ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblico e privato nella gestione dell’emergenza pandemica (nota a TAR Lazio, sez. III, 26 ottobre 2020, n. 10933)
di Fabiola Cimbali
Sommario: - 1. Il confronto fra autonomie nella risk regulation - 2. Principio di sussidiarietà e strategie di contenimento del rischio sanitario - 3. Emergenza pandemica e metodo di gestione “integrata” del rischio sanitario
1. Il confronto fra autonomie nella risk regulation
L’aumento esponenziale di provvedimenti emergenziali, registratosi negli ultimi anni per far fronte a calamità ed eventi eccezionali e che, di per sé, presenta numerosi profili di criticità, ha subito una ulteriore implementazione nell’attuale contesto ordinamentale così come profilatosi a seguito della diffusione del virus Covid 19.
In tale cornice si è assistito, oltre ad un ulteriore aggravamento della crisi della rappresentanza già riscontrata da tempo (al di là, cioè, della vicenda emergenziale in atto), ad una accentuazione dell’antinomia tra la tendenza alla decisione politica monocratica e l’eterodeterminazione del contenuto della decisione politica sul rischio epidemico. È nota, infatti, la tendenza avvertita nelle decisioni assunte dai rappresentanti di governo di porre le indicazioni scientifiche a fondamento delle scelte adottate quand’anche, come nel caso dell’epidemia in corso, queste ultime siano prive di un ancoraggio scientifico univoco in ordine alla prevenzione ed alla gestione dei rischi per la salute umana[1].
L’inadeguatezza della scienza di fornire indicazioni “sicure” e soluzioni “inequivocabili” sui possibili pericoli e danni che possono derivare dall’espletamento di talune attività ha finito con il mettere in dubbio la deferenza del diritto ai portati tecnico-scientifici sulla quale era stata imperniata la teorizzazione della “società del rischio”[2].
In ragione di ciò, in un contesto segnato da una evidente incertezza scientifica, la discrezionalità del decisore pubblico, pur dovendosi conformare al principio di precauzione, non resta ineluttabilmente vincolata alle risultanze della valutazione del rischio[3].
Ciò nondimeno il percorso valutativo volto all’assunzione di idonee misure precauzionali deve essere condotto in modo trasparente ritenendosi tale metodo funzionale a favorire un confronto costruttivo ed aperto fra i diversi fattori (scientifici e non) sui quali dovrà basarsi la scelta pubblica.
Detta valutazione scientifica, che si snoda nelle fasi di identificazione e di caratterizzazione del pericolo, nonché in quelle di valutazione dell’esposizione al rischio e della sua connotazione, vede nella individuazione delle modalità attraverso le quali gestire quest’ultimo, nonché nell’analisi delle possibili alternative di intervento, il tratto qualificante dell’approccio precauzionale[4].
L’omessa valutazione del rischio, perciò, conducendo ad una determinazione assunta in violazione del principio di precauzione, ne determina l’illegittimità non giovando a salvaguardarla sul piano della sua validità la circostanza che il provvedimento di natura precauzionale nel quale essa si invera sia adottato in costanza di situazioni “eccezionali”[5].
L’attuale quadro ordinamentale delineatosi per effetto degli anomali contorni assunti dalla pandemia, oltre ad un ripensamento dei rapporti tra scienza, politica, ed amministrazione[6], rende indispensabile indagare da una visuale differente il possibile coinvolgimento dei privati nella strategia di contenimento del rischio sanitario.
Tale analisi è oltremodo essenziale giacchè la vocazione neopubblicista riscontrata da ultimo è spesso sfociata in una sorta di pubblicizzazione delle relazioni sociali di portata generale con la conseguenza di offuscare ogni proficua lettura del principio di sussidiarietà orizzontale nella “delimitazione” e nella gestione dell’emergenza epidemica[7].
La cornice pandemica rappresenta un (seppure inusuale e “spinoso”, ma) utile banco di prova per collaudare la concreta applicazione del citato principio costituzionale nella gestione del rischio sanitario principalmente nell’ottica di cogliere le potenzialità del contributo e di appurare l’incidenza degli interventi dei soggetti privati.
In questa logica tale ambito rappresenta, inoltre, terreno nel quale sperimentare la coniugazione del richiamato principio con quello di precauzione in ragione dei vicendevoli punti di interazione.
Siffatti profili di interlocuzione possono, infatti, trovare emblematica estrinsecazione in contesti come quello in esame laddove si avverte una incidenza del principio di precauzione sull’attività degli operatori economici[8].
In particolare, il loro intervento non può essere concepito unicamente come proteso al conseguimento del profitto in netta contrapposizione dell’interesse pubblico conseguito esclusivamente dalle pubbliche amministrazioni.
Il principio di sussidiarietà nella sua accezione orizzontale, dunque, non può essere invocato per avallare la tesi di una sostituzione del privato al pubblico o di una alternativa di “azione” pubblica o privata, quanto piuttosto per favorire una impostazione delle questioni concernenti la gestione del rischio epidemico alla luce di una cooperazione fra le due sfere.
Del resto, la paventata pretermissione del principio di sussidiarietà orizzontale appare in evidente controtendenza rispetto al significato progressivamente avvertito della collaborazione pubblico-privato in diversi settori dell’ordinamento e nel percorso di certificazione della sicurezza in particolare.
L’apporto virtuoso di soggetti diversi da quelli pubblici, difatti, è adeguatamente messo in risalto sul fronte della laboratoristica privata nei processi di screening di intere categorie della popolazione attraverso test molecolari (c.d. tamponi) e di tipo sierologico[9].
Tuttavia, mentre a livello “centrale” si è inteso promuovere il percorso che sottopone ai test soltanto i soggetti sintomatici[10], in ambito regionale, è stata attuata una diversa strategia preventiva che estende tale esame ad intere categorie di popolazione[11].
A tal fine sono state promosse “forme di collaborazione” da parte dei laboratori privati mediante apposite procedure volte a selezionare quelli dotati di standard qualitativi adeguati sul fronte organizzativo, in termini di strumentazione e di risorse umane.
Il compito delle strutture private si sostanzia nell’espletamento di una attività analitica le cui risultanze vengono messe a disposizione esclusivamente delle amministrazioni pubbliche che, una volta acquisite, ne tengono conto nelle disposizioni sulle possibili “riaperture” dei loro territori.
Tuttavia, al fine di garantire una gestione omogenea del rischio pandemico, tale tecnica preventiva ha implicato il mantenimento in capo alle Regioni della funzione di controllare e gestire i dati e le informazioni concernenti i risultati ottenuti.
In altri casi, invece, le Regioni hanno preferito adottare modelli parzialmente differenti da quello appena descritto in cui i laboratori privati effettuano i test sierologici, mentre è rimessa alle strutture pubbliche la funzione di processare i c.d. tamponi[12].
Prescindendo da uno specifico giudizio sulla qualità degli “schemi” verso cui è stata orientata la preferenza delle Regioni, l’impostazione che fa leva su un metodo di differenziazione territoriale, rinsalda l’idea di una strutturazione del servizio sanitario su “base regionale” e ridà vitalità ad una riflessione su un approccio alla gestione del rischio pandemico in grado di valorizzare l’apporto qualificato dei soggetti privati.
2. Principio di sussidiarietà e strategie di contenimento del rischio sanitario
Le esperienze regionali incentrate “sull’inserimento” delle strutture private accreditate nel “sistema” dell’organizzazione sanitaria pubblica presentano profili di particolare rilievo in merito ai quali anche la giurisprudenza, in occasione di un suo sindacato giurisdizionale su specifiche vicende processuali, non ha mancato di offrire il proprio contributo valorizzandone le possibili declinazioni.
In questo solco si pongono quelle pronunce con le quali il giudice amministrativo si è espresso riguardo all’indagine di mercato condotta per l’analisi dei tamponi orofaringei volti all’attività di screening o in merito alla qualificazione degli accordi pubblico-privato intervenuti al fine di procedere alla elaborazione di nuovi test molecolari e sierologici per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2 anche per le implicazioni che essa presenta sull’aspetto della concorrenza fra gli operatori economici presenti nel mercato[13].
Su un piano che trascende dalle modalità attraverso le quali realizzare l’inserimento dei soggetti privati nel “circuito sanitario” e che investe, invece, quello sostanziale relativo alle rifluenze di tale “operazione” sulla gestione del rischio epidemico possono essere richiamati i principali passaggi argomentativi contenuti nelle determinazioni giurisdizionali riguardanti i modelli regionali scelti per consentire ai laboratori privati di effettuare e processare i test sierologici.
Fra queste è alquanto significativa quella sulla vicenda nella quale la società ricorrente, Artemisia s.p.a., aveva impugnato l’ordinanza del Presidente della Regione Lazio (n. Z0003 del 6 maggio 2020) con la quale l’esecuzione di esami molecolari per la ricerca del virus era stata affidata esclusivamente alla rete di laboratori CoroNET-Lazio.
Successivamente l’ente resistente aveva chiarito che alle strutture, pur autorizzate all’esercizio di detta attività diagnostica, non inserite nella rete CoroNET non era consentito eseguire tamponi nasofaringei e/o orofaringei per la diagnosi di laboratorio del virus SARS-CoV-2. Detto esame, conseguentemente, avrebbe potuto essere espletato solo da laboratori inclusi all’interno di uno specifico percorso diagnostico-assistenziale di tipo regionale.
Nello specifico, per effetto dei provvedimenti regionali impugnati, sebbene la struttura ricorrente fosse abilitata ad effettuare i test per l’identificazione di anticorpi diretti verso il virus SARS-CoV-2, alla stessa di fatto veniva precluso di effettuare tale tipo di esame.
Tuttavia il segnale di una apertura da parte dell’autorità decidente verso una formula applicativa estensiva del principio di sussidiarietà orizzontale, che appare netta nella fase giurisdizionale di merito, si presenta non univocamente definita nell’ambito del giudizio cautelare.
In quest’ultima sede, in un primo momento, il giudice non aveva condiviso le ragioni poste a fondamento dei provvedimenti limitativi dello svolgimento degli esami molecolari per la ricerca del virus e non aveva considerato adeguatamente “alimentata” l’argomentazione fondata sull’esigenza di assicurare un grado di elevatissima professionalità, né quella, in ragione della numerosità degli esami, di limitare il numero dei c.d. falsi positivi destinati a crescere all’aumentare del numero dei dati elaborati.
A riguardo, inoltre, aveva osservato come il divieto per le strutture sanitarie private di eseguire test molecolari contrastasse con il principio di libertà dell’utente di scegliere la struttura di fiducia per la fruizione dell’assistenza sanitaria.
Detta preclusione avrebbe potuto essere superata soltanto in presenza di effettive ragioni che ne avessero giustificato la restrizione, basate su un adeguato apparato motivazionale a supporto del provvedimento e «nella presupposta, oggettiva valutazione dell’interesse pubblico finalizzato alla tutela del diritto alla salute».
L’istanza cautelare, dunque, veniva accolta giacchè «nel bilanciamento degli interessi coinvolti era considerato prevalente l’interesse pubblico ad effettuare il maggior numero di esami possibile», tanto più che ciò non avrebbe implicato oneri per le finanze pubbliche, né avrebbe limitato l’accesso ai reagenti per le strutture del servizio sanitario. In quest’ottica, pertanto, veniva evidenziata l’utilità di una «rilevazione mediante esami “altri” rispetto a quelli comunemente previsti ed eseguiti per la individuazione del paziente contagiato»[14].
Successivamente, seguendo una logica argomentativa differente, tale ordinanza veniva sospesa prima in sede monocratica e poi in sede collegiale, in quanto la decisione assunta in ambito regionale di apprestare un sistema diagnostico specialistico a carattere pubblico sembrava maggiormente idonea a garantire in modo più tempestivo il coordinamento del servizio di analisi e dei relativi flussi informativi, nonché ad assicurare «la piena e più sollecita soddisfazione, nella situazione data, dell’interesse primario tutelato (diritto alla salute, art. 32 Cost.), quale istanza prevalente su quelle antagoniste evocate dalla parte appellata»[15].
Di tutt’altro tenore argomentativo e di più ampio respiro applicativo del principio costituzionale di sussidiarietà in una declinazione che ne consente di apprezzare la correlazione con quelli di precauzione e di proporzionalità può considerarsi la pronuncia con la quale il TAR Lazio ha deciso in primo grado il merito della sopra descritta vicenda giuridica, accogliendo le richieste della società ricorrente[16].
In questo contesto giurisdizionale è stato chiarito preliminarmente come le misure adottate dai vari gradi di competenza istituzionale fossero state assunte privilegiando l’applicazione ora del principio di proporzionalità, ora quello di prevenzione, a seconda dello stadio emergenziale riscontrato. Inoltre, sono state delineate la differente portata concettuale e le condizioni di applicazione del principio di precauzione indicate dalla Comunicazione della Commissione europea del 2 febbraio 2000, così da poterne tracciare una linea discretiva rispetto a quello di prevenzione[17].
La pronuncia con la quale è stato definito in primo grado il merito, pur condividendo alcune considerazioni iniziali poste alla base della decisione cautelare di secondo grado, da quest’ultima si è discostata nelle conclusioni cui essa è pervenuta.
Analogamente a quanto chiarito nella fase giurisdizionale cautelare è stata riconosciuta prevalenza ad una azione precauzionale quand’anche essa incida, comprimendola, sulla libera determinazione dell’iniziativa economica e sulla libera scelta da parte del cittadino tanto delle modalità di tutela della propria salute, quanto del medico[18].
Ciò nella consapevolezza che il diritto alla salute, valore costituzionale primario e non negoziabile, nei limiti e nei modi ritenuti di volta in volta indispensabili, può giustificare determinate limitazioni dell’esercizio di altri diritti e libertà anch’essi costituzionalmente rilevanti quali quelli alla circolazione o all’iniziativa economica privata in regime di piena concorrenza.
In questa cornice viene, comunque, condivisa la preoccupazione esternata dalla Regione nella specifica fase dell’emergenza sanitaria e trasfusa nei provvedimenti impugnati di aumentare il numero dei tamponi, riducendone quanto più possibile i tempi per poterli processare, così come quella di consolidare l’affidabilità del processo di tracciatura dei flussi dei dati sia in chiave preventiva nell’individuazione di nuovi focolai, sia allo scopo di alimentare la banca dati dell’O.M.S.
Ciò nondimeno, per l’autorità giurisdizionale decidente, soprattutto dinanzi ad una riscontrata impennata dei contagi che rendeva indispensabile concretizzare l’interesse nazionale di massimizzare il numero delle verifiche così da procederne ad un tracciamento attendibile, è essenziale aprire il sistema sanitario all’apporto dei laboratori privati in grado di effettuare tali tipi di riscontri diagnostici.
Né a tali conclusioni sarebbe d’ostacolo il rischio di una disomogeneità dei dati relativi al tracciamento ricadendo esclusivamente sulla Regione il compito di stabilire le metodologie ritenute cogenti finalizzate alla relativa acquisizione e trasmissione.
D’altro canto, l’espletamento degli esami molecolari al di fuori dei percorsi diagnostici pubblici del servizio sanitario regionale e, quindi, affidato alle strutture laboratoriali private troverebbe ulteriore avallo non implicando alcuna sottrazione di risorse pubbliche né di tipo finanziario, né di ordine materiale.
Anche per tali ragioni è stata considerata rispettosa della logica precauzionale la «massimizzazione delle possibilità di esame mediante strutture specializzate a ciò dedicate», mentre, al contrario, non lo è stato il «divieto imposto sull’assunto della sufficienza delle sole strutture pubbliche».
3. Emergenza pandemica e metodo di gestione “integrata” del rischio sanitario
L’inaspettato sopraggiungere della emergenza sanitaria da Covid 19, che ha duramente colpito il nostro Paese travalicandone, peraltro, i confini nazionali, offre eterogenei e molteplici aspetti sui quali potere riflettere, consentendo, fra l’altro, di analizzare da una inedita angolazione i rapporti fra scienza e diritto.
La peculiarità della prospettiva di indagine è legata principalmente a diversi fattori: la fisionomia sui generis dell’epidemia per via dei suoi incerti ed indefiniti confini spazio-temporali, le “atipiche” modalità attraverso le quali si è ritenuto di intervenire per farvi fronte, la varietà degli strumenti utilizzati per ostacolarne la diffusione.
Ai suddetti connotati - che basterebbero a consacrarla in termini di emergenza (non solo) sanitaria senza precedenti - si aggiungono quelli legati alla constatazione che essa si è presentata come priva di dati idonei ad individuarne le cause e le origini e (forse anche per tale ragione) di certezze scientifiche in grado di incidere in modo tempestivo e determinante sulla prevenzione e sulla gestione dei rischi da essa derivanti per la salute umana.
Gli ambigui tratti dell’evento pandemico ancora in atto hanno appannato i contorni del quadro emergenziale di riferimento e sono divenuti ancora più nebulosi per effetto degli assunti interventi di varia natura giuridica incidenti sui diversi settori dell’ordinamento.
Tuttavia le questioni che ruotano attorno all’ampio tema della gestione dell’emergenza pandemica offrono l’occasione, attraverso l’analisi delle fattispecie riguardanti la laboratoristica privata, di ripensare al contributo che i soggetti diversi da quello pubblico possono offrire per il contenimento della diffusione del virus.
La delicatezza di siffatta questione è tanto più evidente laddove si consideri che la gestione consequenziale ai risultati derivanti dall’avere processato i tamponi è destinata a ricadere su ulteriori posizioni di diritto e di libertà individuali costituzionalmente garantiti.
Ciò impone, pertanto, di apprezzare le potenzialità di un modello fortemente permeato dalla prospettiva costituzionale della sussidiarietà orizzontale in cui l’attività diagnostica espletata dai laboratori privati è destinata a condizionare il processo di valutazione del rischio, facendo transitare da percorsi “integrati” di certificazione della sicurezza l’assunzione di misure emergenziali, più o meno restrittive.
Da siffatto angolo visuale, inoltre, la concreta applicazione del principio di precauzione non implica l’adozione di formule organizzative di stampo centralistico, ma incoraggia l’assunzione di metodi fondati sul coinvolgimento pieno del sistema delle autonomie, pubbliche e private.
Il valore aggiunto costituito dall’attività diagnostica espletata dalla laboratoristica privata può essere apprezzato anche se inserito all’interno di un percorso complesso ed integrato nel quale la raccolta degli esiti, la ripetizione e gli ulteriori approfondimenti ove occorrenti, la tracciatura, la comunicazione “unitaria” ad enti nazionali e internazionali vengano garantiti per effetto di «una canalizzazione governativa in entrata e in uscita, in un circuito omogeneo e di elevato valore scientifico pubblico»[19].
