ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il processo civile in fase tre
(note a prima lettura alla legge 25 giugno 2020, n. 70, di conversione del d.l. n. 28 del 2020).
di Franco De Stefano
Con una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale a metà giornata, è convertito in legge, ma con altre modificazioni, il decreto-legge n. 28 del 2020.
Anche per la giustizia civile, quindi, si passa alla fase tre, quella della ripartenza.
Con dubbi, problemi ed esitazioni tutte particolari; ancora una volta col rischio di cedere a tentazioni di formalismo od altri eccessi e soprattutto ad incomprensioni tra gli operatori: che, in questo momento, avrebbero un effetto deleterio cumulativo di cui proprio non si sente il bisogno.
Sommario: 1. L’anticipazione della posticipazione … - 2. Una disciplina transitoria complicata - 3. Altre novità di ordine generale - 4. Una nuova condizione di procedibilità - 5. Il testo vigente: rinvio.
1. L’anticipazione della posticipazione …
Doverosa premessa è l’assoluta novità della situazione e quindi altrettanto doverosa è una complessiva indulgenza verso le sbavature o le incongruenze di una legislazione torrenziale che ha avuto comunque il pregio, sia pure senza porsi troppo problemi di sistema, di far fronte in qualche modo ad un’emergenza epocale. Questo non esime, però, dai rilievi critici anche severi per le ricadute sulla funzionalità della Giustizia, ora che questa – e con essa anche quella civile – si avvia alla sua fase tre, quella della ripartenza.
Il tumultuoso andamento della normazione di livello primario e secondario di questi giorni meriterà l’attenzione non solo di giuristi pazienti e ricercatori meticolosi, capaci di ricostruire la successione convulsa di disposizioni complesse e pesanti anche solo da leggere (e figuriamoci da interpretare e perfino da applicare in concreto), ma certamente di sociologi e, forse, pure di psicologi del diritto.
La giustizia è passata dall’animazione sospesa, imposta dall’esplosione dell’emergenza nelle sue prime tragiche settimane e dal panico e dallo sgomento che hanno caratterizzato le prime reazioni, alla terapia intensiva: con una scelta probabilmente non propriamente tempestiva, non solo la fase uno fu prorogata di qualche settimana, ma anche la fase due fu riprogettata per una durata maggiorata di un mese intero, dalla fine di giugno 2020 alla fine di luglio 2020, con una concreta saldatura della fase emergenziale al periodo feriale ordinario.
“Contrordine, compagni!” … la posticipazione è soppressa e il termine si anticipa rispetto al posticipo; insomma, si torna alla scadenza originaria della fase due al trenta giugno; e ancora una volta si interviene sul buon vecchio art. 83 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 (e subito modificato, il giorno dopo, dal d.l. 28, della cui conversione si sta ora parlando).
Dalla polverizzazione delle risposte all’emergenza in relazione perfino ai singoli uffici giudiziari italiani, connotato saliente dell’organizzazione della fase uno e della fase due, si è passati ad una verticistica e generalizzata valutazione di ritorno alla piena normalità per legge, con la soppressione non solo netta (che era in fondo già prevista, sia pure per una scadenza ancora non prossima e che avrebbe consentito forse una maggiore ponderazione ed elasticità), ma soprattutto improvvisa. Ma non compete a chi scrive una valutazione dell’oculatezza di tali scelte repentine, nonostante la multiforme e diversificata complessità della situazione non solo e non tanto dei singoli uffici giudiziari e quindi delle esigenze della loro operatività in sicurezza per tutti gli operatori (ad iniziare dal personale amministrativo), quanto soprattutto di quelli nel generale contesto nazionale, in cui la fase tre, sia pure con qualche cautela, sembra caratterizzata da un generalizzato “liberi tutti!”.
Dal punto di vista tecnico, il legislatore sfoggia, per la modifica della modifica, la modalità tradizionale della soppressione in sede di conversione.
Infatti, con l’allegato alla legge di conversione si dispone la soppressione della lettera i) del comma 1 dell’art. 3 del d.l. n. 28, ove si prevedeva che “All'articolo 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, sono apportate le seguenti modificazioni: … i) ovunque ricorrano nell'articolo, le parole «30 giugno 2020» sono sostituite dalle seguenti: «31 luglio 2020».”.
Di conseguenza, è ripristinato, quanto a tale aspetto, il testo originario dell’art. 83 del richiamato d.l. n. 28, come convertito dalla l. 27 del 2020.
Viene meno, spirato il termine rianticipato al 30 giugno 2020, ogni potere eccezionale e derogatorio dei capi degli uffici giudiziari di adottare le misure organizzative, “anche relative alla trattazione degli affari …, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.
Viene meno quindi, spirato tale termine (ripristinati i testi originari dei commi 6 e 7 dell’art. 83), il potere di limitare l’accesso agli uffici e l’orario e le modalità di accesso ad uffici e servizi (fino alla chiusura di quelli, tra i primi, che non erogano servizi urgenti), di impartire “linee guida” (vere e proprie discipline di rango secondario, legittimate dalla norma primaria) per fissazione o trattazione (anche a porte chiuse) delle udienze, di prevedere lo svolgimento di alcune tipologie di udienze civili con modalità di collegamento telematico da remoto o perfino con modalità scritte, di rinviare le udienze a dopo il 30 giugno 2020 per i procedimenti non esclusi dalla sospensione secca dei termini propria della fase uno, di disporre la “remotizzazione” delle attività degli ausiliari del giudice.
Le disposizioni processuali impartite dal singolo giudice in via particolare o dal capo dell’ufficio in via generale costituiscono eccezionali norme derogatorie a quelle del codice di rito, di rango secondario o sub secondario, ma autorizzate appunto dalla norma primaria oggi costituita dai commi sesto e settimo dell’art. 83 del d.l. 18; tali disposizioni sono quindi legittimamente adottate, con il solo contemperamento della salvezza dell’effettività del diritto di difesa e del contraddittorio; e la loro violazione ridonda quindi in una nullità processuale, soggetta al relativo regime di rilevabilità e sanabilità (e, comunque, al principio generale per il quale non si ha giammai diritto alla regolarità formale del processo, se non per effettiva lesione del diritto di difesa: Cass. Sez. U. 09/08/2018, n. 20685).
Tali disposizioni, come è reso evidente dall’inconsueta esplicitazione dello scopo della norma fin nel suo testo, sono mirate a “contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell'attività giudiziaria” ed in particolare ad “evitare assembramenti all'interno dell'ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone”.
A cascata (ripristinato il testo originario del comma 8), è delimitato al 30 giugno 2020 il periodo di sospensione della “decorrenza” (o, forse più correttamente, anche il “decorso”?) dei termini di sospensione e di decadenza dei diritti che possono essere esercitati esclusivamente mediante il compimento delle attività precluse dai provvedimenti organizzativi medesimi; ed alla stessa data (comma 10 dell’art. 83, nel suo testo anteriore al d.l. 28/2020) è rilimitato il periodo di sterilizzazione della durata del processo ai fini del computo della sua durata nei procedimenti ex lege Pinto (legge n. 89 del 2001), come pure è riancorata alla data del 30 giugno la scadenza dell’eccezionale facoltà (di fatto lasciata non operativa per le difficoltà tecniche incontrate) di deposito telematico nel giudizio di legittimità civile.
Si lascia ad apposito commento la disamina delle ricadute penalistiche, a cominciare dalla verifica dell’impatto della rianticipazione sulla sospensione della prescrizione e degli altri termini previsti dal codice di rito penale, ovvero della scadenza delle sessioni di assise.
2. Una disciplina transitoria complicata
La norma transitoria, introdotta al comma 2 dell’art. 1 della legge di conversione, prevede che “[r]estano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dell’articolo 3, comma 1, lettera i), del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28.”.
Ci si chiede quale sia l’impatto di tale disciplina transitoria sulle misure organizzative già adottate e, comunque, sul funzionamento del processo civile nel periodo dal 1° al 31 luglio, non più coperto dalla previsione normativa quanto meno dei commi 6 e 7 dell’art. 83 del d.l. 17/2020: e comunque nell’ottica della necessità di una ripartenza la più sollecita possibile, eliminata ogni connotazione emergenziale fin dal 1° luglio 2020.
Tanto premesso, è legittimo individuare la ratio della disciplina transitoria nella salvezza, per quanto sia possibile, di tutte le attività come già programmate con particolari modalità nel periodo in esame, purché tale connotazione sia stata adottata o indicata in provvedimenti dei capi degli uffici (o sulla base di questi) nel periodo in cui era vigente la lett. i) del comma 1 dell’art. 3 del d.l. 28/2020, cioè fino alla data di entrata in vigore della legge di conversione, che tale lett. i) ha soppresso.
Può ipotizzarsi il potere del capo dell’ufficio, in base a principi generali dell’ordinamento, di revocare o modificare il proprio precedente provvedimento per adeguarlo alla mutata valutazione del carattere prioritario della ripresa di piena funzionalità dell’ufficio giudiziario: potere che, se orientato alla revoca, dovrebbe potere essere esercitato anche dopo il 30 giugno, mentre al contrario, se indirizzato alla modifica con mantenimento anche solo di alcune delle modalità emergenziali, dovrebbe essere attivato ed esaurirsi prima dell’entrata in vigore della normativa che anticipa la cessazione del relativo potere.
Se questa pare la soluzione auspicabile, semmai in relazione alle peculiarità del contesto in cui il singolo ufficio opera, non si dovrebbe però configurare, proprio in dipendenza della disciplina transitoria in esame, alcun obbligo generalizzato del capo del singolo ufficio giudiziario – e, sulla sua base o di sua iniziativa, del singolo ufficio – di adottare un provvedimento di riadeguamento alla nuova normativa, con nuova specifica regolamentazione delle attività già disciplinate.
In particolare, se un provvedimento del capo dell’ufficio, oppure – su sua delega o su di esso fondato – del singolo giudice civile, ha già disposto, per il periodo tra il 30 giugno ed il 31 luglio, il rinvio di ufficio di udienze o adunanze, oppure una particolare modalità di tenuta delle udienze o delle altre attività decisionali equiparate, è ragionevole pensare che la salvezza di quei provvedimenti comporti la persistente legittimità sia del rinvio che della celebrazione delle une e delle altre con le modalità già stabilite: e tanto a maggior ragione se il provvedimento è stato adottato singolarmente per ciascuna udienza o adunanza, neppure occorrendo, per la salvezza dell’effetto, che di esso sia stata operata la necessaria propalazione mediante comunicazione alle parti (che non costituisce condizione o requisito di esistenza e validità del relativo provvedimento).
D’altra parte, è verosimile pensare che molti degli uffici giudiziari, legittimamente colti di sorpresa dalla rianticipazione, possano avere del tutto opportunamente già organizzato la propria attività per il mese di luglio in applicazione delle misure derogatorie altrettanto legittimamente fino ad ora vigenti ed adottate dal singolo capo dell’ufficio o, su sua delega od autorizzazione, dal singolo giudice.
L'argomento teleologico della norma transitoria è quello di favorire per quanto possibile la funzionalità degli uffici che si sono già organizzati per applicare le misure alternative: revocarle sic et simpliciter sarebbe manifestamente contrario a questa ratio ed alla lettera della disciplina intertemporale, tutte le volte in cui la situazione in cui opera l’ufficio giudiziario in cui sono state previste non è mutata.
Ma la stessa disciplina di rianticipazione e relativa transitoria non dovrebbe consentire una modifica peggiorativa delle misure già adottate, a maggior ragione se implicasse di fatto un ulteriore rinvio o differimento o una maggiore difficoltà nella ripresa: insomma, va perseguito ogni risultato utile per l’effettività della più piena ripresa possibile.
Sarà opportuno allora rinunciare a limitazioni dell’attività che non siano irreversibili o difficilmente reversibili: si pensi alla rianticipazione mediante provvedimento formale di udienze – o assimilate – già rinviate, oltretutto resa difficoltosa dalla necessità di rispettare il diritto di difesa delle parti e l’esercizio delle eventuali facoltà in termini a ritroso.
Ma potrebbe al contrario rivelarsi opportuno conservare l’applicazione di quelle misure alternative di trattazione o di celebrazione, se ed in quanto in concreto funzionali all’espletamento dell’attività giudiziaria in modo più pieno (come, ad esempio, nel caso di uffici giudiziari caratterizzati dalla loro dimensione nazionale e dalla dispersione sul territorio nazionale di coloro che sono chiamati a prestarvi servizio).
Ed in ogni caso sarebbe preferibile una modalità alternativa, per quanto farraginosa ed in qualche caso problematica o complessa o perfino difficile da realizzare in concreto, al rinvio secco e generalizzato: fermo restando che ai singoli operatori del servizio Giustizia è chiesto oggi uno sforzo aggiuntivo, quasi un atto di fede nel recupero della piena sicurezza e funzionalità di tutti gli uffici, presupposto evidente, sia pure non del tutto verificato, della rianticipazione.
Ancora una volta è grande il senso di responsabilità richiesto ai capi dei singoli uffici giudiziari, la cui stagione di legislatori locali del processo volge al termine, col tramonto della fase più drammatica dell’emergenza e quale suo portato: e si vuole confidare che rifuggiranno, come quasi tutti hanno finora fatto, dalla tentazione di improprie ed improvvide fughe nell’inattività totale o in scelte operative sostanzialmente paralizzanti in pregiudizio del servizio della Giustizia che sono chiamati a gestire.
3. Altre novità di ordine generale
Con un’utilità pratica quanto meno dubbia, in relazione ai tempi di concreta estrinsecazione dei relativi effetti, si interviene ancora una volta sul testo del comma 3 dell’art. 83, in tema di cosiddetta fase uno, ormai terminata, ma tuttora idonea a delimitare gli effetti delle misure organizzative proprie della fase due, ormai prossima al suo rianticipato termine: si stabilisce, in particolare, che vanno normalmente trattate le cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile.
A questo punto pleonastica, per le stesse ragioni, è l’ulteriore modifica della lett. f) del comma settimo dell’art. 83, con cui si specifica che “il luogo posto nell’ufficio giudiziario da cui il magistrato si collega con gli avvocati, le parti ed il personale addetto è considerato aula d’udienza a tutti gli effetti di legge”: soluzione alla quale si sarebbe comunque giunti in via interpretativa, nonostante soltanto per le giurisdizioni amministrativa e contabile il principio fosse stato codificato dai successivi artt. 84 e 85 del medesimo decreto-legge (e non potendo in contrario valere il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, non avendo altrimenti senso alcuno l’abilitazione alla trattazione con quelle modalità, se non fosse stata presupposta la piena equiparazione a quella in udienza.
Ancora meno comprensibile è la ragione di una modifica applicabile solo de futuro per una norma che però ne preveda la validità fino ad una data già decorsa, quale quella apportata al comma 7-bis dell’art. 83, che ora reca un diversamente articolato modello di regolamentazione dei rapporti tra genitori non affidatari di prole per gli incontri protetti: “Fermo quanto disposto per gli incontri fra genitori e figli in spazio neutro, ovvero alla presenza di operatori del servizio socio-assistenziale, disposti con provvedimento giudiziale fino al 31 maggio 2020, dopo tale data è ripristinata la continuità degli incontri protetti tra genitori e figli già autorizzata dal Tribunale dei Minori per tutti i servizi residenziali, non residenziali e semi residenziali per i minorenni, nonché negli spazi neutri, favorendo le condizioni che consentono le misure di distanziamento sociale. La sospensione degli incontri, nel caso in cui non sia possibile assicurare i collegamenti da remoto, può protrarsi esclusivamente nei casi in cui si è in presenza di taluno dei delitti di cui alla legge n. 69 del 2019.”.
