ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Cashback, moneta elettronica ed evasione fiscale
di Giuseppe Ingrao e Raffaello Lupi
La concessione generalizzata del c.d. cashback di stato per tutti gli usi della moneta elettronica (salvo quelli in rete) lo rende eccessivamente oneroso rispetto ai benefici per le casse erariali; esso viene infatti erogato anche per gli acquisti presso operatori economici di notevoli dimensioni, organizzati in modo pluripersonale, dove la registrazione degli incassi, anche in contanti, è di per sé assicurata dalle logiche di controllo interno aziendale. Peraltro, la possibilità di raggiungere il plafond con i soli acquisti presso la grande distribuzione potrebbe vanificare l’emersione di maggiori imponibili presso piccolo commercio, artigianato e piccole attività, dove si annida la massa dell’evasione da omessa registrazione dei corrispettivi; il cashback darà comunque una spinta psicologica all’utilizzazione della moneta elettronica, che però non necessariamente assicura, per le attività suddette, la fedele registrazione dei corrispettivi, vista la notevole informalità dei meccanismi bancari e finanziari sottostanti.
Cashback, conflitto d’interessi e impatto sulle abitudini dei consumatori
di Giuseppe Ingrao
Sommario: 1. Il successo dell’idea presso la popolazione - 2. I limiti dello strumento: parificazione tra acquisti presso i circuiti di grande distribuzione e acquisti presso le piccole attività commerciali - 3. Passaggio spontaneo alla moneta elettronica e futura soppressione del cashback.
1. Il successo dell’idea presso la popolazione
Giustizia Insieme ha già dato risalto (si veda l’articolo di Carlo Amenta linkato qui –Il Cashback di Stato: evidenze empiriche e inquadramento fiscale - alla nuova misura con cui si vogliono premiare i soggetti che effettuano acquisti utilizzando strumenti tracciabili di pagamento, riconoscendogli un rimborso pari al 10% delle somme spese, fino ad un massimo di € 150. Misura avviata nel mese di dicembre 2020, che verrà riproposta da gennaio del 2021, periodo in cui i cittadini “virtuosi” potranno ottenere un rimborso per le spese regolate appunto con bancomat, carte di credito ed app ([1]) fino ad un massimo di € 150 per semestre.
Anche se il cash back può essere comunicato politicamente come una misura di sostegno dei consumi, a ben vedere si tratta di un strumento finalizzato ad ostacolare l’evasione fiscale conseguente alla omessa registrazione degli incassi da parte di piccoli commercianti e artigiani. Ed infatti, sul piano teorico, il pagamento con moneta elettronica lascia traccia sul conto corrente del beneficiario e quindi lo induce ad emettere la fattura o lo scontrino, sul quale lo Stato incamera l’Iva e le imposte sui redditi. Per le operazioni di importo inferiore a quello fissato per il divieto di uso del contante (in atto € 2.000), si è pensato, quindi, di scoraggiarne l’uso prevedendo la concessione di un “rimborso” a favore del consumatore che sceglie di avvalersi di pagamenti elettronici. Il cashback farebbe così “sistema”, nella prospettiva del contrasto all’evasione, con il provvedimento che vieta l’utilizzo del contante per le operazioni economiche superiori ad un determinato valore.
L’idea ha avuto un notevole successo presso la popolazione, perché da subito si sono registrati milioni di download della app che gestirà il rimborso; vi è stata, quindi, una “corsa” a dotarsi di tutti gli strumenti necessari per accaparrarsi il beneficio (al pari d’altra parte di quanto registratosi di recente in merito al c.d. bonus bici). In effetti la misura di cui ci occupiamo è politicamente molto meno imbarazzante, e tecnicamente più gestibile, rispetto alla proposta di istituire una tassa sul contante, ventilata in passato e non più riproposta (è indubbiamente più accattivante sul piano del consenso elettorale una misura premiale rispetto ad una “punitiva”). Ci sono, così, tutte le premesse per assistere ad una netta impennata del numero di transazioni di modesto importo regolate con carte di credito, bancomat ed app.
2. I limiti dello strumento: parificazione tra acquisti presso i circuiti di grande distribuzione e acquisti presso le piccole attività commerciali
Una compiuta analisi della misura introdotta non può, però, arrestarsi qui. Occorre, infatti, chiedersi se ci sia un vantaggio finanziario per lo Stato in termini di incremento delle entrate tributarie, al netto della spesa erariale per il cashback. Il risultato dipende da una valutazione applicabile anche a misure analoghe ormai in vigore da tempo, come le detrazioni sulle spese per ristrutturazioni, che sono nate anch’esse con la logica di introdurre il c.d. conflitto di interessi, anche se nel tempo hanno assunto l’ulteriore funzione di sostegno del settore dell’edilizia. Nel caso di specie, si realizza un conflitto tra l’esercente, che preferisce il contante per non emettere il documento fiscale, e l’acquirente, che vuole sfruttare il ristoro erariale, peraltro senza che emergano i noti problemi dei c.d. incapienti, cioè di coloro che sono privi imponibili in grado di assorbire la detrazione.
Orbene, la sussistenza o meno di un beneficio per i conti pubblici grazie al cashback dipende dall’emersione incrementale di ricavi rispetto a quelli che sarebbero stati comunque registrati dall’insieme di aziende e professionisti interessati alla misura analizzata. Sotto questo profilo, il bilancio è destinato ad essere negativo in quanto il ristoro di Stato viene concesso per qualsiasi pagamento con moneta elettronica anche presso circuiti di grande distribuzione e dove comunque i corrispettivi incassati sarebbero stati registrati, in quanto diretti a strutture organizzate in modo pluripersonale.
L’eventuale maggior gettito emerso presso piccoli commercianti e artigiani sarà ben poca cosa rispetto all’enorme ammontare di cashback concesso a chi paga con carta di credito presso la grande distribuzione ed altri circuiti dove l’evasione dei corrispettivi era semplicemente impensabile. I condizionamenti di rimborso sul singolo acquisto e complessivo nel semestre rendono palese, per chi è “affezionato” al contante, la facilità di raggiungere l’obiettivo di cashback limitandosi a fare acquisti al supermercato, continuando a pagare in contanti gli acquisti in piccoli negozi a conduzione familiare, e presso artigiani per riparazioni domestiche, su veicoli, servizi alla persona etc. Il prezzo pagato in termini di risorse pubbliche assorbite dal cashback appare, pertanto, un multiplo, rispetto all’emersione di maggiori basi imponibili, anche presso quei soggetti maggiormente a rischio di occultamento dei corrispettivi. Questi ultimi, almeno se svolgono l’attività avvalendosi di una sede fissa, dichiarano già oggi un “minimo sindacale” apprezzabile, parametrato alle dimensioni dell’attività, a prescindere dagli incassi in contanti o con carta. Il cashback, anche su questi soggetti, provocherà un aumento di ricavi registrati solo quando gli incassi con moneta elettronica saranno superiori a quelli stimabili per ordine di grandezza in base alle caratteristiche dell’attività. Fino a quel momento il cashback provocherà solo uno spostamento, all’interno del suddetto “minimo sindacale” da moneta cartacea a moneta elettronica. Anche in questi settori c’è insomma il rischio che siano registrati fiscalmente più pagamenti con pos e meno pagamenti in contanti, fermo restando il totale delle registrazioni.
Quanto sin qui esposto, può considerarsi ragionevole almeno fino a che i pagamenti ricevuti con moneta elettronica non siano così elevati da rendere inverosimile la rappresentazione di attività che, nel senso comune, comportano consistenti incassi in contanti. L’ammontare dei pagamenti elettronici spingerebbe così ad aumentare i ricavi registrati, rispetto a quelli stimati dal contribuente in base alle caratteristiche materiali dell’attività. In questa misura, l’obiettivo di far emergere l’evasione fiscale sarebbe raggiunto, ma ad un costo decisamente sproporzionato per le pubbliche finanze, a causa dell’erogazione del cashback anche per una massa di pagamenti elettronici cui non corrisponde per definizione, in capo al percettore, alcuna mancata registrazione degli incassi.
3. Passaggio spontaneo alla moneta elettronica e futura soppressione del cashback
E’ ipotizzabile, tuttavia, che il cashback determini benefici alla casse erariali solo nella misura in cui accelera un processo spontaneo di passaggio alla moneta elettronica; paradossalmente, in sostanza, il successo del cashback si vedrà quando verrà abolito, essendosi ormai diffusa l’abitudine ad utilizzare sistematicamente bancomat e carte di credito. L’utilizzo di questi sistemi di pagamento tracciati indurrà la massa degli operatori economici ad una maggiore credibilità tributaria, in quanto le possibilità di far coesistere moneta elettronica ed evasione richiedono una certa dose di artificio. Si tratta di sistemi di cui parlerà più avanti Lupi, ma che presuppongono una certa dose di spregiudicatezza, rispetto alla passiva percezione di incassi in contanti, non registrati, nella quale anche i consulenti tributari, che non hanno nulla da guadagnarci, eviteranno di essere coinvolti. Grazie al cashback allora si potrà ridurre la massa di contante in circolazione, in quanto chi viene pagato con moneta elettronica, ed usa conti bancari e carte di credito, sarà sempre meno propenso a prelevare e pagare in contanti. Il denaro contante tenderà quindi a polarizzarsi su coloro che incassano somme sempre in contanti; questi soggetti saranno certamente restii a versare le disponibilità monetarie in banca, esponendosi ad un accertamento fiscale, per pagare poi con il bancomat o la carta di credito, beneficiando magari del cashback. Ed allora, un risultato finanziario deludente nell’immediato per i conti pubblici potrebbe dare frutti psicologici importanti in una prospettiva psicologica.
In conclusione, il successo di pubblico del cashback conferma l’assunto secondo cui lo spirito solidaristico non basta né a spingere all’adempimento tributario proprio, né ad indurre gli altri ad adempiere. Non ci sono quindi gli onesti (non evasori) e i disonesti (evasori), ma ognuno tiene conto della determinabilità dei propri presupposti economici d’imposta, della sua percezione del rischio di controlli e delle proprie necessità di spesa. Su queste premesse non c’è una lotta (all’evasione) da fare, ma un più sistematico intervento valutativo degli Uffici impositori sulla credibilità degli imponibili dichiarati di piccoli commercianti e artigiani rispetto alle caratteristiche dell’attività, e alle altre informazioni, tra cui - in un verosimile futuro - anche gli incassi con moneta elettronica.
Moneta elettronica e illusoria “ragionierizzazione” delle piccole attività al consumo finale
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Le ragioni politiche di un cashback indiscriminato - 2. Spersonalizzazione gestionale come vera ragione della tax compliance, anche in contanti - 3. Nuove possibilità di evasione tramite la moneta elettronica.
1. Le ragioni politiche di un cashback indiscriminato
L’intervento che precede ha messo giustamente in risalto il modo maldestro con cui il cashback è stato esteso a tutti i pagamenti elettronici, rispetto ai quali quelli a rischio di mancata registrazione fiscale sono netta minoranza. E’ come se la politica non avesse avuto il coraggio di dire quello che tutti intuiscono, riflettendo sull’evasione di massa, cioè che essa riguarda in massima parte la mancata registrazione dei corrispettivi da parte di piccole organizzazioni al dettaglio, nonché artigiani e piccoli commercianti. E’ una mancanza di coraggio derivante dall’utilizzazione, nella comunicazione politica, dell’evasione come capro espiatorio per disfunzioni dei pubblici uffici con ragioni ben più complesse; spiegare queste disfunzioni con la mancanza di risorse finanziarie (“mancano i soldi”) a causa dell’evasione, è una comoda scorciatoia per eludere problemi amministrativi molto spinosi. I limiti di questa chiave di lettura si presentano quando, dopo aver dipinto l’evasore come “nemico del popolo”, ci si rende conto che si tratta di milioni di piccoli operatori, la cui criminalizzazione dà un pessimo dividendo politico. Questa è probabilmente la ragione dei diversivi come il mito dei grandi evasori oppure le spiegazioni impersonali del fenomeno, come appunto la circolazione del contante. Quest’ultimo è quindi messo tutto sullo stesso piano dal cashback di stato, come se pagare una bolletta della luce o comprare una torta in pasticceria presentasse gli stessi rischi di mancata registrazione del corrispettivo; l’unica esclusione è stata per gli acquisti online non per difendere il commercio tradizionale, come pure è stato comunicato; il motivo è che solo nel commercio tradizionale è ipotizzabile l’alternativa tra acquisti in contanti e con moneta elettronica, che invece non ha alternative negli acquisti in rete. La sproporzione per eccesso del cashback rispetto all’obiettivo perseguito è stata rilevata anche dalla BCE, con lettera riportata qui https://www.milanofinanza.it/news/ecco-la-lettera-integrale-della-bce-sui-dubbi-per-il-cashback-202012181509216388 la quale avrebbe potuto anche far notare che l’istituto spinge a un frazionamento dei pagamenti, anche se effettuati in unica occasione (ad esempio convengono di più tre pagamenti da 200 euro che uno da 600, anche a costo di ripetere le code al centro commerciale).