Ciò tanto più che l’identità dei parametri di riferimento e dei relativi metodi di elaborazione dei risultati gioverebbe all’omogeneità ed alla qualità delle indagini diagnostiche espletate e contribuirebbe a contenere il numero dei casi di falsi positivi e negativi.
Più precisamente l’inserimento dei privati nel circuito di gestione emergenziale non si porrebbe in alcun modo in contrasto con un sistema diagnostico specialistico in cui il soggetto pubblico è chiamato a coordinare il servizio di analisi e dei relativi flussi informativi, a gestire ogni possibile variabile o contingenza anche a carattere emergenziale, a prevedere ed assicurare l’uniformità delle tecniche diagnostiche e, quindi, dei parametri di riferimento e di affinamento dei risultati.
Una impostazione basata su meccanismi di integrazione pubblico-privato nella gestione dell’emergenza sanitaria renderebbe più proficua la pianificazione e l’allocazione delle risorse tutelando in modo pieno e tempestivo nella situazione data il valore primario costituzionalmente garantito qual è il diritto alla salute.
La convergente e sinergica “azione” dei laboratori pubblici e privati protesa all’individuazione di soggetti positivi è, inoltre, coerente con il principio di precauzione, soprattutto in vista delle possibili limitazioni costituzionali a diritti e libertà conseguenti ad un accertamento diagnostico di positività che richiedono una loro “riespansione nel più breve tempo possibile.
L’esecuzione dei test molecolari anche da parte di soggetti privati, dunque, non mortificherebbe la funzione pubblica, né svilirebbe la gestione di tutta l’emergenza ma, al contrario, implicando l’espletamento in modo coordinato tra Regione, strutture sanitarie pubbliche e private accreditate, dell’attività diagnostica avrebbe tangibili ricadute positive sui destinatari della prestazione e sull’organizzazione sanitaria nel suo complesso.
Sui primi, in quanto il contenimento dei tempi previsti per processare i tamponi condizionato dall’aver evitato di far pesare unicamente sulle strutture sanitarie pubbliche l’esecuzione di un numero elevatissimo di test consentirebbe loro di venire a conoscenza tempestivamente dei risultati dell’esame laboratoriale al quale sono stati sottoposti.
Sulla seconda, giacchè una organizzazione coordinata nei termini di cui si è detto valorizzerebbe tutte le professionalità presenti sul territorio, preziose in una fase complicata qual è quella nella quale ci troviamo, con una “preferenza” per le strutture pubbliche solamente laddove scelte di tal guisa siano sorrette da un saldo ed argomentato corredo motivazionale.
L’impianto discrezionale che connota l’adozione di specifiche tecniche organizzative, sia pure in un contesto emergenziale, non può legittimare inadeguate misure restrittive dell’iniziativa economica e di altre libertà costituzionalmente garantite se non in quei casi nei quali occorra trovare «un ragionevole e proporzionato controbilanciamento nella cura in concreto, da parte della pubblica amministrazione decidente, dell’interesse pubblico demandatole e (…) nella presupposta, oggettiva, valutazione dell’interesse pubblico finalizzato alla tutela del diritto alla salute»[20].
In questa impostazione l’inserimento dei laboratori privati all’interno del sistema diagnostico pubblico confermerebbe come la gestione dell’emergenza pandemica debba essere affidata alla Repubblica nel suo complesso, secondo una lettura costituzionalmente orientata che rinviene espresso e saldo ancoraggio giuridico non solo nell’art. 118, u.c., ma anche nell’art. 114 della Carta fondamentale italiana.
Siffatta ricostruzione dimostrerebbe, dunque, come «la “certificazione della sicurezza” si inserisce proprio all’interno delle complesse dinamiche cooperative che legano amministrazioni ed imprese nella governance del rischio, rappresentando così uno degli aspetti di riconsiderazione del ruolo dei soggetti privati all’interno dei processi di risk regulation»[21].
***
[1] Cfr. A. Barone, Emergenza pandemica, precauzione e sussidiarietà orizzontale, in PA Persona e Amministrazione, 2020, 186-187
[2] A riguardo è imprescindibile il rinvio a U. Beck, Risikogesellshaft. Auf dem Wegin eine andere Moderne, Franfkfurt, 1986 trad. it. a cura di W. Privitera, La società del rischio verso una seconda modernità, Roma, 2000.
[3] In dottrina sul principio di precauzione, fra i contributi più significativi F. Trimarchi, Principio di precauzione e “qualità” dell’azione amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2005, 1673-1707; F. De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Giuffrè, Milano, 2005; A. Barone, Il diritto del rischio, Giuffrè, Milano, 2006; R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Giappichelli, Torino, 2007, 1-36; G. Corso, La valutazione del rischio ambientale, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2008, 158-170; A. Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzie, Il Mulino, Bologna, 2008; I.M. Marino, Aspetti propedeutici del principio di precauzione, in Studi in onore di Alberto Romano, III, editoriale Scientifica, Napoli, 2011, 2177-2207, ora in Id., Scritti giuridici, II, a cura di A. Barone, Napoli, 2015, 1511-1544.
[4] A tale proposito Commissione Europea, Comunicazione sul principio di precauzione – COM (2000) 1, 2 febbraio 2000, https://eur-lex.europa.eu, ha evidenziato come un esame del genere non possa basarsi semplicemente su un raffronto costi/benefici richiedendo invece una comparazione più complessa.
Sulla “accettabilità” da parte della popolazione interessata come variabile alla luce della quale deve essere effettuata la valutazione della misura adottata Corte di giustizia CE, sentenze 5 maggio 1998, causa C-157/96, par. 63, e causa C180/96, punto 99; sent. 9 settembre 2003, causa C-236/01, par. 111, curia.europa.eu.
[5] A. Barone, Emergenza pandemica, precauzione e sussidiarietà orizzontale, cit., 192, ha descritto le conseguenze del vulnus causato della mancata valutazione scientifica del rischio.
[6] Tale esigenza è avvertita da F. Fracchia, Coronavirus, senso del limite, deglobalizzazione e diritto amministrativo: nulla sarà più come prima?, in www.ildirittodell’economia.it.
[7] A. Barone, Brevi riflessioni su valutazione scientifica del rischio e collaborazione pubblico-privato, in www.federalismi.it, 7, in questo senso ha ritenuto emblematico il diffuso utilizzo di strumenti dai tratti marcatamente autoritativi, come quelli contemplati nell’art. 6, d.l. c.d. “cura Italia” (n. 18 del 2020) nel quale è espressamente stabilita la «requisizione in uso o in proprietà di presidi sanitari e medico-chirurgici, nonché di beni mobili di qualsiasi genere, occorrenti per fronteggiare la predetta emergenza sanitaria, anche per assicurare la fornitura delle strutture e degli equipaggiamenti alle aziende sanitarie o ospedaliere ubicate sul territorio nazionale, nonché per implementare il numero di posti letto specializzati nei reparti di ricovero dei pazienti affetti da detta patologia». Il solco segnato dalla disposizione destinato a coinvolgere la sanità privata accreditata pare escludere il coinvolgimento dei privati nella co-gestione del rischio pandemico.
Sul principio di sussidiarietà orizzontale, senza pretesa di esaustività, G. Berti, Considerazioni sul principio di sussidiarietà, in Jus, 1994, 409; M.P. Chiti, Principio di sussidiarietà, pubblica amministrazione e diritto amministrativo, in F.A. Roversi Monaco (a cura di), Sussidiarietà e pubbliche amministrazioni, Maggioli, Rimini, 1997, 97-99; G. Pastori, La sussidiarietà «orizzontale» alla prova dei fatti nelle recenti riforme legislative, in Aa.Vv., Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali, Padova 1999, 170-182; A. D'Atena, Costituzione e principio di sussidiarietà, in Quad. cost., 2001, 13-33; G. Arena, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art.118, u.c. della Costituzione, Relazione al Convegno “Cittadini attivi per una nuova amministrazione”, Roma 7-8 febbraio 2003, in www.astridonline.it; I.M. Marino, Presentazione del Master in “Gestione globale del rischio”, LUM-Jean Monnet, Casamassima (Ba), 14 maggio 2004.
[8] A. Barone, Pubblico e privato nella gestione del rischio, in G. Guerra, A. Muratorio, E. Pariotti, M. Piccinni, D. Ruggio (a cura di), Forme di responsabilità e nanoteconologie, Bologna, 2011, 159-184.
[9] Le considerazioni su tale profilo ivi articolate e sviluppate nella parte finale del presente paragrafo sono riprese dall’analisi condotta su alcune significative esperienze regionali da A. Barone, Emergenza pandemica, precauzione e sussidiarietà orizzontale, cit., 194-196, della quale sono riproposti in modo pressoché testuale i punti più salienti.
[10] Cfr. Circolare del Ministro della Salute del 22 febbraio 2020.
[11] In questa direzione si sono mosse la Regione Toscana, come si evince dall’ordinanza n. 23 del 3 aprile 2020, adottata dal relativo Presidente, la Regione Veneto su precise indicazioni scientifiche da parte dell’AOP di Padova e dell’AOUI di Verona e la Regione Sicilia, come è possibile riscontrare nella nota prot. n. del 16 aprile 2020 del suo Assessore alla Salute.
[12] La Regione Lazio si è orientata in tal senso e la preferenza mostrata per siffatto modello ha costituito oggetto di apposita ordinanza del TAR Lazio, sez. III, 15 giugno 2020, n. 4350, sospesa prima in sede monocratica (Cons. Stato, sez. III, decr. Pres., 26 giugno 2020, n. 3769) e, poi, in sede collegiale (Cons. Stato, sez. III, ord., 17 luglio 2020, n. 4323). Su questo specifico punto si rinvia al paragrafo 2.
[13] Nel primo caso la legittimità dei provvedimenti adottati dalla Regione Campania è stata confermata sia nel giudizio cautelare (TAR Campania, Napoli, decr. Pres., 11 aprile 2020, n. 776 e sez. I, ord., 22 aprile 2020, n. 856), che in quello di merito di primo grado (sez. I, sent., 1 settembre 2020).
Nel secondo caso, precisato che siffatto accordo non può essere considerato in termini di mera collaborazione, è stata sancita l’illegittimità - per non essere stata indetta e svolta una procedura ad evidenza pubblica, in violazione dei canoni di trasparenza, parità di trattamento, e divieto di discriminazione - della determina del direttore generale di un IRCCS, con la quale era stata accettata la proposta di collaborazione con un operatore privato per la valutazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2, e l'accordo ad essa connesso. Specificamene a tale ultimo riguardo cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, 8 giugno 2020, n.1006, secondo cui il diritto interno ed eurounitario impone ai soggetti pubblici di avvalersi di procedure competitive trasparenti e non discriminatorie per selezionare la controparte contrattuale ogni qual volta intendano offrire un’utilità suscettibile di trasformarsi in un’occasione di guadagno per gli operatori di un determinato settore. Le amministrazioni concedenti - pur di optare per la procedura di aggiudicazione più appropriata alle caratteristiche del settore interessato e di stabilire i requisiti che i partecipanti devono soddisfare durante le varie fasi della procedura - devono assicurare che il candidato venga scelto in base a criteri obiettivi e che la procedura si svolga rispettando le regole e i requisiti inizialmente stabiliti. Tale modus operandi, infatti, garantisce tanto l’effettiva apertura alla concorrenza del settore delle concessioni di beni, quanto il controllo sull’imparzialità delle procedure di aggiudicazione.
[14] Cfr. TAR Lazio, sez. III, 15 giugno 2020, n. 4350.
[15] Così Cons. Stato, sez. III, ord., 17 luglio 2020, n. 4323.
[16] TAR Lazio, sez. III, 26 ottobre 2020, n. 10933.
Fra i diversi motivi di doglianza, la ricorrente aveva evidenziato come il divieto contenuto nei provvedimenti regionali per le strutture sanitarie private di eseguire test molecolari contrastasse con l’intera impostazione del sistema sanitario in seno al quale il diritto alla salute veniva declinato mediante la libertà riconosciuta a ciascun soggetto di scegliere la cura ed il soggetto che la presta. Ad avviso della Artemisia s.p.a., inoltre, l’impianto normativo vigente in materia non legittimava forme di divieto gravanti sulle strutture private di svolgere detti test, limitandosi semmai ad indirizzare le strutture pubbliche verso l’espletamento di funzioni di raccordo tra i lavoratori esistenti allo scopo di coordinare le attività diagnostiche. Né gioverebbe, secondo la predetta società, sostenere che detto tipo di limitazione trovi sostegno nella necessità di non fare gravare detti esami sulle finanza pubbliche o nella penuria di reagenti richiesti per l’esecuzione dei test molecolari.
Sulla connessione tra i principi di precauzione e di proporzionalità recentemente Cons. Stato, sez. III, 9 marzo 2020, n. 1692.
[17] Com’è noto, la Comunicazione della Commissione Europea del 2 febbraio 2000 (par. 5.1.3) ha individuato le condizioni di applicazione del principio di precauzione nella sussistenza di indicazioni ricavate da una apposita valutazione scientifica sia degli «effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno, da un prodotto o da un procedimento», sia «del rischio che, per l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loro imprecisione, non consente di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione».
Nella cornice giuridica disegnata dalla Commissione non sono rispettose del principio di precauzione la scelta del c.d. “rischio zero” e la predisposizione di misure non calibrate sul livello di protezione prescelto, nè corredate da un’analisi dei conseguenti vantaggi ed oneri. Da ciò consegue che non sempre un divieto totale od un contrasto radicale siano una risposta proporzionale al rischio potenziale dovendosi invece optare per una azione cautelativa che, contemperando esigenza di precauzione e di proporzionalità, possa essere costantemente riadattata in relazione ai risultati raggiunti ed a dati scientifici progressivamente acquisiti (pa. 6 e 6.3.5).
In dottrina sui concetti di prevenzione e precauzione R. Ferrara, Etica, ambiente e diritto: il punto di vista del giurista, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente, vol. 1, in R. Ferrara, C.E. Gallo (a cura di), Le politiche ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, Milano, 2014, 26 ss.
Sostiene che vi sia identità sostanziale tra i principi di prevenzione e precauzione M.P. Chiti, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, in Annuario 2015 dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Il Diritto Amministrativo dell’emergenza, Giuffrè, Milano, 2016, 2004, 80.
I.M. Marino, Aspetti propedeutici del principio giuridico di precauzione, cit., 1533-1534, evidenzia come nonostante principio di precauzione e gestione del rischio siano ormai entrati nel diritto italiano, anche per i numerosi interventi dei giudici, emergano «tuttavia difficoltà concrete nel distinguere la precauzione dalla prevenzione, così come il rischio dal pericolo».
Sulla distinzione fra i principi di precauzione e di prevenzione può vedersi, inoltre, Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655, secondo cui «Posta la differenza concettuale che intercorre tra precauzione (limitazione di rischi ipotetici o basati su indizi) e prevenzione (limitazione di rischi oggettivi e provati) - il principio di precauzione, dettato in primis dall’art. 191 del TFUE e a seguire recepito da ulteriori fonti comunitarie e dai singoli ordinamenti nazionali, fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di scongiurare i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali rischi e prima che subentrino più avanzate e risolutive tecniche di contrasto. L'attuazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5525 e sez. V, 18 maggio 2015, n. 2495)».
[18] In merito alle principali misure di limitazione della libertà di ini
ziativa economica privata adottate durante l’emergenza M. Cecchetti, Le limitazioni alla libertà di iniziativa economica privata durante l’emergenza, in www.astridonline.it.
[19] Testualmente TAR Lazio, sez. III, 26 ottobre 2020, n. 10933.
[20] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 marzo 2019, n. 1589.
[21] Così I.M. Marino, A. Barone, Impresa, rischio e pubblica amministrazione, in Ritagli di Economia e Diritto, Università LUM Jean Monnet, n. 3/2008, ora in Id., Scritti giuridici, II, cit., 1388.
Camminando con il giudice alla rovescia (Sassari, Carlo Delfino Editore, 2020) a cura di Rosa Agostino e Luciana Breggia.
Recensione di Maria Giovanna Ruo
Camminando con il giudice alla rovescia (Sassari, Carlo Delfino Editore, 2020) a cura di Rosa Agostino e Luciana Breggia, è un libro su un libro, quello di L. Breggia, Il giudice alla rovescia (Torino, 2015, Ed. Einaudi ragazzi) e la sua feconda storia suscitatrice di risorse. Costituisce un modo originale e intrigante di affrontare con levità temi importanti e profondi, come l’educazione delle giovani generazioni a legalità e giustizia, attraverso la proposta di una riflessione maieutica sui percorsi del iuris dicere in materie nelle quali è centrale la considerazione della persona quale si è venuta sviluppando per le sue relazioni, la sua storia e la sua sensibilità e per la società in cui vive e ha vissuto. Provoca una riflessione su come educare non solo i bambini ma anche noi stessi a un approccio diverso ai temi della giustizia e della legalità.
L’obiettivo è alto, ed esplicitamente contenuto nel sottotitolo “come mediare i conflitti e costruire insieme le regole della giusta convivenza”. Il libro è rivolto al mondo delle persone di età minore: la curatrice e autrice del precedente volume (L. Breggia) nella premessa avverte che educare i bambini al rispetto della legge è fondamentale, ma occorre stimolarne la capacità di interrogare la propria coscienza anche di fronte alla legge e di porsi di fronte alla regola in modo non formalistico e superficiale. Il che ovviamente vale per tutti.
I bambini non sono solo i destinatari (principali) del volume, ma ne sono anche i protagonisti, dato l’ampio spazio assicurato alle “ricette” di giustizia che hanno fornito persone di età minore nei vari laboratori di cui il testo dà conto. Il libro non è però diretto “solo” a loro, ma anche agli insegnanti, ai genitori, ai protagonisti delle diverse agenzie educative che bambine/i e adolescenti incontrano nel loro percorso di maturazione e che contribuiscono al raggiungimento della loro piena cittadinanza attiva. E ancor di più: è un libro per giuristi non solo operatori del settore, per la società responsabile e solidale e i suoi protagonisti, per un percorso verso la migliore attuazione della giustizia che parta dall’educazione delle giovani generazioni, della cui cura siamo tutti responsabili.