Per un apparente difetto di coordinamento con la generalizzata rianticipazione, il nuovo comma 11.1 rimane introdotto senza modifiche (interpolato tra il comma 11 e il comma 11-bis da altra disposizione della medesima legge di conversione); vi si statuisce che fino al 31 luglio (e non al 30 giugno) 2020 “nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione innanzi al tribunale ed alla corte di appello, il deposito degli atti del magistrato ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. È comunque consentito il deposito degli atti di cui al periodo precedente con modalità non telematiche quando i sistemi informatici del dominio giustizia non sono funzionanti”.
Ancora limitato al periodo della fase due [anche se può essere dubbio, in dipendenza della successione degli interventi normativi, che sia stato anche rianticipato al 30 giugno il termine finale del 31 luglio, introdotto da norma diversa dalla lettera i) dell’art. 3 del d.l. 28, oggi soppressa dalla legge di conversione] è il potere del mediatore di concludere da remoto le sue attività; in particolare, egli, “apposta la propria sottoscrizione digitale, trasmette tramite posta elettronica certificata agli avvocati delle parti l’accordo così formato. In tali casi l’istanza di notificazione dell’accordo di mediazione può essere trasmessa all’ufficiale giudiziario mediante l’invio di un messaggio di posta elettronica certificata. L’ufficiale giudiziario estrae dall’allegato del messaggio di posta elettronica ricevuto le copie analogiche necessarie ed esegue la notificazione ai sensi degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, mediante consegna di copia analogica dell’atto da lui dichiarata conforme all’originale ai sensi dell’articolo 23, comma 1, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.
Infine, è introdotto - mediante un comma 1-bis nell’art. 1 del d.l. n. 28, che (si badi) non prevede alcun termine finale di efficacia ed è quindi sganciato completamente dall’emergenza sanitaria - un nuovo comma 1-bis nell’art. 88 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, del seguente tenore: «1-bis. Quando il verbale di udienza, contenente gli accordi di cui al comma 1 ovvero un verbale di conciliazione ai sensi degli articoli 185 e 420 del codice di procedura civile, è redatto con strumenti informatici, alla sottoscrizione delle parti, del cancelliere e dei difensori tiene luogo apposita dichiarazione del giudice che tali soggetti, resi pienamente edotti del contenuto degli accordi, li hanno accettati. Il verbale di conciliazione recante tale dichiarazione ha valore di titolo esecutivo e gli stessi effetti della conciliazione sottoscritta in udienza.».
4. Una nuova condizione di procedibilità
Con una norma a sorpresa, poi, la legge di conversione introduce di bel nuovo una condizione di procedibilità di cui francamente non si sentiva affatto il bisogno, per la sua efficacia dirompente nel già fragile tessuto della ripartenza della giustizia civile.
Con una tecnica legislativa che suscita dubbi di congruenza linguistica (ma del resto in linea col tecniloquio logorroico del legislatore odierno e soprattutto di quello dell’emergenza), il legislatore della legge di conversione introduce, all’art. 3 del d.l. 28/2020 un comma 1-quater, che a sua volta modifica un’altra norma dell’emergenza, il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, nel quale, dopo il comma 6-bis, che singolarmente è restato l’unico in vigore dell’intero provvedimento (dopo il suo tormentato iter, culminato nella falcidia disposta con d.l. 25 marzo 2020, n. 19), viene aggiunto il seguente: «6-ter. Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda».
La norma dovrebbe risultare la seguente:
- soggetto della proposizione principale: “il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”;
- predicato nominale ed apposizione della proposizione principale: “costituisce condizione di procedibilità della domanda”;
- complemento di stato in luogo figurato della proposizione principale: “nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali”;
- soggetto della proposizione subordinata (relativa): “nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sulla base di disposizioni successive”;
- predicato verbale della proposizione subordinata (relativa): “può essere valutato”;
- complemento di argomento della proposizione subordinata (relativa): “ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
In altri termini: “il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”, costituisce condizione di procedibilità della domanda nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La categoria di controversie in cui è introdotta questa nuova condizione di procedibilità non è agevolmente identificabile a priori, se non per la natura contrattuale dell’obbligazione che esse abbiano ad oggetto; ma, escluse con sicurezza almeno quelle extracontrattuali, i connotati delle controversie assoggettate a quest’ulteriore autentico ostacolo sono molto più sfumati, perché si rifanno al precedente comma 6-bis della stessa norma (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, abrogato quasi per intero dal decreto-legge n. 19 del 2020), il quale, com’è noto, allo stato prevede che “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Norma, a sua volta, di complessa lettura e già oggetto di numerosi interventi e rilievi[1], già qualche prima applicazione giurisprudenziale (ovviamente, di merito e inevitabilmente in sede di provvedimento di urgenza) ne ha correttamente escluso la valenza di generalizzata esenzione del singolo debitore dall’adempimento, limitando il suo effetto alla valutazione degli effetti del mancato adempimento, poi estendendola a tutte le obbligazioni contrattuali, anche se pecuniarie, comunque nel più ampio contesto degli istituti generali della contrattualistica, tra cui l’art. 1467 cod. civ. (e con seri dubbi sull’interazione con le valutazioni di gravità predeterminate dalla legge, come nei casi degli artt. 5 e 55 della legge 392 del 1978, oppure 24, 1525, 1564, 1565, 1668, 1819, 1820, 1878, 1901, 1915, 2286, 2344 cod. civ.).
Il riferimento incongruo di una norma processuale ad una norma sostanziale di così ardua ricostruzione riverbererà in un contenzioso prevedibilmente indefinito le relative problematiche interpretative: sicché, se la norma rimarrà in vigore ed imporrà quindi una complicata fase incidentale (che dovrebbe dar luogo comunque ad una sospensione del processo ed alla fissazione dei termini per procedervi, giammai consentendo una definizione in rito della domanda, in conformità con le soluzioni adottate dalla giurisprudenza di legittimità per altre ipotesi di simili condizioni), sarà buona norma per le parti (e soprattutto per l’attore) in ogni caso sobbarcarsi l’onere della preventiva mediazione tutte le volte che la sua pretesa, se sicuramente contrattuale (ed anche se solo in via subordinata, a questo punto), possa coinvolgere problematiche connesse all’emergenza sanitaria.
In definitiva, se oggetto della controversia è un’obbligazione contrattuale inadempiuta o imperfettamente adempiuta e si può ipotizzare che il debitore invochi, per limitare o escludere la propria responsabilità o anche solo quanto all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati od omessi adempimenti, purché a causa e in dipendenza non già dell’emergenza sanitaria complessivamente considerata, ma esclusivamente del rispetto delle misure di contenimento disposte durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19.
A parte il fatto che la norma è in stridente controtendenza rispetto agli orientamenti a gran voce proclamati dal Governo e sollecitati dalla maggioranza degli operatori di Giustizia per la limitazione dei condizionamenti preventivi alla tutela giurisdizionale, si deve prendere atto dell’imposizione di una mediazione probabilmente soltanto defatigatoria a chi già ha dovuto subire le conseguenze dell’emergenza sanitaria, in luogo della rimessione al prudente apprezzamento del giudice di una valutazione ampia ed adeguata delle peculiarità della singola fattispecie.
Ecco che agli interpreti si presenta un altro, assolutamente ultroneo, capitolo del Contenzioso da emergenza sanitaria, che si può temere affliggerà per i prossimi decenni la Giustizia civile italiana.
5. Il testo vigente: rinvio.
Pare utile riportare quello che parrebbe il testo vigente dell’art. 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), risultante dopo la legge di conversione (l. 24 aprile 2020, n. 27) e coordinato con il decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (in attesa di conversione, ma con le modifiche in sede di conversione di questo, secondo quanto risulta al 24/06/2020). Una curiosità: oltre 4.700 parole e non meno di ottantatre disposizioni diverse (con alcuni commi articolati su più di cinque periodi …).
Occorrerebbe un'appendice ad hoc. È meglio allora rinviare al testo dei siti specializzati, in attesa della prossima modifica.
[1] Tra molti, v.: V. Roppo, R. Natoli, Contratto e Covid-19. Dall'emergenza sanitaria all'emergenza economica, in questa rivista, dal 28/04/2020; M. Zaccheo, Brevi riflessioni sulle sopravvenienze contrattuali alla luce della normativa sull'emergenza epidemiologica da Covid-19, in www.giustiziacivile.com;
Juanito Patrone. Essere magistrato, ieri e oggi. E domani?
intervista di P.Filippi e R.Conti
Giustizia Insieme prosegue il suo viaggio nel pianeta giustizia dando la parola a magistrati che hanno lasciato segni tangibili della loro esperienza professionale fino a condizionare il ruolo, la funzione e l’immagine della magistratura.
Juanito Patrone ha accettato di descrivere il mondo nel quale è approdato ed è vissuto. E lo ha fatto con quella serenità, sincerità e schiettezza che chi ha avuto la fortuna di conoscerlo un po’ più da vicino gli riconosce unanimemente.
Le risposte all'intervista sono proprio come lui vere e intelligenti. Anche quando denuncia il malaffare che ammalora il governo autonomo della magistratura riesce a sorridere e a farci sperare in un futuro migliore.
La sua esperienza di magistrato e di esponente di spicco di una delle correnti della magistratura percepita notoriamente come “di sinistra” offre elementi importanti di valutazione a chi vuole farsi un’idea dell’ordine giudiziario aliena da quel ragionare e pensare di pancia che distrugge piuttosto che costruire.
La “scoperta” del diritto sovranazionale che Patrone colloca per lui alla fine degli anni ’90 contiene, in pillole, la risposta al perché del fiorire di tante iniziative “culturali” che hanno via via messo al centro delle riflessioni e discussioni dei giuristi i diritti fondamentali.
L’interrogativo finale al quale Patrone non riesce o non si sente di dare risposta spetta dunque a chi legge riempirlo, forte delle conoscenze e delle memorie di persone come Juanito, all’esperienza delle quali i meno giovani e i giovani non dovrebbero rinunziare anche quando esse dimostrano che il sistema non ha funzionato, che gli ideali sono stati traditi e, in definitiva, che nessuno è perfetto.
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1. Ci piacerebbe che ripercorressi a ritroso il film degli avvenimenti più significativi del tuo lavoro, non tanto con la lente orientata verso la prospettiva personale, quanto in una prospettiva capace di mettere in luce, in modo obiettivo, alcuni temi che oggi ritornano nel dibattito politico e della società quando si pensa al ruolo ed alla funzione del magistrato, alla funzione di garanzia e alla tutela dei diritti fondamentali.
Ho sostenuto gli scritti del concorso nel gennaio del 1979. Un periodo terribile: proprio in quei giorni, mentre ero a Roma, venne assassinato Guido Rossa, non si contavano poi i magistrati uccisi dai terroristi in quegli anni: Tartaglione, Palma, Minervini, Alessandrini, e poi Galli e poi Bachelet ed altri ancora. E i carabinieri, i poliziotti, i giornalisti, gli avvocati. Mario Amato, sostituto procuratore a Roma, impegnato nelle indagini sui gruppi eversivi di estrema destra, venne freddato alla fermata dell'autobus il 23 giugno 1980, il giorno del mio ventottesimo compleanno: ero magistrato da pochi giorni. Non vi erano vere e proprie scorte né particolari cautele, neppure per i colleghi impegnati nelle indagini più delicate e scottanti: alcuni vennero assassinati su mezzi pubblici, altri come Alessandrini per strada, dopo aver accompagnato i figli a scuola, e Galli all'Università ove teneva dei corsi.
Quello era il clima nel Paese ed entrare in magistratura allora aveva perciò un significato ben preciso, era scegliere le istituzioni, la Costituzione, lo stato democratico contro la violenza e l'eversione. Oggi mi è difficile spiegare ai miei figli quel clima, quei giorni, quelle scelte. Genova poi, la mia città, era al centro dell'azione delle Brigate Rosse, era impossibile non imparare a convivere con posti di blocco, perquisizioni, violenze e minacce.
Eppure gli anni '70 sono stati in Italia anche quelli delle grandi riforme democratiche: lo Statuto dei lavoratori, 1970; la legge sul divorzio, 1970; la riforma del diritto di famiglia, 1975; la riforma penitenziaria, 1975; la legge sull'aborto, 1978; la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, 1978; la legge di riforma sanitaria, 1980. L'Italia in 10 anni o poco più era cambiata come mai era accaduto nei decenni precedenti. Per me entrare in magistratura significava anche essere una parte, piccola certo, di quel processo democratico, era una reazione al terrorismo, rosso e nero, era un impegno personale e diretto.
Le mie prime funzioni, per sei anni, furono di pretore mandamentale, un ufficio oggi dimenticato: tenevo udienza di lavoro il lunedì', di civile il mercoledì e di penale in venerdì: il sabato si andava in ufficio, ma non ero mica il solo a farlo: a raccontarlo oggi sembra impossibile questo eclettismo, ma in generale le norme processuali erano più semplici e i casi trattati in Pretura – tranne alcune eccezioni – di non complessa decisione: e poi c'era la nostra gioventù: entravamo in magistratura più giovani di quanto sia possibile fare oggi, ricordo che del mio concorso avevamo tutti, salvo pochi, meno di trent'anni e solo due colleghe avevano già figli.
La mia carriera successiva ? Giudice civile del Tribunale di Genova, sezione fallimentare e dell'esecuzione, poi PM minorile, PM della “Procurina”, sempre a Genova, quindi assistente di studio alla Corte costituzionale, infine alla Procura generale della cassazione e da ultimo un intermezzo di due anni a Parigi come magistrato italiano di collegamento. Per otto lunghi anni sono stato PM disciplinare alla Procura generale della cassazione, un'esperienza che ha cambiato, e non in meglio, la mia considerazione della capacità della magistratura di autogovernarsi senza spirito corporativo.
Non mi sono mai veramente specializzato in nulla, confesso che dopo un po' mi annoio a trattare lo stesso tipo di procedimenti e poi sono sempre stato curioso ed ogni volta mi piaceva ricominciare coi fondamentali di una nuova materia. Non ho neppure mai veramente deciso se sono un civilista o un penalista ed ormai per me il tempo per saperlo è scaduto. Non credo che ai colleghi più giovani sia possibile, oggi, fare tutte le scelte che ho potuto fare io: il cambio di funzioni era più semplice, il modello di giudice - e di PM - era quello di un professionista tendenzialmente adattabile a vari saperi e varie esperienze.
2.L’attenzione ai diritti fondamentali della persona e alle garanzie degli utenti del servizio giustizia in che modo hanno connotato le tue funzioni di giudice del merito e poi quelle di legittimità presso la procura generale della Cassazione?