2. Spersonalizzazione gestionale come vera ragione della tax compliance, anche in contanti
Distorcere la realtà in nome della comunicazione politica ignorando la diversa determinabilità dei presupposti economici d’imposta finisce per impedire di vederla, facendo travisare le vere ragioni dell’adempimento e quelle dell’evasione. Non è infatti il pagamento in moneta elettronica a trattenere dall’evasione, ma la presenza di un’organizzazione amministrativa pluripersonale, dove chi gestisce gli incassi è diverso dal loro beneficiario finale, titolare dell’attività economica. Quest’ultimo, dovendosi servire di terzi per i propri incassi, mette infatti in piedi controlli interni diretti a scongiurare la sottrazione di risorse, di cui poi si giova anche la determinazione delle imposte; ciò accade anche per gli incassi in contanti, privi di rischi fiscali quando sono conseguiti da grandi organizzazioni amministrative [2] o da circuiti “solidi” come ad esempio quelli gestiti dalle filiere di esercizi pubblici coordinati da società informatiche (ad esempio Sisal, Lottomatica, etc.). Da quest’immagine di affidabilità, per uno strano transfert, si è diffusa nella pubblica opinione l’idea che i consumatori e le banche, variamente messi assieme, possano essere un surrogato dei suddetti uffici amministrativi e dei sostituti di imposta. La realtà ha già mostrato che è un obiettivo illusorio, anche per l’attuale modestissima consapevolezza diffusa sulla determinabilità dei presupposti economici d’imposta, come nucleo essenziale del diritto tributario. Basti pensare che il problema della diversa determinabilità degli imponibili è assente nei più diffusi manuali di diritto tributario. Anche per questo, da decenni, iniziative volte alla rilevabilità contabile dei presupposti di imposta sono svolte senza andare al di là dell’effetto annuncio di una analisi superficiale; ricordo che all’obbligo dei libri contabili bollati non corrispondevano meccanismi per informare gli uffici tributari su quanti fogli avesse bollato ciascun contribuente e lo stesso accadeva per le bolle d’accompagnamento, anch’esse prive di quadratura tra bolle acquistate, utilizzate e rimaste in giacenza. Non c’è tempo di soffermarsi qui su analoghi fenomeni riguardanti ricevute fiscali e scontrini, ma se queste possibilità di aggiramento esistevano per adempimenti di mero diritto amministrativo-tributario, è facile immaginare cosa può accadere per la moneta elettronica, che è un fenomeno globale e di mercato.
3. Nuove possibilità di evasione tramite la moneta elettronica
Nell’ingenuo immaginario di chi porta avanti la “lotta al contante” si pensa a un piccolo commerciante o artigiano che appoggia il c.d. “pos” sul conto riferibile all’impresa, facilmente accessibile dagli uffici tributari. E’ una narrazione idealizzata, conforme ai sensazionalismi che circolano in rete sul “fisco che vede tutto quello che fai”. Come per tutte le leggende metropolitane un po' di vero c’è, nel senso che il fisco, e le pubbliche autorità in genere, possono sapere tutto di uno specifico contribuente. Il passaggio ulteriore, privo di fondamento e sostanzialmente immaginario, è la possibilità di svolgere simili indagini in modo massivo, moltiplicando per i milioni di piccoli commercianti e artigiani quello che si può fare per pochi di essi, in modo da determinare in modo accettabile i presupposti economici d’imposta riferibili a milioni di piccoli commercianti, artigiani e organizzazioni padronali. Anche per questo mi sembrano eccessive le preoccupazioni di utilizzo dell’istituto per una finalità Orwelliana di limitazione della riservatezza personale, avanzate anche da docenti di diritto tributario, come Alessandro Giovannini http://www.opinione.it/editoriali/2020/12/21/alessandro-giovannini_cashback-evasione-economia-sommersa-bce-governo-schedati-italia-mezzi-pagamento/. Il problema è piuttosto quello della determinazione dei presupposti economici d’imposta, e sull’impossibilità di un loro calcolo ragionieristico di massa per questi operatori economici, rinvio ai parr. 4.5, 5.9 e 5.16 del mio “Diritto amministrativo dei tributi” https://didattica.uniroma2.it/files/index/insegnamento/185193-Diritto-Tributario.
La moneta elettronica apre infatti nuove frontiere non solo per la tracciabilità dei pagamenti, z beneficio del fisco, ma anche per l’evasione. Si moltiplicano infatti gli strumenti per trasferire denaro sostanzialmente anonimi, in quanto tracciabili solo a prezzo di indagini troppo impegnative per essere gestite su scala abbastanza vasta da indurre a un adempimento credibile una massa di contribuenti come quella sopra indicata. Dalla ricarica delle carte di credito, alle ricariche telefoniche, ai buoni spesa prepagati, si moltiplicano infatti i mezzi di pagamento privi di qualsiasi controllo amministrativo e aperti alla movimentazione internazionale dei capitali. Basta cercare in rete per accorgersi della facilità di aprire un conto online, appoggiandovi sopra strumenti di pagamento elettronico. Come spiegato in questo video https://www.youtube.com/watch?v=34KcCjqVhcE&t=25s c’è molta improvvisazione ed ingenuità nel contrastare l’evasione con la lotta al contante, come se il POS consentisse di trasformare consumatori e banche in sostituti di imposta di milioni di piccole attività al dettaglio. E’ senza dubbio credibile che l’aumento della moneta elettronica spinga questi contribuenti, come sostiene Ingrao nell’articolo che precede, ad una maggiore credibilità tributaria. Ma la pluralità di POS o l’appoggio dei medesimi su conti di terzi sono possibilità offerte dal mercato e difficili da mettere sotto controllo. Immagino oggi un artigiano che incassa davvero 50 mila euro e ne dichiara 20, abituato a un certo tenore di vita, che si ridurrebbe molto qualora ne dichiarasse il doppio, per non dire la totalità. Le scappatoie sopra indicate, per conciliare evasione e moneta elettronica, diventerebbero strumento di difesa del tenore di vita, più che una perversione di evasori incalliti, secondo la definizione di Ingrao. Altrimenti molte attività diventerebbero non più convenienti, come spiego al termine del paragrafo 1.6 di Diritto amministrativo dei tributi; in tale sede ipotizzo anche un circolo virtuoso di crescita ed efficientamento delle dimensioni delle attività, ma ciò dipende da molte variabili extratributarie, su cui sono impossibili previsioni. E’ però certo che non si tratta di questioni risolvibili col colpo di bacchetta magica dell’eliminazione del contante.
[1] Sono esclusi i pagamenti mediate bonifici bancari, in quanto, nonostante rappresentino strumenti tracciabili, sarebbe tecnicamente complesso agganciare i ristori operati dall’erario a questa modalità di pagamento. Il bonifico si presta ad essere efficacemente utilizzato nei casi in cui il bonus statale venga quantificato autonomamente dal contribuente in dichiarazione annuale mediante il godimento di un credito di imposta, verificabile dagli Uffici impositori in sede di controllo.
[2] ) Si pensi ai supermercati della metà del secolo scorso, in cui fu inventato lo scontrino, rilasciato dal registratore di cassa Sweda, per chi lo ricorda, ben prima che si immaginasse la moneta elettronica.
In copertina Alessandro Tiranno, 12 anni,
Il Natale al tempo del Covid
Il (pranzo di) Natale al tempo del Covid di Giuseppe Savagnone
Sommario: Qual è il vero Natale - 2.La voce del silenzio - 3.Oltre il narcisismo - 4. Imparare ad amarci per amare l’umano che è negli altri.
1.Qual è il vero Natale.
Anche se un antico detto recita «Natale con i tuoi», nessuno poteva immaginare che quest’anno il cenone natalizio si sarebbe svolto nella ristretta cerchia di quelli di casa, con la partecipazione di due soli ospiti, presumibilmente scelti anche loro tra i familiari più stretti. Niente famiglie allargate, niente amici, niente allegre brigate. Bella festa!
La delusione è generale. Sono delusi quelli che speravano, anche quest’anno, in una chiassosa riunione di parenti, intorno a una bella tavola imbandita, mangiando cose buone e bevendo a crepapelle. Delusi quelli che passano le settimane prima del 25 dicembre a fare shopping, acquistando regali costosi che si sarebbero voluti scambiare, ai piedi dell’albero, con figli, nipoti e amici. Delusi quelli che questa nottata erano abituati a trascorrerla giocando. Delusi i gestori di alberghi, ristoranti, pub, che si aspettavano come sempre il pienone di clienti. Insomma, a caratterizzare quest’anno la ricorrenza, un tempo lieta, è la costernazione. Che Natale è?
Se un marziano arrivasse in questi giorni in una delle nostre città e rilevasse questo diffuso disincanto, ne concluderebbe che l’incantesimo del Natale per noi era costituito dalle luci delle vetrine, dagli oggetti, dai cibi e che questa, per la cui dissacrazione siamo a lutto, è la festa nazionale del consumismo. Si farebbe molta fatica a convincerlo che c’è dell’altro, sì, un’antica tradizione religiosa, forse una leggenda, che parla di una nascita – altrimenti perché diamine si chiamerebbe Natale? - , della nascita di un bambino diverso dagli altri…
Probabilmente il marziano obietterebbe, stupito, che di questo non parla nessuno, mentre i rimpianti, le recriminazioni, le proteste, si sono concentrati, piuttosto, sul vuoto determinato dal venir meno di quelle altre cose (luci, oggetti, cibi…). Se poi qualcuno gli spiegasse che la nascita di quel bambino, in realtà, è stata considerata così importante da far dividere in due il tempo della storia umana - inducendo, ancora oggi, buona parte dell’umanità a distribuire gli avvenimenti di questa storia a seconda che si siano verificati prima o dopo di essa, e datandoli in rapporto all’anno in cui è avvenuta - , il suo stupore sarebbe ancora più grande.
E non avrebbe torto. Perché, in effetti, la percezione, diffusa nell’immaginario collettivo, che questo non è un vero Natale, dimostra che i valori intorno a cui ormai da molto tempo ruota questa festa – forse la più significativa dell’anno, sicuramente la più sentita e amata - non hanno più quasi nulla a che fare col suo significato originario. Nella migliore delle ipotesi, questi valori parlano di una generica bontà – a Natale, si dice, siamo tutti più buoni - , di famiglia, di volti di bambini sorridenti per i doni che ricevono. Babbo Natale ha sostituito Cristo.
Forse sono più vicini alla cultura reale quei Paesi del Nord Europa dove ormai anche la tradizionale denominazione di origine cristiana tende ad essere sostituita con quella di “Festa d’inverno”, recuperando la sua coincidenza con la festa pagana del solstizio d’inverno. Un passaggio che da molti è auspicato anche in nome del rispetto per le minoranze religiose, soprattutto quella islamica. Su questa linea del resto si pone la sempre più frequente sostituzione – anche da noi - del presepe con l’albero di Natale, che neutralizza il riferimento alla nascita di Gesù e quindi – si sottolinea – non offende nessuno.
A dire il vero i primi a sorprendersi di questo “atto di delicatezza” sono i musulmani, perché il Corano, nell’unica sura (capitolo) dedicata a una donna, precisamente a Maria, parla esplicitamente dell’annuncio dell’angelo Gabriele alla Madonna e della nascita verginale di Gesù (anche se come grande profeta e non come Figlio di Dio). Ma forse a non avere più il senso di questi eventi non sono i seguaci dell’Islam, bensì gli eredi, formalmente “cristiani”, di una tradizione in cui non si riconoscono più.
2.La voce del silenzio
Se il Natale come solennità di una religione dei consumi e, se mai, di Babbo Natale, ha soppiantato quello di cui parlano i vangeli, è in fondo perché quest’ultimo non sembra aver più nulla da dire agli uomini e alle donne del nostro tempo. Il massimo che ne trae è un vago sentimento di benevolenza e di pace che rientra nei canoni di un certo “buonismo” di cui anche il sistema neocapitalistico ha bisogno, una volta l’anno, per rendere sopportabile la cinica legge dell’efficienza e del profitto negli altri 364 giorni.
Quest’anno, però, le cose stanno andando diversamente dal solito. Venendo a turbare questo quadro consolante, il covid ha messo spietatamente a nudo la sua dipendenza dalle logiche della società opulenta e ci costringe a cercare, dietro di esso, che cosa rimane del Natale quando le luci restano spente e i regali inutilizzati. Nel vuoto che si è aperto, diventa plausibile chiederci se è proprio vero che nel Natale di Gesù Cristo non ci sia nulla che possa interessarci.
Una prima risposta riguarda proprio il vuoto che stiamo sperimentando e che non riguarda solo il mancato cenone, ma l’interruzione o almeno la rarefazione, a causa della pandemia, del ritmo frenetico di attività e di incontri che riempiva la nostra vita e le dava un senso. Anche quando esso in qualche modo si prolunga attraverso lo smart working, rivelandosi anzi, per certi versi, più invadente di prima, un vuoto rimane. Non è più il flusso della vita reale. Lo schermo ci rende inesorabilmente spettatori.
Si può reagire a questo con la depressione, oppure litigando con chi abita con noi, o in mille altre forme che riguardano la sfera psichica. Ma è possibile anche riscoprire una dimensione alternativa, quella spirituale (che non vuol dire necessariamente religiosa), a cui proprio il Natale ci introduce, se prendiamo sul serio il suo originario messaggio. La soglia per entrarvi è quella del silenzio.