Tale ambizioso obiettivo è raggiunto attraverso un percorso originale, costruito tra testimonianze e resoconto di laboratori vissuti nelle scuole, la narrazione della metodologia seguita per far crescere la consapevolezza di cosa è giustizia e che sprona a sperimentarla in altre scuole e agenzie educative, con e per le persone di età minore e in stretto contatto con loro, riportando anche l’incredibile profondità delle loro osservazioni sui casi concreti, talvolta espressa con modalità e concetti che lasciano stupiti. Alla rovescia anche perché non dalla norma al caso concreto, ma dal caso concreto alla filosofia di sistema.
Il punto di partenza è appunto il libro di Luciana Breggia, Il giudice alla rovescia: il Giudice è quello di Pinocchio, che manda in carcere l’innocente burattino e poi sparisce nel libro di Collodi; ma in realtà (o -più correttamente- nella finzione fiabesca del libro della Breggia) l’uomo evidentemente cambia, ha una sua personale trasformazione, un percorso di consapevolizzazione dei propri ruolo e funzione (art. 4 , II co., Cost. si potrebbe supporre). Questi arriva quindi in un paese dove gli abitanti litigano continuamente e hanno bisogno di lui per dirimere i loro conflitti. Il Giudice analizza vari casi ma non offre le soluzioni più prevedibili sulla base di torti e ragioni: ascolta, prescinde da stereotipi, alla ricerca delle radici del conflitto per superarlo in una visione più ampia. Quando alla fine riparte da quel paese, la giustizia è ormai diventata patrimonio condiviso del piccolo villaggio.
Nella finzione fiabesca il Giudice alla rovescia aiuta a dirimere i conflitti dei cittadini con l’arte appunto della “maieutica”, conducendoli a una riflessione su cosa sia giustizia, attraverso la riacquistata capacità di dialogo, il superamento di pregiudizi dettati dalla paura del diverso o del cambiamento, l’ascolto dell’altro.
Fiaba, paradosso o utopia? Non si sa, ma forse nemmeno importa. Lo snodo è altro: sta nelle vicende narrate e nelle conclusioni niente affatto scontate dei conflitti che ne emergono e che vengono portate, con modalità originali, ai bambini perché se ne facciano giudici nei Laboratori di cui dà conto il libro Camminando con il giudice alla rovescia. Il libro della Breggia viene definito in questo secondo volume un libro da osservare, per la sequenza delle illustrazioni, da ascoltare, da gustare “per l’umanità vera che c’è in ogni storia del libro” (C. Brucoli e C. Mambelli a p. 23 ne Il testo).
Così la storia della piccola ladra Mariza (su cui in particolare si soffermano F. Costagli e poi N. Turco), migrante ladra per fame e necessità di sopravvivenza, e il suo giudice che capovolge gli “ingiusti” canoni di giudizio, condivisi dagli abitanti del paese, nel quale il furto avviene, che partecipano in massa al processo in una prospettiva “colpevolista” e giustizialista. Il giudice alla rovescia finisce per condannare invece proprio quel paese e i suoi abitanti in quanto, non prestando sostegno alla piccola migrante, sono stati determinanti nel sospingerla verso la devianza. Il furto va inquadrato nella situazione di marginalizzazione, povertà, esclusione, diversità in cui Mariza vive nell’indifferenza colpevole del villaggio.
Sembra quasi, vista alla rovescia, di sentir riecheggiare la Corte Europea dei Diritti dell’uomo, nelle condanne ex art. 8 della Convenzione EDU, quando sottolinea la necessità che le Autorità nazionali sostengano le persone fragili con ogni intervento, prima di provvedimenti limitativi o ablativi dei loro legami parentali: l’obbligo positivo dello Stato di sostenere, recuperare, contrastare la fragilità che porta alla diminuita capacità genitoriale, prima di tutto con provvedimenti di aiuto e, solo in caso di fallimento, di resezione delle relazioni familiari.
Ma soprattutto, nel percorso alla rovescia, si sentono evocati gli articoli 2, 3 e 31 della nostra Carta Costituzionale: garantire a tutti i diritti fondamentali, rimuovere gli ostacoli, tutelare le persone di età minore, in quanto fragili e vulnerabili. Tanto più quando la vulnerabilità è multipla: migranti e di età minore, migranti e soli (non accompagnati).
In Camminando con il giudice alla rovescia si presentano una serie di situazioni in cui il Giudice alla rovescia ha potuto essere utilizzato per un percorso di sensibilizzazione ai temi della legalità e della giustizia nelle scuole. Sono i 5 laboratori (ne descrivono i percorsi: C. Brucoli e C. Mambelli, N. Turco, M. Breggia, M. Martinat, L. Galbusera) nei quali le storie sono state portate ai bambini, individuando con loro gli elementi salienti del conflitto e le tecniche di soluzione che ogni storia fa emergere, ascoltandone i protagonisti e con il contributo del magistrato che vi ha partecipato: con varie metodologie anche di coinvolgimento e formazione degli adulti (M. Martinat giunge a ipotizzare di lavorare con gli adulti con gli stessi spunti impiegati per i ragazzi “in un’attività di formazione da svolgersi in vari ambiti di impegno”: p. 56) e di utilizzo di tecniche narrative (flashback, autobiografia, diario) stimolando così anche l’approccio alla scrittura (L. Galbusera, p. 61).
La prospettiva è il movimento, il cammino verso l’effettività della giustizia (così il contributo di Brucoli e Mambelli, p. 25) che non può che essere calata nel caso concreto, e partendo da questo (alla rovescia) il volume suggerisce come declinare nelle particolari circostanze delle diverse situazioni la regola che assicuri giustizia. Toccando storie, immagini concrete, cercando il superamento del conflitto, prima che la sua conflagrazione diventi irreversibile. Costruendo la consapevolezza che la giustizia non è necessariamente connessa con il sistema giudiziario per svilupparlo “anche nelle forme amichevoli della mediazione e della giustizia partecipativa” (così L. Breggia, p. 15 della premessa)
Per chi scrive, che esercita la professione di avvocato nell’area persona, relazioni familiari e minorenni, la lettura è stata anche un’immersione in esperienze e riflessioni vissute, la riproposizione di domande cui era stata data una risposta abbozzata nella fretta dell’agire quotidiano. Un’esperienza di rivisitazione di prospettive in una visione più di sistema e la proposta di una sfida educativa cui non è legittimo sottrarsi.
Essere avvocati della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni, presuppone un approccio alla professione simile a quella del giudice alla rovescia: non cercare il conflitto, non alimentarlo, piuttosto contenere le istanze degli Assistiti che non sono sintoniche con il criterio di the best interest of the child (e di tutti i soggetti vulnerabili coinvolti) che è preminente e determinante nel giudizio nell’area del diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni. Promuovere il cambiamento verso la prospettiva dello sviluppo delle relazioni, perché si decide per il futuro, e non per il passato. Sostenere l’Assistito nel difficilissimo compito di (ri)costruire le relazioni sulla base del cambiamento per dirimere i conflitti nell’interesse di tutti, ma soprattutto dei più vulnerabili che vi sono coinvolti.
Essere operatori del diritto in questi campi vuol dire che la scienza giuridica corre il rischio di rimanere sterile ancorché elegante declinazione di concetti se non viene rivisitata alla stregua di altri saperi, lasciandosi contaminare beneficamente dagli stessi: pedagogia, psicologia, scienze sociali, antropologia, pediatria, psichiatria, neurologia, geriatria etc. La persona umana non può essere segmentata: se alla persona, prima di tutto a quella più vulnerabile, si deve assicurare giustizia, il processo della sua effettiva attuazione certo non può essere declinato asetticamente, ma dentro la sua storia. Vuol dire cercare nell’interpretazione delle norme, coadiuvati da altri saperi -nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco- la soluzione che garantisca prima di tutto i diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili coinvolti, in una dimensione che superi il conflitto garantendo la soluzione giuridicamente migliore possibile che ne attui i diritti fondamentali, primo fra tutti, per la persona di età minore, quello al suo migliore sviluppo psico-fisico.
D’altronde la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di quelle sanzioni penali che, ad es. prevedevano come automatica pena accessoria la decadenza o sospensione dalla responsabilità genitoriale del genitore autore di un reato, ricordando che la valutazione dell’interesse del minore è prioritaria e va considerata dal giudice nella situazione concreta di quel minore coinvolto, caso per caso (ex multis Corte Cost., sent. n. 102/2020). Sempre la Consulta ha affermato (Corte Cost, sent. 172/2017) che il favor veritatis nelle azioni di accertamento di stato personale -e in particolare dell’impugnazione per difetto di veridicità- è recessivo rispetto all’interesse di quel minore la cui identità è in gioco, che va valutato nella sua concretezza di storia, affetti, relazioni che si sono andate costruendo nella sua vita: favor affectionis, appunto, che prevale sul favor veritatis, che a sua volta, nel percorso di approfondimento dei concetti giuridici da applicarsi alle relazioni personali, aveva già inesorabilmente prevalso su quel favor legitimitatis dal sapore obsoleto che, ignorando persona e affetti, relazioni effettive, ha costituito per anni con rigidità il criterio prevalente in materia di azioni di stato personale in ragione della preferenza per la famiglia coniugale. Ancora a titolo esemplificativo la Corte Costituzionale ha affermato (Corte Cost., sent. 308/2008) che l’assegnazione della casa familiare non può “venir meno” automaticamente come previsto dalla norma (all’epoca 155 quater c.c., ora 337 sexies c.c.) se il genitore assegnatario si sposa o vi inizia una nuova convivenza, perché deve essere invece valutato dal giudice l’interesse del minore nella concretezza della sua storia, delle sue relazioni affettive del legame con il luogo degli affetti costituito dalla casa familiare.
Il Comitato ONU, nel suo Commento Generale n. 14 Sul diritto del minorenne a che il proprio superiore interesse sia tenuto in primaria considerazione all’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989, rat, con l. 176/1991) afferma che the best interest of the child è un criterio elastico, che non può prescindere dalla considerazione di come nel concreto le esigenze di quella persona di età minore si atteggino e debbano essere tutelate.
Il tutto dà ragione della specialità dell’area giuridica del diritto delle persone, delle relazioni familiari e dei minorenni, non certo diritto minore, ma diritto che pretende anche altro in chi lo pratica, per non tradirne il senso più profondo, di tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili nella concretezza delle loro persone, storie, relazioni, approcci valoriali nei principi inderogabili di solidarietà e responsabilità sociale.
In questa prospettiva, Camminando con il giudice alla rovescia traccia e propone un percorso educativo per i bambini (del ciclo delle elementari ma non solo) alla consapevolezza di cosa è giustizia rendendoli protagonisti della gestione di conflitti nella concretezza ed evidenziando quali risposte profonde -se messi nella condizione- siano in grado di fornire. L’educazione all’ascolto dell’altro, a tendere l’orecchio alle sue esigenze, essendo giudice del suo conflitto con la società, o con un’altra persona. Il Progetto ha lo scopo di diffondere la consapevolezza, già nel ciclo delle elementari, “dell’idea che le regole abbiano una funzione positiva e protettiva nel vivere in comune al fine di sviluppare il senso civico di cittadinanza consapevole” (A. Sardara, p. 65). L’esperienza di Sassari, presentata da V. Motzo, si è articolata anche nella costruzione di un giornale murale, che raccoglieva l’iter di attività e riflessioni, in scritti formali e non formali sui conflitti, che hanno dato modo di sviluppare le relative abilità di scrittura, giochi di ruolo sulle diverse tipologie di conflitti, peer education che ha visto i bambini della primaria insegnare -a quelli della scuola dell’infanzia ma anche a quelli delle medie- “i loro segreti per risolvere i conflitti”, la rappresentazione teatrale di fine anno. Il risultato ovviamente non è stato che siano spariti i conflitti nelle classi che hanno vissuto il progetto. E’ però cambiato il modo di approccio. Segue l’esperienza di Livorno, per “indicare ai bambini una strada di risoluzione delle liti e dei conflitti autonoma e pacificante” (A. Fodra, p. 102). Anticipatoria l’esperienza di Civitella di Roveto, nata con la diversa finalità di favorire la crescita dello studente-lettore -dalla lettura del Giudice alla rovescia- che ha però anche centrato l’obiettivo di sviluppare nei partecipanti “la capacità di accettare punti di vista diversi dal proprio” (F. Lucidi, p. 105). Infine il report di B. Rossi (p. 108) sulla trasformazione della capacità di gestire i conflitti maturata all’interno della comunità scolastica dopo il percorso formativo. L’ultima parte del libro è dedicata a “frasi celebri e artisti” e termina con la commovente (non solo per i bambini) lettera al Giudice alla rovescia.
Camminando con il giudice alla rovescia suscita, in chi vive quotidianamente queste tematiche, oltre che pensiero, emozioni non superficiali e stimola la prosecuzione di un cammino tutt’altro che scontato.
Ma nel coinvolgimento nell’azione educativa nei confronti delle giovani generazioni può anche avvicinare gli scienziati del diritto all’area del diritto minorile, spesso considerata con sufficienza, quasi che la contaminazione con altri saperi ne svilisca la sostanza giuridica: il diritto delle persone di età minore, non è un diritto minore, ma è piuttosto un diritto che esige anche altro per essere giustizia effettiva, che non guarda (solo) al passato per stabilire torti e ragioni, ma che ha lo sguardo volto al futuro.
L’Accademia brasiliana ricorda Michele Taruffo
Teresa Arruda Alvim, Professoressa di diritto processuale civile nella Pontifícia Universidade Católica di San Paolo (PUCSP)
Paulo Henrique dos Santos Lucon, Presidente dell’Istituto Brasiliano di Diritto Processuale, Professore Associato nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di San Paolo
Daniel Mitidiero, Professore di diritto processuale civile nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federale del Rio Grande do Sul (UFRGS)
Ricordo
di Teresa Arruda Alvim
La mattina del 10 dicembre 2020 il mondo è diventato più povero. È venuto a mancare un giurista davvero speciale, Michele Taruffo. Potrei fare qui un’analisi dettagliata del suo percorso intellettuale, menzionando la sua produzione bibliografica, analizzando alcune delle sue opere ma non credo che ciò sia la cosa prioritaria dato che al giorno d’oggi è estremamente facile accedere a queste informazioni. Credo invece sia più interessante dire qualcosa riguardo la sua forma di vedere il diritto e la vita, e del perché la sua perdita lascerà un vuoto in tutti noi difficilmente colmabile.
Michele Taruffo era un giurista universale. Aveva questa vocazione che si è manifestata precocemente nella sua vita e cioè di raggiungere rapidamente il nocciolo dei temi che lo affascinavano. Il percorso scelto era di investigare le origini di istituti e figure giuridiche oltreché il diritto comparato, perché queste fonti, per lui, ovvero l’origine e la trattazione dello stesso argomento nelle diverse parti del mondo, erano capaci di rivelare l’essenza degli oggetti studiati. Argute riflessioni, irresistibilmente filosofiche sulla storia del diritto e sulle diverse forme per mezzo delle quali popolazioni differenti affrontano lo stesso tema, illuminavano le sue riflessioni, le argomentazioni e le sue lezioni.
Trattava tematiche come se le vivesse con una macchina da presa che poco a poco si stesse allontanando dall’oggetto analizzato, per avere una visione allo stesso tempo completa ed essenziale del tema affrontato. Questo ha fatto di lui un autore “universale”.
Dimostrava un’invidiabile capacità di esporre gli argomenti con chiarezza, in un discorso, scritto o parlato, didattico e seduttore, che poteva essere compreso persino da un cinese, da un tedesco o da un finlandese.
Ovunque incontrava auditori zeppi di studiosi che lo volevano ascoltare, con immenso interesse ed ammirazione. A tal proposito, è impressionante come un giurista italiano possa essere, durante tutta la sua carriera di professore, veramente letto, citato e referenziato in tante nazioni.
Taruffo parlava di “diritto vivente” come quel diritto reale della vita a cui gli individui obbediscono. Forse proprio per questo si è dedicato con tanto interesse alla prova e ai principi fondanti della sentenza, giacché, con estrema lucidità, non ha mai smesso di dichiarare la funzione rilevante della giurisprudenza pacificata nella costruzione del proprio diritto.
Opere del Maestro, che ci lascia oggi orfani, sono state tradotte nelle più disparate lingue, persino in giapponese e in cinese. Ha influenzato processualisti e pensatori del mondo intero. Integrava le più diverse associazioni di studiosi di diritto processuale, anche se è stato molto di più che un processualista tradizionale. Era un vero show-man nei congressi attraverso la sua forma accattivante di esporre. Ha rivestito la funzione di Visiting Scholar in diverse università dell’oriente e dell’occidente, tenendo simposi in nazioni distanti, ai nostri occhi, persino esotiche. Nonostante ciò non era solo un “topo di biblioteca”...amava anche viaggiare in modo tradizionale e più avventuroso come per esempio in Brasile, in Vietnam e in tanti altri luoghi. Infatti ha fatto alcuni viaggi nell’Amazzonia peruviana e aveva una casa nel Nordest del Brasile.
La sua attitudine avventurosa si rifletteva nella sua forma di studiare: l’avventura interdisciplinare era una delle sue caratteristiche, tanto visibile nella sua opera magna sui fondamenti della sentenza. In questo momento aveva abbandonato la dogmatica tradizionale, avendo prodotto un’opera completa sul tema.
Passava dalla psicologia alla semiotica, alla logica, alla nascente teoria dell’argomentazione. Audace, creativo e coraggioso, Taruffo è stato un uomo che ha lasciato una traccia, un intellettuale indimenticabile.
Il Brasile lo amava e lui amava il Brasile. Amava le nostre spiagge, la nostra gente, il calore umano con cui era sempre ben ricevuto da queste parti. Ha sempre frequentato le case dei processualisti brasiliani, dandoci l’allegria di vederlo come un vero amico. Qui in Brasile effettivamente era un vero e proprio idolo.
Lo conobbi quando era ancora giovane in una cena offerta dai miei genitori, anche loro processualisti, alla fine degli anni ’80. Avevo appena terminato di pubblicare il mio primo libro sulla nullità della sentenza e gli detti una copia in omaggio. Lui, nel momento che la ricevette, andò subito a verificare nella bibliografia, per controllare se io avessi citato la sua magnifica opera sui Fondamenti della sentenza civile. Per un istante rimasi gelata, fino a che il Maestro sorrise e mi disse, in tono giocoso: "Ah che bibliografia eccellente!"