3.Dagli anni ‘80 ad oggi come è cambiata la società civile, quale la diversa attenzione verso i diritti fondamentali? Quanto ha contributo la magistratura alla sensibilizzare in tema di diritti fondamentali? Quanto gli interventi della Cedu?
Quando sono entrato in magistratura, nel 1980, la nozione di “diritti fondamentali” non era, per quanto io possa ricordare, ancora in uso: piuttosto appariva centrale il dibattito sui diritti costituzionali, il cui pieno riconoscimento era affidato all'allora vivacissima giurisprudenza della Corte ed alle riforme, che alcuni definivano “di struttura”, che prima ho brevemente ricordato.
La società italiana aveva attraversato dagli anni '60 un lungo periodo di trasformazione, economica e non solo, e la giurisprudenza seguiva tali mutamenti sia attraverso le decisioni dei giudici che mediante le questioni che venivano sollevate davanti alla Corte costituzionale. Una caratteristica del tempo era la vivacità delle giurisdizioni di merito, specie dei pretori: alcuni giornalisti inventarono la definizione di “pretori d'assalto” per indicare quegli uffici, e quei colleghi, maggiormente impegnati nella scoperta dei beni collettivi da tutelare, l'ambiente, il territorio, la salute. Ci furono certamente invasioni del campo riservato all'amministrazione, alcuni episodi (evitabili) di protagonismo individuale, qualche forzatura interpretativa. Il dibattito però fu fecondo e fece scoprire agli italiani che la legge poteva essere davvero “uguale per tutti” o, almeno, che qualcuno ci provava a renderla tale.
Si scoprì anche un atteggiamento anticonformistico delle giurisdizioni di merito rispetto alla giurisprudenza della cassazione, che era vista, e giustamente, come il baluardo della conservazione e non solo di quella giudiziaria. Questa forma di disubbidienza diffusa, da parte dei giudici di livello meno elevato, ai vertici ordinamentali e giurisprudenziali della magistratura fu certamente resa possibile dalle leggi cd. Breganze e Breganzone che avevano sostanzialmente abolito la carriera per cooptazione dall'alto verso il basso. Negli anni '80 non avevamo quindi più alcun timore di esprimere una nostra linea giurisprudenziale alternativa (come si diceva allora).
Per far comprendere ai più giovani il clima di quegli anni farò un solo esempio, la tutela della salute nei luoghi di lavoro. L'art. 32 della Costituzione, insieme ad una nuova lettura dell'art. 2087 del codice civile, divennero i canoni interpretativi di disposizioni, peraltro già contenute in testi unici del 1955 e del 1956, che avevano avuto sino a quegli anni una ben limitata applicazione e sostanzialmente solo da parte di organi amministrativi come gli Ispettorati del lavoro. Attraverso interpretazioni sistematiche e – diremmo oggi – costituzionalmente orientate delle norme vigenti si giunse, sia pure a macchia di leopardo sul territorio nazionale, a forme di tutela e prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali sino ad allora impensabili.
Compiere ispezioni sui luoghi ove si erano verificati i più gravi infortuni divenne una prassi in molti uffici, compreso il mio: ricordo ancora lo sgomento e il panico degli addetti alla sicurezza aziendale (il mio mandamento era uno dei più industrializzati d'Italia) quando mi presentavo – senza alcun preavviso - ai cancelli, con un paio di carabinieri e i tecnici della ASL e dell'Ispettorato, dicendo loro che dovevano farmi entrare per eseguire una ispezione; nessuno aveva mai osato tanto ! Il sequestro penale di macchinari e di interi reparti divenne il mezzo per costringere il datore di lavoro ad ottemperare alle misure di protezione e di igiene.
La CEDU la scoprii dopo, quando ero assistente del giudice Fernanda Contri alla Corte costituzionale ed era entrato in vigore, nel 1998, il Protocollo addizionale che, abolendo il preventivo esame dei casi da parte della Commissione, aveva creato un rapporto diretto ed immediato tra il giudice europeo e i ricorrenti. Fu una rivoluzione non solo procedurale, ma soprattutto culturale.
Il mio interesse fu valorizzato dalla Corte e mi venne assegnata la redazione di una prima rassegna interna di giurisprudenza della CEDU. Ricordo in particolare l'incoraggiamento che mi venne da parte, oltre che del giudice Contri, del professor Onida e del professor Neppi Modona. Curai nel tempo anche qualche ricerca di diritto internazionale e di diritto comparato, favorito certamente dalla mia buona conoscenza di francese ed inglese. Ci fu, in parallelo, la battaglia (perché di battaglia si trattò) per mettere al giusto posto nel sistema delle fonti la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, approvata nel 2000 fra mille ostacoli e mille difficoltà e dalla collocazione allora incerta. Ma quante resistenze tra i magistrati ed i costituzionalisti, anche italiani, e quante difficoltà a far riconoscere valore giuridico alla Carta. Fu un periodo molto intenso, che ricordo con piacere, anche perché coincise con la nascita del Gruppo Europa di Magistratura democratica, di cui fui uno dei fondatori. Oggi vedo con grande gioia e soddisfazione che quel lavoro pionieristico ha dato frutti importanti e credo che il riconoscimento della posizione della giurisprudenza delle due Corti d'Europa anche sul piano dei rapporti interni e della tutela di quelli che sono divenuti, a tutti gli effetti, i diritti fondamentali sia un'acquisizione ormai riconosciuta da tutti.
4.Quando sei entrato in magistratura cosa rappresentavano le correnti? Il tuo ingresso in Magistratura democratica e in Medel. Come, quando e perché.
5.Nel 2005 hai assunto la carica di Segretario nazionale di Magistratura democratica, come era la magistratura associata e magistratura democratica quindici anni fa, cosa è cambiato da allora? (Come hai vissuto quell’esperienza?)
Le correnti nel 1980: bella domanda.
Sulla storia della magistratura associata in Italia c'è una biblioteca di saggi e di articoli e non intendo qui ripetere cose già dette e scritte, molto meglio, da altri.
Entrai subito in Md: venivo da esperienze politiche di sinistra e non ci avevo pensato su, avevo aderito sin dai primissimi giorni. Md voleva dire, allora, essere in minoranza, sempre e comunque, non avere prospettive di carriera, rischiare pure qualche azione disciplinare per commenti e prese di posizione non gradite ai capi degli uffici che, a loro volta, erano tutti o quasi di Magistratura indipendente. Ricordo la prima elezione di un componente di Md (era Claudio Viazzi) nel Consiglio giudiziario di Genova che fu vissuta come un grande successo, l'elezione di tre componenti del CSM (su trenta) nel 1981. In Md ho fatto molte cose, il segretario sezionale, il componente del Consiglio nazionale, poi dell'esecutivo e infine il segretario nazionale per due anni, dal 2005 al 2007. Mi dimisi dopo la sconfitta alle elezioni per il Consiglio del 2006: visto oggi, quel risultato sarebbe giudicato buono ma allora perdemmo un consigliere e la cosa non venne ben digerita. Vi fu poi, immediatamente dopo, un contrasto politico serio con la nostra rappresentanza nel Cdc della Anm, in particolare sull'atteggiamento da tenere nei confronti del Ministro Mastella e delle sue proposte di modifica della riforma Castelli-Berlusconi. Capii che il mio tempo era finito e me ne andai.
Quella Md – intendo quella degli anni 80 - non è paragonabile a quella di oggi, che poi non ho neppure capito bene se esiste, visto che ha ceduto ad Area la rappresentanza in Consiglio ed in Anm. Avrete capito che a me l'esperimento della fusione non è mai piaciuto, dietro ad esso a mio avviso stava la voglia di pesare di più numericamente, piuttosto che una vera proposta, culturale prima che politica, ma le cose vanno secondo una loro logica e credo di non aver mai fatto opposizione pubblica ad un progetto che andava avanti per volere della grande maggioranza degli aderenti ai due gruppi. La democrazia va rispettata, solo che non si può imporre una scelta a tutti: col tempo mi sono prima staccato dalla vita associativa attiva e poi, in silenzio, dimesso.
Ad essere franco, ho trovato le ultime esperienze consiliari francamente incomprensibili, visto che non ho più percepito la differenza tra i consiglieri di Area e gli altri, se non su questioni di mera bandiera o di astratto principio, che però lasciano il tempo che trovano: sulle nomine, sui fuori ruolo, sugli incarichi extragiudiziari onestamente mi sono sembrati tutti sullo stesso piano. Non ho però risentimenti né rimpianti, non ho mai fatto domanda per posti direttivi né ho chiesto favori ad alcuno, e sono contento così.
Medel. Il mio primo incontro con l'associazione europea fu casuale: era stata fissata una riunione del Consiglio a Berlino, nel 1998, e Bruti Liberati, rappresentate di Md, aveva chiesto di essere affiancato da qualcuno: sapevo l'inglese e un po' di francese e mi proposi.
Sono stato nella associazione europea sino al 2005, quando sono stato eletto segretario di Md e ancora oggi mi chiedo se non sarebbe stato meglio per me rimanere in Europa. Una volta cessata la carica nazionale, ho ripreso un'assidua attività internazionale: sono stato per sei anni componente del Gruppo di esperti della Commissione europea per le politiche penali, ho lavorato con Eurojust, ho partecipato a seminari, riunioni e congressi un po' ovunque, dalle Azzorre al Kazakistan, passando per il Medio Oriente. Tutto molto interessante e, devo dire, spesso anche divertente, partendo da quella riunione di Berlino che aveva risvegliato in me un sentimento federalista europeo che veniva dalla stessa mia cultura familiare.
6.Correnti e correntismo. Come sono cambiate le correnti della magistratura nel corso della tua esperienza lavorativa? Cosa non è andato ? Cosa si può fare?
7.Partecipare è stato per te un imperativo categorico. Quale il consiglio che riguardo alla partecipazione daresti ad un giovane che entra ora a far parte dell’ordine giudiziario? Riguardo all’esercizio delle funzione se dovessi dare tre suggerimenti cosa suggeriresti?
In questi mesi, in queste settimane, leggo spesso affermazioni del tipo: “occorre ripristinare il merito nelle nomine, basta con correnti e correntismo”, et similia.
A mio modesto avviso non c'è proprio nulla da ripristinare.
Se dovessi elencare le persone manifestamente inadatte o inidonee se non del tutto incapaci che in quaranta anni ho visto nominare a posti direttivi e semidirettivi non mi basterebbe una pagina: solo che un tempo queste nomine erano tutte espressione di un solo gruppo associativo, Magistratura indipendente, che ha avuto la maggioranza in Consiglio, anche assoluta, per molto tempo. Poi è subentrato un asse assai forte di MI con Unicost, quindi alla spartizione hanno iniziato a prendere parte, inizialmente con qualche difficoltà, poi con crescente successo, anche i due gruppi di Md e Movimento per la giustizia.
Dalle intercettazioni sinora note del caso Palamara emerge una realtà che i magistrati italiani conoscono bene, ma della quale – salvo pochissimi - preferiscono non parlare: quella della assoluta discrezionalità, ai limiti dell'arbitrio, che ha il CSM nel decidere le nomine: discrezionalità mascherata da motivazioni fondate su lunghissime ed indigeribili circolari sulle valutazioni di professionalità, sui pareri dei Consigli giudiziari, sulle relazioni dei dirigenti; tutte parole, buone solo a creare motivi per i successivi ricorsi al TAR e a stendere una cortina fumogena su accordi di ogni tipo, leciti e, come si è visto, illeciti. Le condotte che sono emerse non costituiscono una anomalia, qualcosa di estraneo alla storia del consiglio: al contrario si tratta dell'ultima degenerazione – certamente la più grave - di un sistema ampiamente compromesso da molti anni di pratica lottizzattoria e di opacità. I Palamara ed i Cosimo Ferri non vengono da Marte, non sono ultracorpi pronti ad impadronirsi di noi: essi sono il precipitato di un andazzo che dura da lungo tempo, mai seriamente contrastato da alcuno, anche se certamente c'è chi questo sistema l'ha praticato di più, chi di meno: ma nessuno è senza peccato, nessuno lo ha denunciato, almeno da quando anche MD, che era nata con una forte carica anticorporativa, ha deciso che occorreva saltare il fossato ed adeguarsi ai tempi: gli ultimi consigli, da questo punto di vista, sono stati spesso imbarazzanti.
Le circolari poi … esse un giorno valgono ed il giorno dopo vengono derogate, specie per quel che concerne gli incarichi extra-giudiziari e i collocamenti fuori ruolo, il tutto nelle forme del favore di corrente e clientelare e anche qui della più ampia discrezionalità. Discrezionalità che poi, inevitabilmente, è degenerata nel clientelismo, nella richiesta dell'omaggio vassallatico, nella continua necessità di andare a segnalare nel Palazzo di Piazza Indipendenza il proprio caso, la propria situazione meritevole di attenzione: per ottenere un trasferimento, una nomina da quattro soldi, una “gloria da stronzi” (cito da L'Avvelenata di Guccini) o un posto di vero comando. Colleghi per bene, stupiti di non essere stati neppure presi in considerazione nella valutazione in Commissione, si sono sentiti rispondere che “non avevano mica segnalato che erano davvero interessati” a quel posto. Si erano limitati a fare domanda nelle forme previste, gli ingenui.
E chi fra consiglieri ed ex-consiglieri dice “io non l'ho mai fatto, noi eravamo diversi”, mente sapendo di mentire, perché i casi sono due: o l'ha fatto mettendosi d'accordo e usando il vecchio sistema del “questo a te e questo a me”: o davvero non l'ha fatto e non l'ha saputo, ma allora ammette di essere un fesso totale, cui passano davanti agli occhi le pastette senza che se ne accorga.
Non c'è stata un'età dell'oro, della buona fede assoluta, della pulizia morale: ci sono stati periodi diversi della lottizzazione a seconda delle mutevoli maggioranze tra i componenti togati e quelli laici: tutto è distribuito secondo un Manuale Cencelli: dai posti di segretario al Consiglio a quelli alla Scuola della magistratura, dai trasferimenti agli uffici più ambiti sino ai posti di referente per l'informatica o della formazione distrettuale. Da anni, ad esempio, i concorsi al Massimario della cassazione sono oggetto di meticolose spartizioni col bilancino e vengono accompagnate da sucecssive polemiche.
Palamara non ha inventato nulla, solo ha portato un sistema già in atto da tempo alle sue estreme conseguenze. Non sono un appassionato lettore di trascrizioni in genere, ma ciò che mi ha colpito è stato proprio questa totale assenza di prudenza, questo ragionare solo in termini di “noi” e “loro”, questa sfacciata rivendicazione di potere.
Ma già da tempo la magistratura manifestava questa involuzione: in fondo Cosimo Ferri – il quale, non a caso, partecipava quale dominus di MI, ai dopo cena all'Hotel Champagne – da anni raccoglieva valanghe di consensi sulla base di programmi di mera protezione dei singoli ed aveva organizzato micidiali macchine di informazione sui lavori del Consiglio: del resto si è consentito, in difesa di una (per me inspiegabile) necessità di avere sempre e comunque l'unità associativa, di formare giunte con un gruppo, MI, diretto da un … sottosegretario alla giustizia, poi parlamentare: tutti lo sapevano e nessuno diceva nulla.
