuto” in caso di riscontrata illegittimità, ma resta rimesso a una valutazione discrezionale, come si desume dall’espressione “possono essere annullati”, e non è “coercibile” da parte del privato o da altro organo dell’Amministrazione.
L’art. 39 si riferisce, dunque, a un potere di amministrazione attiva, “di secondo grado, coerente con l’art. 21-novies l. n. 241/1990”, per cui l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo può essere esercitato non solo dall’Amministrazione che lo ha adottato, ma anche “da altro organo previsto dalla legge”[22].
Ad ogni modo, per il C.g.a., anche a voler classificare tale potere nel novero della “vigilanza-controllo”, rientrerebbe comunque all’ambito di applicazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, che concerne “tutti i casi in cui la legge attribuisca ad un organo di amministrazione attiva il potere di annullamento di atti amministrativi, a prescindere dalla qualificazione della natura del potere”.
Di conseguenza, il Collegio ha prospettato una tendenziale reductio ad unum degli annullamenti di atti amministrativi (purchè adottati da organi di amministrazione attiva).
Con riguardo ai termini per l’esercizio del potere, tuttavia, la sentenza ha evidenziato che l’art. 39 si pone in rapporto di specialità e, pertanto, di prevalenza, rispetto all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990[23], ad esso sopravvenuto.
La norma sull’annullamento regionale non risulta, infatti, espressamente abrogata né sussistono i presupposti esegetici per ravvisare una abrogazione tacita, in conformità del brocardo "lex posterior generalis non derogat priori speciali".
Del resto, la mancata abrogazione sembra confermata dal fatto che l’art. 6, co. 2, della c.d. legge Madia ha abrogato testualmente l’altra disposizione parimenti espressione di un annullamento d'ufficio “a tempo”, ossia l’art. 1, co. 136, l. 30 dicembre 2004 (c.d. legge finanziaria 2005)[24]. Ciò senza contare che in occasione del c.d. decreto s.c.i.a. 2 è stato compiuto un drafting del co. 5-bis[25] dell’art. 39, t.u. edilizia[26].
3. Conclusioni
Tale pronuncia sembra confermare, dunque, i dubbi sul difetto di coordinamento tra la nuova versione di cui all’art. 21-nonies e l’art. 39 già sollevati dalla dottrina.[27]
Senza considerare poi la sussistenza di leggi regionali che non solo hanno attribuito tale potere di annullamento ad altri enti sub-regionali (come la provincia[28]), ma ne hanno anche modificato i termini di esercizio (ad esempio, nel Veneto il termine è ridotto a due anni).[29]
L’individuazione del tempo dell’annullamento[30] risulta, così, non sempre agevole e immediata e sembra più opportuno constatare che si è al cospetto di ipotesi di annullamento (o di annullamenti) degli atti amministrativi “a più tempi”[31], con ripercussioni sulle prerogative delle p.A. e (soprattutto) sulla stabilità delle situazioni giuridiche dei privati.
I tempi dell’annullamento sembrano moltiplicarsi se si considera, peraltro, quanto stabilito dal nuovo art. 264, d.l. 19 maggio 2020, n. 34[32] (c.d. decreto Rilancio).
Al comma 1, la disposizione introduce, infatti, un “annullamento a tempo”, sia pure in via temporanea.[33]
L’art. 264, co. 1, lett. b), riduce, infatti, il termine massimo per l’annullamento d’ufficio a tre mesi dall’adozione/formazione del provvedimento o del silenzio-assenso; il co. 1, lett c), estende lo stesso limite temporale all’intervento “tardivo” sulla s.c.i.a.[34]
Si segnalano, però, alcune peculiarità rispetto al contenuto e alla formulazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
L’art. 264 ribadisce, infatti, la necessità della sussistenza delle ragioni di interesse pubblico ai fini dell’annullamento, ma manca un richiamo “agli interessi dei destinatari e dei controinteressati” (che, a scanso di equivoci, potrebbe essere aggiunto in sede di conversione).
Nella disciplina dell’emergenza, inoltre, l’“annullamento a tempo” non è testualmente riferito ai provvedimenti “di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, ma a quelli illegittimi ex art. 21-octies, l. n. 241 del 1990 (senza aggiungere l’esclusione espressa, probabilmente data per implicita, ai “casi di cui al medesimo articolo 21 octies, comma 2”, prevista dall’art. 21-nonies, co. 1) “adottati in relazione all’emergenza Covid-19”[35].
Da una lettura sistematica dell’art. 264, si ricava che, invece, il nuovo (e altrettanto temporaneo) limite al potere di revoca di cui all’art. 21-quinquies, l. n. 241 del 1990, è riferito testualmente ai procedimenti di cui all’art. 264, co. 1, lett. a)[36].
Il quadro si complica ulteriormente se si considera anche la nuova “revoca” dei “benefici già erogati”, prevista dall’art. 264, co. 2, del c.d. decreto Rilancio, in caso di dichiarazione mendace, che del potere di cui al citato art. 21-quinquies ha ben poco[37].
Si tratta, infatti, di un potere di rimozione del beneficio con effetto ex tunc, introdotto “a regime”[38] e senza limiti di tempo, in caso di dichiarazione mendace, che, insieme al divieto biennale di accesso a “contributi, finanziamenti e agevolazioni” e all’incremento della correlata sanzione “ordinariamente prevista dal codice penale”[39], si aggiunge alla “decadenza” dal beneficio (già) stabilita dall’art. 75, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
A ulteriore conferma, però, che l’aforisma indicato in premessa dovrebbe assumere, più propriamente, le sembianze di un’interrogativa: “Whether it’s the best of times or the worst of times, is it the only time we’ve got?”.
[1] Aforisma di A. Buchwald, riportato da R. Scott, I don’t have time, Filament Publishing, 2010, 26.
[2] Fra i tanti, si rinvia a F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, 537 ss.; E. Cannada Bartoli, voce Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, 484 ss. G. Codacci, Pisanelli, L’annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939. Per i riferimenti più recenti sull’autotutela, si v. infra, in particolare note 3, 5 e 6.
[3] A tal proposito, il Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, con commento di M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019; E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., 2, 2018, 404 ss.; C. Pagliaroli, La “storia infinita” dell'annullamento d'ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell'Adunanza plenaria, ivi, 1, 2018, 92 ss.; N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, ivi, 5, 2017, 1103 ss.; G. Manfredi, La Plenaria sull’annullamento d’ufficio del permesso di costruire: fine dell’interesse pubblico in re ipsa?, in Urb. e app., 1, 2018, 52 ss., ha negato la "teoria dell'inconsumabilità del potere", altrimenti nota come "perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi", con la conseguenza che il decorso del tempo “onera l'amministrazione del compito di valutare motivatamente se l'annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale”. Per un approfondimento, si v., tra gli altri, M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo, Napoli, 2018, 277 ss.; F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 2017.
[4] Art. 21-nonies, co. 2-bis, l. n. 241 del 1990.