Grazie a Dio, ci ha lasciato un’opera vastissima e molti ricordi indimenticabili. Sicuramente non ci sarà un altro Michele Taruffo.
Il giorno 10 di dicembre 2020 il mondo è diventato più povero e molto, molto più triste.
Michele Taruffo
di Paulo Henrique Dos Santos Lucon
Negli ultimi anni, il diritto processuale brasiliano ha perso due dei suoi più importanti esponenti di tutti i tempi: Ada Pellegrini Grinover e José Carlos Barbosa Moreira. L’immenso dolore, che noi brasiliani abbiamo provato a causa della scomparsa di questi due grandi maestri, è tornato ad affliggerci il 10 dicembre 2020, quando abbiamo ricevuto, con grande tristezza, la notizia della morte del Professor Michele Taruffo. Per gli studiosi del diritto processuale, la sofferenza per la perdita di questi amici si aggiunge alla tristezza di non poter più contare, in futuro, sulla profondità delle loro riflessioni, delle loro lezioni, delle loro relazioni ai congressi, degli innumerevoli saggi e libri, che sono stati fondamentali per la formazione di tanti giuristi e che, per tanti e tanti anni, sono stati un faro per tutti coloro che hanno sentito l’esigenza di rifugiarsi in tali opere nei momenti di dubbio, incertezza ed erronea comprensione di spinose questioni giuridiche. Tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscere il Professor Taruffo, sicuramente, hanno di lui un ricordo molto speciale, specialmente del suo carisma e della sua personalità. Pertanto, proprio per rispettare la memoria di ognuno di noi, verranno fatte ulteriori considerazioni in questa sede.
Ciò che si ritiene essere rilevante ora è sottolineare il contributo di Taruffo allo sviluppo del diritto processuale brasiliano.
In questa direzione e nel campo esclusivamente scientifico, non è esagerato affermare che, se venisse effettuata una ricerca specifica sugli autori stranieri più citati in Brasile, tra questi troveremmo sicuramente il nome di Taruffo, vista la profondità dei suoi lavori e data la trasversalità e multidisciplinarietà delle sue opere. Per esempio, un saggio giuridico, pubblicato in Brasile, sul diritto delle prove, sull’argomentazione giuridica e sulla motivazione della sentenza, sul sistema dei precedenti giudiziali e altri argomenti, non sarebbe completo ed esaustivo senza il riferimento alle innumerevoli opere di Taruffo su tali temi.
Dinanzi ad una così ampia influenza e rilevanza delle opere di Taruffo sui giuristi brasiliani, è naturale e prevedibile che le sue idee abbiano superato le barriere accademiche, per andare a ripercuotersi anche sul lavoro del legislatore e dei giudici brasiliani, come viene testimoniato dallo stesso nuovo codice di procedura civile redatto nel 2015. Infatti, nel richiamato codice (il più importante per la regolamentazione della giustizia in Brasile) sono state introdotte disposizioni, la cui elaborazione si deve, senza dubbio, al contributo scientifico di Taruffo.
In questa direzione, per esempio, possiamo citare l’art. 489, § 1º, del codice di procedura civile del 2015, in cui vengono previsti specifici casi di nullità della decisione per vizio di motivazione. Infatti, secondo il diritto brasiliano, è considerata nulla quella decisione che si limita a riprodurre un atto normativo senza spiegare la relazione con i fatti di causa o la questione decisa. Parimenti si considera nulla quella decisione che utilizza concetti indeterminati senza spiegare la sua incidenza e la sua rilevanza nel caso concreto, così come nulla sarà quella decisione che contiene dei motivi che potrebbero essere applicati a qualsiasi altra decisione. Inoltre, viene considerata nulla anche quella decisione che non affronta tutti gli argomenti dedotti dalle parti e quella che non motiva adeguatamente l’applicazione o meno di precedenti giudiziali.
Se il diritto brasiliano si è evoluto ed è riuscito a progredire nel considerare i richiamati casi come motivi di nullità di una decisione, è proprio grazie agli insegnamenti di Taruffo sulla funzione endo-processuale ed extraprocessuale della motivazione e sulla necessità della sua completezza, quale conseguenza della garanzia del contraddittorio; insegnamenti che sono contenuti nell’opera “La motivazione della sentenza civile” e che sono stati accolti e diffusi in Brasile, ove si sono consolidati tra i giuristi. Allo stesso modo, l’introduzione – nel c.p.c. brasiliano del 2015 – di norme previste per la promozione dell’efficacia orizzontale (art. 926) e verticale (art. 927) dei precedenti giudiziali, mediante una adeguata motivazione, si deve all’opera di Taruffo, il quale, a partire dai suoi studi sulla teoria dell’argomentazione e sul diritto comparato, è stato più volte pioniere tra i giuristi di civil law, per dimostrare l’importanza del rispetto dei precedenti, quale forma di promozione della isonomia e della certezza del diritto.
Pertanto, se, purtroppo, il Professor Taruffo non sarà più fisicamente presente tra noi, sicuramente le sue opere e il suo contributo saranno perpetui per i giuristi e per tutti gli operatori del diritto in Brasile, come accadde in precedenza rispetto all’opera del suo conterraneo Enrico Tullio Liebman. A noi, discepoli ed ammiratori delle opere di questi grandi maestri, spetterà sempre il compito di ricordarli ed onorarli come essi meritano, con tutte le forme possibili di riconoscimento e gratitudine.
Un ricordo del Maestro
di Daniel Mitidiero
Il giorno 10 dicembre 2020 è cominciato tramontato – è venuto a mancare il Maestro Michele Taruffo. Come in tutto il mondo, in Brasile il sentimento è di chiusura di una epoca. Sono molto addolorato.
Ho studiato con il Maestro a Pavia nel 2013. Dopo, ho curato l’organizzazione di un libro di suoi saggi [1] e tradotto in portoghese il suo La Motivazione[2]. Ancora, ho tradotto e comparato con il diritto brasiliano il suo La Giustizia in Italia, che il Maestro ha aggiornato fino al 2018[3] e tradotto, aggiornato e comparato con il diritto brasiliano il suo La Giustizia Civile negli Stati Uniti[4]. Ho imparato molto.
Adesso rendo un ricordo del Maestro – un omaggio[5]. Ho scelto di dire qualcosa sul precedente – uno dei temi che ci ha uniti. Ricordo un dialogo con il Maestro sul binding effect del precedente.
I precedenti provengono esclusivamente dalle Corti Supreme[6] e sono sempre obbligatori – ossia, vincolanti. Diversamente, potrebbero essere confusi con semplici esempi[7]. Ciò vale a dire che esiste un forte effetto vincolante dei precedenti (“strong-binding-force”)[8]. Questa autorità del precedente ovviamente non dipende della legge. In realtà, l'autorità del precedente dipende dal fatto che incarna il significato attribuito al diritto dalle Corti Supreme. Vale a dire: l'autorità del precedente è la stessa autorità del diritto interpretato e l'autorità di chi lo interpreta.
La comprensione della teoria dell'interpretazione in una prospettiva logico-argomentativa distoglie l'attenzione esclusivamente dalla legge e la colloca anche nel precedente, di modo che la libertà e l'uguaglianza siano pensate anche a partire dal prodotto dell'interpretazione e la certezza giuridica rispetto ad un quadro che ricomprende tanto l'attività interpretativa come il suo risultato. In questo modo, il precedente, essendo frutto della ricostruzione del significato della legislazione, diventa il massimo garante della libertà, dell'uguaglianza e della certezza giuridica nello Stato Costituzionale. Di conseguenza, il precedente giudiziale costituisce una fonte primaria del Diritto[9], la cui efficacia vincolante non dipende né dal costume giudiziale e dalla dottrina[10], né dalla bontà e dalla congruenza sociale delle ragioni invocate[11] e nemmeno da una norma costituzionale o legale che così stabilisce, ma dalla forza istituzionalizzante dell'interpretazione giurisdizionale[12], cioè, dalla forza istituzionale della giurisdizione come funzione fondamentale dello Stato.
La forza vincolante del precedente giudiziale non dipende, così, da una manifestazione specifica di diritto positivo. È conseguenza di una determinata concezione rispetto a ciò che è il Diritto e del valore che deve essere riconosciuto all'interpretazione. Il vincolo al precedente risulta, di conseguenza, dalla considerazione dell'ordinamento giuridico come un tutt'uno e, in particolare, dal valore che deve essere dato alla libertà, all'uguaglianza e alla certezza giuridica. Ciò significa che il vincolo al precedente non esiste solo nei casi in cui una determinata regola del diritto positivo riconosce efficacia normativa generale alle ragioni che si incontrano alla base di certe decisioni giudiziali. Il precedente, una volta formato, integra l'ordinamento giuridico come fonte primaria del Diritto e deve essere preso in considerazione nel momento dell'identificazione della norma applicabile al determinato caso concreto. Vale a dire: integra l'ambito protetto della certezza giuridica oggettivamente considerata, come elemento indissociabile della conoscibilità.
Essendo parte integrante dell'ordinamento giuridico, il precedente deve essere preso in considerazione come parametro necessario per valutare l'uguaglianza di tutti di fronte all'ordinamento giuridico, per definire lo spazio di libertà di ognuno e per accrescere la certezza giuridica. Questo implica che casi uguali siano trattati in modo uguale da tutti gli organi giurisdizionali a partire dal contenuto dei precedenti e che l'esigenza di conoscibilità relativa alla certezza giuridica tenga conto del processo di interpretazione giudiziale del Diritto e del suo risultato.
Ciò significa che il rifiuto di applicare un precedente giudiziale costituisce rifiuto di vincolarsi al Diritto. É necessario che questo sia detto chiaramente. In una prospettiva logico-argomentativa – e, in fondo, in ogni prospettiva teorica che riconosca la differenza tra testo e norma – è imprescindibile la vigenza della regola dello stare decisis come condizione sine qua non dello Stato Costituzionale. Come osserva la dottrina, “there is a peculiar relationship between the idea of following precedents and the idea that there are rules of law that are established by judicial decisions”[13]. Questa peculiare affermazione è molto chiara: se il Diritto non è definito solo dalla decisione giudiziale, se il testo legale non è veicolo di un unico significato intrinseco che è definito solamente dal Potere Giudiziario, ma è in qualche modo affermato (“established”) dalle decisioni giudiziarie, allora la fedeltà al precedente è il mezzo attraverso il quale l'ordinamento giuridico acquista unità, diventando un ambiente certo, libero e isonomico[14], predicati senza i quali nessun ordinamento giuridico potrebbe essere riconosciuto come legittimo. Queste sono le ragioni per le quali, nel nostro ordinamento giuridico, i precedenti sono vincolanti.
Il nostro Maestro, tuttavia, nega la possibilità di riferirsi propriamente a precedenti vincolanti, preferendo parlare di “forza del precedente per indicare il grado, o l'intensità con cui esso riesce ad influire sulle decisioni successive”[15]. In questa linea, riferisce criticamente la dottrina che “da un lato, non è appropriato dire che il precedente di common law è vincolante, nel senso che ne derivi un vero e proprio obbligo del secondo giudice di attenersi al precedente. È noto che anche nel sistema inglese, che pare essere quello in cui il precedente è dotato di maggiore efficacia, i giudici usano numerose e sofisticate tecniche argomentative, tra cui il distinguishing e l'overruling, al fine di non considerarsi vincolati dal precedente che non intendono seguire. Rimane dunque vero che in quell'ordinamento il precedente è dotato di notevole forza, in quanto ci si aspetta che in linea di massima il giudice successivo lo segua – come infatti solitamente accade –, ma questa forza è sempre defeasible, poiché il secondo giudice può disattendere il precedente quando ritiene opportuno farlo al fine di formulare una soluzione più giusta del caso che deve decidere”[16].
Tuttavia, è necessario tenere presente, da un lato, che distinguishing e overruling sono tecniche che presuppongono la forza vincolante del precedente. La distinzione serve giustamente per mostrare che non c'è analogia possibile tra i casi, di modo che il caso resta fuori dall'ambito del precedente[17]. L'overruling è il superamento totale del precedente ed è un potere attribuito solo agli organi incaricati della sua formulazione attraverso un complesso carico argomentativo, che implica la dimostrazione del logorio del precedente per quanto riguarda la sua congruenza sociale e consistenza sistemica[18]. La distinzione e il superamento, quindi, sono tecniche che, lungi dal negare il vincolo al precedente, lo presuppongono. D'altro canto, in una prospettiva logico-argomentativa dell'interpretazione, la defeasibility è lungi dall'essere una caratteristica limitata al precedente giudiziale. Come osserva la dottrina, il superamento costante delle norme è una caratteristica del Diritto nel suo insieme[19], di modo che un simile argomento non serva anche ad invalidare la forza vincolante del precedente.
Taruffo ha probabilmente ragione in questo dibattito. Questo, però, adesso non importa. Ciò che conta è sottolineare “il privilegio di aver conosciuto la sfida di un maestro autentico”[20]. Grazie, Maestro, per tutto.
[1] Conforme Michele Taruffo, Processo Civil Comparado – Ensaios, apresentação, organização e tradução de Daniel Mitidiero. São Paulo: Marcial Pons, 2013.
[2] Conforme Michele Taruffo, A Motivação da Sentença Civil, tradução de Daniel Mitidiero, Rafael Abreu e Vitor de Paula Ramos. São Paulo: Marcial Pons, 2015.
[3] Conforme Michele Taruffo e Daniel Mitidiero, A Justiça Civil – da Itália ao Brasil, dos Setecentos a Hoje. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2018.
[4] Conforme Geoffrey Hazard Jr., Michele Taruffo e Daniel Mitidiero, A Justiça Civil – dos Estados Unidos ao Brasil. São Paulo: Revista dos Tribunais, 2021 (in corso di pubblicazione).
[5] Grazie a Roberto Conti, a Federico Penna ed alla Rivista Giustizia Insieme per l’opportunità.
[6] Conforme Michele Taruffo, “Precedente e Giurisprudenza”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile. Milano: Giuffrè, 2007, p. 718. Ampiamente sul precedente nel diritto italiano, Luca Passanante, Il Precedente Impossibile. Torino: Giappichelli, 2018.
[7] Conforme Frederick Schauer, Thinking like a Lawyer. Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 2009, p. 38.
[8] Conforme Pierluigi Chiassoni, “The Philosophy of Precedent: Conceptual Analysis and Rational Reconstruction”, On the Philosophy of Precedent. Stuttgart: Franz Steiner, 2012, p. 32.
[9]Conforme Giuseppe Zaccaria, La Giurisprudenza come Fonte di Diritto – Un´Evoluzione Storica e Teorica. Napoli: Editoriale Scientifica, 2007, pp. 7/21.
[10] Come sosteneva Carl Friedrich von Savigny (1779 – 1861), System des heutigen römischen Rechts. Berlin: Veit und Comp., 1840, pp. 34/38 (Gewohnheitsrecht – costume giuridico) e pp. 45/49 (Wissenschaftliches Recht – diritto scientifico o semplicemente dottrina), tomo I.
[11] Come sosteneva Josef Esser (1910 – 1999), “Richterrecht, Gerichtsgebrauch und Gewohnheitsrecht”. In: Esser, Josef; Thieme, Hans (coords.), Festschrift für Fritz von Hippel zum 70 Geburtstag. Tübingen, Mohr Siebeck, 1967, pp. 95/130.
[12] Conforme Martin Kriele, Theorie der Rechtsgewinnung entwickelt am Problem der Verfassungsinterpretation. Berlin: Duncker & Humblot, 1967, pp. 243 e seguenti; Gino Gorla (1906 – 1992), “L´Uniforme Interpretazione della Legge e i Tribunali Supremi” (1976), Diritto Comparato e Diritto Comune Europeo. Milano: Giuffrè, 1981, pp. 511/540; Giuseppe Zaccaria, La Giurisprudenza come Fonte di Diritto – Un´Evoluzione Storica e Teorica. Napoli: Editoriale Scientifica, 2007, p. 21.
[13] Conforme Theodore Benditt, “The Rule of Precedent”, Precedent in Law. Oxford: Oxford University Press, 1987, p. 94.
[14] Conforme Theodore Benditt, “The Rule of Precedent”, Precedent in Law. Oxford: Oxford University Press, 1987, pp. 89/91.
[15] Conforme Michele Taruffo, “Precedente e Giurisprudenza”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile Milano: Giuffrè, 2007, p. 716, con supporto in Aleksander Peczenik, The Binding Force of Precedent, Interpreting Precedents – A Comparative Study. Aldershot: Ashgate Darthmouth, 1997, pp. 461/479, nonostante quest'ultimo osserva, giustamente, che “no doubt, formal bindingness may be regarded as a non-graded concept, like ‘pregnant’: a precedent is formally binding or not, and it cannot be binding to a degree” (The Binding Force of Precedent, Interpreting Precedents – A Comparative Study. Aldershot: Ashgate Darthmouth, 1997, p. 478).
[16] Conforme Michele Taruffo, “Precedente e Giurisprudenza”, Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile. Milano: Giuffrè, 2007, p. 716.
[17] Conforme Neil Duxbury, The Nature and Authority of Precedent. Cambridge: Cambridge University Press, 2008, p. 113.
[18] Conforme Melvin Eisenberg, The Nature of the Common Law. Cambridge: Harvard University Press, 1991, pp. 104/105.
[19] Conforme Neil MacCormick, Rhetoric and the Rule of Law. Oxford: Oxford University Press, 2005, pp. 237/253.
[20] Come ha scritto il proprio Taruffo a Denti, “Omaggio al Maestro”, Studi in Onore di Vittorio Denti. Padova: Cedam, 1994, p. X, vol. I.
Giustizia insieme ricorda e celebra la giornata mondiale della pace con due interventi che danno plasticamente il senso dell'impegno che la comunità dei giuristi ha il compito di perseguire con costanza e convinzione, ciascuno nel proprio ambito, al servizio della pace tra i popoli e della tolleranza, anche dopo un anno difficile come quello appena trascorso.
Guido Raimondi, Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell'uomo, si sofferma sul ruolo centrale svolto dalla CEDU e dalla Corte edu nel processo di radicamento e diffusione della pace, quale moderatore di violenza attraverso la garanzia del rispetto degli obblighi internazionali e della protezione dei diritti fondamentali. Diritti, questi ultimi, che, fuori dai confini europei hanno estrema difficoltà ad essere considerati e protetti, come testimoniano le dolorose vicende Regeni e Zaki che hanno polarizzato l'attenzione preoccupata dell'Italia e del mondo intero.