L’esame d’ufficio dell’abusività delle clausole dei contratti con i consumatori nella elaborazione della Corte UE
di Silvia Vitrò
Sommario: 1. La sentenza della Corte di Giustizia dell’11.3.2020, causa C-511/17. – 2. Il principio di effettività e l’elaborazione della Corte UE circa l’esame d’ufficio dell’abusività delle clausole dei contratti stipulati con i consumatori. – 2.1. Il principio di effettività. – 2.2. Le nullità di protezione. – 2.3. La rilevabilità d’ufficio nella giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia. – 2.4. La rilevabilità d’ufficio nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – 3. Le novità introdotte dalla sentenza della Corte UE dell’11.3.2020.
1. La sentenza della Corte di giustizia dell’11.3.2020, causa c-511/17
Nella causa C‑511/17[1], avente ad oggetto domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Corte di Budapest Capitale, Ungheria, con decisione del 18 luglio 2017, nel procedimento Györgyné Lintner v. UniCredit Bank Hungary Zrt., la domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la signora Györgyné Lintner e la UniCredit Bank Hungary Zrt., riguardo all’abusività di talune clausole che figurano in un contratto di mutuo ipotecario espresso in valuta estera[2].
Il 13 dicembre 2007 la sig.ra Lintner stipulava con l’UniCredit Bank un contratto di mutuo ipotecario espresso in valuta estera. Tale contratto contiene talune clausole che conferiscono all’UniCredit Bank il diritto di modificare unilateralmente detto contratto.
Il 18 luglio 2012 la Corte di Budapest è stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso, basato segnatamente sulla direttiva 93/13, proposto dalla sig.ra Lintner e diretto a ottenere la pronuncia retroattiva dell’invalidità di tali clausole. La Corte ha respinto il ricorso.
La Corte d’appello regionale di Budapest, su appello interposto dalla sig.ra Lintner, ha annullato tale sentenza e rinviato la causa alla Corte di Budapest, ricordando che, nella sua giurisprudenza relativa alla direttiva 93/13, essa aveva sistematicamente evocato il principio secondo cui il giudice, nelle cause relative a contratti stipulati con i consumatori, deve esaminare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole contenute in tali contratti.
La Corte di Budapest, chiamata allora a pronunciarsi d’ufficio su clausole che la sig.ra Lintner non aveva censurato, neanche in modo indiretto, si è chiesta in quale misura dovesse procedere all’esame del carattere abusivo di ogni clausola di un contratto e ha fatto riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, in particolare alla sentenza del 4 giugno 2009, Pannon GSM (C‑243/08, EU:C:2009:350), da cui risulterebbe che la valutazione d’ufficio del carattere abusivo delle clausole è motivata dal fatto che il consumatore ignora i suoi diritti o che è dissuaso dal farli valere, a causa delle spese che un’azione giudiziaria comporterebbe.
In tale contesto, la Corte di Budapest ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva [93/13] debba essere interpretato – anche in considerazione della normativa nazionale relativa alla rappresentanza processuale obbligatoria – nel senso che occorre esaminare individualmente ogni clausola contrattuale nella prospettiva della possibilità di considerarla abusiva, indipendentemente dalla circostanza che sia effettivamente necessario un esame dell’insieme delle pattuizioni del contratto per statuire in ordine alla domanda formulata nell’ambito dell’azione.
2) Se invece, in senso opposto a quanto si espone nella prima questione, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva [93/13] debba essere interpretato nel senso che occorre esaminare tutte le altre clausole del contratto per concludere che la clausola sulla quale si fonda la domanda è abusiva.
3) Nell’ipotesi di una risposta affermativa alla seconda questione, se da ciò consegua che, per poter determinare il carattere abusivo della clausola in parola, occorra procedere all’esame del contratto nella sua interezza, sicché il carattere abusivo di ciascuno degli elementi del contratto non deve essere esaminato autonomamente e indipendentemente dalla clausola impugnata nella domanda giudiziale».
2. Il principio di effettività e l’elaborazione della Corte UE circa l’esame d’ufficio dell’abusività delle clausole dei contratti stipulati con i consumatori. 2.1. Il principio di effettività.
Ai sensi dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea:
”Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo”.
Il principio di effettività implica, dunque, la concreta realizzazione del diritto ad una tutela giudiziaria effettiva.
Le Corti nazionali ed extra nazionali si sono da tempo occupate di questo argomento.
Per esempio la Corte Costituzionale con una sentenza n. 238/2014[3] ha ricollegato il principio di effettività al combinato disposto degli articoli 2, 3, 24 della costituzione; nella sentenza n. 164 del 12 luglio 2017[4] i principi di effettività ed equivalenza di matrice europea sono fatti assurgere «a cardini necessari di ogni diritto nazionale in tema di responsabilità dello Stato per le conseguenze del danno provocato da provvedimenti giurisdizionali adottati in violazione del diritto europeo».
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 21255/2013[5] ha fatto riferimento a “rimedi adeguati per tutelare una irripetibile e unica situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelabile”.
La Corte di Giustizia UE applica il principio di effettività tramite l'interpretazione delle direttive.
la Corte EDU è intervenuta via via negli anni per garantire il diritto ad un rimedio effettivo anche di diritti fondamentali inerenti la proprietà, il contratto, la protezione dei diritti sociali.
Ultimamente, nella giurisprudenza delle Corti Europee e Nazionali si è formato l’orientamento secondo il quale la tutela sostanziale ed effettiva dei diritti fondamentali venga realizzata in primo luogo attraverso l'uso di poteri processuali del giudice, sempre più incisivi, più adeguati a rendere appunto effettiva la tutela giurisdizionale dei diritti.
Ciò avviene principalmente attraverso il superamento della barriera costituita dal principio “chiesto/pronunciato”, attraverso il rilievo d'ufficio della natura abusiva delle clausole e attraverso l'adozione di criteri ermeneutici del diritto interno conformi alla lettera e allo scopo delle direttive comunitarie e compatibili con la convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Nella materia del diritto dei consumatori si parla di nullità di protezione del consumatore. È stato così introdotto un nuovo concetto di ordine pubblico di protezione, che non tutela un interesse generale della collettività, ma solo alcuni soggetti giuridici, appartenenti a gruppi sociali caratterizzati da vulnerabilità e debolezza.
E così che è nata la rilevabilità d'ufficio di nullità relative. Perché in realtà in tal modo è anche protetto il mercato, cioè l'interesse generale al suo sviluppo, tramite la protezione di chi può assicurare tale sviluppo, cioè i consumatori.
E, nelle sentenze della Corte di Giustizia, si è fatta strada negli ultimi anni l'idea che si tratti non di una mera facoltà, ma di un obbligo del giudice di valutare d'ufficio la natura abusiva nelle clausole contrattuali, interpellando il consumatore per accertare se il mancato rilievo di parte sia frutto di una scelta consapevole o meno e provvedendo poi al rilievo della nullità in assenza di un'espressa dichiarazione del consumatore di non voler invocare la natura abusiva della clausola.
Altri profili rilevanti sono quelli del superamento dell'autorità di cosa giudicata, della possibile disapplicazione di clausole vessatorie anche in fase monitoria, dell'esame del titolo esecutivo da parte del giudice dell'esecuzione, del mantenimento in vigore del contratto una volta eliminate le clausole abusive, a meno che l'eliminazione del contratto sia più favorevole al consumatore, delle azioni di classe, laddove la rilevanza di poteri processuali del giudice si può manifestare già nella fase preliminare attraverso una disciplina puntuale della pubblicità dell'azione di classe e delle forme di adesione all'azione.
2.2. Le nullità di protezione.
Il Codice del Consumo italiano contiene una elencazione esemplificativa di clausole che si presumono vessatorie fino alla prova contraria (art. 33, 2° comma del Codice del consumo, lettere da a) a v ter), c.d. "lista grigia"), contrapposta alla individuazione di una serie di clausole ritenute comunque vessatorie (art. 36, 2° comma del Codice del Consumo, lett. da a) a c), c.d. "lista nera").
In questo secondo caso si tratta di un regime particolarmente rigoroso e protezionistico per il consumatore:
a) perché sono clausole nulle sempre e comunque, anche se sono state concordate tra le parti, e quindi inizialmente volute dal consumatore;
b) non solo non è sufficiente la semplice approvazione scritta, ma anche la consapevole volontà di aderire a tali condizioni, perché frutto di trattativa, non basta a dare loro validità, in quanto, essendo obiettivamente dannose per il consumatore, questi, pur avendole inizialmente accettate e concordate, è sempre libero di farne valere l’illiceità.
In base all’art. 34, la vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione e alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende.
In base all’art. 36, le clausole vessatorie vengono considerate nulle, mentre il contratto rimane valido; la nullità opera solo a vantaggio del consumatore, e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
2.3. La rilevabilità d’ufficio nella giurisprudenza della Corte europea di giustizia.
Venendo più specificamente alla questione della rilevabilità d’ufficio delle nullità da parte del giudice e dell’intensificarsi dei suoi poteri processuali, si nota che si stanno appunto modificando i poteri processuali del giudice.
Il diritto processuale è immutato, quindi si tratta solo di un cambiamento giurisprudenziale, attraverso il dialogo tra le Corti nazionali e le Corti europee.
In particolare, si è assistito ad una evoluzione della giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, che si è espressa attraverso una serie di pronunce inerenti la materia di clausole abusive nei contratti dei consumatori. Tali sentenze delineano, pur con diversità di accenti, la posizione assunta dai giudici della Corte, che guardano al grado di effettività della tutela giurisdizionale per il consumatore ed ai livelli ottimali di concorrenzialità del mercato comune[6].
Il primo punto fermo in materia è stato fissato dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza Oceano Grupo Editorial (27/6/2000, C-240/98 e C-244/98)[7], che ha asseverato l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, dir. 93/13 CEE sulle clausole abusive, secondo la quale ≪il giudice (anche in assenza di espressa previsione normativa) nell’esaminare l’ammissibilità di un’istanza propostagli, possa valutare d’ufficio l’illiceità di una clausola del contratto per cui è causa≫, rilevando che ≪il sistema di tutela istituito dalla direttiva si basa sull’idea che la disuguaglianza tra il consumatore e il professionista, per quanto riguarda sia il potere nelle trattative, sia il grado di informazione, possa essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale≫.
Una volta stabilito da Oceano Grupo Editorial che il giudice nazionale ha il potere di rilevare d’ufficio le nullità di protezione, si trattava di individuare i limiti entro i quali il giudice, anche alla luce degli ordinamenti interni, potesse esercitare tale potere.
Con la coeva sentenza Cofidis (21/11/2002, C-473/00)[8], il giudice comunitario ha nuovamente espresso il proprio convincimento, affermando che la dir. 93/13/CEE ≪osta a una normativa interna che, in un’azione promossa da un professionista nei confronti di un consumatore e basata su un contratto stipulato tra loro, vieti al giudice nazionale, alla scadenza di un termine di decadenza, di rilevare, d’ufficio o a seguito di un’eccezione sollevata dal consumatore, il carattere abusivo di una clausola inserita nel suddetto contratto≫, poiché questo comporterebbe una ingiustificata diminuzione della tutela che la normativa comunitaria riserva al consumatore.
Successivamente, con la sentenza Mostaza Claro (26/10/2006, C-168/05)[9], la Corte ha ribadito tali principi e, in particolare, ha stabilito che la direttiva comunitaria de qua ≪dev’essere interpretata nel senso che essa implica che un giudice nazionale, chiamato a pronunciarsi sulla impugnazione di un lodo arbitrale, rilevi la nullità dell’accordo arbitrale e annulli il lodo, nel caso ritenga che tale accordo contenga una clausola abusiva, anche qualora il consumatore non abbia fatto valere tale nullità nell’ambito del procedimento arbitrale, ma solo in quello per l’impugnazione del lodo≫.
Nella sentenza Asturcom (6/10/2009, C-40/08)[10], la Corte afferma che, solo ove le norme procedurali interne contemplino la facoltà per il giudice di vagliare officiosamente la contrarietà della clausola compromissoria ai principi dell’ordine pubblico, il giudice potrà procedere ad accertare l’abusività di una siffatta clausola ex art. 6 direttiva, e che egli è tenuto a valutare d’ufficio l’abusività di una siffatta clausola solo a partire dal momento in cui dispone degli elementi giuridici e fattuali necessari.
Inizia a profilarsi in questo momento il problema del coordinamento della disciplina consumeristica con i principi del diritto processuale interno.
Su questa scia, con la sentenza Pannon (4/6/2009, C-243/08)[11], il giudice comunitario ha precisato che ≪il giudice nazionale deve esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine. Se esso considera abusiva una siffatta clausola, non deve applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga≫.
Sussiste, dunque, non solo una facoltà, ma un vero obbligo del giudice nazionale di valutare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, in tal modo ponendo un argine allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista.
Ebbene, poiché nella pratica non è affatto detto che il consumatore dichiari espressamente, sua sponte, nei propri scritti difensivi, di non volersi avvalere del diritto ad impugnare la clausola vessatoria, sarà onere del giudicante, preliminarmente all’esercizio dei propri poteri d’ufficio, d’interpellare il consumatore per accertare se la mancata impugnativa della clausola costituisca il frutto di una scelta consapevole e non, piuttosto, di una carenza difensiva.
Solo all’esito dell’interpello, ed in assenza di un’espressa dichiarazione del consumatore di non volere invocare la natura abusiva e non vincolante della clausola, il giudice nazionale dovrà dichiararne la nullità.
Tali precisazioni sono rafforzate dalla successiva sentenza Eva Martin Martin (17/12/2009, C-227/08)[12], nella quale la Corte ribadisce che un giudice nazionale ha il potere dovere di rilevare d’ufficio la nullità di un contratto ancorché questa non sia mai stata opposta dal consumatore e che come limite opera la sola circostanza che il suddetto consumatore, debitamente interpellato dal giudice, dichiari di non volersi avvalere di questa nullità.
Restavano aperti alcuni interrogativi in merito ai poteri del giudice nazionale di rilevare la nullità. In particolare ci si era chiesti: 1) se il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità anche in caso di contumacia del consumatore; 2) se il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità nel caso in cui abbia interpellato il consumatore in merito alla possibilità di avvalersi della nullità di protezione disposta in suo favore, e il consumatore non si sia pronunciato; 3) se il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità nel caso in cui il consumatore abbia radicato la controversia in conformità della clausola abusiva che in ipotesi gli è sfavorevole.
Riguardo al punto 1) la dottrina più recente ha ritenuto che la contumacia non sia di per sè indice della volontà di non avvalersi della nullità e, pertanto, che il giudice sia libero di rilevare la nullità d’ufficio.
Circa le questioni di cui ai punti 2) e 3), la dottrina più recente ammette che il comportamento processuale del consumatore rilevi nel senso di una rinuncia, anche tacita, ad avvalersi della clausola.
La Corte di Giustizia, però, richiede al giudice di non applicare la clausola nulla tranne nel caso in cui il consumatore vi si opponga, presupponendo cosi un intervento attivo al fine di evitare la declaratoria di nullità.