«La liturgia natalizia contiene questi due versetti del libro della Sapienza: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte giungeva a metà del suo rapido corso, l’onnipotente tua Parola si lanciò dal cielo, dal tuo trono regale”. Queste parole parlano del mistero dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio (…). Le forze che non fanno strepito sono quelle che realmente valgono».
Questa riflessione di Romano Guardini sul senso del Natale suona oggi assolutamente inattuale. Essa è una sfida alla mentalità e al costume diffusi nella nostra società, in cui quello che conta non è ascoltare - meno che mai il silenzio! - , ma “farsi sentire” e comunque chiacchierare. Del silenzio abbiamo paura e lo sfuggiamo accuratamente. Anche a questo serve il chiasso delle feste”
Eppure percepiamo tutti che le parole – come già aveva avvertito Martin Heidegger – , nell’uso indiscriminato che ne facciamo, perdono il loro significato. Come i vuoti auguri che in questi giorni ci scambiamo, senza bene sapere perché.
Il silenzio notturno del Natale può, allora, aiutarci a riscoprirne uno dentro di noi, che ci renda capaci di fermarci, per ascoltare le voci della realtà, andando anche solo per un momento al di là del rumoroso groviglio delle nostre rabbie e delle nostre nevrosi.
Non è detto che in questo silenzio nasca per noi Gesù, come una piena immedesimazione nel Natale cristiano richiederebbe. Ma forse possiamo ritrovare, e in un certo senso “nascere”, almeno noi stessi. Non nel buonismo sentimentale, che ci può coinvolgere un giorno l’anno, ma nella verità di uno sguardo onesto sulla nostra vita.
3.Oltre il narcisismo
Può darsi, allora, che un altro frammento del mistero natalizio si riveli significativo ai nostri occhi. Esso parla di un Dio che esce dalla sua beata perfezione per condividere la storia degli uomini, soprattutto dei più poveri ed emarginati. Ne è un segno, già la notte di Natale, il fatto che l’annunzio si astato dato per primo ai pastori, una categoria che, nel mondo ebraico di quel tempo, era guardata con profondo disprezzo e assimilata a quella degli animali. Del resto, anche più tardi, nella sua vita pubblica, Gesù si mescolerà volentieri con la feccia della società di allora – pubblicani, prostitute, malati afflitti dalla patologie peggiori - , senza ombra di imbarazzo, anzi compiacendosi di trovare, anche in mezzo a questi rottami umani, dei discepoli.
Quello che caratterizza la cultura in cui siamo immersi fin dalla nascita e da cui siamo plasmati è un individualismo narcisistico e possessivo che porta a considerarci il centro del mondo, guardando gli altri come semplici comparse, nella grande rappresentazione di cui noi siamo i soli veri protagonisti, e il mondo intorno a noi come qualcosa da possedere e sfruttare a nostro uso e consumo.
Nella sua recente enciclica «Fratelli tutti», papa Francesco ha denunziato il paradosso di un mondo globalizzato, in cui tutti siamo in larga misura omologati dalle mode e dagli stili di vita comuni, ma che non ci ha reso fratelli, anzi esaspera la concorrenza e la tendenza dei più forti ad abbandonare i più deboli al loro destino.
Non c’è bisogno della fede per capire che il messaggio del Natale va nella direzione opposta a quella dominante innanzi tutto dentro di noi e, conseguentemente, nelle dinamiche sociali di cui siamo protagonisti. Si tratta di un tacito appello rivolto non soltanto ai credenti, ma ad ogni essere umano ancora capace di vigilanza (come i pastori nella notte) e perciò in grado di prendere coscienza del problema e di fare delle scelte conseguenti.
Questa società ha bisogno di persone che sappiano uscire da sé stesse e guardare in faccia gli altri come persone La cultura dei diritti ha indubbiamente contribuito a liberare gli individui da mille forme di schiavitù, ma rischia di essere unilateralmente enfatizzata e di far dimenticare i doveri. E, ancora al di là dei doveri, c’è la gratuità del supererogatorio che non è neppure dovuto, ma che si offre all’altro in dono. Come Dio ha fatto facendosi uomo.
4.Imparare ad amarci per amare l’umano che è negli altri
Un terzo frammento del Natale perduto riguarda il valore che l’incarnazione di Dio attribuisce all’umano in quanto tale. Non i suoi valori più sublimi. Quando il vangelo di Giovanni, per raccontare la vicenda della nascita di Gesù, la sintetizza nell’espressione solenne «E il Verbo si fece carne» , usa una parola, “carne”, non intende parlare del corpo. Nel linguaggio biblico “carne” indica l’essere umano nella sua interezza, ma sottolineandone la fragilità, la vulnerabilità, la pericolosa inclinazione al male.
È questo che è accaduto, secondo la tradizione cristiana, a Natale: Dio ha voluto far suo il nostro destino, con le sue luci e le sue ombre e con questo ci ha chiesto di accettarci e amarci per quello che siamo. Non è facile amarsi. Georges Bernanos ha messo in bocca ad un suo personaggio un’affermazione tremendamente vera: «Odiarsi è più facile di quanto non sembri».
Il vero problema per la grande maggioranza delle persone è che hanno un pessimo rapporto con sé stesse. Non accettano i loro limiti, non si perdonano i loro errori, non hanno fiducia nelle loro potenzialità. Per questo hanno anche un rapporto sbagliato con gli altri. Non a caso il vangelo ci chiede, per poter amare loro, di cominciare con l’amare noi stessi: «Ama il prossimo tuo come te stesso».
Ma per amarsi bisogna sapersi amati da qualcuno. Da soli non ce la facciamo. Il Natale ci parla di un Dio che ci ama al punto da voler condividere Lui stesso la nostra umanità e ci chiede di accettare e accogliere l’umano negli altri come Lui lo accetta e lo accoglie in noi, con tutto il carico delle sue miserie.
Sono solo frammenti di una festa “superata”, che però forse intercettano ancora la nostra vita, anche quella di chi ha preferito fare l’albero piuttosto che il presepe. Il cenone di Natale quest’anno non servirà a distrarci da questi problemi con la sua chiassosa, ma forse superficiale, allegria. Naturalmente, ciò non vuol dire che saremo costretti ad affrontarli. Invece di riflettere, potremo sempre optare per la rabbia e la depressione. Ma sarebbe un bel regalo di Natale da fare a noi stessi provare a guardare le cose, per una volta, da un punto di vista diverso.
Natura giuridica del trattenimento del cittadino straniero e principio di legalità: riflessioni a margine di Corte d’Appello di Bari (sentenza 30 novembre 2020, n.2020)
di Daniele Papa
Sommario: 1. Il caso - 2. Nuovi strumenti di partecipazione alla vita pubblica - 3. Esecuzione del trattenimento e rispetto del principio di legalità.
1. Il caso
La sentenza in commento è stata emessa all'esito di un giudizio avviato su iniziativa di due cittadini elettori del Comune e della Provincia di Bari che, esercitando il potere sostitutivo riconosciutogli dalla legge (di cui si dirà nel prosieguo), hanno convenuto le amministrazioni responsabili della gestione del centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Bari “Palese”[1] (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Interno e Prefettura di Bari). Gli attori hanno chiesto al Collegio giudicante di di accertare il carattere detentivo della struttura e la lesione dei diritti fondamentali dei cittadini stranieri ivi trattenuti, in considerazione delle condizioni materiali della struttura non conformi agli standard minimi individuati dalla giurisprudenza con riferimento alle strutture penitenziarie; e di condannare le predette amministrazioni a risarcire il danno loro arrecato, nonché a risarcire il danno arrecato all'immagine e all'identità della comunità metropolitana barese.
La proposizione dell'azione in appello era stata preceduta, in primo grado, da un accertamento tecnico preventivo volto a verificare l'idoneità del centro al suo scopo[2], conclusosi con una perizia che aveva individuato la necessità di una serie di opere di adeguamento della struttura alle linee guida per la progettazione dei CIE, redatte nel 2009 dagli uffici del Ministero dell'Interno.
Il giudizio di primo grado aveva visto soccombere le amministrazioni convenute[3], condannate tuttavia a risarcire esclusivamente il danno arrecato all'immagine e all'identità della comunità metropolitana che, a causa dell'accertata inadeguatezza con cui era stato gestito il CIE, aveva dovuto affrontare seri problemi di ordine pubblico e sicurezza, aveva messo in pericolo lo sviluppo turistico del suo territorio e rischiava di essere accostata, nella vulgata comune, a realtà di segregazione universalmente note.
Diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, la Corte d'Appello di Bari, pur non escludendo che dalla vicenda potesse astrattamente essere derivato anche un danno all'immagine della comunità, ha ritenuto di poter riconoscere esclusivamente un danno alla sua identità.
Confermando il rilievo già attribuito in primo grado ai principi dello statuto della città di Bari, la motivazione sul punto è particolarmente calzante e ogni ulteriore commento non renderebbe con altrettanta efficacia il principio affermato: “Il concetto di identità, sicuramente di ardua individuazione, non sempre gode di buona considerazione, venendo spesso assimilato, anche per colpa di certi suoi sprovveduti propugnatori, a forme di chiusura e ottusità culturale (c.d. logica identitaria); così come l'opposta e altrettanto diffusa retorica della diversità (c.d. logica diversitaria) si risolve spesso nell'apertura a qualcosa di indeterminato e sostanzialmente vuoto, in “apertura all'apertura”. Se però si prova a definire l'identità come senso di essere qualcosa di specifico, quel qualcosa che consente di cambiare rimanendo se stessi, è certo che l'identità della città di Bari, con la sua storia di lunga durata ricordata dal Tribunale, è stata lesa dalla presenza sul suo territorio di un CIE gestito in modo così inaccettabile, così poco umano, e non riportato “a norma” neppure dopo un provvedimento ex art. 700 c.p.c. e la nomina di un commissario”.
In punto di prova delle condizioni materiali del centro di detenzione amministrativa e del trattenimento disposto in danno dei cittadini stranieri, tanto la sentenza di primo che quella di secondo grado, fondano la responsabilità del Ministero dell'Interno[4] sugli esiti delle risultanze tecniche acquisite in sede di accertamento tecnico preventivo, e sui dati ricavabili dalle notizie pubblicate sulla stampa locale e nazionale, qualificate come fatti notori.
Danno che è stato ritenuto ulteriormente aggravato dalla condotta omissiva dell'amministrazione che non ha dato alcun fattivo seguito alle indicazioni del CTU e non ha ottemperato all'ordinanza cautelare emessa in corso di causa ex art. 700 c.p.c., con la quale era stato disposto di eseguire numerose migliorie alla struttura relative: al numero, alle dimensioni e alla manutenzione dei servizi igienici; all'oscuramento delle finestre e alla ventilazione delle stanze alloggio; alle dimensioni dello spazio mensa; al numero di aule per attività lavorative didattiche e ricreative; alla segnaletica antincendio; alla prevenzione dell'usura dei moduli abitativi.
Rimandando alla lettura della pronuncia di primo grado, un cenno merita anche l'iter logico argomentativo seguito, da un lato, per affermare la giurisdizione del giudice ordinario in materia e, dall'altro, per escludere la legittimazione attiva degli attori popolari rispetto alla domanda risarcitoria per le condizioni del trattenimento dei migranti nel centro, riconoscendo, obiter dictum, solamente a questi ultimi la titolarità dell'azione volta al risarcimento dei loro diritti fondamentali[5].
2. Nuovi strumenti di partecipazione alla vita pubblica
Delineata così la vicenda processuale, figlia di un modo nuovo di concepire la partecipazione alla vita pubblica della società civile, ci si propone di offrire alcuni spunti di riflessione su due questioni di notevole rilevanza giuridica: la peculiarità dell’azione processuale e la piena aderenza all'art. 13 della Costituzione del sistema normativo italiano in materia di trattenimento amministrativo e, in particolare, delle sue concrete modalità di attuazione.
Il primo punto di grande interesse è costituito, dunque, proprio dalla forma dell'azione: il giudizio muove da un'iniziativa introdotta ai sensi dell'art. 9, c. 1, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per il quale “ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia”.
Mutuando nuovamente un passaggio motivazionale della decisione della Corte d'Appello di Bari “con l'azione popolare l'ordinamento intende far sì che l'attività degli enti interessati sia il frutto di scelte non soltanto dei rappresentanti eletti ma anche dei singoli elettori che, oltre a deporre periodicamente una scheda in un'urna, intendano perseguire direttamente la realizzazione degli scopi della comunità, secondo i principi di autogoverno e sussidiarietà, e prima ancora di sovranità popolare nelle forme legalmente previste di cui parla l'art. 1 cpv. Cost.”.
La ratio colloca appieno la norma nel trend che ha progressivamente spinto il legislatore a dotare il sistema giuridico italiano di strumenti volti a consentire una partecipazione sempre più attiva e consapevole dei cittadini nella gestione della res publica, favorendo forme diffuse di controllo dell'azione amministrativa.