[5] “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”. Per un approfondimento, tra gli altri, si v. M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, 17, 2015; Id., Postilla all’editoriale “Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, ivi, 20, 2015; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), ivi; M. Lipari, La SCIA e l’autotutela nella legge n. 124/2015: primi dubbi interpretativi, ivi; M. Macchia, Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giorn. dir. amm., 2015, 634 ss.; F. Volpe, L’annullamento del silenzio assenso e della s.c.i.a. Riflessioni di teoria generale a seguito dell’abrogazione dell’art. 21, comma 2, legge 7 agosto 1990, n. 241, in Giustamm.it, 10, 2015; S. D’Ancona, L’annullamento d’ufficio dopo la Riforma Madia, in Giur. it., 2015, 2748 ss.; V. Di Iorio, Osservazioni a prima lettura sull’autotutela dopo la l. n. 124/2015: profili di incertezza nell’intreccio tra diritto amministrativo e diritto penale, in Federalismi.it, 21, 2015; G. Manfredi, Il tempo è tiranno: l’autotutela nella legge Madia, in Urb. app., 2016, 5 ss.; P.L. Portaluri, Il nuovo diritto procedimentale nella riforma della p.A.: l’autotutela (profili interni e comunitari), in Federalismi.it, 20, 2016; F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, cit.; Id., Profili evolutivi dell’autotutela (decisoria) amministrativa, in A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), I rimedi contro la cattiva amministrazione. Procedimento amministrativo ed attività produttive ed imprenditoriali, Napoli, 2016, 9 ss.; A. Rallo, L’inserimento del termine certo nell’esercizio dell’autotutela: appunti per una discussione, ivi, 53 ss.; A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio e l’inannullabilità dell’atto amministrativo, in Giustamm.it, 11, 2016; M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in Pers. e Amm., 2017, I, 189 ss.; Id., Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, in Dir. amm., 2016, 321 ss.; F. Costantino, L’annullamento d’ufficio del provvedimento, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, 869 ss.; L. Carbone, La riforma dell’autotutela come nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e amministrazione pubblica, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1173 ss.; Id., Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in Federalismi.it, 7, 2017; A. Gualdani, Il tempo nell’autotutela, ivi, 12, 2017; R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in Federalismi.it, 23, 2017; C.P. Santacroce, Tempo e potere di riesame: l’insofferenza del giudice amministrativo alle “briglie” del legislatore, ivi, 21, 2018; Id., Annullamento d’ufficio e tutela dell’affidamento dopo la legge n. 124 del 2015, in Dir. e proc. amm., 2017, 1145 ss.
[6] La locuzione è tratta dal parere del Cons. Stato, 30 marzo 2016, n. 839. Per un approfondimento, si rinvia ad A. Carbone, La riforma dell’autotutela come nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e amministrazione pubblica, Relazione al convegno “La legge generale sul procedimento amministrativo: attualità e prospettive nei rapporti tra cittadino e p.a.”, cit. Si v. anche C. Napolitano, L’autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018.
[7] Il computo dei diciotto mesi decorre dal momento dell'adozione di tali provvedimenti; in caso di s.c.i.a., invece, prende avvio dalla cessazione della fase di primo controllo.
[8] Con la precisazione che, ai fini della perimetrazione della norma, l’art. 12, l. n. 241 del 1990, rubricato proprio "Provvedimenti attributivi di vantaggi economici", assume un ruolo-chiave. Sul punto, si v. M. Ramajoli, L'annullamento d'ufficio alla ricerca di un punto d'equilibrio, in Giustamm.it, 6, 2016; il legame tra le due disposizione è stato già evidenziato anche da G. Strazza, Il g.a. al cospetto del nuovo “tempo” dell’annullamento d’ufficio, seminario interdisciplinare sull’Autotutela e sindacato del giudice amministrativo (coordinato dalla Prof.ssa M.A. Sandulli), Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Giurisprudenza, 14 aprile 2016.
[9] Su cui, da ultimo, si v. G. Gianni, Profili critici sull’applicabilità all’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico del termine di diciotto mesi per l’annullamento in autotutela, in www.giustizia-amministrativa.it.
[10] Nel solco del Cons. Stato, sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940, con nota di M.A. Sandulli, L’autotutela perde i limiti temporali imposti dalla «Madia», in Il sole 24 ore, 9 luglio 2018; Id., Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in lamministrativista.it.
[11] Cons. Stato, 30 marzo 2016, n. 839, cit. e Id., 4 agosto 2016, n. 1784.
[12] Sul tema si v., da ultimo, C.P. Santacroce, Tempo e potere di riesame: l’insofferenza del giudice amministrativo alle “briglie” del legislatore, in Federalismi.it, 21, 2018. Si v. anche infra, par. 3.
[13] Per un approfondimento, si rinvia a P.L. Portaluri, Commento all'art. 39, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell'edilizia, Milano, 2015, 925 ss.
[14] “Quanto alla decorrenza del termine a quo, per giurisprudenza consolidata, il termine di 18 mesi per l'esercizio del potere di annullamento delle concessioni edilizie illegittime da parte della Regione decorre non dalla mera presa di cognizione da parte della Regione dei necessari elementi di fatto, ma dalla conclusione dello svolgimento, sia pure sommario, dell'esame ragionato dei medesimi e delle pertinenti valutazioni tecnico-giuridiche. Per cui, tale termine iniziale coincide con quello di deposito della relazione del funzionario che ha svolto i necessari accertamenti tecnici”. Così T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 9 giugno 2016, n. 362. Sul procedimento che deve precedere l'annullamento d'ufficio, si v. il comma 2 del citato art. 39. Per un approfondimento, si v. anche R. Fusco, I limiti al potere di autotutela decisoria in materia edilizia: il difficile equilibrio tra il contrasto all’abusivismo edilizio e la tutela dell’affidamento dei privati, in Riv. giur. ed., 1, 2020.
[15] L’art. 38 riproduce il contenuto di tale disposizione, poi sostituita dall’art. 7, l. 6 agosto 1967, n. 765 e, infine, coordinata con l’art. 1, d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8.
[16] A. Frigo, L’annullamento dei poteri comunali in materia edilizia, in Venetoius.
[17] Si v. anche G. Pagliari, Il permesso di costruire, in Aa. Vv., Trattato di diritto del territorio, Torino, 2018, 830. In tal senso, sembra anche l’obiter dictum contenuto nella sentenza del Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, cit.
[18] P. Marzaro Gamba, Il potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali in materia urbanistico – edilizia: profili sistematici ed esegetici, in Riv. giur. urb., 1999, 516 ss.
[19] Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2018, n. 5277; Id., 16 agosto 2017, n. 4010. Sull’annullamento straordinario dei titoli edilizi illegittimi quale “espressione di mera funzione di vigilanza e controllo da parte dell'autorità sovraordinata” si v., in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 8 novembre 2013, n. 32; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 23 maggio 2014 n. 5521).
[20] Sul tema, si v. Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, con commento di M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze, cit.
[21] In termini, si v. T.A.R. Umbria, sez. I, 31 dicembre 2018, n. 690; Id., 7 novembre 2016, n. 691, in Riv. giur. ed., 5, 2016, 770. Sul punto, si v. anche C.g.a., Regione siciliana, 2 febbraio 2017, n. 667. Il Cons. Stato, sez. VI, 6 agosto 2018, n. 4822, invece, da un lato ha affermato che il potere ex art. 39, t.u. edilizia “va distinto il potere di ritiro ex art. 21-nonies l. 241/1990 da quello in questione, costituendo il primo l’esito dell’attribuzione di un vero e proprio potere di autotutela, cioè di autoannullamento degli atti illegittimi”; dall’altro, però, ha evidenziato che le prescrizioni di cui all’art. 21-nonies “debbono essere osservate anche in caso di esercizio del potere di annullamento straordinario dei titoli edilizi (…) per effetto di una doverosa lettura costituzionalmente orientata della relativa disposizione e quindi rispettosa del principio generale di cui all’art. 97 Cost.”.
[22] In realtà, tale argomento non sembra del tutto dirimente, perché il riferimento all’espressione “altro organo” potrebbe essere utilizzato per sostenere, a contrario, che tale potere non è esercitabile da altri enti.
[23] Senza dimenticare che, prima della c.d. legge Madia, talvolta la giurisprudenza si è avvalsa del limite decennale di cui all’art. 39, t.u. edilizia per individuare il tertium comparationis funzionale a perimetrare la ragionevolezza del termine di cui all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990. Si v., ad es., Cons. Stato, sez. IV, 3 agosto 2010, n. 5170, in Riv. giur. ed., 2010, 6, 1897; T.A.R. Sardegna, sez. II, 16 ottobre 2013, n.651, in www.iusexplorer.it; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 5 aprile 2013, n. 340, in Foro amm-TAR, 2013, 4, 1112.