Per quanto riguarda l’espressione, contenuta, fra l’altro, nella sentenza Pannon, secondo cui il giudice ha l’obbligo di rilevare la vessatorietà di una clausola dal momento in cui dispone degli elementi di fatto e diritto necessari a tal fine, si intende far riferimento ad autonomi poteri di iniziativa istruttoria del giudice, a integrazione delle prove dedotte dalle parti.
Così la sentenza Penzugyi Lizing ZRT (9/11/2010, C-137/08)[13], ove viene statuito un obbligo imposto al giudice di adottare misure istruttorie, allo scopo dell’osservanza di una norma imperativa di ordine pubblico.
Altre pronunce della Corte di Giustizia UE appaiono rilevanti ed in particolare:
- Corte UE, 15 marzo 2012, C-453/10, Caso Perenicˇovà[14], sulla caducazione dell’intero contratto a causa della nullità delle clausole vessatorie. La finalità della dir. 93/13 consiste nel ripristinare l’equilibrio delle parti salvaguardando al contempo in linea di principio la validità del contratto nel suo complesso. Però, in linea con la previsione del suo art. 8, la direttiva non osta a che uno Stato membro preveda, nel rispetto del diritto dell’Unione, che un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore e contenente una o più clausole abusive sia nullo nel suo complesso qualora ciò risulti garantire una migliore tutela del consumatore.
- Corte di Giustizia UE, 14 giugno 2012, C-618/10 (Banco Espanol de Credito)[15]: la Corte ha avuto modo di affermare due importanti principi in materia di clausole vessatorie e tutela del consumatore:a) i giudici sono tenuti ad esaminare d’ufficio l’eventuale vessatorietà delle clausole contenute nei contratti con i consumatori a partire dal momento in cui dispongono degli elementi di fatto e di diritto per farlo. Ciò significa che anche nella fase monitoria il giudice deve disapplicare le clausole vessatorie, eventualmente respingendo il ricorso che si fondi su una pattuizione in grado di determinare una squilibrio contrattuale in danno del consumatore. Tale verifica, prosegue la Corte, non può essere rinviata alla successiva fase dell’opposizione in quanto questa ha un carattere meramente eventuale; b) la Corte poi esclude la possibilità che il giudice interno possa essere munito di poteri equitativi strumentali alla riformulazione del contenuto di una clausola vessatoria in modo tale da renderla legittima e quindi efficace fra le parti. Per la Corte, di fronte a una clausola vessatoria il giudice interno non può percorrere una strada diversa da quella della sua disapplicazione, lasciando in piedi la restante parte del contratto qualora questo funzioni anche senza la clausola da eliminare.
- Corte di Giustizia UE, 21 febbraio 2013 C- 472/11 (Banif Plus BankZrt)[16]: “ il principio del contraddittorio implica anche il diritto delle parti di prendere conoscenza e di discutere i motivi di diritto rilevati d’ufficio dal giudice, sui quali quest’ultimo intenda fondare la propria decisione…..Ne consegue che il giudice nazionale, nell’ipotesi in cui, dopo aver stabilito, sulla base degli elementi di fatto e di diritto di cui dispone, o che gli sono stati comunicati in seguito alle misure istruttorie che ha adottato d’ufficio a tal fine, che una clausola rientra nell’ambito di applicazione della direttiva, constati, al termine di una valutazione cui ha proceduto d’ufficio, che tale clausola presenta carattere abusivo, esso deve, di norma, informarne le parti della controversia e invitarle a discuterne in contraddittorio secondo le forme previste al riguardo dalle norme processuali nazionali.”
- Corte di Giustizia UE, 14 marzo 2013, nella causa C-415/11 (Aziz)[17]: la Corte ha considerato che la direttiva sulle clausole abusive ostava alla normativa spagnola che non consentiva, al giudice competente a dichiarare il carattere abusivo di una clausola, di sospendere il procedimento di esecuzione ipotecaria, quando ciò era necessario per garantire la piena efficacia della sua decisione finale.
- Corte di Giustizia UE sez. 1, 30 maggio 2013 n. 397 (Erika Joros)[18]: vuole garantire protezione al consumatore permettendo al giudice nazionale, in forza del principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, di valutare anche d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale anche qualora il consumatore non abbia presentato domanda tesa al riconoscimento di detta clausola assicurandosi, altresì, che il contratto possa essere mantenuto senza detta clausola.
- Corte di Giustizia 17 luglio 2014, C-169/2014 (Sanchez Morcillo)[19]: affronta la questione della compatibilità di alcune norme processuali in materia di esecuzione rispetto al principio di effettività e all’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. In particolare, di fronte a una procedura di esecuzione ipotecaria in cui il consumatore, che ha proposto opposizione all’esecuzione facendo valere l’esistenza di clausole vessatorie, non può proporre appello di fronte al rigetto di detta opposizione, la mancata previsione della sospensione della procedura esecutiva da parte del giudice di merito non è compatibile con il principio di effettività, declinato rispetto ai diritti previsti dalla direttiva 93/13/CE.
- Corte di Giustizia UE 21 gennaio 2015, Rel. Levits[20]: cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13.
La Corte di Giustizia, nel dare soluzione ai casi sottoposti al suo vaglio, argomentando sulla base degli articoli 3, 6 e 7 della citata direttiva e richiamando i suoi precedenti orientamenti (Kásler et Káslerné Rábai C-26/13, in Dir. civ. cont. 25 giugno 2014, con nota di D’Adda; Asbeek Brusse e de Man Garabito, C-488/11, EU:C:2013:341, punto 57; Banco Español de Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 65), riafferma il principio secondo cui il contratto contenente una clausola vessatoria rimane vincolante nella sua restante parte, nonostante la nullità della singola clausola, essendo esclusa qualsiasi sostituzione automatica delle clausole nulle con norme legislative di tipo dispositivo o qualsiasi etero-correzione del regolamento negoziale a mezzo provvedimento giudiziale. Normative nazionali che permettessero l’integrazione del contratto sarebbero in contrasto con il dato normativo della direttiva e vanificherebbero la realizzazione dell’obiettivo di lungo termine di cui all’articolo 7 della medesima, che assolve a funzione dissuasiva dell’inserimento di clausole abusive nei contratti. Solo in un caso la descritta regola soffrirebbe invece di una deroga: ove il contratto concluso tra professionista e consumatore non potesse sussistere dopo l’eliminazione della clausola abusiva, con conseguente grave pregiudizio per il consumatore, sarebbe compatibile con il diritto dell’Unione una regola di diritto nazionale che permettesse al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva (Kásler C-26/13, in Dir. civ. cont. 25 giugno 2014).
- Corte di Giustizia UE 21 gennaio 2015, C-482/13[21]: clausole abusive e integrazione del contratto: con la sentenza “Unicaja Banco” si riafferma il principio della mera caducazione della clausola nulla.
La normativa spagnola relativa alla tutela dei consumatori è stata modificata a seguito della sentenza Aziz della Corte di giustizia. Ormai, qualora, nell'ambito di un procedimento esecutivo, il giudice accerti il carattere abusivo di una o più clausole, può dichiarare l’improcedibilità dell’esecuzione o disporre l'esecuzione senza applicare le clausole considerate abusive.
- Corte di Giustizia UE, 18 febbraio 2016, causa C-49/14 (Finanmadrid[22]): «La direttiva 93/13/CEE deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale che non consente al giudice investito dell’esecuzione di un’ingiunzione di pagamento di valutare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, ove l’autorità investita della domanda d’ingiunzione di pagamento non sia competente a procedere a una simile valutazione». Dunque, il giudice deve potere rilevare la presenza di un’eventuale clausola abusiva ai danni del consumatore anche in fase esecutiva, non ostando a ciò neppure l’autorità di cosa giudicata del titolo esecutivo. Per esempio: mutui bancari al cui interno sono inserite clausole, quali tassi sopra soglia o penali per estinzione anticipata del contratto, il cui contenuto presenta spesso carattere di abusività dal momento che impone al consumatore un regolamento contrattuale sbilanciato a favore della banca.
- Corte giustizia UE, sez. III, 21/04/2016, n.377 (Radlinger)[23]: crediti dichiarati nel contesto di un procedimento per insolvenza e derivanti da un contratto di credito al consumo. L'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE, dev'essere interpretato nel senso che osta a una normativa procedurale nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, in un procedimento per insolvenza, non consente al giudice chiamato a pronunciarsi in tale procedimento di esaminare d'ufficio la natura eventualmente abusiva di clausole contrattuali dalle quali derivano crediti dichiarati nell'ambito del predetto procedimento, anche qualora tale giudice disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine.
- Corte di Giustizia UE, 14 giugno 2017, C-685/15 (Online Games)[24], è intervenuta sul tema del bilanciamento tra rilevabilità d’ufficio e imparzialità del giudice. Il giudice del rinvio dubita che sia compatibile con l'articolo 47 della Carta e con l'articolo 6 della CEDU il principio secondo cui il giudice adito deve istruire d'ufficio i fatti che possono costituire illeciti amministrativi a carattere penale. Ad avviso del giudice del rinvio, un obbligo siffatto è idoneo a pregiudicare l'imparzialità del giudice, il cui ruolo si confonderebbe con quello dell'autorità incaricata di promuovere l'accusa.
L'articolo 19, paragrafo 1, TUE impone, peraltro, agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per garantire una tutela giurisdizionale effettiva, in particolare ai sensi dell'articolo 47 della Carta, nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione. Secondo la Corte non vi sono motivi per ritenere che un siffatto sistema processuale sia idoneo a far sorgere dubbi quanto all'imparzialità del giudice nazionale, dal momento che quest'ultimo è tenuto a istruire la causa di cui è investito non al fine di sostenere l'accusa, bensì al fine di accertare la verità.
- Corte giustizia UE, sez. I, 26/01/2017, n.421 (Banco Primus SA)[25]: la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che non osta a una norma nazionale che vieta al giudice di riesaminare d'ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto, qualora sia stato già statuito sulla legittimità di tutte le clausole di tale contratto alla luce di detta direttiva con una decisione munita di autorità di cosa giudicata. Per contro, in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia ancora stata esaminata nell'ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un'opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d'ufficio, qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l'eventuale abusività di tali clausole.
- Corte di Giustizia UE, 7 dicembre 2017, C-598/15 (Banco Santander)[26]: la Corte di Giustizia ha escluso che vi sia spazio per la rilevazione officiosa della nullità delle clausole vessatorie, e più in generale per l’applicazione degli art. 6, comma 1 e 7 comma 1, della direttiva 93/13/CE, in una procedura di sfratto promossa dall’aggiudicatario di un immobile “a seguito di un’esecuzione stragiudiziale della garanzia ipotecaria consentita su tale bene da un consumatore a vantaggio di un creditore professionale e avente ad oggetto la protezione dei diritti reali legittimamente acquistati da tale aggiudicatario, nei limiti in cui, da un lato, tale procedura è indipendente dal rapporto giuridico esistente tra il creditore professionale e il consumatore e, dall’altro, la garanzia ipotecaria è stata eseguita, l’immobile è stato venduto e i diritti reali ad esso relativi sono stati trasferiti senza che il consumatore abbia fatto uso degli strumenti giuridici previsti in tale contesto”.
- Corte UE 17 maggio 2018 C-147/16 (Karel de Grote)[27]: la direttiva 93/13/CEE (clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori) dev’essere interpretata nel senso che un giudice nazionale che si pronuncia in contumacia ed è competente, secondo le norme di procedura nazionali, ad esaminare d’ufficio se la clausola su cui si basa la domanda sia contraria alle norme nazionali di ordine pubblico e abbia natura abusiva.
- Corte giustizia UE, sez. VIII, 26/06/2019, n.407 (Al. e Jo. Ku / Addiko Bank d.d.)[28]: la clausola del contratto di mutuo ipotecario che prevede che il credito sia espresso in valuta estera e il rimborso sia effettuato in euro è da considerarsi abusiva, perché non limita il rischio di cambio per il consumatore. Pertanto, il giudice nazionale investito di una domanda di esecuzione forzata di un contratto di mutuo ipotecario, stipulato tra un professionista e un consumatore sotto forma di atto notarile direttamente esecutivo, deve poter accertare l'abusività delle clausole e sospendere l'esecuzione forzata.
- Corte giustizia UE, sez. III, 03/10/2019, n.260 (Addiko Bank)[29]: l'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che un giudice nazionale, dopo aver accertato il carattere abusivo di talune clausole di un contratto di mutuo indicizzato in una valuta estera ed associato a un tasso di interesse direttamente connesso al tasso interbancario della valuta interessata, ritenga, conformemente al suo diritto interno, che tale contratto non possa sussistere senza tali clausole, per il motivo che la loro eliminazione avrebbe come conseguenza la modifica della natura dell'oggetto principale di detto contratto. Da un lato, le conseguenze sulla situazione del consumatore provocate dall'invalidazione di un contratto nella sua interezza, come indicate nella sentenza del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C-26/13, EU:C:2014:282), devono essere valutate alla luce delle circostanze esistenti o prevedibili al momento della controversia, e, dall'altro, ai fini di tale valutazione, la volontà che il consumatore ha espresso al riguardo è determinante. L'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che sia posto rimedio alle lacune di un contratto, provocate dalla soppressione delle clausole abusive contenute in quest'ultimo, sulla sola base di disposizioni nazionali di carattere generale che prevedono l'integrazione degli effetti espressi in un atto giuridico mediante, segnatamente, gli effetti risultanti dal principio di equità o dagli usi, disposizioni queste che non sono né di natura suppletiva né applicabili in caso di accordo tra le parti del contratto.
- Corte di Giustizia UE, 7 novembre 2019, C‑419/18 e C‑483/18 (Profi Credit Polska)[30]: occorre rispondere alla seconda questione nella causa C-419/18 e alla questione sottoposta nella causa C-483/18 dichiarando che l'articolo 6, paragrafo 1, e l'articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, nonché l'articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2008/48 devono essere interpretati nel senso che qualora, in circostanze come quelle di cui ai procedimenti principali, un giudice nazionale nutra seri dubbi sulla fondatezza di una domanda basata su un pagherò cambiario volto a garantire il credito derivante da un contratto di credito al consumo, e tale pagherò sia stato inizialmente emesso in bianco dal sottoscrittore e completato successivamente dal beneficiario, tale giudice deve esaminare d'ufficio se le clausole convenute tra le parti abbiano carattere abusivo e, a tal riguardo, può chiedere al professionista di produrre l'atto scritto che accerta tali clausole, di modo che detto giudice sia in grado di sincerarsi del rispetto dei diritti conferiti ai consumatori da tali direttive[31].
2.4. La rilevabilità d’ufficio nella giurisprudenza della Corte di cassazione
La Corte di Cassazione si è via via, lentamente, inserita nel solco tracciato dalla Corte di Giustizia:
Cassazione, sez. III, 14/3/2014 n. 5952[32] ha ritenuto che il potere del giudice di rilevare d'ufficio le nullità del contratto di assicurazione o delle singole clausole di esso, va coordinato necessariamente con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Ne consegue che il contraente, laddove deduca la nullità di una clausola di delimitazione del rischio, è tenuto ad allegare ritualmente i fatti costitutivi dell'eccezione (ovvero l'esistenza della clausola, la sua inconoscibilità, il suo contenuto in tesi vessatorio) nella comparsa di risposta o con le memorie di cui all'art. 183 cod. proc. civ.