Nella stessa linea evolutiva, senza alcuna pretesa di esaustività, si possono sicuramente collocare: l'accesso civico previsto dall'art. 5, c. 3, del D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, che consente a chiunque, senza alcuna limitazione soggettiva, di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalla P.A. la cui diffusione non risulti lesiva di altri interessi giuridicamente rilevanti (quali ad es. il rispetto della privacy, la tutela della sicurezza nazionale, etc); la legittimazione attiva riconosciuta ad associazioni ed enti di tutela, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 44 del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e 5 del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, di agire per il contrasto delle discriminazioni collettive determinate, tra gli altri, da motivi di appartenenza etnica o religiosa[6]; la class action pubblica che consente ad un gruppo di utenti o consumatori di agire collettivamente contro pubbliche amministrazioni o concessionari di pubblici servizi per la tutela di loro interessi omogenei.
Anche l'istituzione[7] del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (e delle sue articolazioni territoriali) si colloca idealmente in questo percorso, poiché, quale autorità indipendente, ha mandato di monitorare che le condizioni di privazione della libertà personale, ovunque attuate, rispondano ai parametri e soddisfino le garanzie imposte dalle norme internazionali, comunitarie e nazionali in materia.
In quest’ottica, dunque, l’esercizio dell’azione popolare nella vicenda in esame offre un importante spunto di riflessione, aprendo la possibilità di condurre, nelle sedi opportune, un’approfondita analisi sulla portata dello strumento e sulla concreta possibilità di attuazione dello scopo per il quale è stata introdotta nel nostro ordinamento.
3. Esecuzione del trattenimento e rispetto del principio di legalità
Il riferimento all'autorità garante offre lo spunto per affrontare la seconda questione di notevole interesse giuridico: la rispondenza del trattenimento dei cittadini stranieri nei centri per il rimpatrio ai parametri costituzionali, in particolare rispetto alle concrete modalità di detenzione.
Muovendo dall'evidenza che il trattenimento nei predetti centri è una misura incidente sulla libertà personale, sembrerebbe scontato affermare che questa non possa mai essere attuata in modo da comportare una violazione dell'art. 3 della CEDU (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti).
Questa considerazione, proprio in quanto non così ovvia quanto possa sembrare, riporta al centro del dibattito giuridico non solo la natura della detenzione amministrativa, così definita in quanto non costituisce l’esito di una sanzione penale, ma anche le sue specifiche modalità di attuazione; questione affrontata più volte anche dalla Corte Costituzionale che, già nella sentenza n. 105 del 2001, aveva avuto modo di osservare che “si può forse dubitare se esso sia o meno da includere nelle misure restrittive tipiche espressamente menzionate dall’articolo 13; e tale dubbio può essere in parte alimentato dalla considerazione che il legislatore ha avuto cura di evitare, anche sul piano terminologico, l’identificazione con istituti familiari al diritto penale, assegnando al trattenimento anche finalità di assistenza e prevedendo per esso un regime diverso da quello penitenziario. Tuttavia, se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle “altre restrizioni della libertà personale”, di cui pure si fa menzione nell’articolo 13 della Costituzione. Lo si evince dal comma 7 dell’articolo 14, secondo il quale il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura ove questa venga violata. Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale”.
Se, dunque, la riserva di legge prevista dall'art. 13 della Costituzione riguarda non soltanto i casi, ma anche le modalità con cui la misura restrittiva della libertà personale viene attuata, è di fondamentale importanza precisare che, diversamente dalla detenzione in strutture carcerarie (assoggetta alle regole dell'ordinamento penitenziario e al controllo della magistratura di sorveglianza), le modalità con cui deve essere concretamente attuata la detenzione amministrativa non sono predeterminate e regolamentate da alcuna fonte legislativa di rango primario; in tal senso, è significativo che il CTU nominato dal Presidente del Tribunale di Bari in sede di accertamento tecnico preventivo abbia concluso la propria indagine suggerendo “interventi di adeguamento alle linee guida per la progettazione dei CIE, redatte nel 2009 dagli uffici del Ministero dell'Interno”.
Le criticità legate alle concrete modalità di detenzione amministrativa (in particolare nel CIE di Bari) risultano, ancora una volta, da un passaggio motivazionale della sentenza in commento: “può quindi concludersi che il CIE fu a lungo gestito senza che vi fosse alcun serio sforzo di affrontare in modo adeguato il problema dell'assistenza e della dignità dei trattenuti, e che la situazione non mutò neppure in corso di causa. Prima dell'iniziativa degli attori popolari, in particolare, l'unico mezzo di interlocuzione con l'autorità a disposizione degli stranieri era dato da forme di protesta a rischio o di violenza o di autolesionismo, non certo riconducibili a “insofferenza al regime di controllo e al desiderio di scappare dal Centro” come si esprime a pag. 22 l'appello: al di là delle numerose rivolte con danni alle cose, i 59 scioperi della fame del solo 2012 costituiscono un dato autoevidente e non minimizzabile”.
Ebbene, è pacifico che le linee guida redatte dagli uffici di un ministero siano prive di valore normativo ed è altrettanto pacifico che nessun organo giudiziale sia chiamato a sovraintendere sulle condizioni materiali del trattenimento attuato nei centri di detenzione amministrativa: l'intervento della magistratura è, infatti, limitato soltanto alla convalida della misura e delle sue successive proroghe, di talchè le medesime condizioni parrebbero sprovviste delle garanzie che la nostra Costituzione impone in tutti i casi di privazione della libertà personale.
Peraltro, l'assunto teorico, riproposto dalla difesa delle amministrazioni convenute, per cui il trattenimento del cittadino straniero non sarebbe propriamente una misura limitativa della sua libertà personale, ma soltanto della sua libertà di circolazione e di soggiorno, necessaria per consentire alle autorità di pubblica sicurezza la corretta esecuzione del provvedimento con cui ne è stato disposto l'allontanamento dal territorio, già fragile ab origine, risulta ulteriormente indebolito dall'evoluzione dell'istituto: la rimozione terminologica di qualsiasi funzione di assistenza originariamente attribuita (almeno letteralmente) ai centri di detenzione amministrativa; l’ondivaga (e strumentale) dilatazione e compressione dei limiti temporali del trattenimento, esteso, con numerosi interventi legislativi, dagli originari 30 giorni a 180 giorni ed ancora agli attuali 90 giorni[8]; l'introduzione del reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” di cui all'art. 10 – bis del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286; la possibilità di trattenere a fini identificativi anche i richiedenti asilo, costituiscono, a parere di chi scrive, solo alcuni degli indici della natura sanzionatoria del trattenimento del cittadino straniero, “reo” di avere violato le norme che regolano il suo ingresso e il suo soggiorno in Italia.
Nella decisione in commento la questione sulla natura giuridica della detenzione amministrativa viene superata perché giudicata non rilevante ai fini della decisione; purtuttavia, un passaggio motivazionale risulta, anche in questo caso, particolarmente significativo: “I Centri, per riprendere la fortunata espressione dell'antropologo francese Marc Augé, possono ben definirsi dei non-luoghi, dove persone che non sono accusate né tanto meno condannate per un reato rischiano di attendere per un tempo non predeterminabile un'identificazione o altri evanescenti contingenze, senza esercitare nelle more le specifiche attività ricreative, lavorative o di studio, previste e spesso attuate per gli ospiti dei luoghi carcerari”.
La questione è di centrale importanza, anche per la rilevanza che ha assunto la gestione delle migrazioni nel dibattito politico contemporaneo, ed è certamente auspicabile un intervento della Corte Costituzionale che chiarisca se la riserva di legge, prevista con riferimento alle concrete modalità di privazione della libertà personale, possa considerarsi pienamente rispettata dall'attuale impianto normativo in materia di detenzione amministrativa.
[1]Le strutture ove viene eseguito il trattenimento dei cittadini stranieri hanno negli anni cambiato denominazione più volte: inizialmente denominati “centri di permanenza temporanea (CPT)”, oggi, ai sensi dell’art. 19, c. 1, del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, hanno assunto la denominazione di “centri di permanenza per il rimpatrio (CPR)”.
[2]Nell'ordinanza ammissiva dell'ATP, il Presidente del Tribunale di Bari evidenziava che “i CIE sono da considerarsi idonei se le strutture, l'organizzazione-gestione della permanenza degli stranieri, l'indice di occupazione siano tali da assicurare a coloro che vi sono trattenuti necessaria assistenza e rispetto pieno della loro dignità”.
[3]https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/08/sentenza-CIE.pdf
[4]In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di Appello ha escluso la legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri ritenendo che vi è una competenza esclusiva del Ministro dell'Interno in materia d'immigrazione.
[5]Su entrambi i punti la Corte d'Appello di Bari si limita a constatare la formazione del giudicato interno e non svolge, pertanto, alcun ulteriore sindacato.
[6]Con una recente decisione (sentenza n. 28745/2019) la Corte di Cassazione ha riconosciuto la legittimazione ad agire ad associazioni ed enti di tutela anche nei casi in cui il comportamento discriminatorio della P.A. sia determinato da ragione fondate sulla nazionalità dei soggetti.
[7] L’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale risale alla fine del 2013, ma la nomina del Collegio e la costituzione dell’Ufficio, che hanno consentito l’effettiva operatività solo nei primi mesi del 2016.
[8]Il D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 173, ha nuovamente ridotto i termini di trattenimento amministrativo dai 180 giorni, di cui al DL 113/2018, a 90 giorni (v. art. 3)
“Il nuovo che avanza…”: confronto tra opposti orizzonti legislativi in tema di c.d. “piccolo spaccio” (art. 73 comma V d.p.r. n. 309 del 1990)
di Nicola Russo
Il presente articolo riproduce le osservazioni presentate alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati nel corso dell’audizione conoscitiva del 2.12.2020 sulle proposte di legge n. 2160 (primo firmatario on. Molinari) e n. 2307 (primo firmatario on. Magi) d’iniziativa parlamentare aventi ad oggetto le “Modifiche all’articolo 380 del codice di procedura penale e all’articolo 73 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, in materia di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope nei casi di lieve entità”
Sommario: 1. Breve premessa - 2. Osservazioni generali sulle proposte di legge - 2.1. La proposta di legge n. 2160 (Molinari) - 2.2. La proposta di legge n. 2307 (Magi) - 3. Tertium datur…un intervento su ciò che serve…
1. Breve premessa
L’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 9 ottobre 1990 è stato oggetto nel tempo di plurimi interventi da parte del Legislatore che, in attuazione di mutevoli intendimenti di politica criminale, ne ha interpolato il testo con novelle rivolte ad operare fondamentalmente lungo due direttrici fondamentali: la distinzione tra le cd. “droghe pesanti” e le cd. “droghe leggere” (cioè, quelle inserite nelle tabelle I e III e, rispettivamente, II e IV dell’art. 14) ed il trattamento sanzionatorio. Su queste modifiche si è pronunciata in più occasioni la Corte Costituzionale elidendo le innovazioni introdotte dal Legislatore.
Una prima profonda modifica all’art. 73 è stata apportata dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49. Con tale intervento il Legislatore ha inteso unificare la risposta punitiva dello Stato contro le condotte illecite concernenti tutte le sostanze stupefacenti senza le distinzioni previgenti su base tipologica che erano giustificate dal diverso grado di pericolosità per la salute. Se da un lato, è stata fortemente aggravata la pena massima per effetto dell’eliminazione della distinzione tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, dall’altro è stata ridotta la pena minima fissata nel comma 1 dell’art. 73 (passata da otto a sei anni di reclusione), ed stata conformemente prevista un’unica sanzione anche per la fattispecie attenuata del comma V dell’art. 73 (minimo pena 2 anni; massimo della pena 6 anni).
Una successiva modifica è stata realizzata con la legge 15 marzo 2010, n. 38 e con il d.lgs. 24 marzo 2011, n. 50 ma non ha riguardato profili di cui all’odierno interesse.
Un ulteriore intervento è stato operato con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n. 10 con cui, tra l’altro, è stata ridotta ad anni cinque di reclusione la sanzione massima prevista per le condotte di cui al comma 5 dell’art. 73, prima fissata in sei anni di reclusione.
Dopo l’intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 32 del 25.2.2014 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale delle modifiche introdotte all’art. 73 dagli artt. 4bis e 4vicies ter del D.L. n. 272 del 2005, si è ripristinata per reviviscenza la distinzione sanzionatoria tra condotte di reato concernenti le “droghe pesanti” e quelle riguardanti le “droghe leggere” esistente prima dell’intervento del 2005.
L’intervento della Consulta ha riguardato solo le ipotesi di reato di non lieve entità (e, quindi, ha lasciato immutata la previsione unitaria del comma 5 dell’art. 73 D.P.R. n. 309/90 che non era stata oggetto della questione di costituzionalità).
Con il decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, è stata modificata la disposizione del comma 5 dell’art. 73. La novella non ha recuperato la distinzione tra tipologie di sostanze droganti, bensì si è limitata a prevedere un restringimento della forbice sanzionatoria, che ora è oscillante da un minimo di sei mesi di reclusione ad un massimo di quattro anni di reclusione.
Da ultimo, la Corte Costituzionale – con la sentenza n. 40 dell’8.3.2019 – è di nuovo intervenuta sulla disposizione del primo comma dell’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990. L’effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è stato la reintroduzione della pena detentiva minima di sei anni di reclusione in luogo di quella di otto anni di reclusione.