[24] M. Ramajoli, L'annullamento d'ufficio alla ricerca di un punto d'equilibrio, in Giustamm.it, 6, 2016. Del pari, la riforma non è intervenuta sull’art. 138, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (t.u. enti locali), che attribuisce al Governo il potere straordinario di annullare, “in qualunque tempo”, gli atti illegittimamente assunti dagli enti locali. In argomento, si v. il Cons. Stato, sez. I, parere 7 aprile 2020 n. 735, con commento di N. Pignatelli, Il potere di annullamento straordinario ex art. 138 TUEL di un’ordinanza comunale: il Covid-19 non “chiude” lo stretto di Messina, in www.giustizia-amministrativa.it. Per un approfondimento, si v. L. Brunetti, Considerazioni sul potere di annullamento di cui all'art.138 T.u.e.l., e sulla sua riconducibilità all'art.120, comma 2, Cost., in Dir. amm., 3, 2006, 721 ss.
[25] Introdotto dall'art. 1, d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301 ("Modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia").
[26] L’art. 3, co. 1, lett. r), d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (“Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124”) ha stabilito che “all'articolo 39, comma 5-bis, le parole «all'articolo 22, comma 3» sono sostituite dalle seguenti: «all'articolo 23, comma 01»”
[27] M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a, silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, 17, 2015 ha auspicato una modifica del citato art. 39, proprio perché il termine decennale si pone "in evidente e irragionevole contrasto con un sistema che tende invece dichiaratamente ad incentivare gli investimenti, dando massime garanzie di stabilità agli operatori"; in argomento si v. anche M. Ramajoli, L'annullamento d'ufficio alla ricerca di un punto d'equilibrio, cit.; G. Strazza, Il potere di intervento “tardivo” sulla s.c.i.a. tra disciplina statale, regionale ed esigenze di certezza, in Riv. giur. ed., 1-2, 2016, 14 ss.
[28] Si v., a titolo esemplificativo, l’art. 30, l.r. Veneto, 23 aprile 2004, n. 11, ss.mm.ii. e l’art. 9, co. 1, l.r. Abruzzo, 5 maggio 2010, n. 14.
[29] Si v. l’art. 30, cit. In argomento, si v. A. Borella, La nuova autotutela di cui alla legge di riforma della pubblica amministrazione: annullamento d’ufficio e regolarizzazioni edilizie, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 144 ss. Si segnalano, inoltre, “le peculiarità” dell’art. 27, l.r. Emilia-Romagna, 30 luglio 2013, n. 15, ss.mm.ii., rubricato “Pubblicità dei titoli abilitativi e richiesta di riesame”: “1. I soggetti interessati possono prendere visione presso lo Sportello unico dei permessi rilasciati, insieme ai relativi elaborati progettuali e convenzioni, ottenerne copia, e chiederne al Sindaco, entro dodici mesi dal rilascio, il riesame per contrasto con le disposizioni di legge o con gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, ai fini dell'annullamento o della modifica del permesso stesso. 2. Il medesimo potere è riconosciuto agli stessi soggetti con riguardo alle SCIA presentate, allo scopo di richiedere al Sindaco la verifica della presenza delle condizioni per le quali l'intervento è soggetto a tale titolo abilitativo e della conformità dell'intervento asseverato alla legislazione e alla pianificazione territoriale e urbanistica. 3. Il procedimento di riesame è disciplinato dal regolamento edilizio ed è concluso con atto motivato del Sindaco entro il termine di sessanta giorni”. Per un approfondimento, si v. D. Lavermicocca, B. Graziosi, La disciplina edilizia in Emilia-Romagna, Bologna, 2015.
[30] Nel solco del titolo scelto da M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il 'tempo' dell’annullamento d'ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori in caso di s.c.i.a., in Federalismi.it, 24, 2015.
[31] Valga anche quanto già osservato a proposito dell’art. 138, t.u. enti locali. Si consideri, inoltre, anche la “risoluzione” del contratto di cui all’art. 108, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (“Codice dei contratti pubblici”) e, in particolare, al co. 1-bis, introdotto dall’art. 72, d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56 (c.d. correttivo al codice dei contratti pubblici), ai sensi del quale non si applicano “i termini previsti dall'articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241.” .
[32] “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali, connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”.
[33] Ossia dal 19 maggio, data di entrata in vigore del decreto, fino alla fine del 2020.
[34] Come già previsto dall’art. 21-nonies, co. 2-bis, l. n. 241 del 1990, tale limite trova un’unica eccezione nel caso di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”.
[35] La cui perimetrazione non sembra del tutto agevole.
[36] Ossia quelli “avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l’erogazione di benefici economici comunque denominati, indennità, prestazioni previdenziali e assistenziali, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni e sospensioni”. In tal caso, la revoca è ammessa “solo per eccezionali ragioni di interesse pubblico sopravvenute”.
[37] Per un approfondimento, si rinvia a M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del dl 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in questa Rivista, 2 giugno 2020.
[38] Tramite l’aggiunta del nuovo comma 1-bis all’art. 75, d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
[39] Con un periodo aggiunto al primo comma dell’art. 76, d.P.R. n. 445 del 2000, tale sanzione “è aumentata da un terzo alla metà”.
Falcone e quella notte al Consiglio Superiore della Magistratura (quarto capitolo)
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Vito D'Ambrosio
Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, già componente laico del CSM, in un suo recente saggio dedicato all’analisi delle non commendevoli vicende che attualmente agitano il mondo giudiziario (Notte e nebbia nella magistratura italiana, QG,12 giugno 2020), ha osservato che la vicenda della mancata nomina di Giovanni Falcone alla funzione di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo assume ancora oggi un valore emblematico rispetto alle difficoltà mostrate dal governo autonomo della magistratura sul tema della c.d. anzianità senza demerito degli aspiranti a ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi. Essa, a ben considerare, offre ulteriori e forse ancora maggiori punti di riflessione che riguardano da vicino il rapporto dei magistrati con le correnti, con l'opinione pubblica, la politica ed il CSM.
Giustizia Insieme intende tornare su quella vicenda per farne memoria, soprattutto a beneficio dei tanti che non vissero direttamente quella stagione ed il clima avvelenato che ne seguì, vuoi perché lontani da quella che viene considerata secondo un ben sperimentato stereotipo terra di mafia, vuoi perché non ancora entrati all’interno dell’ordine giudiziario. Ciò ha inteso fare attraverso alcuni dei protagonisti che contribuirono direttamente a scrivere le note di quella notte del 19 gennaio 1988 consumata all'interno del plenum del CSM.
Carlo Smuraglia, Stefano Racheli, Marcello Maddalena e Vito D’ambrosio, membri alcuni togati (D’Ambrosio, Racheli e Maddalena), alcuni laici (Smuraglia) del CSM che si occupò di quella pratica, hanno accettato di rileggere quegli avvenimenti a distanza di oltre trentadue anni. Una rilettura certamente mediata, per un verso, dall’esperienza maturata dai protagonisti nel corso degli anni passati al Consiglio Superiore della magistratura e, per altro verso, da quanto emerso rispetto alla gestione del goberno autonomo in tempi recenti. La drammaticità di quella vicenda sembra dunque legarsi a doppia mandata all’attuale contesto storico che sta attraversando la magistratura italiana. I contributi che seguono, nella prospettiva che ha animato la Rivista non intendono, dunque, offrire verità ma semmai stimolare la riflessione, aprire gli occhi ai tanti che non vissero quell’episodio e quell’epoca assolutamente straordinaria per tutto il Paese.
La spaccatura che si profilò all'interno dei gruppi presenti in Consiglio e delle scelte che i singoli consiglieri ebbero ad esprimere votando a favore o contro la proposta di nomina del Consigliere Istruttore Antonino Meli pongono, in definitiva, interrogativi più che mai attuali, occorrendo riflettere su quanto nelle determinazioni assunte dal singolo consigliere del CSM debba essere mutuato dall'appartenenza al gruppo e quanto, invece, debba liberamente ed autonomamente attingere al foro interno del consigliere, allentando il vincolo "culturale" con la corrente quando si tratta di adottare decisioni che riguardano gli uffici giudiziari ed i loro dirigenti.