Con sentenza del 21 marzo 2014, n. 6784[33] la Corte di Cassazione ha stabilito che la clausola vessatoria di un contratto, in cui una delle parti è un consumatore, anche se è stata oggetto di trattativa, deve ritenersi inefficace, mentre il resto del contratto rimane in vigore. L’inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado.
Nel caso di specie la Corte ha ritenuto, tra l’altro, che la rilevabilità d’ufficio possa avvenire anche nell’ambito del procedimento d’appello, qualora l’eccezione non fosse stata rilevata in primo grado.
Già le Sezioni Unite con sentenza n. 14828del 2012 avevano affermato la rilevabilità d’ufficio, recependo l’orientamento della Corte di Giustizia del 4.06.2009 nel procedimento n. 243/08, secondo il quale il giudice deve esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e in quanto nulla, non applicarla, tranne che nel caso in cui il consumatore vi s opponga.
Il giudice di merito ha il potere di rilevare, dai fatti allegati e provati o emergenti "ex actis", ogni forma di nullità non soggetta a regime speciale e, provocato il contraddittorio sulla questione, deve rigettare la domanda di risoluzione, volta ad invocare la forza del contratto.
Cassazione civile sez. un., 12/12/2014, n.26242 e 26243[34] ebbe a riconoscere che la rilevabilità officiosa delle nullità negoziali deve estendersi anche a quelle cosiddette di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una "species" del più ampio "genus" rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali — quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l'uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) — che trascendono quelli del singolo.
Il rilievo d'ufficio della nullità costituisce irrinunciabile garanzia della tutela dell'effettività dei valori fondamentali dell'organizzazione sociale..
Il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale, e, qualora le parti, all'esito di tale indicazione officiosa, omettano un'espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l'originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo.
Il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l'esistenza di una causa di quest'ultima diversa da quella allegata dall'istante, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, sicchè è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio.
In Cass.15 febbraio 2016 n. 2910[35] i giudici di legittimità decidono su un caso in cui una parte ha dedotto in primo grado la nullità di un contratto di conto corrente bancario, o in subordine la nullità parziale dei contratti in ordine alla determinazione del tasso di interesse e alla capitalizzazione trimestrale.
In primo grado viene accolta la domanda di nullità parziale, e in appello vengono ritenute inammissibili per novità due ulteriori domande formulate per la prima volta dall’attrice, una delle quali riguardante la nullità della clausola di applicazione della commissione di massimo scoperto. La Corte di Cassazione, richiamando le pronunce delle Sezioni Unite del 2014 cui si è fatto riferimento, sostiene che “ove sia mancata la rilevazione d'ufficio della (parziale) nullità in primo grado, il giudice ha pur sempre la possibilità di rilevarla in appello.. Se la nullità parziale non sia stata rilevata in primo grado, la stessa parte può farla valere con l’appello senza incorrere nel divieto dei nova, giacché finanche in appello il giudice può rilevare la nullità suddetta e sottoporla al contraddittorio proprio allo scopo di consentire alla parte interessata di formulare la domanda.
Quanto a Cassazione 17 gennaio 2017, n. 923[36] la Corte di Cassazione ha affermato che nelle ipotesi di clausole vessatorie la nullità ex art. 33 cod. cons. ss. opera in funzione della tutela del consumatore. Tali nullità nondimeno sono poste a tutela anche di “interessi e valori fondamentali - quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l'uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) - che trascendono quelli del singolo”.
La Corte sostiene che la nullità di protezione possa essere rilevata dal giudice ex officio anche nel
giudizio di appello, salvo il caso in cui si sia formato giudicato interno.
La Corte di Cassazione dunque conferma l’indirizzo giurisprudenziale per cui la rilevabilità officiosa si estende anche alle nullità di protezione, salvo il principio per cui “le questioni esaminabili di ufficio, che abbiano formato oggetto nel corso del giudizio di merito di una specifica domanda od eccezione, non possono più essere riproposte nei gradi successivi del giudizio, sia pure sotto il profilo della sollecitazione dell’organo giudicante ad esercitare il proprio potere di rilevazione ex officio, qualora la decisione o l’omessa decisione di tali questioni da parte del giudice non abbia formato oggetto di specifica impugnazione, ostandovi un giudicato interno che il giudice dei gradi successivi deve in ogni caso rilevare”.
Va infine ricordata Cass., sez. I Civile, ordinanza n. 19748/18; depositata il 25 luglio[37] secondo la quale la nullità delle clausole vessatorie a danno del consumatore è sempre rilevabile d’ufficio.
3. Le novità introdotte dalla sentenza della Corte UE dell’11.3.2020
Sinteticamente, secondo la decisione C-511/17, un giudice, dinanzi al quale un consumatore fa valere che talune clausole contrattuali sono abusive, è tenuto a verificare di propria iniziativa altre clausole del contratto, nei limiti in cui le stesse siano connesse all’oggetto della controversia.
Egli deve, all’occorrenza, adottare misure istruttorie per acquisire gli elementi di diritto e di fatto necessari a tale verifica.
Pertanto, rispetto all’elaborazione giurisprudenziale precedente, questa decisione della Corte UE precisa i limiti dell’obbligo del giudice di verificare l’abusività delle clausole non direttamente impugnate dal consumatore (obbligo delimitato alle clausole che siano connesse con quelle oggetto della contestazione espressa dell’attore consumatore).
E ribadisce e corrobora la facoltà del giudice di adottare d’ufficio, ai fini della suddetta verifica, misure istruttorie.
Più specificamente, la Corte UE parte dal principio secondo cui il giudice nazionale è tenuto ad esaminare d’ufficio, non appena disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, il carattere abusivo di una clausola contrattuale, allo scopo di ovviare allo squilibrio naturale che esiste tra il consumatore e il professionista, in applicazione del principio di effettività sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (sentenze Karel de Grote, C‑147/16; OTP Bank e OTP Faktoring, C‑51/17).
La Corte di Giustizia UE richiama una sua giurisprudenza costante, secondo la quale il sistema di tutela istituito dalla direttiva 93/13 è fondato sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione, situazione che lo induce ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista senza poter incidere sul contenuto delle stesse (es.: sentenze Pannon GSM, C‑243/08, e Karel de Grote, C‑147/16).
Per garantire la tutela voluta da detta direttiva, sempre secondo la giurisprudenza della Corte, la situazione di disuguaglianza tra il consumatore e il professionista può essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale (sentenze VB Pénzügyi Lízing, C‑137/08; Karel de Grote, C‑147/16).
Afferma poi, innovando e precisando su questo punto rispetto all’elaborazione giurisprudenziale precedente, che il potere officioso del giudice in tema di verifica dell’abusività delle clausole dei contratti con i consumatori non è illimitato, non potendo il giudice spingersi fino a ignorare o eccedere i limiti dell’oggetto della controversia come definito dalle parti con le loro pretese.
Anzitutto, sottolinea la Corte UE, è ovviamente necessario che il procedimento giurisdizionale sia avviato da una delle parti del contratto perché tale tutela possa essere concessa (v., in tal senso, sentenza del 1° ottobre 2015, ERSTE Bank Hungary, C‑32/14).
Inoltre, il giudice nazionale non è tenuto ad estendere tale controversia al di là delle conclusioni e dei motivi presentati dinanzi al medesimo, verificando l’abusività di tutte le altre clausole di un contratto.
Ma quale è l’ampiezza di questi limiti?
Ed è qui che la Corte specifica, rispetto alla giurisprudenza passata, l’ampiezza del potere-dovere del giudice nazionale di rilevare l’abusività delle clausole di un contratto (solo parzialmente impugnato dal consumatore):-solo le clausole contrattuali che, pur non essendo interessate dal ricorso del consumatore, sono connesse all’oggetto della controversia quale definito dalle parti alla luce delle loro conclusioni e dei loro motivi, rientrano nell’obbligo di esame d’ufficio incombente al giudice e devono essere esaminate, per verificare il loro eventuale carattere abusivo, non appena quest’ultimo disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine.
La Corte passa poi ad un piano più strettamente allegatorio e probatorio, precisando, da un lato, che l’attuazione dell’obbligo di esame d’ufficio non impone al giudice di attenersi esclusivamente agli elementi di diritto e di fatto invocati dalle parti, potendo e dovendo il medesimo adottare d’ufficio misure istruttorie al fine di accertare se una clausola sia o meno abusiva ai sensi della direttiva 93/13, seguendo, sul punto le orme delle sentenze VB Pénzügyi Lízing e Profi Credit Polska.
Dall’altro lato, sottolinea che è necessario partire comunque dalle allegazioni delle parti, in particolare rilevando che il giudice nazionale è tenuto ad adottare d’ufficio misure istruttorie, purché gli elementi di diritto e di fatto già contenuti nel fascicolo a lui sottoposto suscitino seri dubbi quanto al carattere abusivo di talune clausole che, pur non essendo state impugnate dal consumatore, sono connesse all’oggetto della controversia.
Potrà, nell’esercizio di questo potere istruttorio officioso, chiedere alle parti, nel rispetto del contraddittorio, di fornirgli i chiarimenti e i documenti necessari a detto scopo.
Per esempio, nel caso di impugnazione di un conto corrente, potrebbe chiedere la produzione del contratto o degli estratti conto mancanti (questione, questa, dibattuta nella giurisprudenza nazionale in materia bancaria).
La Corte di Giustizia UE, a questo punto, esamina il caso di specie: sembra risultare che il giudice del rinvio muova dalla premessa secondo cui le clausole che non sono state impugnate dalla sig.ra Lintner non sono connesse all’oggetto della controversia principale, in quanto il seguito che occorre dare alle pretese di quest’ultima, riguardanti specificamente le clausole che consentono all’UniCredit Bank di modificare unilateralmente il contratto, non dipende in alcun modo da una decisione relativa a tali clausole.
Pertanto l’obbligo di esame d’ufficio risultante dalla direttiva 93/13 non si estende a dette clausole.
Tale constatazione lascia tuttavia impregiudicata la possibilità che la sig.ra Lintner decida, se del caso, in forza del diritto nazionale applicabile, di proporre un nuovo ricorso riguardante le clausole del contratto che non erano oggetto del suo ricorso iniziale o di estendere l’oggetto della controversia di cui il giudice del rinvio è investito, su invito di detto giudice o di propria iniziativa.
La Corte di Giustizia UE ribadisce poi principi già presenti nella giurisprudenza precedente secondo i quali:
- ai sensi dell’articolo 8 della direttiva 93/13, «gli Stati membri possono adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore»;
- qualora il giudice nazionale, sulla base degli elementi di fatto e di diritto di cui dispone o acquisiti d’ufficio, rilevi l’abusività di una clausola, lo stesso deve informare le parti e invitarle a discuterne in contraddittorio (si veda, in tal senso, sentenze del 21 febbraio 2013, Banif Plus Bank, C‑472/11; e del 7 novembre 2019, Profi Credit Polska, C‑419/18 e C‑483/18).
-il giudice nazionale non è tenuto, in forza della direttiva 93/13, a disapplicare tali clausole contrattuali qualora il consumatore, dopo essere stato avvisato da detto giudice, non intenda invocarne la natura abusiva (sentenza del 4 giugno 2009, Pannon GSM, C‑243/08).
Infine la Corte, rispondendo all’ultimo quesito del giudice di rinvio, precisa che il giudice nazionale, per valutare il carattere eventualmente abusivo della clausola contrattuale su cui è basata la domanda di cui è investito, deve tener conto di tutte le altre clausole contrattuali (sentenza del 21 febbraio 2013, Banif Plus Bank, C‑472/11).
Ciò perché l’esame della clausola impugnata deve prendere in considerazione tutti gli elementi che possono essere pertinenti per comprendere tale clausola nel suo contesto, in quanto può essere necessario valutare l’effetto cumulativo di tutte le clausole di detto contratto (v., in tal senso, sentenza del 21 aprile 2016, Radlinger e Radlingerová, C‑377/14).
Tuttavia, conformemente alla risposta al primo quesito, da ciò non deriva che il giudice nazionale sia tenuto ad esaminare d’ufficio tutte le altre clausole contrattuali in modo autonomo, per accertarne il loro carattere eventualmente abusivo.
Quindi: si esaminano tutte le clausole per interpretare quelle impugnate; ma non si esamina il carattere abusivo o meno delle clausole non connesse all’oggetto della controversia.
[1]Corte di Giustizia, 11/3/2020 C-511/17, in Guida al diritto 2020, 15, 32
[2] La Corte UE esamina il diritto dell’Unione, tra cui:
Art. 4, paragrafo 1, direttiva 93/13: «Fatto salvo l’articolo 7, il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende».
Art. 6, paragrafo 1, direttiva 93/13: «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».
[3] Corte Cost.., 22/10/2014 n. 238, in Giurisprudenza Costituzionale 2014, 5, 3853 (s.m.)
[4] Corte Cost., 12/7/2017 n. 164, in Responsabilità Civile e Previdenza 2018, 2, 484
[5] Cass., 17/9/2013 n. 21255, in Foro it. 2013, 11, I, 3121 (s.m.); Foro it. 2015, 9, I, 2909 (s.m.)
[6] Si vedano, in tema di excursus sulla giurisprudenza della Corte UE in materia di clausole abusive nei contratti con i consumatori: “ACTIONES Handbook on the Techniques of Judicial Interactions in the Application of the EU Charter
MODULE 4 – CONSUMER PROTECTION”, 2017, a cura del Prof. F. Cafaggi; G. Armone, “Principio di effettività e diritto del lavoro”, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/principio-di-effettivita-e-diritto-del-lavoro_24-04-2018.php; A. Freda, “Riflessioni sulle c.d. nullita di protezione e sul potere-dovere di rilevazione officiosa”, in https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwignNao65fqAhXu_CoKHaRDBBgQFjAAegQIBhAB&url=http%3A%2F%2Fedizionicafoscari.unive.it%2Fmedia%2Fpdf%2Farticle%2Fricerche-giuridiche%2F2013%2F2%2Fart-10.14277-2281-6100-Ri-2-2-13-8.pdf&usg=AOvVaw2-t8fxzUK8UEpX3ahH9rUg .
[7] Corte di Giustizia 27/6/2000, C-240/98 e C-244/98, in Foro it. 2000, IV, 413.
[8] Corte di Giustizia 21/11/2002, C-473/00, in Foro it. 2003, IV, 16.
[9] Corte di Giustizia 26/10/2006, C-168/05, in Foro it. 2007, 7-8, IV, 374; Dir. economia 2006, 4, 841; Rivista dell'Arbitrato 2006, 4, 673 (s.m.); Dir. comunitario e scambi internaz. 2015, 1-2, 139 (s.m.)
[10]Corte di Giustizia, 6/10/2009, C-40/08, Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2010, 1, 280 (s.m.); Rivista dell'Arbitrato 2009, 4, 667 (s.m.); Rassegna di diritto civile 2010, 2, 498 (s.m.); Diritto comunitario e degli scambi internazionali 2015, 1-2, 140 (s.m.)