Barbara Spinelli, con il suo splendido reportage - del quale oggi pubblichiamo la prima delle tre parti di cui si compone - sul ruolo dell'avvocatura turca e sulla situazione interna di quel Paese, membro del Consiglio d'Europa e della NATO, ci regala un documento che ha sicuramente valore storico per la ricostruzione delle vicende che muovono dalle persecuzioni nei confronti della popolazione curda, ma che anche dimostra l'importanza dell'impegno delle organizzazioni internazionali, sotto il cui scudo la Spinelli ha potuto operare sul campo, raccogliendo testimonianze preziose di episodi particolarmente toccanti e cruciali per comprendere il contesto turco.
Il reportage della Spinelli rende omaggio alla memoria della sua collega Ebru Timtik, morta a causa dello sciopero della fame intrapreso in carcere per protestare contro la violazione dei diritti fondamentali perpetuata in ambito processuale e conclama la centralità del ruolo dell'avvocatura nel documentare gli eventi che si verificano nel sud-est della Turchia e nel sostenere le vittime delle violazioni dei diritti umani. Una Avvocatura "dispensatrice di protezione" per il popolo turco e per tutte le democrazie occidentali, indispensabile per la prosecuzione del processo di continua cooperazione e collaborazione fra giudici ed avvocati sull'accidentato terreno dei diritti fondamentali che li vedi entrambi protagonisti.
La giornata mondiale della pace alle soglie del 2021[1]
di Guido Raimondi
Molto opportunamente Giustizia Insieme ha voluto raccogliere alcune riflessioni nell’occasione della giornata della pace, e sono molto grato alla Direzione per avermi invitato a contribuirvi.
L’invito mi offre l’opportunità di porre l’accento sul ruolo fondamentale che il sistema europeo di protezione dei diritti umani, del quale la Corte europea dei diritti dell’uomo è in qualche modo la più alta garante, svolge per la pace.
Nel 1975 Papa Paolo VI ricordava come “…l’uomo contemporaneo, che ha dolorosamente sperimentato in questo secolo manifestazioni apocalittiche di violenza tra i popoli, aspiri alla pace, sempre più convinto che l’odio e la distruzione non possono risolvere i problemi fondamentali della umana e civile convivenza.”[2]
Il movimento internazionale per la protezione dei diritti dell’uomo, nella forma in cui lo conosciamo oggi, nasce proprio all’indomani dell’immane tragedia della seconda guerra mondiale. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata a Parigi dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, viene affermato il principio del dovere di ogni Stato di rispettare i diritti fondamentali degli individui, un dovere del quale esso è internazionalmente responsabile. Nel suo Preambolo la Dichiarazione universale ricorda che “ il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali e inalienabili ” costituisce “ il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” e che è “essenziale d’incoraggiare lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni”.
Anche se la Dichiarazione universale, nonostante la sua elevatissima autorità morale, non ha forza vincolante, essa segna una tappa fondamentale nell’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo.
Fino alla seconda guerra mondiale, il diritto internazionale in sostanza non conosceva il dovere degli Stati di tutelare i diritti individuali, questione che era generalmente ricompresa negli “affari interni” di ciascuna nazione, affari nei quali gli altri membri della comunità internazionale avevano il dovere di non ingerirsi. In uno scritto del 1936 di un grande internazionalista italiano, Rolando Quadri, La sudditanza nel diritto internazionale[3], l’omaggio reso alla sovranità statale giungeva al punto di limitare ogni forma di tutela individuale in pratica ai soli casi di protezione dei cittadini stranieri, mentre il rapporto tra lo Stato e i suoi propri cittadini si poteva considerare addirittura assimilabile a quello del proprietario con i suoi beni.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, è il primo strumento internazionale con il quale i diritti enunciati nella Dichiarazione universale sono stati resi vincolanti. All’indomani di un conflitto mondiale caratterizzato dalla barbarie nazista, gli autori della Convenzione hanno voluto esprimere il loro attaccamento a dei valori comuni: la democrazia, il rispetto delle libertà, il primato del diritto. E’ proprio lo Stato di diritto ciò che ci distingue come europei. Si tratta di una conquista della nostra civiltà, un bastione che si erge contro la tirannia e a tutela della pace.
L’aspetto più importante della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è proprio quello della creazione di una giurisdizione internazionale, la Corte di Strasburgo, con il compito di vegliare al rispetto da parte degli Stati degli impegni presi con quest’atto, così istaurando un ordine europeo di protezione dei diritti fondamentali. La Corte europea è così divenuta la garante di uno spazio comune di protezione dei diritti e delle libertà.
Era molto chiaro agli autori della Convenzione il rapporto strettissimo tra la necessità di un controllo a livello internazionale del rispetto dei diritti umani e la pace. Era stato proprio il “lassismo” della comunità internazionale nei confronti delle violazioni dei diritti umani all’interno degli Stati, in omaggio al principio del rispetto della sovranità degli Stati, a creare le condizioni per il conflitto. Di qui l’accettazione, non facile soprattutto per le potenze vincitrici, di un meccanismo di controllo internazionale, dotato di poteri vincolanti, a tutela del rispetto dei diritti dei singoli. Una limitazione di sovranità che era accettata per il suo alto valore di garanzia della pace.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che nel suo Preambolo si riferisce alla Dichiarazione universale, ricorda che “lo scopo del Consiglio d’Europa è di realizzare un’unione più stretta tra i suoi membri”, ciò che implica la pace e la tolleranza tra le nazioni e i popoli. La Convenzione riafferma allo stesso tempo l’attaccamento degli Stati firmatari “alle libertà fondamentali che costituiscono le assise stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento riposa essenzialmente su di un regime politico sinceramente democratico da una parte e, d’altra parte, su di una comune concezione e un comune rispetto dei diritti dell’uomo che essi sostengono.”
Sia lo Statuto del Consiglio d’Europa sia la Convenzione collocano nei loro rispettivi preamboli la nozione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in vista della giustizia e della pace. Il rispetto dei diritti dell’uomo è dunque un elemento essenziale delle politiche dirette ad assicurare la giustizia e la pace sul piano nazionale e su quello internazionale.
La Convenzione si vede, innanzitutto, come uno strumento di concordia tra gli Stati europei intorno a un “patrimonio comune d’ideale e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e di primato del diritto”. Non troviamo nella Convenzione la parola “tolleranza”, ma essa si riferisce più volte alla nozione di “società democratica”, e la tolleranza, come il pluralismo, è uno degli elementi caratteristici della società democratica.
E’ in questo spirito e con lo scopo di salvaguardare questi valori che la Corte di Strasburgo ha, da oltre sessant’anni, elaborato una giurisprudenza che è, io credo, fattore di pace e di tolleranza.
Vorrei darne qualche esempio, in particolare a proposito della lotta contro il terrorismo, della ricerca della pace sociale, della libertà di espressione, del rifiuto del discorso di odio e del negazionismo, al pluralismo e alla laicità.
Tutti questi obiettivi sono stati raggiunti attraverso decisioni relative a Paesi molto differenti tra loro, in circostanze talvolta simili, talvolta totalmente diverse.
La nostra Corte si è occupata in diversi casi della questione del terrorismo, questo flagello che mette in pericolo la pace civile e internazionale, del quale dobbiamo constatare purtroppo ai giorni nostri una terribile recrudescenza.
La lotta al terrorismo è non solo legittima secondo la Convenzione, ma risponde anche a un dovere degli Stati, sui quali incombono le obbligazioni positive di proteggere la vita e l’integrità fisica delle popolazioni. Tuttavia non va dimenticato che preservare i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione a tutti gli individui, anche ai terroristi, permette alle nostre società democratiche di combattere il terrorismo senza negare se stesse. Le misure prese dagli Stati devono rispettare i diritti dell’uomo e il primato del diritto e prescindere da ogni atto arbitrario e da ogni atto discriminatorio o peggio razzista. Tali misure devono essere oggetto di un controllo appropriato. Usare le stesse armi dei terroristi sarebbe fare il loro gioco, abbassando le società democratiche al livello dei fanatici e ricorrendo alla forza sproporzionata contro la violenza illegittima.
Nel 1978 la Corte ha pronunciato, in un caso interstatale, Irlanda c. Regno Unito, una sentenza alla cui origine si trovava la crisi che ai quei tempi attraversava l’Irlanda del Nord. In un contesto che aveva visto centinaia di morti e migliaia di feriti a causa della violenza organizzata da un movimento clandestino, l’esercito repubblicano irlandese (IRA), e nel quale il governo britannico aveva attivato il meccanismo di deroga parziale agli obblighi convenzionali previsto dall’articolo 15 della Convenzione europea, le autorità dell’Irlanda del Nord aveva fatto ricorso a dei poteri speciali che includevano l’arresto, la detenzione e l’internamento senza processo di numerose persone. Il governo irlandese accusava il Regno Unito di aver violato diversi articoli della Convenzione, facendo valere che molte delle persone arrestate avevano subito maltrattamenti, che i poteri speciali non erano compatibili con la Convenzione, e infine che il modo nel quale tali poteri erano stati esercitati costituiva una discriminazione basata sulle opinioni politiche.
La Corte ha sanzionato il Regno Unito per avere, nel quadro delle misure eccezionali prese per mantenere l’ordine, praticato dei trattamenti disumani e degradanti, in violazione del divieto assoluto di questi trattamenti che è previsto dall’articolo 3 della Convenzione. Relativamente all’attivazione del meccanismo derogatorio di cui all’articolo 15, la Corte ha ricordato, al di là dei casi individuali, che spetta a ciascuno Stato contraente, responsabile della vita della nazione, di determinare se un pericolo pubblico la minacci e, se questo è il caso, di stabilire fino a che punto occorre spingersi per contrastarlo. Su questo, la Corte ha detto che in linea di principio le autorità nazionali sono meglio collocate del giudice internazionale per giudicare dell’esistenza di un tale pericolo e sulla natura e l’estensione delle deroghe necessarie per impedirlo. La Corte ha giudicato, tenendo conto del “margine di apprezzamento” lasciato agli Stati dall’articolo 15 che le deroghe all’articolo 5 della Convenzione, che protegge la libertà personale, non avevano superato la stretta misura richiesta dal pericolo pubblico che minacciava la vita della nazione.
C’è un punto importante che vorrei sottolineare: in questo caso uno Stato ha deciso di affidare alla Corte europea dei diritti dell’uomo il compito di dire se un altro Stato aveva o no violato un testo internazionale. Si può facilmente immaginare come nei secoli passati conflitti del genere sarebbero stati risolti. Scegliendo la via giudiziaria invece che quella delle armi, gli Stati dimostrano che effettivamente la Corte europea è ai loro occhi uno strumento di pace.
In questo caso la Corte ha ritenuto le restrizioni al diritto alla libertà personale protetto dall’articolo 5 della Convenzione proporzionate al pericolo corso dalla nazione. Non vorrei dare l’impressione che la Corte, in situazioni speciali di pericolo, rilasci agli Stati una specie di assegno in bianco. In un altro caso, A. c. Regno Unito, deciso nel 2009, nel quale pure erano in gioco misure derogatorie dell’articolo 5 della Convenzione, questa volta prese in seguito alla situazione di pericolo creata dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, la Corte ha ritenuto corretta la dichiarazione di stato di pericolo nonostante gli attentati non si fossero svolti sul territorio britannico, ma ha ritenuto che le misure prese, che permettevano la detenzione senza limiti soltanto degli stranieri, avessero ecceduto la stretta misura richiesta dalla situazione di pericolo.
Un altro affare, che ha permesso alla Corte di prendere posizione sull’articolo 2 della Convenzione, che protegge il diritto alla vita, e che, come il caso del 1978, aveva come tela di fondo la lotta contro l’IRA, è il caso McCann c. Regno Unito, sentenza del 1996. I fatti si erano svolti a Gibilterra e concernevano tre membri dell’IRA, sospettati di preparare un attentato dinamitardo, che furono uccisi da agenti britannici di sicurezza durante il loro arresto. La Corte ha ricordato che l’articolo 2 della Convenzione, che garantisce il diritto alla vita, si colloca tra le disposizioni di più grande importanza della Convenzione e consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. Queste disposizioni devono essere strettamente interpretate. Così, nel caso di specie la Corte si è detta non convinta che la morte dei tre terroristi fosse il risultato di un ricorso alla forza letale reso assolutamente necessario per assicurare la difesa contro la violenza illegale, e ha concluso per la violazione dell’articolo 2. Questa sentenza ha dato luogo a molte discussioni e controversie, ma resta una tappa fondamentale della giurisprudenza della Corte europea.
L'ultimo esempio nella lotta contro il terrorismo che vorrei citare è la sentenza Aksoy c. Turchia, con la quale la Corte ha dichiarato nel 1996 che sottoporre un individuo alla cosiddetta "impiccagione palestinese" era un fatto di natura così grave e crudele da dover essere qualificato come “tortura” ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione. Sempre nello stesso caso, sul terreno dell’articolo 5, n. 3 della Convenzione, da applicarsi nel quadro del regime derogatorio di cui all’articolo 15 della Convenzione, la Corte, pur riconoscendo che la portata e gli effetti dell'attività terroristica del PKK nella Turchia sud-orientale aveva creato un'emergenza pubblica che minacciava la vita della nazione, ha constatato la violazione della Convenzione per il fatto che la ricorrente non aveva ottenuto garanzie procedurali sufficienti per almeno 14 giorni.
In tutti e quattro i casi la Corte ha quindi ricordato l'equilibrio essenziale tra il dovere degli Stati di utilizzare contro il terrorismo la forza, ma solo la forza legittima, mantenendo le garanzie sostanziali e procedurali dalla Convenzione.
La Corte può anche avere un ruolo molto utile per favorire la pace sociale e il dialogo tra coloro che si affrontano. Penso in particolare alla sentenza nel caso della Chiesa metropolitana di Bessarabia c. Moldova, del 2001. La chiesa ricorrente si era dovuta confrontare con il rifiuto di riconoscimento che ad essa era stata opposta dalle autorità moldave. La Corte ha ritenuto che il governo convenuto, facendo dipendere il riconoscimento dalla volontà di un’autorità ecclesiastica già riconosciuta, cioè la Chiesa metropolitana di Moldova, aveva mancato al suo dovere di neutralità e di imparzialità verso i culti. Qui la Corte ha constatato la violazione dell’articolo 9 della Convenzione, che protegge la libertà di religione. Così facendo, la Corte si è sforzata di preservare la coesistenza di diversi culti. Credo che si possa leggere in questa sentenza un incoraggiamento della Corte diretto alle persone e alle istituzioni perché vivano e coesistano in armonia.
In materia di libertà di espressione, la Corte ha da tempo considerato che la possibilità per ciascuno di esprimersi è una componente essenziale della società democratica. Lo spirito di tolleranza esige che – in tutti i campi – il dibattito sia aperto. Un buon esempio è la sentenza Erdost c. Turchia del 2005. Il ricorrente era l’autore di un’opera che ripercorreva gli avvenimenti sanguinosi che si erano verificati nella città di Sivas, nel sud-est del Paese, dove avevano avuto luogo delle persecuzioni extragiudiziarie contro la minoranza degli Alevi. Ritenendo che il libro contenesse della propaganda separatista contro l’integrità dello Stato, il procuratore della Repubblica competente si era rivolto al giudice, ottenendo la confisca dell’opera e la condanna dell’autore a un anno di prigione e al pagamento di un’ammenda.
La Corte di Strasburgo ha considerato che l’opera non era di natura tale da giustificare la condanna penale dell’interessato alla stregua dell’articolo 10 della Convenzione, che protegge per l’appunto la libertà di espressione. La condanna e la confisca non rispondevano a un bisogno sociale imperioso e dunque non erano “necessari in una società democratica”. La Corte è sempre particolarmente esigente nei casi di restrizione della libertà di espressione, specialmente quando vengono irrogate pene privative della libertà. La libertà di stampa contribuisce alla pace sociale e alla tolleranza.
Certamente, se il pluralismo deve permettere a tutte le opinioni di esprimersi, non va dimenticato che alcune attentano ai fondamenti delle nostre democrazie. La tolleranza è certamente il rifiuto del razzismo e della xenofobia. Vero è che la Corte sceglie talvolta di privilegiare la libertà di espressione dei giornalisti rispetto al diritto degli altri di essere protetti contro la discriminazione razziale, come è accaduto nel caso Jersild c, Danimarca, sentenza del 1994, nella quale la sanzione irrogata ad un giornalista televisivo, che aveva lasciato alcuni invitati ad una sua trasmissione profferire ingiurie gratuite di carattere schiettamente razzistico, è stata ritenuta non conforme alle esigenze dell’articolo 10. In una società aperta e tollerante tutte le idee devono poter essere dibattute. Si tratta in qualche modo di una diga contro il settarismo che impedisce il dibattito. Tuttavia, questo non significa che si debba accettare il cosiddetto discorso d’odio.
In certi casi, la Corte ammette delle ingerenze nella libertà di stampa e di espressione. Nel caso Sûrek c. Turchia, del 1999, la Corte ricorda che l’articolo 10 § 2 della Convenzione non lascia in sostanza spazio a restrizioni alla libertà di espressione nel campo del discorso politico ovvero quando si tratti di questioni d’interesse generale. Quando però si tratta di incitazione alla violenza contro un individuo, di un rappresentante dello Stato o di una parte della popolazione, le autorità nazionali godono di un margine discrezionale (marge d’appréciation) più ampio nel loro esame della necessità dell’ingerenza. Ciò che è sanzionato è il discorso d’odio e l’apologia della violenza. La tolleranza trova così i suoi limiti. In questo caso, la rivista edita dal ricorrente aveva pubblicato articoli contenenti incitazione alla violenza. Il ricorrente era stato sanzionato penalmente con pesanti pene pecuniarie, ritenute dalla Corte compatibili con le esigenze dell’articolo 10 della Convenzione, che quindi non si doveva considerare violato.
Vorrei ancora citare due casi che riguardano la Francia e che entrambi si sono conclusi con una decisione d’inammissibilità.
Il primo caso, Garaudy c. Francia, deciso nel 2003, riguardava Roger Garaudy, filosofo e scrittore, che era stato dichiarato colpevole dei delitti di contestazione di crimini contro l'umanità, cioè negazionismo, di diffamazione pubblica contro un gruppo di persone, cioè la comunità ebraica, e di provocazione alla discriminazione e all’odio razziale.