Gli intervistati hanno mostrato tutti in dose elevata la capacità di approfondire in modo costruttivo quell'episodio e per questo va a loro un particolare senso di gratitudine.
In calce ad ognuna delle quattro interviste che saranno pubblicate in successione abbiamo riportato, oltre al verbale consiliare del 19 gennaio 1988 tratto dalla pubblicazione che il CSM ha dedicato alla memoria di Falcone, alcuni documenti storici che Giovanni Paparcuri, testimone vivente delle stragi mafiose e custode delle memorie raccolte nel museo “Falcone Borsellino” ha gentilmente messo a disposizione della Rivista. Documenti che offrono, in cifra, l’immagine dell’uomo e del magistrato Falcone e del contesto nel quale Egli operò.
La quarta ed ultima intervista è del Cons. Vito D'Ambrosio, già Sostituto Procuratore Generale presso la Procura Generale della Corte di Cassazione – dove seguì per l’accusa, con altri due colleghi, i sostituti Martusciello e Tranfo, il c.d. maxi processo contro la mafia, istruito da Falcone e dal pool di Palermo – membro togato del CSM durante il quadriennio 1986-1990 e Presidente della Giunta della regione Marche.
[In calce, la lettera inoltrata da Giovanni Falcone al Consigliere istruttore Antonino Meli il 2 settembre 1988]
1) Il contesto ed il clima nel quale si discusse il conferimento dell’incarico di Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo nel gennaio 1988 ed il suo prodromo – la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala. Cosa ricorda?
D'Ambrosio: Io non conoscevo affatto Falcone, se non per fama, prima del gennaio 1986. Lo conobbi nella prima tappa, a Palermo, del tour elettorale che con un gruppetto di colleghi della stessa corrente (Unità per la Costituzione) avevo iniziato, essendo candidato per il CSM in carica dal 1986, alla scadenza del precedente.
A Palermo incontrammo tutto quello che già allora veniva chiamato “pool”, una squadra di magistrati addetti alle indagini sul fenomeno mafia, raccolte in un unico faldone, che poi diede vita al Maxi processo (oltre 400 imputati, 7000 pagine la sentenza di primo grado, più di 2000 quella di appello, il processo durò quasi un mese in Cassazione). L’incontro più significativo fu con il dirigente dell’ufficio Istruzione, il dottor Antonino Caponnetto, il quale confidò a qualcuno di noi la sua intenzione di chiedere a breve il trasferimento a Firenze, residenza sua e della famiglia, dalla quale era venuto a Palermo a sua domanda, dopo l’uccisione con un’auto bomba del suo predecessore, Rocco Chinnici. Caponnetto riteneva di aver compiuto la sua missione, creare una struttura efficiente di contrasto alla mafia, basata su una visione unitaria del fenomeno, le cui manifestazioni criminose erano indagate da alcuni magistrati dell’ufficio., che agivano in squadra.
A tutti noi, che facevamo riferimento alla sua stessa corrente, Caponnetto, oltre ad assicurarci il voto e augurarci un esito favorevole delle elezioni, raccomandò caldamente di sostenere la domanda di succedergli nell’incarico, domanda che sarebbe stata avanzata da Falcone, grazie alla sua indiscussa primazia nel pool.
A Caponnetto promettemmo, più o meno, che avremmo sostenuto, quelli eletti tra noi, la candidatura di Falcone. Ovviamente non ci furono documenti scritti, né impegni formali, ma la sostanza dei nostri colloqui con il lucido Consigliere Istruttore di Palermo fu quella appena indicata.
Io fui eletto, e ricordavo ancora la promessa fatta a Caponnetto, rafforzata dai contatti sempre più frequenti con Falcone, che trasformarono il nostro rapporto in una solida amicizia. Mi sembrava ovvio il mantenimento della promessa, visto anche la caratura professionale di Falcone, ormai assunto a notorietà non solo nazionale per alcune indagini in ambito mafioso, coronate da successo nei vari processi istruiti dal pool.
Anche all’epoca la nomina dei dirigenti degli uffici era, senza alcun dubbio, una delle difficoltà maggiori da affrontare in Consiglio. Mi resi conto abbastanza presto della centralità e complessità del problema, reso ancora più spinoso da una diffusa mentalità distorta tra i componenti togati, che contagiò presto anche i non togati (i laici, venivano chiamati), così che intorno alle nomine ci si confrontava duramente, ma non sempre apertamente, per far prevalere il “proprio” candidato”, il che avrebbe aumentato la capacità attrattiva della corrente verso i magistrati non schierati a favore dei vari gruppi-correnti, accrescendo così l’importanza del gruppo (quanto questo fenomeno abbia poi distorto le ragioni all’origine della nascita delle correnti, trasformandole gradatamente da gruppi uniti da una visione omogenea dell’impegno dei magistrati in macchine acchiappa consenso, è argomento ormai molto dibattuto, mentre all’epoca gli indizi, pur presenti, venivano ignorati, o male interpretati, volontariamente o meno).
Il primo caso emblematico, il primo sintomo di una patologia crescente, che si coagulò in un groviglio di difficoltà e asperità, che infine divenne “il caso Palermo”, fu la trattazione della domanda di Paolo Borsellino per l’attribuzione della funzione di Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Marsala.
All’epoca i miei rapporti con Falcone erano ai primi passi, così che seppi soltanto a tratti che quella domanda era stata concordata da Borsellino con Falcone, per costituire un avamposto in terra di mafia, nella convinzione, comune ai due magistrati, che il fenomeno mafioso era stato “contenuto” a Palermo e occorreva “esportare” le conoscenze e le tecniche investigative del pool anche in territori ancora dominati da famiglie mafiose. Borsellino, in quella strategia, avrebbe dovuto rappresentare una “testa di ponte” per facilitare un approccio diverso e ben più efficace di contrasto al fenomeno mafioso. Io conoscevo poco di quella diversità di approccio alle indagini mafiose, ma ero ben convinto della sua erroneità, derivante dalla erroneità del presupposto di base, cioè della vicinanza di un successo palermitano nelle indagini contro la mafia.
Ma non potevo esporre questa mia convinzione, perché avrebbe indebolito di molto la posizione di Falcone a Palermo. Così mi aggregai alle posizioni del mio gruppo dell’epoca, la corrente di Unità per la Costituzione, che contendeva alla corrente più conservatrice di Magistratura Indipendente la maggioranza dei consensi elettorali della magistratura.
La questione centrale divenne, così, in apparenza, quella del criterio da adottare per le nomine agli incarichi direttivi, se dare cioè la prevalenza all’anzianità o al merito, Scrivo a ragione veduta di apparenza, perché ,come vedremo per il vero e proprio “caso Falcone” successivo, sulla domanda di Borsellino, apparve che io, e quasi tutto il gruppo di Unità per la Costituzione, eravamo convinti della prevalenza del criterio dell’anzianità, che non favoriva Borsellino, mentre i colleghi di Magistratura Indipendente,, guidati e ispirati del consigliere Vincenzo Geraci, giovane e brillante sostituto procuratore a Palermo, che conosceva bene quell’ambiente, si schierarono piuttosto in favore di Borsellino, ritenendo che l’eccezionale professionalità del richiedente dovesse e potesse avere la prevalenza. Lo schieramento era paradossale, perché il gruppo più “aperto” difendeva posizioni molto tradizionali, mentre la corrente più conservatrice si era spostata su una linea più avanzata. Il caso si chiuse con la nomina di Borsellino, bollata duramente da Leonardo Sciascia come “la vittoria dei professionisti dell’antimafia” (anche se lo scrittore in una tardiva precisazione ci tenne a slegare la sua posizione critica dalla figura di Borsellino).
Durante le vivacissime discussioni sul caso, pubbliche e riservate, ebbi prima l’intuizione e poi il primo, fortissimo dubbio sulle posizioni del Consiglio, cioè di parecchi consiglieri, sui problemi palermitani, e quindi sulla posizione di Falcone, che di quell’ufficio istruzione era divenuto l’anima, dopo il ritorno di Caponnetto a Firenze.