In questa breve disamina diacronica delle modifiche che hanno interessato l’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 si è consapevolmente omesso il richiamo alle variazioni succedutesi nel tempo sulla componente pecuniaria della pena perché si tratta di un aspetto decisamente secondario della questione che attualmente ci occupa.
Alla luce di queste operazioni di “chirurgia costituzionale” operate dalla Consulta, la prima osservazione da fare è sicuramente quella dell’opportunità di riscrittura dell’intero testo dell’art. 73 D.P.R. n. 309/90, depurato dalle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime e, dunque, nella sua versione attualmente applicabile. La segnalazione potrebbe apparire legata ad esigenze di puro carattere formale, quasi “estetico”. Al contrario, un aggiornamento del testo vigente dell’art. 73 D.P.R. 309/90 aiuterebbe non poco ad evitare errori nell’individuazione ed applicazione del corretto trattamento sanzionatorio. Un esempio della facilità d’incorrere in errori di questo tipo è offerto proprio dalla proposta C. 2160 che, qui di seguito, passerò a commentare.
2. Osservazioni generali sulle proposte di legge
Le due proposte di legge rappresentano, in maniera opposta ed estrema, le attuali visioni di politica criminale in materia di reati concernenti gli stupefacenti. Entrambe risentono -per quanto mi è dato percepire dalla lettura delle rispettive relazioni- dell’ispirazione degli orientamenti che si contrappongono sul tema della liberalizzazione del commercio di alcune sostanze stupefacenti.
Quest’ascendente ideologico finisce, in alcuni casi, per condizionare il contenuto delle proposte di legge sulla differente tematica della punizione delle condotte illecite, conducendo a risultati “fuori fuoco” rispetto a questo campo specifico d’intervento.
Nel presente scritto si rappresenteranno esclusivamente valutazioni di carattere strettamente giuridico-applicativo, evitando qualsivoglia presa di posizione sui profili “socio-politici” connessi alla materia.
La prima proposta (C. 2160), come si legge nella relazione esplicativa, assume quale proprio fine quello di «porre un freno al dilagare di tali reati prevedendo, da un lato, che sia possibile procedere all’arresto in flagranza e, da un altro lato, che siano aumentate le pene edittali e non sia previsto un trattamento di favore qualora i reati in oggetto siano commessi da una persona tossicodipendente, intervenendo, quindi, seppure in maniera indiretta, anche sull’applicazione delle misure cautelari personali».
La seconda proposta (C. 2307), prende come referente gli interventi mitigatori della Corte Costituzionale e, segnalando l’incidenza sui numeri della popolazione penitenziaria delle detenzioni connesse alle condotte sanzionate dall’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990, promuove una riduzione complessiva delle pene «riportando il trattamento sanzionatorio in materia in un alveo di proporzionalità dell’offesa, più in linea con i princìpi costituzionali». Nella parte finale della relazione i proponenti attribuiscono la paternità dell’intervento «all’intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis costituito anche nella corrente legislatura per promuovere una riforma radicale della normativa sulle sostanze stupefacenti».
Date le premesse ed esposti gli obiettivi, entrambe le proposte presentano, alcune significative criticità, che in prosieguo si passa a segnalare
2.1. La proposta di legge n. 2160 (Molinari)
La presente proposta, con riferimento all’ipotesi delle condotte di “lieve entità” di cui all’art. 73 comma V, prevede l’innalzamento della pena della reclusione, attualmente stabilita «da sei mesi a quattro anni», a quella «da tre a sei anni», senza distinzione -come nell’attuale versione- tra condotte afferenti alle “droghe leggere” e quelle concernenti le “droghe pesanti”.
Tal previsione si presta a sicure censure d’illegittimità costituzionale per irragionevolezza della norma rispetto ai parametri dell’art. 3 (parità di trattamento) e 27 comma 3 (proporzionalità della sanzione) Cost., dal momento che sembra non tenere conto della dichiarazione d’illegittimità costituzionale compiuta dalla sentenza n. 32 del 2014, per effetto della quale le condotte di reato non lievi concernenti le droghe leggere, sono ora sanzionate con una pena oscillante da un minimo di due ad un massimo di sei anni di reclusione.
Dunque, ove mai la modifica della norma indicata venisse approvata senza ulteriori adattamenti della complessiva previsione dell’art. 73, si giungerebbe al paradosso di vedere punite più gravemente le condotte lievi afferenti ad entrambe le categorie di stupefacenti di quelle non lievi riguardanti le cd. droghe leggere. Infatti, comparando le due previsioni sanzionatorie, per le condotte di cui al comma V si avrebbe un minimo di pena più elevato (tre anni) di quello previsto dal comma IV (due anni) per il traffico di droghe leggere ed un tetto massimo di pena equivalente.
Per esemplificare più chiaramente, alla stregua della disciplina in commento, un soggetto trovato in possesso di tre dosi di marijuana destinate alla cessione verrebbe punito più severamente di uno che sia trovato in possesso di trenta dosi della medesima sostanza.
Quanto all’eventuale scelta generale d’innalzamento delle sanzioni stabilite nei precedenti commi di cui all’art. 73, appare opportuno ricordare quanto segnalato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 40 del 2019, quando ha ricordato che «allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa» per cui si esige di «contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale…. in vista del progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa della pena... Al raggiungimento di tale impegnativo obiettivo posto dai principi costituzionali è di ostacolo l’espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere».
Nessuna particolare osservazione di critica giuridica può muoversi alle modifiche degli artt. 380 del codice di procedura penale (che prevederebbe così l’arresto obbligatorio anche nei casi di piccolo spaccio) e 73 comma 5bis del D.P.R. n. 309 del 1990. Va, tuttavia, segnalato che l’abrogazione del comma 5bis comporterebbe l’inapplicabilità anche del comma 5ter, che richiama il procedimento descritto dal comma che lo precede anche in relazione ai reati di matrice differente commessi da soggetto tossicodipendente.
2.2. La proposta di legge n. 2307 (Magi)
La presente proposta muove i suoi passi dalla modifica “topografica” della disciplina delle fattispecie delittuose di minore gravità (attualmente inserite nel comma V dell’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990), attraverso l’introduzione di una disposizione autonoma, l’art. 73-bis., rubricato “Produzione, acquisto e cessione illeciti di lieve entità di sostanze stupefacenti o psicotrope”
In premessa si osserva che sarebbe preferibile mantenere, anche per la disposizione in parola, la medesima rubrica dell’art. 73, sia pur “specializzata” nel riferimento alla condotte di lieve entità. Infatti, il richiamo generico che la rubrica dell’art. 73 fa alle varie condotte in esso elencate, attraverso l’espressione “traffico” meglio si presta a ricomprenderle tutte. Invece, la rubrica dell’art. 73-bis sembrerebbe richiamarne solo alcune, laddove la disposizione, invece, continua a rinviare a tutte le condotte previste dall’art. 73.
Deve ritenersi che la scelta di una norma autonoma risponda all’esigenza di segnalare, con ulteriore evidenza, che la fattispecie in parola costituisce non una circostanza attenuante ma un distinto reato.
Una prima notazione consiste nella rilevata espunzione, dal catalogo dei connotati caratterizzanti la “lieve entità”, del requisito della «qualità della sostanza». Salvo che non si tratti di un mero refuso, non si comprende l’utilità di una siffatta esclusione. Questo parametro, secondo la giurisprudenza costante, non riguardava, infatti, il distinguo tra “droghe leggere” e “droghe pesanti”, bensì considerava l’efficacia drogante della sostanza (a prescindere dalla tipologia) e, quindi, ad esempio, la concentrazione di principio attivo nelle singole dosi di stupefacente.
Tanto premesso, la vera novità consiste nel recupero, anche per le condotte illecite caratterizzate da minore gravità, della disciplina sanzionatoria differenziata a seconda che si tratti di “droghe pesanti” o “droghe leggere”.
Infatti, nel primo caso si propone che le condotte di lieve entità siano punite con la reclusione da tre mesi a due anni. Nel secondo caso, la reclusione sarebbe addirittura ridotta entro una forbice da un mese ad un anno di reclusione.
La riduzione delle sanzioni in maniera così significativa, fin quasi a rendere impalpabili quelle riferite alle cd “droghe leggere”, si espone però al rischio di far perdere del tutto alla disposizione penale la sua funzione general-preventiva e special-preventiva e di amplificare la tendenza a comportamenti recidivanti.
Anche in tal caso, per esemplificare, lo spaccio di poche dosi di marijuana sarebbe sanzionato al massimo come i furti a querela previsti dall’art. 626 c.p. (per uso momentaneo della cosa, per stato di bisogno, per spigolatura e raspollatura ecc., reati di cui si è persa la traccia nelle aule di giustizia).
Peraltro, va considerato che ben raramente sarebbe applicato il massimo della pena edittale (due anni per lo spaccio di “droghe pesanti” ed un anno per lo spaccio di “droghe leggere”), dovendosi indirizzare molto più spesso il trattamento sanzionatorio, in mancanza di indici riconoscibili di maggiore gravità della specifica condotta, verso i minimi edittali (dunque, tre mesi e, rispettivamente, un mese di reclusione). La perdita di qualsiasi effetto deterrente verrebbe ancor più marcata dal frequente ricorso ai riti alternativi premiali (abbreviato e “patteggiamento”).
Considerando, poi, che le finalità dichiarate dai proponenti sono quelle di favorire un percorso normativo verso “la legalizzazione della cannabis” e di promuovere “una riforma radicale della normativa sulle sostanze stupefacenti”, va evidenziato che la disposizione di cui ci stiamo occupando non riguarda affatto la detenzione ad uso personale di sostanze stupefacenti (che, come è noto, si pone all’esterno del perimetro della rilevanza penale), bensì concerne condotte di detenzione a fini illeciti, che tali rimarrebbero e dovrebbero necessariamente rimanere anche laddove si attuasse la scelta di depenalizzare e, conseguentemente, consentire (in maniera autorizzata e controllata) il commercio delle droghe leggere.
È, infatti, alquanto illusorio ritenere che la depenalizzazione della vendita di cannabis possa eliminare del tutto (almeno nel medio periodo) l’esistenza di un parallelo mercato illegale rivolto a tutta quell’ampia sfera di possibili clienti (pensiamo soprattutto ai minorenni) cui molto auspicabilmente sarebbe inibito l’acquisto di cannabis dai circuiti autorizzati.
Infine, proprio la forte riduzione del trattamento sanzionatorio previsto per il cd. “piccolo spaccio”, inciderebbe anche sulla percezione del suo disvalore da parte dell’acquirente (attuale o potenziale) e ciò lo renderebbe meno preoccupato nel far riferimento a quel tipo di mercato per l’acquisto dello stupefacente (così come attualmente avviene, ad esempio, per l’acquisto di tabacchi di contrabbando).
Lascia perplessi, infine, la scelta -operata con la proposta di legge in commento- di escludere la condotta di coltivazione domestica di cannabis anche dalle sanzioni amministrative di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990. Innanzitutto, perché questa soluzione rende assolutamente lecito un antecedente qualificato di detenzione per uso personale, differenziandole dalle altre forme di detenzione sostanzialmente omologhe che, invece, restano soggette alle sanzioni amministrative dell’art. 75.
Per questo motivo, così costruita, sembra quasi una norma il cui effetto è quello di favorire anche il consumo domestico della cannabis, dal momento che se il soggetto che l’ha coltivata decidesse di detenerla fuori dal domicilio sarebbe soggetto alle sanzioni amministrative previste dall’art. 75, mentre la sua condotta resterebbe assolutamente lecita finché il consumo avvenisse in maniera immediata e non controllabile tra le mura domestiche. Diversamente opinando, da essa discenderebbero questioni interpretative, dal momento che dovrebbe risolversi la questione della rilevanza -sempre ai fini delle sanzioni di cui all’art. 75- della detenzione per uso personale in casa della cannabis una volta estratta dalla pianta coltivata tra le mura domestiche e ormai separata dalla stessa.
Se l’esclusione dalle sanzioni amministrative riguardasse solo la fase della coltivazione domestica delle piante, la liceità non coprirebbe di per sé anche la detenzione del prodotto e questo secondo comportamento non sarebbe sottratto all’intervento sanzionatorio sia pur di tipo amministrativo. Se, al contrario, si ritenesse che la previsione in parola faccia da “ombrello protettivo” anche alla successiva detenzione della cannabis estratta dalla propria coltivazione, occorre essere consapevoli del fatto che l’assenza di qualsiasi tipo di sanzione si presterebbe anche a fornire un facile escamotage per tutte le condotte di “piccolo spaccio” che venissero realizzate tra le mura domestiche, rese più agevoli dalla possibilità di usare il paravento di un’apparente e lecita coltivazione di cannabis e di detenzione della sostanza estratta.
3. Tertium datur…un intervento su ciò che serve…
La vera problematica applicativa quotidiana della disciplina dell’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 concerne l’ampiezza dello spazio interpretativo della nozione di “lieve entità” attualmente descritta dal comma V del più volte menzionato art. 73.