Il secondo caso, ‘Mbala ‘Mbala c. Francia, deciso nel 2015, riguardava invece un noto intrattenitore, meglio conosciuto come Dieudonné, che era stato sanzionato perché nel corso di uno spettacolo aveva invitato a salire sul palco, per ricevere l’applauso del pubblico, un personaggio, Robert Faurisson, che era stato condannato a diverse riprese in Francia per le sue tesi negazioniste e revisioniste che negavano l’esistenza delle camere a gas omicide nei campi di concentramento nazisti.
In entrambi i casi la Corte si è riferita a un articolo della Convenzione che è raramente applicato, l’articolo 17, che vieta l’abuso di diritto. Questa disposizione ha lo scopo di impedire agli individui di invocare sulla base della Convenzione un diritto che permetta loro di compiere un’attività o un atto diretto a sopprimere i diritti e le libertà previsti dalla Convenzione. In questi casi, quindi, l’articolo 10 della Convenzione non entra proprio in gioco. Si capisce che è una decisione grave, ma la Corte adotta questo approccio solo in casi veramente estremi.
Secondo la Corte, non c’è dubbio che contestare la realtà di fatti storici che sono chiaramente accertati, come l’Olocausto, non è azione inquadrabile in un lavoro di ricerca storica volto a stabilire la verità. Azioni di questo genere hanno infatti come scopo e come oggetto quelli di riabilitare il regime nazista e, per conseguenza, di accusare le vittime stesse della barbarie nazista di aver falsificato la storia. Il negazionismo appare allora come una delle forme più acute di diffamazione razziale contro il popolo ebraico e d’incitazione all’odio nei suoi confronti. La negazione o la revisione dei fatti storici di questo tipo rimettono in causa i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l’antisemitismo e sono alla base stessa della Convenzione e possono gravemente turbare l’ordine pubblico. Atti di questo genere sono incompatibili con la democrazia e i diritti dell’uomo, e rientrano nel campo degli obiettivi vietati dall’articolo 17. Accordare a queste odiose manifestazioni la protezione della Convenzione significherebbe sviare l’articolo 10 dalla sua vera funzione, utilizzandolo a fini contrari all’insieme della Convenzione.
Cosa dire ora della libertà politica? Perché ci sia pace sociale, il pluralismo è indispensabile e tutte le opinioni devono potersi liberamente esprimere. E’ una affermazione ricorrente nella giurisprudenza della Corte quella secondo cui “non vi è democrazia senza pluralismo”.
Nel caso Refah Partisi c. Turchia del 2003, la Corte di Strasburgo si è pronunciata sullo scioglimento di un partito politico pronunciato dalla Corte costituzionale turca. La Corte europea ha ricordato che solo ragioni convincenti e imperative possono giustificare la restrizione alla libertà d’associazione dei partiti politici, protetta dall’articolo 11 della Convenzione, giacché il margine discrezionale (marge d’appréciation) degli Stati in questo campo è ridotto. La Corte ha osservato che il progetto politico del partito disciolto si allontanava notevolmente dai valori della Convenzione, in particolare con riguardo alle regole di diritto penale e di procedura penale, al ruolo e alla posizione delle donne e all’azione di questo partito in tutte le sfere della vita privata e pubblica. Inoltre, il partito disciolto non escludeva il ricorso alla forza al fine di realizzare il proprio progetto e di mantenere al potere il sistema previsto. Questi progetti essendo in contraddizione con il concetto di società democratica, la Corte di Strasburgo ha considerato che la sanzione dello scioglimento rispondeva a un bisogno sociale imperioso e che le ingerenze oggetto del ricorso non si potevano considerare sproporzionate.
Gli stessi principi sono stati affermati dalla Corte, più recentemente, nel caso Batasuna e Herri Batasuna c. Spagna, deciso nel 2009. In questo caso è stato ritenuto conforme all’articolo 11 della Convenzione lo scioglimento di un partito che non solo rifiutava di condannare il terrorismo, ma implicitamente lo sosteneva e ne faceva l’apologia.
In un settore vicino, quello della laicità, vorrei citare il caso Leyla Şahin c. Turchia, del 2005. Questo caso riguardava il divieto di portare il foulard islamico all’università. La Corte, dopo aver considerato che la disposizione interna litigiosa, cioè una circolare che sottoponeva la possibilità di indossare il foulard a delle restrizioni di luogo e di forma nelle università costituiva certamente un’ingerenza nell’esercizio da parte dell’interessata di del diritto di manifestare le sue convinzioni religiose, ha ritenuto che questa ingerenza avesse una base legale in diritto turco e che la signorina Sahin poteva prevedere, fin dal suo ingresso all’università, che la possibilità di indossare il foulard era regolamentata e che, a partire dall’entrata in vigore della stessa disposizione nel 1998, ella rischiava di vedersi rifiutare l’accesso ai corsi e agli esami continuando a indossarlo. Secondo la Corte di Strasburgo, questa ingerenza era fondata in particolare sui principi di laicità e di eguaglianza. Secondo la giurisprudenza costituzionale turca, la laicità si colloca alla confluenza tra libertà e eguaglianza. Questo principio proibisce allo Stato di testimoniare una preferenza per una religione o una credenza precisa, e guida così lo Stato nel suo ruolo di arbitro imparziale e implica necessariamente la libertà di religione e di coscienza. Lo stesso principio tende egualmente a premunire l’individuo non solo contro le ingerenze arbitrarie dello Stato, ma anche contro pressioni esterne provenienti da movimenti estremisti.
Tuttavia non tutti gli Stati sono laici, e la Corte ammette che occorre lasciare un margine di apprezzamento a ciascuno Stato, a proposito dei delicati rapporti tra Stato e Chiesa, come essa ha detto per esempio nel caso Cha’are Shalom c. Francia del 2000. La Corte ha anche detto che l’organizzazione da parte dello Stato dell’esercizio di un culto concorre alla pace religiosa e alla tolleranza.
E’ in questo spirito che s’inscrive la nota sentenza Lautsi c. Italia, del 2011, con la quale la Corte ha ritenuto compatibile con la Convenzione l’esposizione del crocifisso nelle scuole italiane.
* * *
Le sentenze e le decisioni delle quali ho parlato riguardano situazioni molto differenti, ma hanno contribuito a creare una vera e propria giurisprudenza, creativa ed evolutiva.
Questa giurisprudenza s’impone agli Stati in applicazione dell’articolo 46 della Convenzione. Essi sono dunque obbligati ad applicarla sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ciò che fa pesare su di essi la pressione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale.
D’altra parte, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha finito per impregnare, non senza resistenze, la prassi degli Stati e ha contribuito a rafforzare la pace civile. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo vuole essere un incoraggiamento alla tolleranza. A questo proposito, tutto quello che riguarda la libertà di espressione è particolarmente significativo. La Corte ammette le “idee che urtano, sconvolgono o inquietano”, ma trova dei limiti a questa libertà, specialmente per proteggere i diritti dei più deboli o per mantenere la pace sociale.
Sappiamo che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è andata a incontro a critiche contraddittorie. Alcuni lamentano che essa abbia interpretato la Convenzione in maniera eccessivamente creativa. Altri trovano che esse sia stata troppo timida. Certamente, la Corte non può fare tutto. L’Europa non è mai al riparo da un rischio di guerra, né dallo svilupparsi di un clima d’intolleranza. La Convenzione non ha potuto evitare il conflitto nell’ex-Iugoslavia, né quelli più recenti tra Georgia e Russia, tra Russia e Ucraina e tra Azerbaijan e Armenia, né altre situazioni di conflitto alle quali mi sono riferito.
Ma la Corte, per parafrasare quanto si diceva negli anni '60, quando ci si riferiva alle Nazioni Unite come un moderatore di potenza, può essere considerata, come dice il Jean-Paul Costa, ex Presidente della Corte di Strasburgo, un moderatore di violenza, fisica o anche verbale.
Credo che sia un suo grande merito. Si tratta, in ogni caso, di uno dei suoi obbiettivi, cioè porre la protezione dei diritti dell’uomo, che è già un fine in sé, al servizio della tolleranza e della pace.
Abbiamo visto che laddove questo scudo non è presente, le derive son molto facili. Penso al tragico caso Regeni, laddove il “diritto alla verità”, insito nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e che nella nostra parte del mondo tendiamo a dare per scontato, appare di molto difficile realizzazione, e alla drammatica vicenda di Patrick Zaki, che giustamente preoccupa al più alto grado l’opinione pubblica italiana e non solo.
La generazione che ci ha preceduto ha vissuto il dramma della guerra globale. A noi questa tragedia è stato risparmiata. Credo che debba essere nostro fermo impegno ricordare che se questo è stato possibile, il merito va al progetto europeo, del quale il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo è parte essenziale.
In un momento nel quale assistiamo a una fragilizzazione dell’idea di Europa e a un ripiegamento su se stessi di alcuni Stati del nostro continente, con forti tensioni intorno alla stessa idea del metodo democratico, credo che l’esempio dei fondatori del progetto europeo, e in particolare dei padri della Convenzione, ci debba rammentare il nostro dovere di lavorare sempre e con entusiasmo per l’Europa. Lo dobbiamo alla loro memoria e anche alle generazioni che ci seguiranno, consapevoli delle nostre responsabilità, in nome dell’universalità dei diritti umani, anche verso quelle parti del mondo che non hanno la fortuna di godere di un sistema di tutela dei diritti umani quale quello che i nostri predecessori hanno avuto la lungimiranza di lasciarci.
[1] Questo scritto rielabora un intervento svolto a Rovereto, alla Fondazione Opera Campana dei caduti, il 20 ottobre 2017, in Questione Giustizia, 2017.
[2] S.S. PAOLO VI, Discorso per la giornata dei caduti di tutte le guerre, 17 settembre 1975, facilmente reperibile in rete.
[3] R. QUADRI, La sudditanza nel diritto internazionale, Padova, CEDAM, 1936.
Io non perdono e non dimentico, ma non odio (L.Segre)
Riflessioni di Giuseppe Savagnone - Odio, perdono, memoria e verità - e Tommaso Manzon - Quale diritto? Quale giustizia? -
Liliana Segre, nel corso di una conversazione con gli studienti - l'ultima, per sua scelta, il 9 ottobre 2020 nella Cittadella della Pace di Arezzo, sede dell’organizzazione internazionale impegnata nella trasformazione creativa dei conflitti - è tornata su argomenti già in passato affrontati, ribadendo che rispetto allo sterminio nazista ha ritenuto di non dovere e potere perdonare il male altrui, in nome di un dovere di ricordare che andava unito al dovere, non meno cogente, di non odiare.
Il tema del perdono rispetto al crimine contro l'umanità più doloroso che il pensiero umano ricordi è risalente e già Primo Levi e Simon Wiesenthal, più volte, non mancarono di offrire una chiave di lettura sostanzialmente simile a quella espressa da Liliana Segre.
Giustizia insieme ha voluto riportare la riflessione su questo punto, riconoscendo che il contenuto di quella presa di posizione stimola in chi vi si accosta nuovi interrogativi. Alcuni immediatamente legati alla prospettiva religiosa che, in un Paese a larga maggioranza cattolica, istintivamente sembra rendere quella posizione distonica rispetto ad uno dei valori portanti del cristianesimo; altri ancora più difficili da sciogliere se si cerca di andare al fondo del significato di quella scelta.
Questi temi, che chiamano in causa questioni di grande complessità - odio, memoria, verità (e post-verità), perdono, ma anche dignità nella sua poliedrica accezione - sono stati proposti a due studiosi, l'uno di formazione evangelica- Tommaso Manzon-, l'altro di estrazione cattolica -Giuseppe Savagnone- che hanno offerto prospettive ed approfondimenti assai stimolanti.
Odio, perdono, memoria e verità
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Perdono e non perdono nella prospettiva ebraica - 2. Odio e perdono - 3. Perdono e memoria - 4. Memoria e verità.
1. Perdono e non perdono nella prospettiva ebraica
Le parole di Liliana Segre - «Io non perdono e non dimentico, ma non odio» - nel suo intervento alla conferenza «Science for peace», organizzata all’Università Bocconi di Milano nel novembre del 2019, poi riproposte nell'incontro del 9 ottobre 2020 nella Cittadella della Pace– possono essere lette da diversi punti di vista.
Sicuramente significativo può essere considerare questa affermazione alla luce della concezione ebraica del perdono, per certi versi affine, per altri diversa rispetto a quella del cristianesimo. Scrive a questo proposito Ariel Di Porto, rabbino capo della comunità ebraica di Torino: «All’interno della concezione del perdono ebraica è possibile individuare tre elementi distintivi, che la differenziano da quella cristiana – secondo la quale non è indispensabile che chi ha offeso si penta e prescinde dalla gravità della colpa – : l’obbligo di perdonare è sottoposto al pentimento e alla richiesta di persona da parte di chi ha compiuto l’offesa; non tutte le colpe possono essere perdonate; non è possibile perdonare a nome di qualcun altro» [1].
La prima condizione è imprescindibile. Il rabbino Riccardo Di Segni, in una intervista su questo tema, sottolinea che, nella prospettiva ebraica, il perdono «si ottiene con la richiesta di perdono da parte della persona che ha arrecato offesa a chi ne è stato vittima: deve esserci un sincero desiderio di riconciliazione, consapevolezza dell’azione fatta e intenzione a non ripeterla più»[2].
Chi ha recato l’offesa, insomma, deve prendere coscienza di ciò che ha fatto e cambiare radicalmente atteggiamento. È la ‘Teshuvà’. Spiega Di Segni: «‘Teshuvà’ rappresenta il ‘ritorno’: è l’impegno che uno fa a non commettere più una certa colpa rendendosi conto della gravità della stessa. Dopo questi atti chi ha recato offesa deve riconciliarsi con l’offeso, chiedendogli il perdono. A sua volta l’offeso deve concedergli il perdono; può rifiutarlo per due volte, alla terza deve cedere; se non lo fa, chi ha offeso non è più tenuto a chiedere scusa»[3].
E’ innegabile che siamo davanti a una condizione del tutto ragionevole. Ma quando Gesù, sulla croce, chiede a Dio di perdonare i suoi aguzzini - «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) - , non sembra subordinare la sua richiesta alla loro conversione. Né vi accenna nell’invito rivolto ai suoi discepoli: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe» (Mc 11,25).
C’è poi la seconda condizione, la gravità della colpa commessa. Alla domanda: «Ci sono colpe che non possono essere perdonate?», Di Segni risponde: « La questione è molto complicata: al limite possono esistere tali colpe, ma molto dipende dall’atteggiamento di chi si è comportato male»[4].
Il riferimento spontaneo è alla tragedia dell’Olocausto: «Nel suo Girasole, Simon Wiesenthal pone una domanda estremamente lacerante: come ci si deve comportare di fronte alla richiesta di perdono di una SS morente? L’autore scrive: “Io avrei dovuto perdonargli? O potuto perdonargli? E gli altri avrebbero dovuto o potuto farlo? (…) So che molti mi comprenderanno e approveranno il mio comportamento verso la SS morente. Ma so pure che altrettanti mi condanneranno per non aver aiutato un assassino pentito a chiudere gli occhi in pace”»[5].
È chiaro che, anche in presenza di un pentimento sincero, come può essere quello di un uomo in punto di morte, per l’ebraismo «ci sono colpe che non possono essere perdonate». E l’Olocausto è evidentemente una di esse: come scrive Di Porto, «la Shoah è un crimine troppo grande per essere perdonato, i cui esecutori hanno superato abbondantemente il limite della “perdonabilità”»[6].
Ancora una volta, la visione cristiana del perdono appare più radicale e, se vogliamo, meno accettabile dal comune buon senso. La colpa per cui, nella sua passione, Gesù invoca la remissione - l’assassinio del Figlio di Dio - è stata, agli occhi dei cristiani la peggiore che mai sia stata commessa,
Si potrà dire che nella storia successiva essi, per molti secoli, non hanno affatto perdonato agli ebrei e li hanno spietatamente perseguitati, accusandoli di “deicidio”. Ma questa è stata una loro vergognosa infedeltà allo spirito allo spirito del vangelo, di cui Giovanni Paolo II, nel 2000, a sua volta ha chiesto pubblicamente perdono e che non rispecchia la dottrina cattolica, secondo la quale «non c’è nessuna colpa, per grave che sia, che non possa essere perdonata dalla santa Chiesa»[7].
Quanto all’ultima condizione, secondo la tradizione ebraica nel perdono «non esistono deleghe (...); ciascuno può perdonare il male arrecatogli a chi glielo ha fatto»[8]. Ora, nel caso della Shoah, «la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime»[9].
In realtà questa condizione non vale, evidentemente, per Liliana Segre, ma certamente bastano le altre due per rendere perfettamente comprensibile la sua posizione di ebrea di fronte alla persecuzione di cui è stata vittima.
2. Odio e perdono
L’affermazione su cui stiamo riflettendo - «Io non perdono e non dimentico, ma non odio» - si presta però ad un altro tipo di lettura che, a prescindere dalle diverse tradizioni religiose, ne metta a fuoco il significato semplicemente umano.
Qui è in primo piano il rapporto tra odio, perdono e memoria. Liliana Segre pone una netta divaricazione tra il primo termine e gli altri due, che invece collega strettamente. Lasciamo per un momento da parte il rapporto tra perdono e memoria, per focalizzare la nostra attenzione piuttosto su quello tra odio e perdono. E’ possibile non odiare, quando ci si rifiuta di perdonare o comunque non si riesce a farlo?
L’odio, di per sé, è un sentimento di rifiuto radicale dell’altro, che porta a desiderare la sua distruzione. Può anche radicarsi e diventare un permanente atteggiamento interiore, anzi perfino un approccio culturale, se ai fattori emotivi si uniscono delle ragioni che giustificano questo atteggiamento, agli occhi di chi lo assume. In quest’ultimo caso, l’odio è spesso un fenomeno che va al di là della sfera puramente individuale e coinvolge dei gruppi più o meno numerosi.
Specialmente come clima culturale collettivo esso non è necessariamente connesso al problema del perdono. C’è un odio che non nasce dall’aver subìto dei torti, ma da una segreta paura dell’implicita minaccia che deriva dalla stessa esistenza dell’altro, per il solo fatto della sua diversità.
Ne è un tipico esempio l’odio che spessissimo, in passato e fino ai giorni nostri, ha contrapposto fra loro persone di nazionalità divise da ataviche inimicizie: ebrei e palestinesi, greci e turchi - per citare solo alcuni casi di cui parlano le cronache - sono divisi da un odio collettivo che prescinde dai rapporti personali tra i membri dei due gruppi e che non esclude che a volte essi, a livello individuale, riescano a superare, anche se con difficoltà, le diffidenze e i pregiudizi reciproci.