Posso dire che il caso Borsellino mi suonò come sirena d‘allarme sul caso Falcone ,ormai all’orizzonte.
2) Media e partiti politici prima, durante e dopo il voto consiliare: quale peso giocarono? Quali furono le posizioni dei consiglieri laici? Quali quelli delle correnti? E della Presidenza della Repubblica con i suoi consiglieri giuridici? Ebbe un peso l’opinione pubblica?
D'Ambrosio: Quando arrivò al Consiglio la domanda di Falcone di essere nominato a capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, a me, e a tutti quelli che già dal caso Borsellino si erano schierati in favore del criterio del merito, da privilegiare su quello dell’anzianità nei casi particolari, fu abbastanza chiaro fin dall’inizio il cambiamento di clima a Palazzo dei Marescialli, la sede consiliare. La assoluta importanza del caso si deduceva anche dall’attenzione con la quale in tutta Italia si cominciò a seguirlo. A prescindere dagli articoli e dai servizi, tutti i consiglieri furono sottoposti ad una pressione assolutamente inedita dal nugolo di operatori dell’informazione che cominciarono ad interessarsi del caso. Gli schieramenti furono chiari abbastanza presto, e quasi subito si capì l’importanza della questione. Vi furono audizioni in quantità, e indubbiamente, nonostante l’acredine con la quale alcuni consiglieri formularono le loro domande a Falcone, risultò chiarissimo il notevole dislivello, sul piano professionale, tra Falcone e gli altri aspiranti (se altri vi furono ad essere auditi, particolare che non ricordo). Le audizioni si estesero il più possibile, a (quasi) tutti i magistrati dell’Ufficio Istruzione, nonché a qualcuno degli altri uffici, a cominciare dalla Procura della Repubblica. Giovanni sostenne un vero e proprio interrogatorio – nel quale si capiva subito la collocazione dell’interrogante – e perse le staffe una sola volta, su una domanda inutilmente malevola del consigliere Sergio Letizia, espressione di un gruppo estraneo all’Associazione Nazionale Magistrati, il Sindacato, che era sorto in vista delle elezioni di quel Consiglio ed era riuscito a far eleggere un solo consigliere, Letizia appunto.
Le vacanze natalizie resero ancora più chiari gli schieramenti, due in sostanza, uno che sosteneva la correttezza della nomina di Falcone, per la sua indiscussa professionalità, che doveva fare premio sulla sua minore anzianità, e un altro che riteneva insuperabile questa differenza. Al primo schieramento si iscrissero, in linea di massima, i gruppi e i partiti “progressisti”, al secondo i “conservatori”; questa lettura, però valeva per il mondo “esterno” alla magistratura, mentre nella magistratura le cose stavano in maniera diversa. Pacifico il no a Falcone da parte di Magistratura indipendente, nella sua maggioranza, e il già citato Letizia, per il resto le posizioni erano trasversali: all’interno di M.I, per esempio, il suo leader, Stefano Racheli, era a favore di Falcone, mentre Maddalena oscillava, per la sua conoscenza professionale delle capacità di Falcone, e il mio gruppo, Unità per la Costituzione, annoverava tre “falconiani”, io, Pietro Calogero e Nino Abate, mentre tra i restanti decisamente contrario era Umberto Marconi, di Napoli, e gli altri, pur rimanendo abbastanza defilati, propendevano più per il no. Tra i laici quelli di provenienza di sinistra (i tre comunisti, Smuraglia, Brutti e Gomez d’Ayala, e la socialista Fernanda Contri) decisamente pro Falcone, gli altri in blocco, contro (anche se alla fine Ziccone, di indicazione democristiana, votò per Falcone).
Il particolare di rilievo era la disomogeneità delle posizioni dei consiglieri di provenienza siciliana, così Vincenzo Geraci, M.I., sostituto a Palermo, che aveva addirittura affiancato Falcone in alcune attività istruttorie, si trovava nel gruppo anti-Falcone, il catanese Renato Papa, di Unicost, non riusciva a prendere posizione e infine si astenne, mentre il laico Guido Ziccone, professore ordinario di diritto penale a Catania, indicato dalla DC, sembrava schierato per Falcone, per cui votò.
Durante il periodo di attesa della seduta del CSM per nominare il consigliere istruttore di Palermo vi fu, credo, un nutrito scambio di idee e di notizie da entrambe le parti. Ci meravigliò non poco la scelta di un anziano magistrato, Antonino Meli, che dopo aver presentato domanda sia per l’ufficio di Presidente del Tribunale di Palermo sia di consigliere istruttore, revocò la prima , eliminando così la possibilità di spianare la strada a Falcone, nominando Meli presidente del tribunale. Qualcuno pensò che l’azione fosse frutto di un suggerimento di Geraci, ormai chiaramente il più determinato avversario di Falcone, qualcuno lo scrisse perfino, dando così vita ad una causa civile, intentata da Geraci, sul cui esito non so nulla.
Non mi risulta che vi fossero stati interventi della Presidenza della Repubblica, o dei suoi consiglieri giuridici, ma questo vuol dire poco, perché della girandola di retroscena io potevo conoscere soltanto alcuni passaggi, certo non tutti. Quando iniziò la seduta famosa, il 19 gennaio i988, fu subito chiaro, quando iniziarono le dichiarazioni di voto, che ci si trovava nel mezzo di una “congrega di coccodrilli”. Rileggendo le affermazioni dei consiglieri, laici e togati, quelle più laudatorie nei confronti di Falcone furono quelle di chi gli votò contro, scegliendo Meli. La lettura del verbale di quella seduta non è stata facile per me, anche a distanza di anni, perché mi sono sentito catapultato a quella sera, mentre su Roma scendeva rapida l’oscurità invernale, e dentro di me saliva una delusione profonda, poiché la sconfitta di Falcone, ormai chiara, aveva un significato che pochi in quel salone comprendevano fino in fondo, e la maggioranza oscillava tra cinismo, ipocrisia e sofferta sincerità di due consiglieri su tre di Magistratura Democratica, Elena Paciotti e Pino Borrè, mentre il terzo, Giancarlo Caselli votò per Falcone.
Sull’atteggiamento di MD vale la pena di soffermarsi. Avevamo, tutti noi amici di Falcone, la netta sensazione che la questione avrebbe rivestito notevole importanza per tutta la corrente, ed in effetti, pur senza che trapelasse molto, ci rendemmo conto che doveva esserci stata “maretta” , al temine della quale i tre consiglieri assunsero un diverso atteggiamento di voto, ed io specialmente, rimasto molto deluso, fino all’ultimo avevo tentato di convincere almeno uno dei restanti due, perché tutti si sapeva che la decisione sarebbe stata presa a stretta maggioranza. Alla fine, dentro MD, scattò molto probabilmente un atteggiamento anti falconiano, quasi che col premiare il merito e superare un divario tanto ampio di anzianità (Meli era più anziano di Falcone di ben sedici anni), si aprisse la strada ad una gara di protagonismo tra magistrati, a discapito dei tanti che, pur non spiccando, tuttavia svolgevano onestamente e quotidianamente il loro compito. Non risparmiai le critiche a questo atteggiamento, che ,inutili fino alla votazione, alcuni anni più tardi indussero Borrè, con la sua limpida onestà intellettuale, a dichiarami di aver avuto, a cose fatte, qualche dubbio di aver fatto la scelta giusta.
Finì, la votazione, dopo un lunghissimo dibattito, col risultato di 16 a 10 e cinque astenuti. Quando, con un misto di rabbia e commozione mal trattenuta, telefonai a Giovanni il risultato, la sua risposta mi gelò. “Con questa decisione” disse,, con quella asciuttezza affilata, della cui carica di sentimento e risentimento, ero ben conscio, “mi avete esposto come un bersaglio al baraccone del luna park”, la- sciandomi con ancora più amaro in bocca.