La disposizione vigente áncora questa nozione a parametri sicuramente utili e corretti (“i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione, la qualità e la quantità delle sostanze”) che, tuttavia, si prestano spesso a considerazioni fortemente disomogenee a seconda del contesto territoriale, dell’esperienza professionale e financo della sensibilità sul tema del singolo magistrato giudicante.
Una medesima condotta illecita si trova così ad essere diversamente giudicata, con evidenti ricadute sul piano dell’equivalenza di trattamento sanzionatorio e di risposta punitiva dello Stato.
Apparirebbe più opportuno, a questo punto, fornire un parametro valutativo ulteriore, di tipo schiettamente numerico-ponderale, che consentisse ai giudici di pervenire a decisioni più omogenee.
Al riguardo, si fa presente che la giurisprudenza della Cassazione, per l’opposta ipotesi delle condotte di reato di cui all’art. 73 aventi ad oggetto “ingenti quantità” di sostanze stupefacenti (sanzionate dall’art. 80 comma 2 del D.P.R. n.309 del 1990), già ha avvertito l’esigenza di supplire alla mancanza di indicazione normativa di un tale parametro, fornendo ai giudici di merito un indirizzo orientativo del tipo suggerito.
Infatti, con la sentenza n. 36258 del 24 maggio 2012, le Sezioni Unite della Cassazione hanno statuito che la circostanza aggravante dell’ingente quantità «non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2.000 volte il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionalità del giudice di merito, quando tale quantità sia superata».
Anche dopo l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014, la Cassazione ha più volte ribadito che «per effetto dell'espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, ai sensi del comma 1 bis, dell'art. 75, d.p.r. n. 309/90, come modificato dalla legge 16 maggio 2014, n. 36, mantengono validità i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile, al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui all'art. 80, comma 2, d.p.r. n. 309/90» (Cassazione penale sez. IV, 15 novembre 2017, n. 55014).
Analogamente, potrebbe allora introdursi, accanto a quelli già indicati dall’art. 73 comma V, un parametro che si limiti a specificare quelli già esistenti della “qualità e quantità” attraverso i medesimi richiami contenuti nell’art. 75 comma 1bis lett. a) del D.P.R. n. 309 del 1990 (cioè riferendosi alle dosi medie singole detenibili, differenziate per tipologia di sostanza).
La concorrenza di questo referente con gli altri riguardanti “i mezzi e le modalità e le circostanze di realizzazione della condotta”, affidati alla prudente valutazione del giudice, consentirebbe, poi, di distinguere comunque le ipotesi di detenzione illecita da quelle di possesso finalizzato a consumo personale.
La convergenza di tutti questi parametri permetterebbe, infine, di pervenire ad una decisione giudiziaria puntuale anche nei casi, che si presentano di sovente nei processi per direttissima, in cui non sia disponibile un accertamento quali-quantitativo sulla sostanza stupefacente sequestrata ma si disponga esclusivamente del narcotest.
Consenso informato, legge n. 219 del 2017 e sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 nella prospettiva del giudice civile*
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. Il principio di autodeterminazione e i principi ispiratori della legge n. 219 del 2017 - 2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 - 3. Alcuni spunti critici - 4. Conclusioni.
1. Il principio di autodeterminazione e i principi ispiratori della legge n. 219 del 2017
Per intendere pienamente la portata della sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 non può non prendersi le mosse, sia pure per brevi cenni, dalla legge n. 219 del 2017 e dai principi cui essa si ispira.
Detto testo normativo, che nelle sue scelte di fondo si allinea alle opzioni degli Stati di orientamento liberale, nel richiamare in apertura gli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e gli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ha chiaramente inteso porre a solido fondamento delle scelte adottate quel complesso di principi e diritti della persona che permeano sia il nostro sistema costituzionale sia l’ ordinamento sovranazionale, in una prospettiva di piena integrazione tra garanzie di fonte diversa, tutte riconducibili all’ essenza della persona. In particolare il riferimento all’ art. 2 Cost. indica che la materia trattata attiene ai diritti fondamentali e inviolabili, che vengono espressamente identificati in quelli alla vita, alla salute, alla dignità e all’ autodeterminazione.
Il primo comma dell’art. 1 fissa il principio del consenso libero e informato, che unicamente legittima ogni trattamento sanitario e che comporta la facoltà per il paziente di rifiutare o di interrompere in ogni momento tutte le cure cui è sottoposto, esprimendo una volontà che il medico non può ignorare. E’ dunque ribadita la centralità del consenso, quale massima proiezione in campo medico del principio di autodeterminazione e quale diritto fondamentale della persona, secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 438 del 2008 e dalla Corte di Cassazione con la sentenza Englaro n. 21748 del 2007. Sotto questo profilo la legge n. 219 del 2017 non può certo considerarsi innovativa, dispiegandosi la sua trama normativa come naturale sviluppo di dette pronunzie.
Il consenso non implica il riconoscimento del diritto di morire, ma include il diritto di rifiutare tutte le cure, non solo quando non vi è più speranza di guarigione, ma anche se le condizioni del mantenimento in vita sono divenute intollerabili nella percezione del malato, atteso che la salute non è un bene che può essere imposto al soggetto interessato. E’ peraltro evidente che il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari lasciando che la natura segua il suo corso è cosa diversa da un presunto diritto al suicidio: lasciar morire accompagnando la persona nel suo fine vita vuol dire soltanto attuare una sorta di desistenza da interventi terapeutici in atto, liberando il malato da trattamenti non voluti.
Ciò vale a dire che l’ art. 32 Cost., prevedendo il diritto al rifiuto delle cure in via assoluta, anche a costo della morte, eleva la libertà personale del singolo al di sopra del valore della sua vita. Ciò vale anche a dire che il principio di autodeterminazione in ordine ai trattamenti sanitari va riferito non tanto al diritto alle cure, ma alla tutela dell’identità personale, per tale via sostituendosi all’ idea di salute in senso medico una diversa idea di salute in senso soggettivo, che valorizza la dimensione identitaria del benessere fisico, psichico e sociale percepito.
La scelta del malato è insindacabile, siccome espressione del suo personalissimo bilanciamento tra i possibili esiti del trattamento, i sacrifici necessari, la qualità e dignità dell’esistenza che da tale trattamento potrà conseguire. L’ obbligo del medico di rispettare tale scelta, alla quale - come ricordato - resta subordinata la legittimità dell’intervento terapeutico, esclude qualsiasi apertura a forme di obiezione di coscienza, salva la specifica ipotesi di cui al comma 6 dell’art.1, concernente la richiesta da parte del malato di trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, a fronte della quale il medico non ha obblighi professionali.
Come sin dall’ inizio previsto da alcuni commentatori, la legge n. 219 del 2017 non ha costituito un punto di arrivo, ma una base di partenza verso ulteriori sviluppi, sollecitati da nuove istanze di tutela di soggetti che reclamavano il diritto di disporre della propria vita con scelte radicali, sulla spinta del movimento necessario delle cose evocato da Montesquieu.
2. La sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale
L’ ordinanza n. 207 del 2018 e successivamente la sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale si allineano alle acquisizioni della legge n. 219 del 2017, ma compiono un passo ulteriore nel riconoscimento della dignità della persona e nel rispetto della sua autodeterminazione anche nei momenti finali dell’esistenza.
Nella prospettiva considerata la morte non si configura più come un destino, ma come un evento che può essere gestito e reso compatibile, nelle modalità del suo compimento ed entro certi limiti anche nei tempi, con le concezioni personali del malato. Il punto di analisi si sposta dall’ autodeterminazione del singolo in materia sanitaria e dal rifiuto delle cure alla configurazione di nuovi spazi di liceità di condotte di agevolazione al suicidio.
Come è noto e come era facile prevedere, il Parlamento ha ritenuto di non avvalersi dello spazio temporale previsto per il suo intervento dal giudice delle leggi nell’ ordinanza interlocutoria n. 207 del 2018, così che all’ udienza già fissata del 24 settembre 2019 la Corte Costituzionale, registrato il silenzio del legislatore, ha emesso la sentenza n. 242, con la quale, riprendendo ampiamente i passaggi argomentativi dell’ordinanza e completandone il disegno, ha dichiarato l’ incostituzionalità dell’ art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017 n. 219, ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza, con modalità equivalenti, agevola l’ esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona (1) affetta da una patologia irreversibile, (2) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa assolutamente intollerabili, (3) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, (4) ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente
Come osserva la stessa Corte Costituzionale, si trattava e si tratta di condizioni cliniche neppure immaginabili al tempo in cui la norma penale fu introdotta, rese possibili dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, in presenza delle quali l’assistenza di terzi si prospetta per il malato come l’unica via di uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, ad un mantenimento artificiale in vita non più tollerabile, in quanto la decisione di liberarsi di un corpo divenuto prigione e di porre termine ai tormenti che esso infligge ha bisogno per essere attuata della vicinanza e dell’ aiuto materiale degli altri.
La rigorosa perimetrazione dell’ambito di legittimità della richiesta di aiuto al suicidio rende evidente che esso non può essere invocato dai soggetti minori di età, anche se in grado di autodeterminarsi.
Altrettanto evidente è l’impossibilità di inserire detta richiesta nelle DAT, che come è noto costituiscono lo strumento con il quale un soggetto capace esprime per quando non sarà in grado di farlo la propria volontà in ordine ai trattamenti sanitari da praticare o non praticare sulla sua persona.
La Corte delle leggi, considerato come punto acquisito che nel sistema normativo italiano ed in quello convenzionale il diritto di vivere non si converte nella banalità del suo contrario, il diritto di morire, già escluso dalla sentenza Englaro n. 21748 del 2007 nonché, tra le altre, dalla decisione della Corte di Strasburgo 29 aprile 2002 nel caso Pretty c. Regno Unito ed erroneamente ravvisato dal giudice remittente, tiene ferma la validità del precetto penale in presenza di condotte agevolative che spianino la strada a scelte suicide: rileva infatti la Consulta che l’incriminazione, oltre che dell’istigazione, dell’aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più fragili ed influenzabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da scelte estreme ed irreversibili con il precetto di cui all’ art. 580 c.p., in questo caso innescandosi una relatio ad alteros di fronte alla quale emerge, nella sua pienezza, l’esigenza di rispetto del bene della vita. Nella prospettiva assunta l’art. 580 c.p. difende la genuinità della volontà dell’individuo nel porre termine alla vita e realizza al tempo stesso una barriera contro indebite intromissioni di soggetti terzi.
In siffatto quadro di riferimento la Corte Costituzionale affronta la specificità delle situazioni di estrema sofferenza chirurgicamente ritagliate nei termini sopra precisati, osservando che entro il particolare ambito considerato il divieto assoluto di aiuto finisce per limitare la libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie e si risolve nell’ imposizione di un’unica modalità di porre fine alla propria esistenza, quella di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi - pur non invocati dal giudice remittente - di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive (così il par. 9 del considerato in diritto dell’ ordinanza. In senso analogo il punto 2.3 del considerato in diritto della sentenza).
Nel far riferimento al principio della dignità umana la Corte intende chiaramente assumere una accezione soggettiva del concetto di dignità, in tal modo configurando non già - come sopra osservato - un diritto a morire, ma un più limitato diritto del malato ormai esausto al rispetto della propria personale concezione della dignità e della scelta di liberarsi delle sofferenze accelerando la propria fine.
Nella valutazione della Corte e nello spirito di un’etica consequenzialista la rinuncia ai trattamenti di sostegno vitale, lasciando che la malattia segua il suo corso, ed il suicidio assistito, procurandosi direttamente la morte, si pongono quindi come sostanzialmente equivalenti, in quanto entrambi accelerano la fine della vita del malato. In questa prospettiva diventa centrale non il fatto in sé del morire, ma il tempo del morire[1], in quanto nella percezione del malato non vi è più alternativa alla fine della vita.
Come appare evidente, l’aiuto materiale prestato dal terzo non rende superfluo o ininfluente l’atto finale e definitivo, che deve essere comunque posto in essere dal malato: in caso diverso si realizzerebbe l’ipotesi di omicidio del consenziente sanzionata dall’ art. 579 c.p.
La Corte traccia una sorta di identikit del soggetto che può ricorrere all’ aiuto terminale, collocandolo nel punto di intersezione degli spazi di operatività del rifiuto di cure e dell’interesse a una morte dignitosa e senza sofferenza[2].
Nel relativo percorso argomentativo la Corte supera i profili strettamente penalistici della questione: prendendo le mosse dal diritto - ora sancito dalla legge n. 219 del 2017, ma già presente nell’ ordinamento - di ogni persona capace di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, essa rafforza e dà ulteriore spazio al principio di autodeterminazione individuale, riconoscendo la massima tutela alla dignità umana, intesa come dignità anche nella morte.
Qui sta la maggiore apertura rispetto alle scelte compiute dal legislatore con la legge n. 219 del 2017, nella acquisita consapevolezza che nessuna autorità può ergersi a giudice della quantità e qualità delle sofferenze che un soggetto malato ed inguaribile può essere disposto a tollerare.