Appartiene a questa categoria dell’odio “collettivo” quello razziale, che fa sentire i membri di un’intera categoria di persone – i neri, gli ebrei, i rom – , anche se appartenenti alla propria stessa nazionalità, come un potenziale pericolo, non a causa di atti concreti compiuti dai singoli, ma in base al solo fatto di esistere. Anche in questo caso, i singoli dei rispettivi gruppi possono superare questo atteggiamento culturale e stringere fra loro dei legami di amicizia o sentimentali.
Più arduo è questo superamento quando entrano in gioco gravi torti subìti a livello personale, che richiedono il perdono. Significativo, per quanto riguarda l’odio nazionalista, il racconto di Fred Zinnemann, nel suo film Storia di una monaca (1959), della vicenda di una suora che, proprio perché incapace di perdonare, abbandona la sua vocazione religiosa per entrare nella resistenza francese contro l’occupazione nazista, spinta dall’odio per i tedeschi che le hanno ucciso il padre.
Qui la mancanza di perdono produce l’odio, che si manifesta nel desiderio di vendetta. Si può però negare il perdono a chi ci ha fatto del male, senza per questo nutrire quel sentimento, che spingerebbe a vendicarsi e a distruggere il responsabile.
Sembra questo il caso di Liliana Segre, impegnata a combattere il clima di odio che domina la nostra società a vari livelli e promotrice di uno stile di rispetto reciproco e di dialogo, ma non per questo disposta a considerare superato il male che lei stessa e il suo popolo hanno subìto nell’Olocausto.
3. Perdono e memoria
Questa impossibilità di perdonare sembra, dalle sua parole, strettamente associata al suo rifiuto di dimenticare. Chi perdona accetta che l’altro, il colpevole, venga reintegrato nella sua dignità, lo riconosce nella sua umanità anche dopo ciò che ha compiuto. Liliana Segre - pur rinunziando ad odiare i responsabili della Shoah e i loro tristi epigoni contemporanei - , non ritiene di poter fare questo gesto, perché rifiuta di dimenticare. Non è solo una incapacità: è una scelta, percepita come doverosa verso se stessi, verso le vittime, verso l’intera società.
Non si può non ammirare questa fedeltà alla memoria, specialmente in un tempo come il nostro, dove essa è ormai molto rara. Abbiamo assistito e assistiamo ogni giorno al triste spettacolo di personaggi politici che, all’indomani di una loro presa di posizione chiara e netta, sostengono di “non aver mai detto” quello che hanno detto. Dove ciò che è più grave non è la loro sfacciata menzogna, ma il fatto che questa, invece di essere subito rilevata e contestata con indignazione, venga avallata da un silenzio che è un implicito consenso.
Lo stesso, peraltro, vale per i fatti. E’ come se le cose accadute negli anni – a volte addirittura nei mesi - precedenti non fossero mai accadute. Comportamenti stigmatizzati, allora, dalla coscienza comune, non immunizzano l’opinione pubblica dal fidarsi ciecamente di chi ne è stato responsabile. Al passato nessuno guarda e, se lo fa, è per inventarselo secondo il proprio interesse. Nessuno ricorda nulla.
Questa crisi della memoria è in realtà una crisi dell’essere umano. Noi siamo i nostri ricordi. Spogliate un individuo delle cose che ha esperito, che ha appreso, che conserva come sua storia, e non resterà che una creatura smarrita e incapace di affrontare le sfide della vita.
La memoria, aveva già spiegato Agostino, è il nostro modo di trattenere nell’essere ciò che accade. “L’attimo fuggente” del presente dura un istante e inesorabilmente sprofonda nel nulla. Solo il ricordo di ciò che è stato ne perpetua l’esistenza, almeno dentro di noi. Dimenticare è già un morire. Per questo le malattie che colpiscono la memoria sono forse le più tremende.
Ma se una intera società – la nostra – è colpita da questa incapacità di ricordare e di custodire il suo passato, allora il dramma diventa collettivo. Ne è una manifestazione il negazionismo in quelle sue forme che implicano l’annullamento della storia. Quella che riguarda l’Olocausto è una delle più sconcertanti.
È già triste vedere tanti dimenticare che i vaccini hanno praticamente eliminato – nei Paesi dove sono stati fatti – malattie spaventose, come il vaiolo o la poliomelite. Ma il rifiuto, a dispetto di ogni evidenza, di riconoscere un crimine che ha causato sei milioni di morti, mette in discussione la comune appartenenza a un storia, lacera la comunità umana. E fa temere che, dietro la smemoratezza, si nasconda una segreta connivenza con quel crimine, o, peggio, l’intenzione di giustificarne la ripetizione nel futuro.
Per questo Liliana Segre ha non solo il diritto, ma il dovere – come tutti noi – di non dimenticare. Resta la domanda se davvero da questo debba seguire come conseguenza inevitabile anche la negazione del perdono.
A metterlo in dubbio è la semplice constatazione che per perdonare bisogna avere memoria del male sofferto e della colpa dell’altro. Solo una concezione superficiale del perdono può ridurlo a un impossibile “fare come se nulla fosse accaduto”. Chi perdona ricorda fin troppo bene che cosa è accaduto e le responsabilità dei colpevoli.
Per questo il perdono è una manifestazione di illimitata misericordia che ha inevitabilmente a che fare con una prospettiva religiosa. In fondo, solo Dio può perdonare. Questo vale per ogni perdono, anche se diventa ancora più evidente nel perdono cristiano, con la sua sfida ad ogni elementare criterio di reciprocità e di buon senso umano. Chi perdona lo fa solo a nome di Dio e può farlo perché, grazie a Lui, ha perdonato prima di tutto se stesso.
Da ciò deriva anche il carattere creativo del perdono, che non si limita a esonerare dall’odio verso l’altro, ma vuole restituirgli la sua umanità perduta. Quando il padre della parabola evangelica (cfr Lc, 15,11ss), che non ha certo mai dimenticato la colpa del figlio, lo accoglie nel suo perdono, lo ricostituisce nella sua dignità, facendolo rivestire con il vestito più bello e facendogli mettere al dito l’anello.
Questa gratuità, però, paradossalmente è più esigente di qualunque patto preliminare. Il perdono chiede al colpevole – non come condizione, ma come rinnovamento suscitato dal perdono stesso - un impegno a cambiare. Ancora nel vangelo questo aspetto è messo in luce nell’episodio della donna adultera. Sono significative le parole di Gesù, quando, dopo la sua sfida a scagliare la prima pietra, gli accusatori se ne sono andati ed egli rimane da solo con l’accusata: «“Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più”» (Gv 8,10-11).
Rispettiamo dal profondo la posizione di Liliana Segre. Resta comunque ammirevole la sua capacità di andare al di là dell’odio e dello spirito di vendetta. Ma forse proprio la sua speranza di contribuire a un mondo diverso, in cui non ci siano più carnefici né vittime, può trovare la sua piena giustificazione solo nell’esperienza, misteriosamente creativa, di una memoria che perdona.
4. Memoria e verità
Si può ricordare solo ciò che è realmente accaduto. Sullo sfondo della presa di posizione di Liliana Segre nei confronti dei negazionisti c’è non solo il diritto – anzi il dovere – della memoria, ma la rivendicazione della verità dei terribili eventi della Shoah.
Certo, oggi risuona più attuale che mai la domanda di Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). La definizione classica di Aristotele, secondo cui verità è «dire che è quello che è e che non è quello che non è»[10], implicava due elementi, il “dire” (o pensare) da parte del soggetto, e la realtà che questo dire esprime.
Un elegante relativismo tende oggi a mettere tra parentesi il secondo elemento. Da quando gli Oxford Dictionaries hanno indicato come “parola dell’anno”, per il 2016, il termine inglese post-truth (in italiano “post-verità”), sempre più questo concetto si è imposto nella nostra cultura corrente, sui social e sui mezzi di informazione. Per “post-verità” si intende un’«argomentazione, caratterizzata da un forte appello all'emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l'opinione pubblica» [11].
Qui si pretende sia superata la tradizionale contrapposizione tra “vero” e “falso”. La post-verità, infatti, non è “falsa”, anche se non è neppure propriamente “vera”. Viene presentata come un nuovo modello di verità, che fa riferimento a una realtà mutevole e riducibile alle infinite interpretazioni che se ne possono dare, a seconda dei diversi punti di vista individuali e culturali.
Un ruolo importante, per l’affermazione di questo modo di intendere la verità, l’ha avuto l’avvento della “realtà virtuale”, il solo mezzo di rappresentazione della realtà finora inventato dagli uomini che nasconde il suo ruolo di intermediario e pretende di sostituirsi all’oggetto rappresentato. Al punto da farci credere nella sua presenza, anche quando fisicamente non c’è.
È significativa l’affermazione del nuovo genere costituito dal “giornalismo-spettacolo”, in cui si trovano uniti due termini in passato agli antipodi, poiché il primo indica la fedeltà ai fatti, il secondo la libera creazione di apparenze. Ma a questo punto, si ripresenta l’amaro interrogativo di Pilato: «Che cos’è la verità?»
Ma in quest’ottica, che significherebbe ricordare se non “ri-creare”, secondo le proprie esigenze e inclinazioni, un passato che in sé non avrebbe alcuna realtà?
A metterci in guardia nei confronti di questa prospettiva - che elimina l’elemento fondante della definizione di verità, la realtà - è il famoso romanzo di Georges Orwell 1984 (1949), dove si rappresenta una società dominata da un regime totalitario, in cui la memoria del passato è continuamente revisionata e manipolata da un apposito ufficio, che la riadatta di momento in momento alle scelte del “Grande Fratello”, il dittatore in carica.
Quanto questa negazione della memoria sia collegata a quella della verità emerge chiaramente nella vicenda del protagonista, un dissidente che viene crudelmente torturato non perché riveli in nomi dei compagni o dichiari la sua adesione al regime, ma perché ammetta che 2+2 non fa quattro, ma quello che il “Grande Fratello” decide. Dove si evidenzia che proprio la verità è l’ultimo baluardo della dignità e della libertà dell’essere umano, di fronte alla prevaricazione del potere e alla sua pretesa di decidere cosa è reale e cosa no.
La posta in gioco è dunque alta. Se non ci fosse verità, si sarebbe in balìa del più forte. Questo è particolarmente realistico nella vita pubblica del nostro Paese (e non solo di esso), dove – come una triste esperienza ci dimostra – il serio dibattito sulle questioni di comune interesse viene sostituito da uno scontro di macchine propagandistiche contrapposte e si impone chi riesce a sovrastare la voce degli altri. «Se è fin dall’inizio ovvio che di discutere non vale la pena, perché non c’è niente di oggettivo su cui discutere, allora (…) non cercherò di convincerti (…) farò meglio a vincerti» (R. De Monticelli). La realtà non conta più. E questa è la fine di una democrazia degna di questo nome.
Questo non vuol dire che i diversi punti di vista da cui essa viene osservata non debbano essere valorizzati. Anche il primo termine della definizione aristotelica è importante per capire che cosa è la verità. La filosofia ermeneutica ha giustamente sottolineato che il dualismo tra “oggettività” e “soggettività” è illusorio. La conoscenza oggettiva è sempre anche soggettiva, perché a conoscere il mondo è un soggetto, situato in un punto preciso dello spazio e del tempo, con la sua personalità, la sua storia, le sue esperienze. Non esiste “uno sguardo da nessun luogo”.
Perciò nessuno ha il diritto di pretendere che la sua opinione si identifichi con la verità nella sua totalità. Si tratta di una ricerca incessante, che procede per successive approssimazioni, nella consapevolezza della relatività della propria ottica e della necessità di confrontarla con quella degli altri, talora per integrarla, talora per correggerla.
Non bisogna però confondere questa relatività dei punti di vista col relativismo. Una montagna assume contorni molto diversi a seconda che la si guardi da lontano o da vicino, di fronte o di lato, ma è sempre di essa che parlano gli osservatori. Anzi, il fatto che ci si possa trovare talora in disaccordo, garantisce che questi punti di vista convergono su una comune verità. Come ha scritto Hannah Arendt, «solo dove le cose possono esser viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità, così che quelli che sono radunati intorno ad esse sanno di vedere la stessa cosa pur in una totale diversità, la realtà del mondo può apparire certa e sicura».
Per recuperare la memoria perduta – condizione del vero perdono – bisogna dunque tornare a prendere sul serio il concetto di verità, superando la diffidenza che ormai lo circonda nella nostra cultura.
Ad aiutarci in questo recupero può essere la consapevolezza che, se non ci fosse la verità, non ci sarebbero neppure le falsità. Ma da queste siamo ogni giorno, senza alcun dubbio, assediati! Il negazionismo è una di esse. E chi, come Liliana Segre, rifiuta di piegarsi a questa falsificazione della realtà, testimonia, oltre che la propria fedeltà alla memoria, che la verità esiste.
[1] A. Di Porto, La concezione ebraica del perdono, (13 settembre 2018), in «Confronti» 9/2018 (www.confronti.net).
[2] M. C. Strappaveccia, Il perdono per gli ebrei. Intervista a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, (14 aprile 2014), in «L’Indro» (www.lindro.it).
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] A. Di Porto, La concezione ebraica del perdono, cit.
[6] Ivi.
[7] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 982.
[8] Riccardo Di Segni, in M. C Strappaveccia, Il perdono per gli ebrei, cit.
[9] A. Di Porto, La concezione ebraica del perdono, cit.
[10] Aristotele, Metafisica, IV, c. 7, n. 1
[11] Enciclopedia Treccani, voce «Post-verità».
Quale diritto? Quale giustizia?
di Tommaso Manzon
“Voi dunque siate completi, come è completo il Padre vostro celeste” (Matteo 5:48)
“L’unico rapporto fruttuoso con gli uomini […] è l’amore, cioè la volontà di mantenere la comunione con loro. Dio non ha disprezzato gli uomini, ma si è fatto uomo per amor loro” (Dietrich Bonhoeffer[1])
Sommario: 1. Introduzione: quale diritto? Quale giustizia? - 2. La Croce - 3. Il diritto alla verità.
1. Introduzione: quale diritto? Quale giustizia?
Prima di tuffarmi nel tema di questo breve intervento, vorrei fare alcune premesse di metodo che mi sembrano doverose e necessarie. In primo luogo vorrei offrire la considerazione che in un dibattito o in uno studio di qualsiasi tipo non si dovrebbe mai discutere delle parole, bensì delle cose. Le parole sono veicoli di pensieri, concetti, stati d’animo che spesso possono generare offesa, divisione, e che talvolta possono trasformarsi in vere proprie armi. Allo stesso tempo però non bisogna perdere di vista che le parole sono “soltanto” questo, ossia dei veicoli: esse non sono completamente scollegate dalla realtà che significano, ma nemmeno s’identificano con essa. Pertanto se si vuole veramente capire qualcosa non bisogna fermarsi al livello dell’espressione verbale ma addentrarsi nell’ambito della “cosa in sé”. Questo è specialmente vero quando si esprimono punti di vista divergenti in merito allo stesso tema, e pertanto diventa necessario assicurarsi che il linguaggio di tutti sia effettivamente orientato nella stessa direzione. Per dirla in maniera il più semplice possibile, bisogna essere sicuri che stiamo parlando della stessa cosa; su quest’ultima possono benissimo esserci punti di vista differenti – possiamo in altri termini “non vederla tutti allo stesso modo” – ma dobbiamo essere sicuri che, ancora una volta, stiamo tutti parlando della medesima realtà. In secondo luogo e ben più brevemente vorrei specificare che questo contributo vuole proporre una meditazione che si muove all’interno della tradizione cristiana evangelica (o protestante, o riformata, che dir si voglia). Non si chiede al lettore di essere per forza d’accordo con quello che gli passa davanti agli occhi, ma solo di offrire un orecchio generoso.
Il soggetto che ci viene proposto è duplice: da un lato il diritto a non perdonare e a non dimenticare – accompagnati al contempo dal dovere di non odiare – e dall’altro la proposta di tematizzare tali questioni insieme a quella del diritto alla verità. Il punto di partenza per meditare su questi argomenti è “offerto” dalle parole della senatrice a vita Liliana Segre, pronunciate nel novembre del 2019 alla conferenza “Science for peace” presso l’Università Bocconi di Milano: “io non perdono e non dimentico, ma non odio”[2]. Io però vorrei spostarmi in un altro contesto, ovverosia quello dell’ultima apparizione pubblica della senatrice, tenutasi il 9 ottobre scorso a Rondine. In quest’occasione la Segre pronuncia quasi le medesime parole già utilizzate alla Bocconi, calandole però in un contesto che a mio parere ci spiegano meglio qual è per l’appunto “la cosa in sé” a cui vuole fare riferimento. In un primo momento nel discorso di Rondine la senatrice afferma: “non ho perdonato [i nazisti]. Non ho questa forza, io non ho perdonato come non ho dimenticato perché certe cose, io non riesco, non sono riuscita mai a perdonarle”[3]. In seguito, verso la conclusione del suo intervento, ricordando la tentazione avuta di raccogliere una pistola per uccidere uno dei suoi aguzzini, afferma: “io non ero quella che sono oggi, io mi ero nutrita di odio e di vendetta. Lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno ero diventata un’altra, quella che loro volevano che io diventassi. Un essere insensibile che sognava odio e sognava la vendetta. Pensai: adesso raccolgo questa pistola che tanto avevo visto usare e gli sparo […] fu un attimo. Fu un attimo importantissimo e decisivo nella mia vita, perché io capii che mai, per nessun motivo al mondo, io avrei potuto uccidere qualcuno, che io non ero come il mio assassino […] da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”[4]. Questo secondo estratto dell’intervento, mi pare, parafrasa e contestualizza l’affermazione sull’odio fatta dalla Segre alla Bocconi.