Di quel voto si parlò tanto, dentro ma soprattutto fuori del Palazzo dei Marescialli. E gli atteggiamenti della politica e dell’informazione, rispecchiarono quasi fedelmente gli schieramenti consiliari. La sinistra tutta con Falcone, gli altri tutti contro, spendendosi nell’indicare i meriti di Meli, prigioniero dei nazisti dopo il 25 luglio, sempre accompagnando il tema con grandi riconoscimenti dei meriti di Falcone.
Assai più dirompente quel voto fu per le vicende della Associazione Nazionale Magistrati: infatti dopo un assai breve intervallo di tempo, io e Pietro Calogero per Unicost, e Stefano Racheli per MI, lasciammo i gruppi di appartenenza e ne fondammo due nuovi, chiamati Movimento per la Giustizia quello che accolse i due ,io e Calogero, della diaspora, e Stefano chiamò il suo Proposta 88. Con noi partecipò alla fondazione del nuovo gruppo una nutrita schiera di colleghi, quali (e mi scuso per eventuali dimenticanze) Falcone stesso, Giorgio Lattanzi, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelsky, Ernesto Lupo, Mario Almerighi, Giovanni Tamburino, Giuseppe Ayala, Gioacchino Natoli, Ernesto Aghina, Gerardo D'Ambrosio, Enrico Di Nicola, Ciro Riviezzo, Nino Condorelli, Anna Creazzo, Leo Agueci, Ippolisto Parziale, Giovannantonio Tabasso, Sergio Lari, Maria Teresa Cameli. Nella "sala rossa" di un vicino albergo, Hotel Salus, fu stilata la carta fondativa e lo statuto del neo-costituito Movimento, e ci parve che il futuro fosse meno cupo (la storia dirà chi aveva ragione).
Entrambi i nuovi gruppi proponevano una profonda riforma del costume, prima, e delle regole poi, per il mondo dell’associazionismo giudiziario, riforme che ovviamente avrebbero dovuto incidere profondamente sulle prassi del CSM. CI si trovava allora, e ci si trova ancora di più oggi, di fronte al grande problema dell’esercizio “corretto” del potere. Noi non siamo riusciti a risolverlo, nonostante l’impegno, e quelli dopo di noi hanno finto di non accorgersi delle dimensioni della questione, e si è arrivati al panorama pieno di macerie che oggi le carte processuali di Perugia ci aprono davanti agli occhi. Con una enorme difficoltà di indicare soluzioni.
3) La composizione del Consiglio superiore della magistratura come influì sulla scelta?
D'Ambrosio: La risposta a me sembra semplice e scarna: né la composizione del CSM né il sistema elettorale dell’epoca ebbero influenza sulla vicenda. Non si trattava di una semplice nomina ad un ufficio direttivo, per quanto importante. Era in ballo, in tutta la sua aggrovigliata realtà, il tema delle connessioni tra criminalità organizzata e mondo della politica. Il famoso terzo livello, del quale si cominciava a parlare non più solo tra pochi intimi. E quindi due modelli di società si fronteggiavano per il posto di Consigliere Istruttore presso il tribunale di Palermo. Il mondo criminal-affaristico, negli anni recenti, aveva lanciato messaggi chiarissimi, uccidendo prima il Procuratore Scaglione e poi, alcuni anni dopo, in rapida successione, il Procuratore Gaetano Costa e il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici. Contro questo strapotere un pugno di magistrati, il famoso pool, cercava di costruire un muro spesso e robusto, accumulando materiale su materiale in un fascicolo diventato famoso, che sarebbe poi diventato il maxi processo alla mafia. Gli interessi in ballo erano tanti, e tanto massicci, da superare le tradizionali divisioni e influenze. Ci fu, e in pochissimi ce ne accorgemmo, una generale chiamata alle armi per bloccare quello che veniva ritenuto, dal duo mafia e politica, un avversario pericoloso, Giovanni Falcone. Questo era il tema vero, il filo rosso di tutta la vicenda, che era cominciata già alle prime avvisaglie della richiesta di trasferimento di Caponnetto, che aveva “inventato” un modo nuovo di fare le indagini di mafia, come si stava facendo per il terrorismo, ricucendo i fili e non sparpagliandoli secondo le “tradizionali” regole processuali. L’unicità del fenomeno, finalmente colta, esigeva l’unicità delle indagini, da affidare certo ai vari giudici istruttori, ma da raccogliere poi nell’unico tessuto, per comprenderne la trama complessiva. Falcone stava dimostrando di poter trarre tutte le conseguenze dell’applicazione di quel metodo e quindi Falcone andava fermato, in tutti i modi, e il modo più a portata di mano era quello di stopparne la richiesta di diventare Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Risultato che si poteva/doveva ottenere ad ogni costo, movendo le pedine disponibili, dovunque fossero collocate, e organizzando un piano, che veniva da lontano. Questo sfondo era l’esatta cornice nella quale inserire tutta la vicenda Falcone, cornice conosciuta bene dagli agenti consapevoli, e ignorata da chi non volle o non poté sforzarsi di trovare un punto di vista più ampio di quello apparente in superficie. La nomina di Falcone, ovviamente, non poteva garantire risultati quasi definitivi, dato che anche Falcone, che conosceva bene quella realtà, si muoveva su quel piano con prudenza, messo sul chi vive prima di tutto dal “co-autore del maxiprocesso”, Tommaso Buscetta, detto don Masino, il quale non volle rivelare nella sua deposizione fiume il lato oscuro della vicenda, i rapporti tra mafia e politica, spiegando che nemmeno Falcone poteva venire a conoscenza di certi retroscena, pena la sua incolumità personale. Giovanni sull’argomento restava abbottonato perfino con noi, suoi convinti sostenitori, ed anche quando fu pesantemente attaccato da Orlando, il quale straparlava di carte nei cassetti, rispose negando con disinvoltura il “terzo livello” famoso dei rapporti tra mafia e politica. Però, quando ci fu l’attentato all’Addaura, con una borsa (forse) piena di candelotti di esplosivo, trovata sulla scogliera sotto la villetta affittata da Falcone per un po’ di riposo estivo, la borsa fu distrutta, prima di essere sottoposta ad analisi ed indagini, da un maresciallo artificiere, Francesco Tumino, che per questo eccesso di zelo fu condannato con sentenza definitiva per favoreggiamento. E, in una delle interviste rilasciate dopo l’attentato, Falcone si lasciò sfuggire quel riferimento a “menti raffinatissime” , accenno rimasto misterioso per 28 anni, fino a quando, cioè, in una recente trasmissione televisiva Saverio Lodato, giornalista molto addentro nei misteri mafiosi, ha rivelato un nome che Falcone gli avrebbe confidato, nome di una persona le cui complesse vicende giudiziarie finirono alla Corte di Strasburgo. Poichè per questa vicenda è stata sporta denuncia/querela, della vicenda si sta occupando la magistratura, non intendo sposare l'una o l'altra delle posizioni in conflitto.
(Non posso non segnalare l’indegna diceria messa in giro sull’attentato, che lo riteneva organizzato dallo stesso Falcone per riprendere una primazia nel mondo dell’informazione).
4) Quali furono le ragioni espresse del voto e quali gli schieramenti che si manifestarono nel corso del Plenum. Ricorda qualche episodio in particolare che possa risultare, oggi, significativo?
D'Ambrosio: Per conoscere le singole motivazioni dei consiglieri nella seduta del gennaio 1988 basta ricercare nell’archivio del CSM; il tempo ha dimostrato le conseguenze di quelle parole, che, come ho già detto, quando poste a motivazione della scelta pro Meli, e quindi contro Falcone, furono “farcite” di riconoscimenti al bocciato, quasi più delle motivazioni opposte.