Ne deriva che non è ravvisabile tra i doveri del medico la difesa del paziente da se stesso, a fronte della fondamentale esigenza di tutela del medesimo da ulteriori sofferenze terminali non più tollerabili e non corrispondenti alla sua idea di dignità.
Ne deriva altresì che il rapporto tra medico e paziente, analiticamente descritto e fortemente valorizzato nella legge n. 219 del 2017, appare qui in certa misura ridimensionato, non offrendosi al sanitario alternativa diversa dall’ opporre obiezione di coscienza, una volta preso atto della sua volontà definitiva, maturata liberamente dopo che gli siano state prospettate le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative e dopo che si sia dato conto di tale interlocuzione nella cartella clinica, secondo le indicazioni di cui all’ art. 1 comma 5 della legge n. 219.
Qui ancora si palesa l’abissale distanza dall’ approccio del codice penale del 1930, che considerava la sanzione prevista dall’ art. 580 c.p. come misura a tutela del diritto alla vita, inteso come valore in sé, a prescindere dalla volontà del suo titolare, come bene supremo che lo Stato si fa carico di salvaguardare, in una visione confessionale della sua sacralità. Nel delineare una precisa e circoscritta area di incostituzionalità della norma penale la Corte ridefinisce la fattispecie incriminatrice in termini più coerenti con i valori costituzionali, valorizzando al massimo l’autonomia decisionale del paziente in connessione con la tutela della dignità umana.
La circostanza che non sia enucleabile una soluzione a rime obbligate, secondo il noto approccio crisafulliano volto a fissare la delimitazione dei poteri tra legislatore e Corte Costituzionale, non impedisce alla Corte di riempire il vuoto conseguente alla ravvisata incostituzionalità della norma, non potendosi consentire, al cospetto dell’ inerzia del legislatore, una menomata protezione di diritti fondamentali e dovendosi quindi provvedere a riempire quel vuoto ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorchè non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento ( n. 4 del considerato in diritto).
La norma penale così ritagliata si fa presidio della tutela dei diritti fondamentali del malato; l’immissione nell’ ordinamento di una disposizione nuova vale a rendere costituzionalmente legittima una norma che in precedenza non era tale.
Ne risulta in tal modo abbandonata, forse definitivamente, la teoria delle rime obbligate che per molto tempo aveva costituito un saldo punto di riferimento nella modulazione delle sentenze della Corte. Tale abbandono, che realizza un più intensa portata delle decisioni della Corte come fonti integrative dell’ordinamento, è peraltro riscontrabile anche nella recentissima sentenza della stessa Corte n. 156 del 2020, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 131 bis c.p. nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva: detta pronuncia si pone come inevitabile conseguenza dell’inerzia del legislatore rispetto al preciso monito rivoltogli nella precedente pronuncia n. 207 del 2017 ad intervenire per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui e al tempo stesso conferma la crescente disponibilità del giudice delle leggi a ricorrere al parametro della ragionevolezza, pur in assenza di rime obbligate. Poco prima la Consulta ha utilizzato la medesima tecnica decisoria con l’ordinanza n. 132 del 2020, che ha rinviato al giugno 2021 la decisione sulla questione di costituzionalità degli artt. 595 c.p. e 13 della legge n. 47 del 1948, nella parte in cui prevedono la pena della reclusione, alternativa o cumulativa alla multa, per il soggetto ritenuto responsabile del delitto di diffamazione aggravata a mezzo stampa, così da consentire al legislatore - cui ha formulato un appello in termini non dissimili da quelli usati nel caso Cappato - di approvare una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali.
Per tale via il giudice delle leggi, ponendosi come mediatore tra esigenze della politica e Costituzione, si orienta a realizzare interventi creativi, piuttosto che reperire soluzioni meramente demolitorie, al tempo stesso sollecitando il legislatore ad una maggiore attenzione ai diritti fondamentali ed ai principi costituzionali.
Nella sentenza ora in esame la Corte, nell’ assumere su di sé l’ onere di riempire il vuoto normativo fornendo una disciplina legale alla prestazione di aiuto materiale al suicidio, in adesione ad una linea già tracciata con le sentenze n. 27 del 1975 in materia di interruzione volontaria della gravidanza e n. 96 e 229 del 2015 in tema di procreazione medicalmente assistita subordina la non punibilità al rispetto di specifiche cautele, individuando, come già ritenuto in via interlocutoria, la terapia del dolore e l’ accesso alle cure palliative quali prerequisiti della scelta da compiere, nell’ implicito convincimento che la determinazione del soggetto malato per una soluzione di morte non può considerarsi libera ove egli sia afflitto da sofferenze croniche divenute intollerabili e non lenite da trattamenti palliativi.
Tra i requisiti procedurali essa indica altresì la totale medicalizzazione del procedimento, secondo la disciplina contenuta negli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, il suo svolgimento all’ interno di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, che in ragione della sua natura è in grado di garantire la correttezza delle modalità di esecuzione, e l’intervento dei comitati etici territorialmente competenti, investiti istituzionalmente di funzioni consultive, quali organi terzi cui affida la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità innanzi descritte attraverso un parere che si tende in dottrina a ritenere abbia carattere vincolante.
La Corte distingue inoltre i fatti successivi alla pubblicazione della propria pronuncia da quelli anteriori, sull’ ovvia considerazione che le condizioni previste nel primo caso, in quanto indicate solo nella sentenza, non risulterebbero mai nella pratica puntualmente soddisfatte nel secondo, ed attribuisce in detto caso al giudice il compito di verificare con maggior margine di discrezionalità[3] l’ avvenuta osservanza in concreto di modalità anche diverse da quelle previste per l’ altro caso, ma comunque idonee a fornire garanzie sostanzialmente equivalenti, ed in particolare che le condizioni del richiedente abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico, che la volontà dell’ interessato sia stata manifestata in modo chiaro ed univoco, che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine alle sue condizioni, sia alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’ accesso alle cure palliative ed eventualmente alla sedazione profonda continua. Molto veloce è il passaggio relativo alla possibile obiezione di coscienza del medico, limitandosi la Corte a rilevare che la pronuncia di incostituzionalità non crea alcun obbligo del medico di procedere all’ aiuto del malato, restando affidato alla sua coscienza scegliere se prestarsi o meno ad esaudire la richiesta.
Con la decisione così sintetizzata la Corte ha assunto un ruolo più pregnante di quello di giudice della legittimità costituzionale delle leggi, ponendosi come parte attiva del processo legislativo, nella consapevolezza che l’esigenza di garantire la legittimità costituzionale deve comunque prevalere su quella di dare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolamentazione della materia.
La dottrina tende a classificare la sentenza come additiva di regola, o come di accoglimento manipolativo, o anche come manipolativa di tipo riduttivo, o ancora come additiva di procedura, per avere la Corte sottratto un’area rigorosamente circoscritta di aiuto alla portata incriminatrice dell’ art. 580 c.p., dettando una prima disciplina regolatoria collegata al rispetto di determinate condizioni.
3. Alcuni spunti critici
Come era prevedibile, la pronuncia della Corte Costituzionale ha suscitato un ampio e vivacissimo dibattito dottrinale, con molte voci di consenso, ma anche di dissenso[4], talune delle quali hanno finanche accusato la Corte di eresia costituzionale.
Tale dibattito ha fatto emergere i molti problemi di interpretazione ed applicazione del nuovo quadro normativo.
Alcuni commentatori[5] si dilungano a ricercare i passaggi dell’ordinanza interlocutoria n. 207 del 2018 non riprodotti nella sentenza, a dimostrazione di una diversa riflessione della Corte su alcuni punti cruciali, ed in particolare sulla configurabilità di un diritto a morire, in presenza di particolari circostanze, nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nella morte, ritenuto nell’ ordinanza, ma non esplicitamente affermato nella sentenza. Si rileva in particolare al riguardo che il concetto di dignità appare in sentenza ridimensionato, stante la mancanza dei molti richiami a tale valore contenuti invece nel provvedimento interlocutorio e si formula il dubbio che tale omissione sia stata determinata dall’ esigenza di evitare possibili contrasti con la sentenza della stessa Corte in tema di sfruttamento della prostituzione n. 151 del 2019, che aveva fatto riferimento alla dignità in senso oggettivo, mentre nell’ ordinanza era stata evocata nella sua dimensione soggettiva[6].
Una analisi siffatta non mi appassiona e non mi convince, atteso che la stessa Corte ha affermato al punto 2 del considerato in diritto che la serie di rilievi e di conclusioni formulati nell’ ordinanza sono gli uni e le altre in questa sede confermati e che a essi si salda, in consecuzione logica, l’odierna decisione, ed al punto 4 ha fatto espresso riferimento alla tecnica collaudata della doppia pronuncia. Si impone pertanto a mio avviso una lettura integrata e coordinata delle due decisioni.
Va d’ altro canto considerato che il concetto di dignità può essere variamente declinato in senso soggettivo o oggettivo, in relazione alle peculiarità delle singole situazioni, senza che l’una accezione si ponga in termini di incompatibilità concettuale con l’altra.
Il problema cruciale, soprattutto nella prospettiva del giudice civile, attiene alla ravvisabilità di uno specifico diritto ad ottenere un aiuto al suicidio, in presenza delle condizioni date. Di un diritto siffatto sembra lecito dubitare: se è vero infatti che a fronte della richiesta di aiuto formulata dal malato non si configura alcun obbligo del medico di esaudirla, potendo egli formulare liberamente e senza condizioni né termini obiezione di coscienza, dovrebbe coerentemente escludersi l’ esistenza di un diritto in tale direzione: ed è significativo che mentre la Corte riconosce il diritto all’ interruzione dei trattamenti terapeutici, anche ove ne consegua il sacrificio della vita, con riferimento all’ aiuto al suicidio parla solo di richiesta di aiuto, lasciando al medico la facoltà di esaudirla, così riducendo il diritto a morire in modo conforme alle proprie scelte individuali tramite aiuto al suicidio a mera libertà di esprimere una richiesta non vincolante in tal senso. Si sottolinea al riguardo la pregnanza del verbo esaudire.
Lo svilimento per tale via della pretesa del malato sembra confermato dalla mancata configurazione di un obbligo delle strutture sanitarie di darsi una organizzazione volta a soddisfare comunque la domanda di aiuto, come invece avviene per l’interruzione volontaria della gravidanza, in relazione alla quale l’art. 9 della legge n. 194 impone agli enti ospedalieri e alle case di cura di assicurare in ogni caso l’effettuazione degli interventi richiesti.
Osservano sul punto alcuni commentatori[7] che ove anche si potesse parlare del riconoscimento di un diritto, si tratterebbe di un mero riconoscimento formale di detto diritto, reso sostanzialmente ineffettivo perché non azionabile in concreto.
Tali posizioni sembrano ricevere conferma nel passaggio di cui al punto 6 della motivazione della Corte, lì dove si afferma che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici.
Appare pertanto non priva di fondamento la tesi di quanti [8] osservano che la Corte non ha configurato un vero diritto al suicidio assistito, ma solo una limitata non punibilità del soggetto che si presta ad esaudire la richiesta di aiuto in presenza delle condizioni indicate nella sentenza. In tale prospettiva la decisione della Corte avrebbe rilevanza soltanto in ambito penale.
Questo è un punto di estrema rilevanza nel tessuto argomentativo della decisione, atteso che la dichiarata necessità di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali si risolverebbe in una finzione se detti diritti fossero degradati a mere richieste, non azionabili civilmente.
Ove peraltro voglia ritenersi la sussistenza di un diritto da far valere in via giudiziaria, dovrebbe preliminarmente accertarsi l’avvenuto coinvolgimento del malato in un percorso di cure palliative, che al punto 2.4 del considerato in diritto viene indicato come prerequisito della scelta. Stante la non univocità del termine coinvolgimento, si potrebbe ritenere sufficiente la mera proposta di cure palliative, ben potendo il paziente aver legittimamente rifiutato di esservi sottoposto.
Altro punto non chiarito dalla Corte Costituzionale attiene all’ efficacia del parere dei comitati etici investiti del caso: si tratta di un parere vincolante, come a me pare, o meramente consultivo? E quali effetti produce la mancata acquisizione di detto parere, in difetto di qualsiasi indicazione da parte del giudice delle leggi? A tali quesiti, in mancanza di un intervento del legislatore, saranno i giudici a dover fornire risposta.
Ed ancora. Osserva autorevole dottrina[9] che la Corte si è attenuta alle peculiarità del caso concreto ed è stata ispirata essenzialmente dalla umana compassione verso l’Antoniani, aderendo al principio dell’ex facto oritur ius, ossia adottando la logica della fattispecie ed individuando un nuovo diritto sulla base del caso giuridico, che ha tratto insomma i propri criteri di riferimento dall’interno del suo stesso oggetto, anziché reperirli nel sistema costituzionale, così sostanzialmente esprimendo la propria approvazione di un fatto in precedenza realizzatosi e per tale via allontanandosi dal suo ruolo di giudice delle leggi - chiamato appunto ad esprimere un giudizio sulle leggi, e non sui fatti - per avvicinarsi a quello tipico della Corte EDU, di giudice dell’accertamento della violazione compiuta nel singolo caso.