[11] Corte di Giustizia, 4/6/2009, C-243/08, in Foro it. 2009, 11, IV, 489; Rass. dir. civ. 2010, 2, 491 (s.m.); Giur. comm. 2010, 5, II, 794 (s.m.)
[12] Corte di Giustizia 7/12/2009, C-227/08, Giur. comm. 2010, 5, II, 794 (s.m.); Dir. comunitario e scambi internaz. 2010, 2, 289 ; Dir. comm. internaz. 2011, 2, 575(s.m.)
[13] Corte di Giustizia 9/11/2010, C-137/08, in Dir. comunitario e scambi internaz. 2010, 4, 711; Riv. dir. comm. 2012, 1, II, 45 (s.m.)
[14] Corte di giustizia 15/3/ 2012, C-453/10, in Dir. comunitario e scambi internaz. 2012, 1, 82; Foro it. 2013, 4, IV, 171
[15] Corte di Giustizia 14/6/2012, C-618/10, in Resp. civ. e prev. 2012, 6, 2061; Diritto e Giustizia online 2012, 15 giugno; Foro it. 2013, 4, IV, 170.
[16] Corte di Giustizia 21/2/2013 C- 472/11, in Guida al diritto 2013, 14, 97 (s.m); Foro it. 2014, 1, IV, 5.
[17] Corte di Giustizia 14/3/2013, nella causa C-415/11, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali 2013, 1-2, 160.
[18] Corte di Giustizia, sez. 1, 30/5/2013 n. 397, in Foro Amministrativo - C.d.S. (Il) 2013, 5, 1131 Foro it. 2014, 1, IV, 3.
[19] Corte di Giustizia 17/7/2014, C-169/2014, in https://dejure.it/#/ricerca/giurisprudenza_lista_risultati?isCorrelazioniSearch=false .
[20] Corte di Giustizia 21/1/2015 C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13, in Diritto & Giustizia 2015, 22 gennaio; Guida al diritto 2015, 12, 106 (s.m).
[21] Corte di Giustizia 21/1/2015, C-482/13, in Diritto & Giustizia 2015, 22 gennaio; Guida al diritto 2015, 12, 106 (s.m).
[22] Corte di Giustizia, 18/2/2016, causa C-49/14, in Diritto & Giustizia 2016, 19 febbraio; Guida al diritto 2016, 14, 104; Foro it. 2016, 4, IV, 197; GiustiziaCivile.com 2016, 2 settembre; Ilprocessocivile.it 8 giugno 2016
[23] Corte di Giustizia, sez. III, 21/04/2016, n.377, in Diritto & Giustizia 2016, 21 aprile(s.m.)
[24] Corte di Giustizia 14/6/2017 C-685/15, in
[25] Corte di Giustizia, sez. I, 26/01/2017, n.421, in Foro Amministrativo (Il) 2017, 1, 1 (s.m).
[26]Corte di Giustizia 7/12/ 2017, C-598/15 , in Diritto & Giustizia 11 gennaio 2018.
[27] Corte di Giustizia 17/5/2018 C-147/16, in Foro Amministrativo (Il) 2018, 5, 747.
[28] Corte di Giustizia sez. VIII, 26/06/2019, n.407, in Guida al diritto 2019, 31, 44.
[29] Corte di Giustizia, sez. III, 03/10/2019, n.260, in Foro it. 2020, 1, IV, 22.
[30] Corte di Giustizia 7/11/2019, C‑419/18 e C‑483/18, in http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?num=C-419/18&language=it.
[31] In conclusione, secondo la Corte Giustizia: a) l’art. 6, par. 1, della direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, va interpretato nel senso che il giudice può, anche in assenza di espressa previsione normativa, valutare d’ufficio l’illiceità di una clausola del contratto per cui è causa; b)via via, si arriva a ritenere che quello del giudice sia un potere-obbligo; c)vengono poi individuati i limiti entro i quali il giudice, anche alla luce degli ordinamenti interni, debba e possa esercitare tale potere; d) se, da un lato, si rileva che la direttiva osta a una normativa interna che vieti al giudice nazionale di rilevare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola se si è verificata una decadenza; d) dall’altro lato si precisa che il giudice è tenuto a valutare d’ufficio l’abusività di una clausola solo a partire dal momento in cui dispone degli elementi giuridici e fattuali necessari; f) con la sentenza Pannon si fa un passo avanti: è vero che il giudice deve esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, ma se esso considera abusiva una siffatta clausola, non deve applicarla, tranne che nel caso in cui il consumatore vi si opponga espressamente; g) e, poiché nella pratica non è affatto detto che il consumatore dichiari espressamente, sua sponte, di non volersi avvalere del diritto ad impugnare la clausola vessatoria, sarà onere del giudicante, preliminarmente all’esercizio dei propri poteri d’ufficio, quello di interpellare il consumatore per accertare se la mancata impugnativa della clausola costituisca il frutto di una scelta consapevole e non, piuttosto, di una carenza difensiva; all’esito dell’interpello, ed in assenza di un’espressa opposizione del consumatore, di un suo espresso intervento attivo, il giudice nazionale dovrà dichiarare la nullità della clausola;h) da qui si passa altresì a dire che il giudice può rilevare d’ufficio la nullità anche in caso di contumacia del consumatore; i) naturalmente, va salvaguardato il principio del contraddittorio: il giudice, che abbia rilevato d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale, deve informare le parti della controversia e dare loro la possibilità di discuterne in contraddittorio;l) per quanto riguarda l’espressione, secondo cui il giudice ha l’obbligo di rilevare la vessatorietà di una clausola dal momento in cui dispone degli elementi di fatto e diritto necessari a tal fine, si arriva ad interpretarla nel senso di far riferimento ad autonomi poteri di iniziativa istruttoria del giudice, a integrazione delle prove dedotte dalle parti (così la sentenza Penzugyi Lizing ZRT, 9/11/2010, C-137/0);m)precisa, la decisione Profi Credit Pokska, che, laddove le allegazioni delle parti provochino nel giudice seri dubbi sulla fondatezza delle domande, egli deve esaminare d'ufficio se le clausole convenute tra le parti abbiano carattere abusivo e, a tal riguardo, può esercitare i suoi poteri istruttori chiedendo alle parti di produrre in causa documenti;n) a questo proposito, si è anche posta la questione del bilanciamento tra rilevabilità d’ufficio e imparzialità del giudice, potendo sorgere il dubbio che il potere istruttorio d’ufficio del giudice porti ad una lesione del suo dovere di imparzialità; ma si è arrivati ad osservare che l'articolo 19, paragrafo 1, TUE impone agli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per garantire una tutela giurisdizionale effettiva e che il giudice è tenuto a istruire la causa di cui è investito non al fine di sostenere l'accusa, bensì al fine di accertare la verità; o) inoltre, la suddetta espressione (esame d’ufficio dal momento in cui dispongono degli elementi di fatto e di diritto necessari), viene interpretata anche nel senso di ritenere che ciò possa (e debba) essere fatto in una qualsiasi fase del procedimento (monitoria, esecutiva- per es. per sospendere il procedimento di esecuzione ipotecaria-, non ostando a ciò neppure l’autorità di cosa giudicata del titolo esecutivo, qualora l’eventuale abusività di alcune clausole non sia ancora stata esaminata nell'ambito di un precedente controllo giurisdizionale passato in giudicato). La Corte UE ha inoltre affrontato il tema della caducazione o meno del intero contratto a causa della nullità delle clausole vessatorie: un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore e contenente una o più clausole abusive è nullo nel suo complesso solo qualora ciò risulti garantire una migliore tutela del consumatore; è esclusa la possibilità che il giudice possa riformulare il contenuto di una clausola vessatoria in modo tale da renderla legittima ed efficace fra le parti; il giudice deve disapplicare la clausola abusiva, lasciando in piedi la restante parte del contratto qualora questo funzioni anche senza la clausola da eliminare; la sostituzione automatica della clausola è ammessa solo qualora il contratto non possa sussistere senza di essa e ciò comporti grave pregiudizio per il consumatore.
[32] Cass., sez. III, 14/3/2014 n. 5952, in Giustizia Civile Massimario 2014; Archivio della circolazione e dei sinistri 2014, 7-8, 606.
[33] Cass.21/3/2014, n. 6784, in Diritto & Giustizia 2014, 24 marzo.
[34] Cass., sez. un., 12/12/2014, n.26242 e 26243, in Giurisprudenza Commerciale 2015, 5, II, 970 (s.m.).
[35] Cass.,15/2/ 2016 n. 2910, in Diritto & Giustizia 2016, 16 febbraio (s.m.)
[36] Cass., 17/1/2017, n. 923, in Guida al diritto 2017, 10, 56.
[37] Cass.., 25/7/2018 n. 19748, in Diritto & Giustizia 2018, 26 luglio.
La crisi della magistratura: origine e possibili rimedi
di Aniello Nappi
1. La magistratura vive oggi la più grave crisi nella storia della Repubblica. E’ una crisi di credibilità, nel rapporto con la società e con le altre istituzioni. E’ una crisi di identità, che interpella ciascun magistrato sulle responsabilità individuali e collettive per linguaggi e comportamenti quantomeno imbarazzanti.
Tutti denunciano la degenerazione delle correnti in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati, che da espressioni di autentico pluralismo culturale e professionale si sono ridotte a centri di potere clientelare. Ma non mi pare che siano adeguate le idee sulle cause di questa involuzione.
Vladimiro Zagreblesky ha scritto che «per un consigliere del Consiglio superiore della Magistratura clientelare vi sono decine di clienti»; sicché «il problema vero» sono i clienti, perché «il consigliere è persona di servizio, che passa le sue giornate a soddisfare coloro che lo hanno eletto». Analoga è in definitiva l’analisi di Magistratura democratica: «la degenerazione del sistema ha molti responsabili e protagonisti, ma alla radice vi è una straordinaria ripresa della carriera e del carrierismo»; perché «solo in questo modo si può … spiegare l’attenzione spasmodica di molti magistrati per gli incarichi direttivi e semi direttivi che emerge dai fatti di Perugia».
Ora queste diagnosi non sono certo inattendibili, perché non v’è dubbio che in prospettiva etica il problema vero sia la domanda, non l’offerta: senza lo scarso senso morale dei cittadini non vi sarebbe la degenerazione dei partiti e della democrazia; il ceto politico sarebbe di qualità se non vi fosse la disponibilità a scambi elettorali.
Ma qui si pone un problema politico, non una questione morale. Le individuali ambizioni di carriera c’erano forse ancor di più quando l’organizzazione della magistratura rispondeva a quei criteri verticistici contro i quali si batté l’ANM, pur con la diversità di accenti che ne determinò appunto l’articolazione in contrapposte correnti culturali. Da anni si assiste invece a una sostanziale omogeneizzazione dei gruppi associativi su posizioni corporative, frequentemente in palese e piena incoerenza con le proclamazioni valoriali e programmatiche. E la omologazione si aggrava ovviamente nell’imminenza delle scadenze elettorali, perché gli apparati dirigenti dei gruppi tendono a inseguire il consenso sul più facile terreno della tutela degli interessi corporativi piuttosto che su quello certamente più impegnativo della cultura istituzionale e della capacità progettuale.
Sempre più frequentemente i magistrati operano infatti in condizioni di lavoro molto difficili. Si tende perciò a garantire il magistrato come “lavoratore” piuttosto che come istituzione.
Se si scorrono gli ordini del giorno del CSM si può constatare che le delibere del plenum sono quasi sempre approvate all’unanimità della componente togata sulle questioni di “amministrazione della giurisdizione”: come le incompatibilità parentali, le coassegnazioni a più uffici giudiziari, il rispetto dei termini per l’esercizio dell’azione penale, i “carichi esigibili” e gli standard di rendimento, le valutazioni di professionalità.
Nulla autorizza certo alla qualunquistica conclusione che “sono tutti uguali”; ma le distinzioni non possono rimanere affidate al solo criterio dell’onestà, se si vuole ribadire la legittimazione culturale dell’articolazione in correnti.
Anche i gruppi tradizionalmente più impegnati in una prospettiva istituzionale, di tutela della funzione a garanzia del sistema democratico, hanno rinunciato ormai a contrastare la deriva della sindacalizzazione, perché temono di perdere consensi elettorali. Svuotate così di effettività le contrapposizioni culturali e programmatiche, la competizione per il consenso elettorale si riduce alla contesa per gli incarichi ambiti.
Ed è qui che nasce il carrierismo, anche perché per l’aggiudicazione degli incarichi più contesi non sempre è sufficiente l’appartenenza all’una o all’altra corrente. Sempre più frequentemente è il “merito sindacale” il titolo decisivo che premia l’ambizione dei concorrenti, nel rispetto di un peculiare cursus honorum.
Tappe fondamentali di queste carriere parallele sono frequentemente i collocamenti “fuori ruolo”, vale a dire la destinazione all’esercizio di funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, in particolare il Ministero della Giustizia ma non solo, o altre istituzioni di rilievo costituzionale, come lo stesso Consiglio superiore della magistratura, le commissioni parlamentari o la Corte costituzionale. Infatti sono i rappresentanti delle correnti che hanno occasione di incontri con il mondo della politica, dal quale provengono per lo più gli incarichi extragiudiziari. Vi sono poi anche gli esoneri parziali o totali dal lavoro giudiziario per circa quattrocentocinquanta magistrati, che vengono decisi per lo più dai gruppi consiliari. Un inventario completo di questi esoneri è stato tentato; ma pare che non sia possibile, perché le ragioni che li giustificano sono le più varie: dalla partecipazione ai consigli giudiziari, il ruolo istituzionale che maggiormente giustifica l’esonero, agli incarichi di referenti per l’informatica o di esperti internazionali di lungo periodo o di formatori decentrati.
In particolare dal fuori ruolo consiliare, come magistrati addetti alla Segreteria o all’Ufficio studi selezionati da ciascuna corrente in proporzione del rispettivo consenso elettorale, si passa alla Cassazione, con preferenza per la Procura generale, o si assume un incarico associativo o di corrente, per poi tornare in Consiglio come componenti. Tutto ciò avviene benché tutti i gruppi si dichiarino contrari alle “carriere parallele”.
In particolare il ruolo di esponente dell’associazione o di una corrente è la premessa migliore per ottenere la candidatura al CSM. E questo incide in misura significativa sulle caratteristiche personali e professionali di molti componenti del Consiglio.
L’esperienza al CSM costituisce poi titolo privilegiato per incarichi direttivi. La competitività tra magistrati si è così trasferita sul piano dell’impegno sindacale: è in questo contesto che si coltivano le speranze, se non i timori, vanificando l’ideale originario del magistrato sine spe ac metu. Anche perché si evita accuratamente che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni sul piano del lavoro giudiziario, con la conseguenza di privare il CSM di dati e informazioni da valutare quando si tratta di conferire incarichi ambiti, lasciando che prevalgano appunto le possibili referenze sindacali e comunque le appartenenze.
Sarebbe in realtà del tutto ragionevole che ciascuno degli orientamenti culturali rappresentati in CSM potesse far valere il proprio modello di dirigente. Ma occorrerebbe tradurre questi diversi modelli in criteri di selezione, ordinandoli per priorità. E confrontarsi su questi criteri, senza che risultino determinanti l’appartenenza o il curriculum sindacale dei candidati.