Episodi peculiari e significativi ce ne furono, ma io ricordo nitidamente che, durante la fase anteriore al voto, i magistrati palermitani, durante gli intervalli dell’attività conoscitiva del Consiglio, cercavano rifugio nella stanza dei consiglieri. Stranamente, ma non troppo, nella stanza di Vincenzo Geraci posta al centro del corridoio che portava alla grande sala del plenum entrarono quasi esclusivamente quelli che poi, negli anni, hanno reso chiaro quello che già allora appariva evidente, per chi aveva un orecchio appena allenato: Falcone non era amato, forse dalla maggioranza dei suoi colleghi, e certamente il suo “indice di gradimento” ,termine alla moda, non era affatto alto nemmeno a Palermo. Quindi quelli non pro Meli, ma anti Falcone erano in contatto con Geraci, mentre gli altri erano ospitati nella stanza mia , o di Smuraglia, o di Fernanda Contri. Se si fosse trattato di un sondaggio, il numero e le caratteristiche dei magistrati palermitani , il loro “schieramento” per dir così, si poteva dedurre con buona attendibilità ricostruendo i loro percorsi all’interno del Palazzo dei Marescialli.
5) Quale ruolo giocò il parametro dell’attitudine ovvero della specializzazione nell’attività di contrasto alla criminalità mafiosa nel giudizio di comparazione tra i magistrati che concorrevano alla direzione dell’ufficio istruzione (e) quanto il parametro dell’anzianità? Quali erano le regole della circolare dell’epoca sul conferimento degli incarichi direttivi, quale lo spazio rimesso alla discrezionalità del Consiglio?
D'Ambrosio: L’art. 105 della Costituzione, nel suo unico comma, stabilisce che “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.
I problemi posti da questo articolo sono stati sempre assai spinosi, a cominciare dal richiamo alle “norme dell’ordinamento giudiziario”, che dovrebbero ispirare l’esercizio ,da parte del Consiglio, dei suoi poteri, per poi proseguire nel confronto con il successivo art. 107, i cui commi 3 e 4, stabiliscono, rispettivamente, che “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni” e, successivamente “ il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” .
Il Consiglio, come è noto, fu istituito soltanto nel 1958 e il suo primo insediamento avvenne il 18 luglio 1959. Il ritardo nell’istituzione dell’organo, superiore anche a quello impiegato per la Corte Costituzionale, che si è insediata per la prima volta nel 1956, ne mostra la novità e la distanza abissale con l’organo omologo, previsto come organo ausiliario del Ministro della Giustizia fin dal 1906.
Il periodo di dieci anni, tra l’entrata in vigore della Costituzione e l’istituzione del Consiglio superiore, vide una notevole attività, sul punto, dell’Associazione Nazionale Magistrati, alla quale era iscritta la grande parte dei magistrati. Un vivace dibattito all’interno dell’associazione, prodromico alla nascita delle “correnti”, raggiunse alcuni punti fermi, tra i quali, il miglioramento del trattamento economico -tema rimasto dibattutissimo fino ad oggi- e la diminuzione dei poteri dei capi degli uffici giudiziari, soprattutto con la temporaneità degli incarichi direttivi.
Ma tutto doveva fare riferimento all’ordinamento giudiziario regolato con una legge del 1941, nota come legge Grandi, dal nome del ministro proponente.
Con questa gigantesca anomalia il Consiglio iniziò la sua vita istituzionale, ponendosi da subito come cartina di tornasole per le posizioni di “politica giudiziaria” all’interno della Associazione.
Superata, disinvoltamente, la distinzione tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, ritenendo applicabile la identica normativa ai magistrati del pubblico ministero, rimase, dolente fin dall’inizio, il tema delle promozioni. Dall’ordinamento giudiziario potevano venire soltanto i meccanismi di promozione, con la necessità di superare alcuni concorsi, a cascata, per passare dall’una della categorie a quella superiore, dato che ancora le funzioni erano ordinate gerarchicamente, prima da uditore ad aggiunto giudiziario, poi a magistrato di tribunale poi a consigliere di Corte d’Appello e infine, a coronamento, le funzioni di consigliere della “suprema” Corte di Cassazione, tra i quali soltanto potevano essere nominati i presidenti della diverse Sezioni della Corte stessa.
A parte la palese contraddizione dell’intero sistema con l’art. 107, comma 3, della Costituzione, esisteva un’altra lampante contraddittorietà interna del sistema: ai vincitori del concorso per la magistratura veniva affidato, dopo un tirocinio di apprendimento, l’esercizio delle funzioni giudiziarie, sia pure per le questioni di minore importanza ed interesse – le c.d. questioni bagatellari”. Dopo un biennio di esercizio delle funzioni bisognava affrontare l’esame per la nomina ad “aggiunto” giudiziario”. Il mancato superamento per due volte comportava la decadenza dall’impiego. Ma le sentenze emesse dall’uditore bi-respinto restavano in vigore, nonostante fossero state pronunciate da chi era stato dispensato addirittura dall’impiego.
Questa stridente aporia fu eliminata, e il mio concorso, nominato del decreto in data 28-12-1967, fu il primo a non sostenere la prova scritta, conservando nel fascicolo personale il parere emesso dal consiglio giudiziario territorialmente competente.
Molto più travagliata la vicenda del percorso da affrontare per le “promozioni” (anche qui il termine non sembrava del tutto coerente con l’art. 107 della Costituzione). Si doveva partire da una prassi molto solida, secondo la quale l’unico criterio da seguire per le “promozioni”, doveva essere l’anzianità di servizio. Con questa rigorosa prescrizione si era attraversato il deserto anteriore all’istituzione del Consiglio superiore. Quando entrò in funzione il nuovo organo, si vide abbastanza presto che il criterio dell’anzianità avrebbe funzionato da “imbuto”, coprendo per un periodo non trascurabile tutti i posti direttivi con la magistratura in un certo senso “compromessa” col regime fascista, e legata ad una interpretazione spiccatamente “conservatrice” – a dir poco m – di entrambi i codici sostanziale, risalenti quello civile al 1942 e quello penale addirittura al 1930 (il “famigerato” codice Rocco). Per l’insieme di queste ragioni, unite ad fisiologico tentativo di ogni istituzione di ampliare le proprie competenze, iniziò un movimento in senso lato “politico” che aprisse spazi ad una discrezionalità, sia pure limitata, del Consiglio; si arrivò, così ad un compromesso, per il quale l’anzianità conservava il suo valore predominante come criterio per le promozioni, purché, però fosse “SENZA DEMERITO”. A questa prima limitazione se ne aggiunse un’altra, che limitava l’ammissibilità della domanda, e la conseguente legittimazione del richiedente, ai candidati che fossero ricompresi in una certa “fascia di anzianità” , predeterminata dal Consiglio proprio per evitare il rischio di una eccessiva discrezionalità dell’organo. Il Consiglio del quale facevo parte oscillava, tra un criterio applicato più spesso, la legittimazione di chi rientrava nella “fascia”, ed uno più attento all’eccezionalità dei casi. Per quanto ricordi, infatti, la candidatura di Falcone non fu respinta perché proposta da magistrato ”non legittimato”, in quanto al di fuori della fascia; i consiglieri anti falconiani non ebbero il coraggio di sfidare il ridicolo.
Man mano, col passare del tempo, il Consiglio aumentava il proprio spazio di discrezionalità, mantenendo però, in vigore, almeno in apparenza, il criterio delle fasce, per evitare un secondo caso “Falcone”. L’oscillazione dei parametri di giudizio ha innescato, spesso, una accesa contrapposizione tra il Consiglio e il giudice amministrativo. Il Consiglio di Stato, qualche volta, ha ecceduto non solo negli annullamenti, ma anche nella motivazione degli annullamenti, e il CSM ha risposto non poche volte con la riproposizione della delibera bocciata, motivata quasi “ a dispetto”. Questa rapido cenno vuole soltanto gettare uno spiraglio di luce sul problema non di poco conto del “controllo” di legittimità sull’esercizio di un potere discrezionale. Il tema, spesso, viene trattato confusamente e irrazionalmente, mentre nessuna soluzione potrà essere trovata per la riforma della P.A. se non si affronterà di petto il tema del ruolo e dei poteri del giudice amministrativo.