Se tutto questo è vero, se effettivamente la Corte ha finito con l’ idealtipizzare il caso concreto, resta irragionevolmente del tutto priva di tutela la posizione dei soggetti lasciati fuori dal decisum, ossia di coloro che non sono sottoposti a trattamenti salvavita, ma sofferenti allo stesso modo a causa di patologie gravi, invalidanti e irreversibili e allo stesso modo desiderosi di liberarsi della vita, o anche di coloro che, nelle condizioni date, non hanno più neppure un barlume di autosufficienza e non sono in grado di svolgere quel minimo di attività fisica richiesta per realizzare il suicidio, azionando i meccanismi necessari allo scopo, come si verifica nel caso della sindrome locked in, o sindrome del chiavistello, in cui il malato non può compiere alcun movimento, se non con gli occhi.
E’ immediato il riferimento al caso di Davide Trentini, malato di SLA dal lontano 1993 e affetto da dolori insopportabili e non lenibili e non sottoposto ad alimentazione e idratazione forzata, ma supportato solo da presidi farmacologici, che ha trovato la morte in Svizzera il 13 aprile 2017 con l’aiuto di Marco Cappato e di Mina Welby , i quali sono stati assolti dalla Corte di Assise di Massa all’ udienza del 27 luglio 2020 con la formula il fatto non sussiste in ordine al rafforzamento del proposito di suicidio e il fatto non costituisce reato relativamente all’ agevolazione. Avverso tale sentenza, depositata il 2 settembre scorso, è stata proposta impugnazione dal pubblico ministero.
Al quesito se in tali casi, i cd. casi analoghi subito evocati dalla dottrina, la soluzione di diritto possa trovarsi in un’ interpretazione estensiva della sentenza della Corte, ovvero se sia necessario proporre nuove questioni di costituzionalità, la Corte toscana ha risposto osservando che per trattamenti di sostegno vitale devono intendersi non soltanto i dispositivi meccanici che consentono il mantenimento in vita, come la nutrizione e l’ idratazione forzata, ma anche tutti i trattamenti sanitari, sia di tipo farmaceutico, sia di tipo assistenziale medico o paramedico senza i quali si innescherebbe nel malato un progressivo indebolimento delle funzioni organiche, sino alla morte, in tempi non necessariamente rapidi. Ha aggiunto la Corte di Assise che anche il ricorso all’ analogia, consentita nella specie trattandosi di norma favorevole al reo, permetteva di ravvisare la sussistenza del requisito in esame facendo riferimento alla necessità del Trentini di assistenza continua nelle comuni attività quotidiane e nei bisogni elementari, così che senza l’aiuto di terze persone non era possibile la sua sopravvivenza.
Il ricorso ad una interpretazione ampia del concetto di trattamenti di sostegno vitale ed anche per alcuni aspetti all’ analogia ha consentito quindi al giudice di merito di ravvisare nel sistema la disciplina applicabile, senza dover investire di nuovo la Corte Costituzionale. E’ allora facile l’obiezione di coloro[10] che, critici nei confronti della Corte, osservano che per tale via potrebbe aprirsi un pendio scivoloso (i rischi del prossimo passo) verso una inesorabile radicalizzazione della prospettiva eutanasica e che tutti i confini volti a circoscrivere strettamente l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio potrebbero saltare, in applicazione del principio di eguaglianza/ragionevolezza.
Si giunge da taluno[11] a sostenere che anche i requisiti della irreversibilità della patologia e della intollerabilità delle sofferenze fisiche o psichiche potrebbero risultare irrilevanti se ciò che si vuole riconoscere è la liceità di una diversa modalità di realizzazione dell’evento morte.
Non meno complessa e delicata sembra la valutazione cui è chiamato il giudice in relazione a fatti avvenuti precedentemente alla pubblicazione della sentenza, dovendo egli esprimere, per effetto della delega di bilanciamento in concreto affidatagli, un giudizio di equivalenza tra gli elementi rinvenibili nella fattispecie al suo esame ed i requisiti indicati dalla Corte. In particolare, scontato il mancato intervento nel passato dei comitati etici, quale soggetto potrà considerarsi dotato dei requisiti di terzietà e competenza che lo rendano equipollente a detti comitati? Oppure, come mi sembra ragionevole ritenere, potrà ravvisarsi non essenziale per il pregresso un intervento siffatto, potendo le garanzie di correttezza della procedura essere rinvenute aliunde?
4. Conclusioni
Mi limito ad alcune rapide conclusioni.
In una materia come questa, in cui la posizione dei commentatori e degli interpreti non può non essere in qualche misura influenzata dalla rispettiva visione soggettiva su temi che hanno a che fare con la religione, con la filosofia, con la morale, prima ancora che con il diritto, credo sia comunque possibile esprimere in una valutazione di sintesi un apprezzamento nel merito della decisione in commento.
Va a mio avviso dato atto alla Corte Costituzionale di aver reso una risposta non elusiva ad una drammatica domanda di giustizia, di aver percepito l’inaccettabilità da parte dell’ordinamento del dolore di persone che si trovano in situazioni come quella di Fabiano Antoniani e di aver ritenuto irragionevole continuare ad infliggere loro una sofferenza gravissima per mantenere un divieto penale assoluto contrario ad ogni principio di ragionevolezza.
Questa percezione è prova del rispetto della Corte verso il principio di dignità della persona, evocato in tante sue sentenze, e tanto più meritevole di tutela nella fase più drammatica e delicata della vita; è anche dimostrazione di attenzione alle nuove rivendicazioni di diritti che scaturiscono dalle conquiste della medicina e dalle tecnologie disponibili, nonché dai grandi cambiamenti nella società e nel sentire collettivo sulle questioni inerenti la fine della vita.
Con spirito laico e libero da incrostazioni ideologiche la Corte ha saputo conciliare i valori della vita e della salute con il principio di autodeterminazione anche nella scelta finale di morire con dignità, realizzando un equilibrato bilanciamento di interessi e valori e prendendo così le distanze dalla tradizionale posizione dottrinale che la configura solo come legislatore negativo.
Come osserva Silvestri[12], è percepibile tra le righe della motivazione un‘ ansia di “giustizia”, che non è la giustizia immortale e trascendente del giusnaturalismo religioso nè quella scolpita nel cuore dell’uomo propria dell’ illuminismo laico, ma quella legata al senso di solidarietà verso ogni persona, la cui esistenza sociale si identifica con la dignità.
Resta però, a fronte delle lacune, delle incertezze e degli interrogativi che scaturiscono da detta decisione, l’esigenza di un intervento sollecito del legislatore, peraltro invocato con particolare fermezza dalla stessa Corte, affinchè medici e pazienti non siano lasciati soli nell’ affrontare i problemi clinici e gli interrogativi etici sul tappeto e siano superate le difficoltà applicative del percorso tracciato dalla Corte Costituzionale, e anche perché i giudici possano fondare le loro decisioni su precise indicazioni normative: e tale intervento appare tanto più necessario in assenza di rime obbligate e nella ricorrenza di mere rime adeguate[13].
E’ necessario allora che il Parlamento, portando a compimento il disegno tracciato dalla Consulta ed eventualmente modificandolo, disciplini in dettaglio il perimetro di liceità dell’assistenza al suicidio, perché in un sistema di civil law dovrebbe essere il legislatore statale a dettare una regolamentazione compiuta della materia, in quanto esso soltanto ha il grado di rappresentatività necessario per individuare un punto di equilibrio tra le esigenze di tutela dei vari interessi in gioco. Ciò è tanto più vero nella materia penalistica, in cui vi è una riserva assoluta di legge teleologicamente rafforzata, anche se nel caso di specie siamo in presenza di una operazione in bonam partem, da ritenere esclusa dal divieto di analogia ex art. 14 delle preleggi.[14]
E’ innanzi tutto necessario che il legislatore definisca la posizione giuridica del soggetto richiedente, così consentendo di individuare gli strumenti per la relativa tutela in sede civile.
Il Parlamento dovrà inoltre stabilire se le quattro condizioni che nella pronuncia della Corte Costituzionale fissano il perimetro all’ interno del quale si legittima la richiesta di aiuto a morire siano tassative o se costituiscano solo un punto di partenza per ulteriori aperture. In questo ambito dovrà anche fornire elementi di chiarezza sul concetto di trattamenti di sostegno vitale.
E’ ancora indispensabile che siano fornite indicazioni utili per la qualificazione della fattispecie in sede penale, in termini di esclusione della tipicità per effetto della riduzione dell’ambito oggettivo dell’ ipotesi incriminatrice ovvero di causa di non punibilità o di scriminante procedurale. La questione non è meramente teorica, ma si riflette sulla formula assolutoria da adottare: il fatto non sussiste (come ha ritenuto la Corte di Assise di Milano nella sentenza del 30 gennaio 2020) o il fatto non costituisce reato (come enunciato più di recente dalla Corte di Massa), con le conseguenti implicazioni sul piano civilistico?
E’ necessario altresì, ferma la pregnanza delle indicazioni fornite dal giudice delle leggi, o quanto meno la possibile individuazione da parte del Parlamento di garanzie sostanzialmente equivalenti, che sia puntualmente articolata la procedura da seguire, soprattutto in relazione all’ intervento ed al potere di controllo di un organismo terzo e all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario, sommariamente previsti dalla Corte.
Quanto ai comitati etici, va rilevato che essi si occupano essenzialmente di sperimentazione, onde l’attribuzione di funzioni di controllo richiede un‘ opportuna riforma della loro struttura e del loro funzionamento.
Per ciò che concerne l’obiezione di coscienza, sono evidenti le ricadute che essa può determinare sui beni costituzionali in gioco, tenuto conto che la possibilità di una sua generalizzata utilizzazione, senza alcuna indicazione sui soggetti, sui tempi e le modalità della sua manifestazione e sulla necessità di predisporre soluzioni alternative all’ interno della struttura sanitaria, rischia di rimettere totalmente nelle mani dei medici l’attuazione del precetto costituzionale. E’ pertanto indispensabile la previsione di un’organizzazione dell’ente ospedaliero diretta a garantire l’attuazione della volontà del malato, alle condizioni date.
E’ ancora importante che il legislatore detti una disciplina per le fattispecie precedenti la pronuncia del giudice delle leggi, assumendo in proprio la responsabilità di scelte che non possono essere affidate alla discrezionalità dei singoli giudici.
* Testo rielaborato della relazione svolta il 24 novembre 2020 in occasione dell’ incontro di studio organizzato dalla struttura della formazione decentrata della Corte di Cassazione.
[1] Così RIMEDIO, “ Eccezione” di aiuto al suicidio? Osservazioni critiche sulla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, in BioLaw Journal- Rivista di BioDiritto, 2020,1.
[2] In tal senso VALLINI, Morire è non essere visto: la Corte costituzionale volge lo sguardo sulla realtà del suicidio assistito, in Diritto Penale e Processo, 2019, p. 805 e ss.
[3] Al riguardo VERONESI, “Ogni promessa è debito”: la sentenza costituzionale sul “caso Cappato”, in Giustizia Insieme , 11 dicembre 2019; Studium Iuris 2020, 2, parla di “delega di bilanciamento in concreto”.
[4] Tra le prime voci di dissenso v.RUGGERI, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Corte dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito ( a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in Giustizia Insieme, 27novembre 2019.
[5] V., tra gli altri, NICOLUSSI, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in Giur.It. - Corti supreme e salute, 2019, 2; TRIPODINA, La “circoscritta area “di non punibilità dell’ aiuto al suicidio. Cronaca e commento di una sentenza annunciata, in Giur. It.- Corti supreme e salute, 2019,2.
[6] V. al riguardo CUPELLI, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, in Sistema Penale 2019, 12.
[7] V. ancora CUPELLI, op. loc. cit.
[8] Così NICOLUSSI, op. loc. cit.; TRIPODINA, op.loc.cit; VERONESI, La Corte Costituzionale “affina, frena e rilancia”: dubbi e conferme nella sentenza sul “ caso Cappato”, in BioLaw Journal,2020,1.
[9] In tal senso EPIDENDIO, La sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019: apocalypsis cum figuris, in giudicedonna.it, 2019, 2/3.
[10] V. per tutti NICOLUSSI, op. loc. cit.; TRIPODINA, op.loc.cit .
[11] POGGI, Il caso Cappato: la Corte costituzionale nelle strettoie tra uccidere e lasciar morire, in BioLaw Journal- Rivista di biodiritto, 2020, 1.
[12] Del rendere giustizia costituzionale, in Questione Giustizia 2020, 3.
[13] Così ADAMO, La Corte costituzionale apre (ma non troppo) al suicidio medicalmente assistito mediante una inedita doppia pronuncia, in BioLaw Journal- Rivista di BioDiritto, 2020, 1.
[14] Va ricordato che nel settembre 2019 è stato presentato al Senato il disegno di legge A.S. 1494, recante Modifiche all’ art. 580 del codice penale e alla legge 22 dicembre 2017 n. 219, in materia di aiuto medico a morire e tutela della dignità nella fase finale della vita. Quanto alla Camera dei Deputati, sono attualmente all’ esame presso le commissioni Giustizia e Affari Sociali le proposte di legge n. C 2 di iniziativa popolare, C 1586, C 1655, C 1875, C 1888.
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