Come bene individuato dal Professor Savagnone nel suo intervento, la Segre lega a stretto giro la memoria al perdono: non si perdona perché non si dimentica; allo stesso tempo il carico di odio e di rancore – che nelle parole di Rondine assume i tratti di una vera e propria “possessione demoniaca” che trasforma le vittime in “esseri insensibili” e che non sono capaci di sognare altro che di restituire quanto subito – è passato, anzi, è il passato, memoria morta e non viva, che non diventa più presente ma che è relegata invece ad una fase precedente della propria esistenza e perciò viene messa da parte, impedendole così di avvelenare tutto quanto è avvenuto in seguito. Savagnone coglie a mio parere nel segno anche quando sottolinea come in questa prospettiva perdonare sarebbe – scusate il gioco di parole – imperdonabile, nella misura in cui parrebbe l’equivalente di dare un colpo di spugna a quanto è successo. In altri termini non si può fare con l’Olocausto quello che si fa con il proprio odio: quest’ultimo può e deve diventare morto ma il dolore subito deve rimanere memoria viva, presente, attiva e questo impedisce il perdono, nella misura in cui in quest’ottica perdonare sembrerebbe passare sopra questo dolore, facendo torto alla gravità dell’accaduto e dunque anche alla dignità dell’esperienza di chi ci è stato – e di chi ci è rimasto.
È giusto tutto ciò?
Posto che stia ben rappresentando i pensieri della senatrice – perché in fondo sto solo cercando di darne un’interpretazione plausibile – credo che nessuno di noi vorrebbe e potrebbe dire di no. A un livello della giustizia e del diritto umano, la senatrice ha fatto e la vede in un modo totalmente giustificabile. Anzi, la verità è che molti di noi avrebbero preso quella pistola e avrebbero sparato a quell’ufficiale tedesco senza pensarci troppo sopra. Direi quindi che Liliana Segre ha fatto meglio di tanti, dando dimostrazione di una solidità morale di cui si ha rara traccia. Se non credessi che ci fosse anche un’altra giustizia e un altro diritto di cui dover tenere conto, allora quest’intervento potrebbe benissimo finire qui. Voglio invece spostare momentaneamente il discorso dall’Europa del ’45 e del 2020 ad un altro luogo, per andare ad ascoltare quale sia la giustizia che proviene dal Calvario.
2. La Croce
Abraham Kuyper – noto pastore, filosofo, teologo e uomo di stato olandese vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo – scrive quanto segue all’inizio di uno dei suoi testi più noti: “non è dalla Grecia né da Roma che venne la rigenerazione della vita umana, bensì da Betlemme e dal Golgota”[5]. Da questo punto di vista l’affermazione di Kuyper ben rappresenta non solo una convinzione fondamentale della fede cristiana, ma anche nello specifico una particolare enfasi che caratterizza la famiglia delle chiese nate dalla Riforma. Fu Lutero che per primo pose con estrema chiarezza i termini della questione. Questo avvenne nel contesto della cosiddetta disputa di Heidelberg del 1518, allorquando gli agostiniani si riunirono per ascoltare le posizioni del professore di Wittenberg, diventando questa l’occasione e il luogo per dibattere parte dei temi contenuti in quelle 95 tesi che, travolte dal furore che seguì la loro pubblicazione, non erano poi di fatto mai state discusse[6]. Anche all’epoca venne chiesto a Lutero di formulare delle tesi – 28 tesi teologiche e 12 tesi filosofiche – ciascuna seguita da una breve spiegazione.
Le celeberrime tesi 19-20-21 recitano “colui che guarda alle cose invisibili di Dio come se fosse possibile percepirle nello scorrere degli eventi non merita di essere chiamato teologo [19]. Merita invece di essere chiamato teologo colui che comprende le cose visibili e manifeste di Dio per come esse appaiono attraverso la sofferenza e la croce [20]. Un teologo della gloria chiama ‘bene’ il male e ‘male’ il bene. Un teologo della croce dice le cose come stanno [21]”[7]. Tenendo presente che per Lutero il falso teologo e il teologo della gloria coincidono – mentre quella di “teologia della croce” è proprio la “cifra” con cui viene indicato il pensiero del sassone – nell’argomentazione in favore della 20° tesi egli afferma che è inutile conoscere Dio nella sua gloria e nella sua maestà se non lo si riconosce prima nella sua umiltà e vergogna, questo perché Dio stesso ha desiderato che lo si cercasse e gli si rendesse onore nel mentre il suo splendore era nascosto nel dolore del supplizio. Invertire i termini finirebbe per determinare una falsa idea di Dio, rendendo incomprensibile il contatto tra la sovranità e l’autorità di Dio e il modo del suo esercizio per come esso è incarnato visibilmente nella vita di Gesù di Nazaret. Sicché, conclude Lutero, si può riconoscere la vera identità di Dio e di conseguenza fare della vera teologia – cioè produrre un corretto discorso intorno a Dio – solamente in riferimento, a partire e attraverso la figura di Cristo crocifisso[8].
Le implicazioni della presa di posizione di Lutero sono molteplici e le tesi di Heidelberg, prese nel loro complesso, furono di una tale esplosività che finirono per aggiungere carburante al fuoco che accese la Riforma. Per quanto riguarda gli scopi limitati di questo scritto possiamo limitarci a constatare questo: se la giustizia manifesta la propria natura nel suo esercitarsi o manifestarsi e se Dio in quanto giudice supremo è colui che può esercitare la più alta giustizia e se infine accettiamo – anche solo momentaneamente per ipotesi – che la scena della crocifissione debba essere l’inizio di ogni corretta riflessione su Dio, allora dobbiamo concludere che la giustizia più alta si manifesta a partire dalla deposizione del suo stesso diritto. Dio come magistrato il quale al di sopra non ve ne è nessuno, mostra il proprio carattere a partire dalla rinuncia ad esercitare la funzione che gli è propria per essenza. Non solo: egli accetta di essere maledetto e ucciso dai colpevoli che potrebbe e che dovrebbe punire. Storicamente questo punto è stato manipolato da buona parte della tradizione cristiana e si è voluto incolpare esclusivamente il popolo ebraico di deicidio; ma la verità che emerge dal racconto evangelico è ben più profonda. Gesù di Nazaret viene tradito prima dalla Chiesa – nella persona di Giuda che lo vende e di Pietro che lo rinnega – poi viene tradito dal popolo eletto nella figura dei suoi massimi rappresentanti che lo accusano falsamente e lo consegnano alle autorità romane, infine viene tradito dal potere secolare – e quindi anche dai cosiddetti “gentili” ossia da tutta l’umanità non-ebrea che qui è rappresentata da Roma – allorché Ponzio Pilato, pur sapendolo e riconoscendolo pubblicamente innocente, prima lo fa frustare e poi lo condanna a morte.
Sebbene in ciascuno di questi gruppi vi sia chi si distingue dalla massa – il racconto dei vangeli ne fa menzione, per esempio, nelle donne che accompagnano Gesù alla croce, in Giuseppe di Arimatea e nella moglie di Ponzio Pilato – il messaggio è evidente per chi lo vuole comprendere: il “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” che Gesù leva al cielo in Luca 23:34 è diretto a un’intera umanità che si fa giudice del giudice, ribellandosi e maledicendo il proprio Creatore. E qui avviene il rovesciamento che Dio compie sulla croce: di fronte alla maledizione universale che l’umanità riversa su Dio, Egli non se ne fa travolgere ma la assorbe e la spegne, sicché Gesù dall’alto della croce intercede per i propri assassini nell’ora della sua morte, gli arti stesi non come se fosse inchiodato, ma come se stesse avvolgendo tutto il creato in un abbraccio.
3. Il diritto alla verità
Ma quella che ho chiamato la “giustizia” che viene dal Calvario non si conclude qui. Perché sarà anche vero che ogni discorso su Dio deve cominciare dalla croce, ma questo non significa che essa debba anche essere il suo termine. Se così fosse allora dovremmo arruolarci nella schiera di coloro che, con il barbuto di Treviri, affermano che la religione è l’“oppio dei popoli”. Perché se la morte in croce di Gesù fosse la fine della sua giustizia, quello che ci rimarrebbe sarebbe soltanto il grido di morte di un innocente massacrato – fosse pure di natura divina, questo farebbe ben poca differenza in termini pratici. Certo permarrebbe nella mente il pensiero di un’ingiustizia che chiede di essere controbilanciata dalla giusta punizione di coloro che sono colpevoli di averla commessa, ma ecco che così ci saremmo subito allontanati dal Calvario per marciare risolutamente verso Norimberga e i suoi tribunali. La giustizia che viene dal Calvario trova però il suo proseguimento, e quindi il resto della sua teologia, nella tomba che fu trovata vuota all’alba del terzo giorno.
Qui ci colleghiamo infine alla seconda parte del tema che ci è stato proposto, quello del diritto alla verità. Incamminandoci dal Calvario verso la tomba che era vuota, è stata occupata ed è tornata ad essere vuota, il diritto alla verità significa essere partecipi dell’esistenza della Verità: significa testimoniare di una vita risorta che non è il semplice prolungamento della vita precedente ma che è un nuovo inizio ed è in senso eminente la manifestazione infine visibile, anche al di là del dolore, della Verità che si è fatta uomo. Il dolore qui non è svanito, cancellato dalla storia, perché l’apostolo Tommaso testimonia delle ferite della crocifissione e quindi esse permangono anche nel corpo risorto. Ciò non di meno esse fanno parte delle cose del passato che non sono più, oramai tratti distintivi di un amore che “non tiene conto del male subito” (1Cor 13:5): Cristo infatti non risorge per radunare un esercito e vendicarsi, ma per dire a tutti che una nuova vita è iniziata e che chiunque lo desideri può ricevere anch’egli, gratuitamente, la sua porzione di Verità.
In tempi molto più recenti un altro pastore protestante di nome Martin Lutero – questo però faceva di cognome King e veniva dall’Alabama – scrisse:
“il male è talmente capace di dare forma agli eventi che Cesare vive in un palazzo mentre Cristo viene messo in croce, ma è quello stesso Cristo che ha spaccato la storia in due dividendola in ciò che viene prima e dopo di lui, sicché persino la vita di Cesare viene datata secondo il nome di Gesù. L’arco dell’universo morale è lungo, ma tende inevitabilmente verso la giustizia[.] La verità schiacciata al suolo riuscirà sempre a rialzarsi”[9].
Che le affermazioni del Dr. King possano risuonare ingenue e false sono sicuro che lo avesse messo in conto lui stesso. Esse infatti appaiono evidenti e ben fondate soltanto nella misura in cui questo stesso arco appare agli occhi di chi lo veda, ed il medesimo osservatore divenga inoltre testimone del rialzarsi della Verità. Allora soltanto appare chiaro come Cristo stia sopra Cesare e che una più alta giustizia, di cui è possibile diventare partecipi, avanza inesorabilmente nella storia verso la sua destinazione. Ma questo è possibile solamente a chi guarda all’universo avendo la croce e la tomba vuota come punto prospettico.
Torniamo da dove eravamo partiti, ossia dalla Segre e dalle sue parole. Che cosa dobbiamo dire della giustizia che traspare da quest’ultime e di quell’altra di cui abbiamo voluto rendere conto? Anche dopo tutto quello che abbiamo aggiunto, possiamo ancora dire che sia giusto affermare che la senatrice a vita Liliana Segre goda di un diritto a non perdonare? Sicuramente sì. Perché del resto chi potrebbe permettersi di dire a questa gran donna, che spicca in mezzo alla mediocrità a cui siamo ormai assuefatti, che dovrebbe andare al di là di sé stessa e delle atrocità che ha subito e di cui è stata testimone, per poi infine perdonare i propri aguzzini? Sicuramente chi scrive non può osare tanto, ma aggiungerei nemmeno chiunque altro. Nessuno può chiedere una cosa simile a un proprio pari. Del resto abbiamo già detto più sopra come la Segre abbia mostrato più integrità di quanto ci si sarebbe potuto aspettare e di quanta ne avremmo richiesta da lei se fossimo stati lì presenti, in quel lontano giorno del ’45 in Germania in cui decise di risparmiare il suo aguzzino. Liliana Segre ha così in un certo senso raggiunto il limite della giustizia umana, rifiutando di farsi modellare dal suo nemico e scegliendo invece di trovare forza in sé stessa e nella propria dirittura morale. Speriamo poi che quel tedesco a Norimberga ci sia andato per davvero e non solo figurativamente, e che abbia reso conto delle sue azioni di fronte a un tribunale umano; e grazie a Dio che ci sono state le varie Norimberghe della storia, dove uomini hanno cercato, per quanto i loro limiti consentissero, di fare giustizia dei vari Herman Gӧring e delle loro azioni. E da ciò ne deriva che da un certo punto di vista vi è un innegabile diritto a non dimenticare e alla verità: perché la storia della giustizia e dell’ingiustizia umana va ricordata, preservata, utilizzata onde evitare gli errori del passato – anche se, ahimè, ritengo che se l’arco dell’alta giustizia avanza sempre, lento, tortuoso, ma inarrestabile, quello della giustizia umana si ripete in modo spiralico, allargandosi sempre di più ma al contempo avvolgendosi su sé stesso.
In una prospettiva biblica bisogna dire che anche questa giustizia umana è stabilita da Dio e anch’essa procede dal suo carattere. “Non vi è autorità se non da Dio” scrive Paolo nella sua missiva ai Romani, per poi aggiungere che “il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male” (Romani: 13:1b, 4). Questo non implica porre un cappello “teocratico” sul potere politico e nello specifico su quello giudiziario – del resto Paolo scrive ai romani del primo secolo DC, che vivono in un impero che è ben lungi dal riconoscere il cristianesimo e che anzi ne è ancora quasi del tutto ignaro – bensì affermare che anche la giustizia degli uomini se esiste è perché, quando è ben esercitata, svolge un ruolo essenziale e ordinato da Dio. A questo fine, cioè quello di ben utilizzare la “spada” ed evitare il verificarsi del male, il magistrato e chi in generale si muove nell’ottica della giustizia umana ha diritto a non perdonare, a non dimenticare e a raccontare una verità che mantenga viva il ricordo, l’attenzione e il discernimento degli uomini. Questo però, prendendo esempio dalla Segre, dev’essere fatto senza uno spirito di vendetta e di odio – altrimenti anche chi porta la spada sarebbe meritevole di punizione – bensì per l’appunto con uno spirito di giustizia.
È chiaro che questa giustizia umana può intrecciarsi e anzi nutrirsi con l’altra giustizia di cui abbiamo parlato, la quale non annulla la prima ma la avvolge in una realtà più ampia, di cui del resto quella, essendo stabilita da Dio fa già parte sin dalla sua origine. La differenza è però che questa giustizia non può essere amministrata con la Spada. Ben dice Lutero sempre nelle tesi di Heidelberg, quando nella 28° e ultima tesi afferma che “l’amore di Dio non trova bensì crea ciò che è a esso gradito”[10]. Questo significa che la giustizia divina che inizia con la croce e finisce laddove conduce l’arco morale dell’universo non è una nostra creazione o qualcosa che possiamo reclamare; semmai possiamo semplicemente riceverla da Dio nel momento in cui egli la crea in noi. Per questo essa è una giustizia che non si può né comandare, né chiedere, né ce la si può aspettare – da Liliana Segre o da chiunque altro. Si può solamente testimoniare ed accogliere la testimonianza della croce e della tomba vuota che ne sono la radice e l’origine.
Bibliografia[11]
[1] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa: Lettere e scritti dal carcere, a cura di Eberhard Bethge, edizione italiana a cura di Alberto Gallas (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2015), p. 76.
[2] Liliana Segre, “Milano, Segre cita Levi: “non perdono e non dimentico, ma non odio”, Youtube.
[3] Liliana Segre, “L’ultima testimonianza di Liliana Segre ‘Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”, Youtube, minuto 55:00.
[4] Segre, “L’ultima testimonianza”, 1:11:00.
[5] Abraham Kuyper, Lezioni sul calvinismo (Caltanissetta: Alfa & Omega, 2020). Sulla notevole figura di Kuyper si può anche consultare l’eccellente biografia di James D. Brat, Abraham Kuyper. Calvinista moderno, cristiano democratico (Firenze: BE, 2018).
[6] Cfr. Alister E. McGrath, Luther’s Theology of the Cross: Martin Luther’s Theological Breakthrough, seconda edizione (Oxford: Wiley-Blackwell, 2011).
[7] Le tesi e il loro commento sono prese, tradotte e collazionate da Martin Lutero, Luther’s Works, a cura di Jaroslav Pelikan e Helmut T. Lehmann (Minneapolis: Fortress Press, 1957), pp. 39-58.
[8] Nelle parole di Jürgen Moltmann, un teologo riformato che disse di essere stato “trovato da Cristo” mentre era in un campo di prigionia alleato nonché un grande erede di Lutero, si può quindi affermare che “la teologia cristiana deve essere una teologia della croce, se essa vuole identificarsi attraverso Cristo come una teologia cristiana”. Jürgen Moltmann, The Crucified God (Minneapolis: Fortress Press, 2015), pp. 7, 44.
[9] Martin Luther King Jr., “Out of the Long Night”, in The Gospel Messenger, 08/02/1958, p. 14. Per dovere di precisione, bisogna specificare che l’espressione indicante l’arco dell’universo morale venne utilizzata per la prima volta da Theodore Parker, mentre le parole sulla verità sono indicate esplicitamente da King come una citazione di William Cullen Bryant. Cfr. Theodore Parker, Ten Sermons of Religion (Boston: Nichols and Company, 1853), p. 66.
[10] Si veda nota 6 supra.
[11] Bibliografia: Bonhoeffer, Dietrich, Resistenza e Resa: Lettere e scritti dal carcere, a cura di Eberhard Bethge, edizione italiana a cura di Alberto Gallas (Cinisello Balsamo: Edizioni San Paolo, 2015).
Brat, James D., Abraham Kuyper. Calvinista moderno, cristiano democratico (Firenze: BE, 2018).
King, Martin Luther Jr., “Out of the Long Night”, in The Gospel Messenger, 08/02/1958.
Kuyper, Abraham, Lezioni sul calvinismo (Caltanissetta: Alfa & Omega, 2020).
Lutero, Martin, Luther’s Works: Career of the Reformer, a cura di Harold J. Grimm e Helmut T. Lehmann (Minneapolis: Fortress Press, 1957).
McGrath, Alister E., Luther’s Theology of the Cross: Martin Luther’s Theological Breakthrough, seconda edizione (Oxford: Wiley-Blackwell, 2011).
Moltmann, Jürgen, The Crucified God (Minneapolis: Fortress Press, 2015).
Parker, Theodore, Ten Sermons of Religion by Theodore Parker (Boston: Nichols and Company, 1853).
Segre, Liliana, “L’ultima testimonianza di Liliana Segre ‘Non ho mai perdonato, ma ho imparato a non odiare”, www.Youtube.com
Segre, Liliana, “Milano, Segre cita Levi: “non perdono e non dimentico, ma non odio”, www.Youtube.com
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