Il graduale e surrettizio aumento della discrezionalità del CSM sarebbe stato meno devastante se non si fosse accompagnato ad una gravissima carenza di tutto il sistema, e cioè l’assoluta insufficienza degli elementi conoscitivi su ogni magistrato in tutti i passaggi nei quali occorre una comparazione tra più esaminandi. Già ai tempi della mia consiliatura, cioè più di trent’anni fa, avevo lamentato questa carenza, di fronte a valutazioni tutte strabocchevoli di aggettivi superlativi, che nascondevano una reale conoscenza della figura professionale del richiedente. La mala educaciòn cominciava, per esperienza personale, proprio dal primo passaggio valutativo, quello obbligatorio alla fine del periodo di tirocinio: avevo infatti visto ignorato totalmente il mio parere, cautamente perplesso, su un uditore bravissima persona, ma caratterialmente non ancora adatto alla attribuzione delle funzioni, perché si ritennero prevalenti i pareri, tutti positivi, degli altri “magistrati di affidamento”, i quali avevano sbrigativamente esaurito il proprio compito. Conseguenza finale: le funzioni furono attribuite all’uditore, il quale mi tolse il saluto. Imparai così, per l’affinamento dell’esperienza, a “decrittare” i pareri, smussando gli aggettivi superlativi e cercando di estrarre, da qualche elemento scarso, una valutazione più attendibile. La faccenda che più mi irritava era che, in qualunque ufficio giudiziario, se chiedevi un elenco dei dieci migliori avvocati e dei dieci migliori magistrati ad entrambe le categorie, e con la garanzia dell’anonimato, in pochi secondi raccoglievi due elenchi, in grande parte, o addirittura in tutto, sovrapponibili. Finii il mio quadriennio al CSM e i miei contatti con il palazzo dei Marescialli furono molto radi; rimasi, però, quasi incredulo quando qualche amico e collega consigliere si lamentava della difficoltà, per usare un eufemismo, di avere elementi affidabili di valutazione quando bisognava procedere ad una comparazione tra richiedenti.
La cronica carenza, accettata quasi come una maledizione biblica, comportava, in un insopportabile circolo vizioso, che la discrezionalità valutativa diveniva difficilmente motivabile, perché poggiante su fondamenta fragili, oltretutto non difficilmente manipolabili. Così, secondo i casi, acquistava rilievo una varietà di esperienze professionali, che però a distanza di pochissime valutazioni diveniva un handicap di fronte ad una specializzazione derivante da identità di funzioni espletate per lunghissimo tempo, e via così (apparentemente e contraddittoriamente) motivando.
La situazione peggiorava lentamente, ma inesorabilmente, fino a giungere a quella attuale, che impietosamente svelano la carte dell’inchiesta di Perugia sul caso Palamara.
Parlare, però, soltanto di caso Palamara non è corretto e spiega soltanto la parte più appariscente del fenomeno. In realtà Palamara rispondeva ai tanti che si rivolgevano a lui per ottenere proprio quello “sviamento di potere”, in senso letterale, che abitava da non poco tempo le stanze e i corridoi di Palazzo dei Marescialli, con conseguenze disastrose sulla fiducia dei cittadini in questa specifica istituzione.
Per tornare al caso che ci occupa, su Meli (e sul Meli di turno) abbondavano le cronache, come racconto delle sue vicende professionali, ma difettava totalmente la storia, cioè un giudizio complessivo sulla sua “attitudine”, leggasi capacità, di affrontare efficacemente le caratteristiche dell’ufficio che aveva chiesto di poter dirigere. Non era difficile prevedere, per esempio, che l’esperienza delle indagini in pool, del tutto nuova, avrebbe trovato nell’anziano dirigente una ragionevole ostilità, perché fuori dal tran-tran consuetudinario degli uffici da lui frequentati.
In conclusione di questo capitolo, forse troppo lungo, ma in effetti di dimensioni insufficienti di fronte alla complessità del tema, nei poco più di sessanta anni di storia del Consiglio (per un esame “alto” della quale sento il dovere di invitare ad approfondire le considerazioni di Giorgio Lattanzi, Presidente della Corte Costituzionale) si è assistito, indifferentemente all’introduzione di un nuovo – e cattivo ordinamento giudiziario nel 2006, ad un allargamento della discrezionalità consiliare, ma senza il necessario irrobustimento degli elementi di valutazione, così che alcuni magistrati hanno approfittato, o cercato di approfittare, delle inevitabili smagliature del sistema, e la grande maggioranza della categoria non è riuscita ad opporre i necessari anticorpi, che pure poteva/doveva trarre dalla propria silenziosa dedizione ad un mestiere tanto difficile e impegnativo.
6) Si assistette ad una votazione nella quale i componenti delle correnti non votarono in maniera compatta. Quale significato si sente di attribuire a questo fatto storico? Ebbero, in altri termini, un peso rilevante le convinzioni personali dei consiglieri o prevalsero motivazioni espressive comunque, nella diversità delle opinioni, della normale dialettica dell’esercizio del governo autonomo della magistratura?
D'Ambrosio: La risposta a questa domanda è stata in buona parte anticipata nella risposta alla seconda domanda. Faccio notare, per completezza e sempre premettendo la mia posizione/valutazione personale, che alcune delle “posizioni non allineate” erano effetto di “atteggiamenti critici” all’interno dei gruppi di appartenenza (v. i voti di Calogero, D’Ambrosio, Racheli) mentre altri “voti anomali” si dovevano alla assoluta straordinarietà del caso (Ziccone, Caselli, Abate). Ritengo, infine, di poter rispondere negativamente all’ultima parte della domanda: il “caso Falcone” non può essere esaminato e catalogato come effetto della “normale dialettica dell’esercizio dell’autogoverno”. Di questo sono assolutamente convinto, pur non escludendo una dose apprezzabile di “buona fede” in chi votò per Meli, e non essendo a conoscenza di eventuali contatti “suggeritori”, del tutto plausibili. Resta, secondo me, ignorata la reale e completa identità delle “menti raffinatissime”, cui accennò Falcone a proposito del fallito attentato dell’Addaura, perché non mi sembra del tutto convincente la versione di Saverio Lodato, che riferisce l’ indicazione di Falcone a Bruno Contrada, sia perché l’accenno fu al plurale -“menti raffinatissime”- sia perché il retroscena eventuale della vicenda era troppo complesso per potere essere orchestrato da una sola persona.
7) Anche in quel caso si ventilò che l’adesione all’una o all’altra proposta avrebbe determinato uno scostamento dalla disciplina regolamentare. Allora come oggi si evocarono precedenti scelte per legittimare le rispettive posizioni. Cosa è cambiato negli anni successivi rispetto al tema delle scelte dei posti direttivi e semi-direttivi?
D'Ambrosio: Della scarsa vicinanza delle dichiarazioni di voto di quel giorno di gennaio alla “verità” ho scritto già. Della parziale o totale strumentalità dei richiami al rispetto, e delle lamentazioni per il mancato rispetto, di regole esistenti credo non possa esserci dubbio. Lo “strappo” alla regola essenziale in materia, su qualunque tavolo, che pretende una decisione secondo buon senso, non fu il primo, ed ovviamente nemmeno l’ultimo. Resta che fu il più grande, il più carico di conseguenze negative. Che si sono allargate fino ad oggi, in un panorama desolante, dal quale non sarà per nulla facile emergere. Si potrebbe, forse, cominciare da un paio di piccole regole, quali l’eliminazione delle c.d. “nomine a pacchetto”, provvedendo sempre a nomine singole, previe comparazioni singole, e il rispetto rigoroso dei termini temporali di scoperture delle sedi da ricoprire, senza decidere strumentali rinvii.
Poco, probabilmente, ma da una grande rovina si può ripartire soltanto con la ricostruzione di piccole parti di edifici imponenti.
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