Sarà casuale, e comunque di per sé non è certamente negativo, ma gli attuali vertici della Corte di cassazione vantano tutti esperienze al Consiglio superiore della magistratura.
2. Sono diverse le proposte di riforma avanzate per far fronte a questa situazione.
Dal mondo dell’avvocatura viene con insistenza riproposta la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, senza considerare che, a parte ogni altra implicazione, ne conseguirebbe una moltiplicazione dei centri di potere clientelare.
Dal mondo della politica viene la proposta di istituire una corte disciplinare esterna al CSM, comune a tutte le magistrature. Ma questa riforma, che presupporrebbe il riconoscimento di piena indipendenza interna anche ai magistrati amministrativi, non avrebbe influenza alcuna sul ruolo delle correnti all’interno del CSM, come non lo avrebbe il parziale prolungamento della durata del mandato consiliare o la nomina del vicepresidente da parte del Capo dello Stato.
Maggiore efficacia potrebbe avere una riforma del sistema elettorale del consiglio, resa peraltro necessaria dal totale fallimento del sistema attuale, che ha permesso agli apparati correntizi una preventiva spartizione dei seggi.
Esclusa l’adeguatezza di un sistema elettorale maggioritario, incompatibile con un collegio destinato a maggioranze variabili, sarebbe preferibile un sistema elettorale a doppio turno, che imponga di eleggere al primo turno un numero predeterminato di candidati per ciascuno dei distretti di corte d’appello: al secondo turno sarebbero così in competizione molti più candidati, con una selezione più aperta e non ingessata dagli apparati di corrente. Ma certamente ragionevole è anche la proposta del prof. Silvestri, per un sistema elettorale analogo a quello un tempo in vigore per il Senato.
Anche la riforma del sistema elettorale, benché certamente necessaria, sarebbe tuttavia insufficiente, se le correnti, o almeno taluna di esse, non recuperassero l’originaria ispirazione progettuale.
Si tratterebbe in definitiva di scommettere sulla sensibilità istituzionale dei magistrati, confidando che il loro voto non sia determinato solo dall’aspettativa di una tutela corporativa. Non è detto che un confronto aperto con la prospettiva sindacale, che risulterebbe comunque significativamente rappresentata, debba segnare necessariamente la sconfitta di una prospettiva istituzionale. Sarebbe così possibile affrancare dal vincolo di corrente gli uffici ausiliari del CSM, segreteria e ufficio studi, reclutandone per concorso il personale, come del resto avviene per i funzionari parlamentari.
Oggi occorre comunque il coraggio di immaginare il futuro, per proporre un modello professionale di magistratura, ragionevolmente alternativo al modello burocratico e impiegatizio imposto dalla sindacalizzazione.
Infatti è appunto la logica sindacale, della tutela a qualsiasi costo del lavoratore magistrato, a spingere il CSM verso un irrimediabile declino. E questo declino, dagli sbocchi imprevedibili anche per la tenuta dell’intero sistema democratico, non potrà essere arrestato se la magistratura non sarà in grado di acquisire nuovamente una prospettiva istituzionale, superando decisamente l’attuale autorappresentazione corporativa.
Aniello Nappi
Intervista alle correnti. Paola D’Ovidio, Magistratura Indipendente
di Riccardo Ionta
Deriva e scarroccio. L’imbarcazione subisce uno scostamento e la rotta effettiva non coincide più con quella necessaria. Deriva è l’effetto della corrente, massa in movimento verso una direzione sotto il filo dell’acqua, difficile da percepire in assenza di punti di riferimento. Scarroccio è l’effetto del vento, viene da una direzione battendo sulla superfice emersa, ed è sufficiente sentirne la forza. Correnti e venti possono perturbare la navigazione, sfavorirla. Possono anche, tuttavia, favorirla sospingendo l’imbarcazione nel giusto senso. Dipende dalla direzione delle forze, dal loro combinarsi, dalla consapevolezza di chi naviga.
Giustizia Insieme è un’endiadi, uno spazio di libertà per la giustizia e il pluralismo, e nel momento in cui la magistratura è trascinata dalle correnti e battuta da plurimi venti, ha posto delle domande a quattro magistrati, (al momento dell’intervista) componenti di vertice dell’A.N.M., eletti per Area (Luca Poniz), Unicost (Giuliano Caputo), Autonomia e Indipendenza (Cesare Bonamartini), Magistratura Indipendente (Paola D’Ovidio).
Venti e correnti, prima o dopo, passano. E in una lunga traversata, prima o dopo, altri e altre ne ritornano. In ogni caso, l’importante è aver ben chiara la destinazione, conoscere sia i venti, sia le correnti, ed avere comunque un buon governo del timone.
La terza intervista è a Paola D’Ovidio (Magistratura Indipendente).
La seconda intervista a Cesare Bonamartini (Autonomia e Indipendenza): https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1188-intervista-alle-correnti-cesare-bonamartini-autonomia-indipendenza
La prima intervista a Luca Poniz (Area): https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1182-intervista-alle-correnti-luca-poniz-area
Sommario: 1. Perugia; 2. Populismi; 3. Le correnti; 4. C.S.M.; 5. A.N.M. e C.S.M.; 6. Pesi e contrappesi; 7. Pubblici ministeri e A.N.M.; 8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale; 9. Le elezioni dei Consigli Giudiziari; 10. Futuro Prossimo.
1. Perugia
L’indagine di Perugia è un’indagine su ipotesi di reato di un ex consigliere del C.S.M. sfociata in un’inchiesta sul “dietro le quinte” del C.S.M.? Perché L’A.N.M. ha chiesto la trasmissione integrale degli atti dell’indagine di Perugia?
A quanto si è appreso dalla lettura dei giornali (nessuno dei componenti del C.D.C. per il gruppo di Magistratura Indipendente ha avuto modo di leggere gli atti del procedimento penale in questione), l’indagine di Perugia ha ad oggetto una presunta condotta corruttiva posta in essere, tra gli altri, dal dott. Luca Palamara, ex consigliere del C.S.M.
Per accertare la fondatezza dell’ipotesi di reato gli inquirenti si sono avvalsi anche di un captatore informatico inserito nel telefono cellulare dell’indagato, che ha consentito di ascoltarne in presa diretta le conversazioni nonché di acquisire conoscenza del contenuto della memoria.
Da tali flussi informatici sembrano essere emersi, tra l’altro, fatti e circostanze relativi a numerose pratiche pendenti innanzi al C.S.M. e definite sia nel periodo in cui il dott. Palamara rivestiva il ruolo di consigliere, sia nel periodo successivo, fino alla data in cui il telefono cellulare a lui in uso veniva sottoposto a sequestro. In particolare, sono stati rivelati alcuni retroscena di talune pratiche consiliari (relative alle nomine per incarichi direttivi e semi-direttivi ovvero a pratiche disciplinari), che paiono dai giornali essere state valutate e orientate dal dottor Palamara con alcuni altri consiglieri del CSM sulla base di criteri non fondati esclusivamente sul merito, bensì su rapporti privilegiati basati sulla conoscenza personale ovvero sull’appartenenza correntizia o su altri interessi personali da accertare.
Dunque, l’indagine della Procura di Perugia, per quanto appreso dalle notizie di stampa, sembra aver portato alla luce prassi e condotte che, se confermate, disvelano l’estensione di un fenomeno gravissimo ed inacettabile, che deve assolutamente essere espunto dalla Magistratura, .la quale esercita una delle tre fondamentali funzioni dello Stato ed ha il dovere costituzionale di svolgere tale funzione in maniera autonoma ed indipendente nell’interesse preminente della collettività.
E non c’è dubbio che i valori della imparzialità, dell’equilibrio, della terzietà devono essere rispettati anche nell’esercizio dei poteri di autoregolamentazione interna della magistratura.
In tale prospettiva, la richiesta degli atti si è resa indispensabile per acquisire compiuta e completa conoscenza dei fatti (allo stato conosciuti solo tramite le notizie di stampa), onde accertare l’eventuale sussistenza di condotte rilevanti ai fini dello Statuto A.N.M., ossia tali da integrare possibili violazioni del codice deontologico da sottoporre a sanzione.
Va tuttavia precisato che l’A.N.M. ha chiesto la trasmissione degli atti processuali alla Procura di Perugia in due occasioni: dapprima nel giugno 2019, quando sono stati pubblicati sulla stampa stralci parziali di conversazioni relative ad incontri tra consiglieri del C.S.M. ed esponenti politici; di seguito nel maggio 2020, quando taluni giornali hanno pubblicato stralci di ulteriori conversazioni/comunicazioni che vedono coinvolti altri magistrati.
In proposito, non si può non evidenziare che si sono registrate dissonanti decisioni assunte dall’A.N.M. in occasione dei due snodi essenziali della vicenda, in contrasto con le più elementari regole di coerenza, oltre che di imparzialità e terzietà: infatti, nonostante in entrambi i frangenti l’A.N.M. avesse a disposizione per le proprie valutazioni solo parziali notizie giornalistiche relative a frammenti isolati di conversazioni, essa così provvedeva:
1) in data 5 giugno 2019, il C.D.C. votava all’unanimità una delibera con la quale deferiva ai probiviri gli associati coinvolti nei fatti all’epoca riportati dalla stampa e scriveva, fra l’altro: “In questa fase estremamente critica, il Comitato Direttivo Centrale dell'ANM chiede che gli ulteriori consiglieri direttamente coinvolti nella vicenda rassegnino le loro immediate dimissioni dall'incarico istituzionale per il quale, evidentemente, non appaiono degni”;
2) in data 18 maggio 2020, a fronte di ulteriori notizie giornalistiche che coinvolgevano altri associati, la G.E.C., per contro, non investiva i probiviri di alcun accertamento e scriveva: “L'A.N.M. è in attesa della trasmissione degli atti per operare una ricostruzione completa di ciò che è stato anticipato dalla stampa, sin da ora assicuriamo l'applicazione del medesimo rigore nella valutazione dei fatti che emergeranno”.
Gli atti del processo di Perugia non sono ad oggi arrivati ma, ciò nonostante, il 20 giugno 2020 il C.D.C. ha comunque irrogato le sanzioni disciplinari dell’espulsione e della sospensione per cinque anni rispettivamente nei confronti del dott. Palamara e di uno dei consiglieri coinvolti nei fatti emersi nella primavera del 2019. Per i fatti, altrettanto gravi, riportati dai media nel maggio 2020, e poi anche nella prima metà del giugno dello stesso anno, nessuna menzione, nessun interessamento dei probiviri, nessuna significativa iniziativa da parte dell’A.N.M., solo quella generica “assicurazione” del 18 maggio, priva di orizzonti temporali e di qualsiasi volontà di approfondimento.
2. Populismi
L’appello a un’immagine ideale del popolo, incitato a riprendere il ruolo che qualcuno gli ha indebitamente sottratto, è considerata una delle principali caratteristiche dei populismi. Esiste davvero un populismo giudiziario oppure esiste davvero una magistratura onesta e una magistratura disonesta?
Il populismo giudiziario è un grave errore culturale.
Il compito del magistrato non è inseguire o assecondare il consenso di una base elettorale, e la giurisdizione non può sostituirsi né affiancarsi alla politica in un corto circuito intriso di protagonismo e malintesa supplenza, che nei casi peggiori si trasforma finanche in contiguità, competizione o conflitto. Ciò vale anche e a maggior ragione nei casi di involuzione e arretramento della politica, laddove quest’ultima, incapace di fornire risposte ai problemi dei cittadini, spinge il proprio baricentro verso un panpenalismo di imperante aggressività spesso senza prove e con una certa stampa troppe volte a favore.
Purtroppo nel Paese si affacciano forme più o meno estreme di questa “dottrina”, che va respinta con decisione.
Questo clima si è nutrito della delusione per l’inefficiente funzionamento sia dell’ordinamento politico che del servizio giustizia, a cui occorre però reagire con proposte innovative ed efficaci.
La larghissima, stra-grande maggioranza dei magistrati non solo è moralmente onesta, ma è perfettamente in grado di cogliere questa distruttiva confusione di ruoli ed è professionalmente e culturalmente attrezzata per saper prendere le distanze da indebite pressioni interne ed esterne, isolando i colleghi disonesti, gli ambiziosi e gli avidi di potere.
3. Le correnti
Le correnti. Sono gruppi di pensiero organizzato, gruppi organizzati di potere o cosa sono?
Partiamo dalla memoria: nell’immediato dopo guerra, finché non fu istituito il Consiglio superiore della magistratura (1959) e la Corte costituzionale (1956), i magistrati dovettero interrogarsi sul modo di intendere la giurisdizione e l’applicazione delle leggi, alcune varate nel ventennio fascista, nel nuovo quadro di garanzie e di valori costituzionali di libertà. Questo impegno di elaborazione si è sviluppato, specie negli anni sessanta, con la nascita delle “correnti” (MI nel 1962, MD nel 1964, per parlare di quelle tuttora esistenti) che, in un periodo di rapide trasformazioni sociali, hanno declinato, ciascuna, un’idea della giurisdizione nell’ambito di una dialettica, anche aspra, interna all’A.N.M. dove, nel quadro di valori condivisi, si perveniva a un sintesi, spesso alta.
Con il riconoscimento della valenza politico-costituzionale dell’esercizio della giurisdizione (Congresso A.N.M. di Gardone nel 1965) e di un sistema di guarentigie professionali strettamente attinenti al modello di giudice necessario in una società democratica e pluralista, le correnti hanno pian piano visto attenuarsi, sul piano fenomenologico, l’originaria spinta ideale. Si sono trasformate, negli anni (e sarebbe utile, avendo lo spazio per sviluppare il ragionamento, indagarne le ragioni) in luoghi di formazione del consenso per il raggiungimento di obiettivi di potere. Questa deriva del sistema, che trova plastica evidenza nella captazioni relative alla vicenda del dr. Palamara, ha suscitato grave sconcerto e generale riprovazione, e va ora drasticamente interrotta con un processo culturale all’interno della magistratura e con una radicale rigenerazione dei gruppi associativi.
Se il pluralismo che tutt’oggi connota l’A.N.M. rappresenta un valore da custodire, perché costituisce luogo di confronto e di crescita professionale e culturale di coloro che prendono parte al dibattito sui temi più vari, occorre, allora, chiedersi quale debba essere il ruolo e quali siano le prerogative delle correnti della magistratura.
Il confronto effettivo delle idee, delle proposte e di programmi, invero ampiamente possibile, almeno in astratto, in seno alle libere associazioni ovvero alle correnti, costituisce la più splendida forma di democrazia; già solo per questo le correnti meritano d’essere sostenute, tutelate e, soprattutto in questo momento storico, rinnovate; ad esse occorre guardare come consessi in cui germogliano le riflessioni più nobili, le proposte più valide volte a tutelare lo status del magistrato; lo scopo precipuo delle riflessioni deve essere sempre e soprattutto l’elaborazione di proposte sulle condizioni in cui ciascun magistrato è chiamato a operare.
E’ innegabile che il continuo aumento della domanda di giustizia abbia reso il magistrato l’anello debole della catena, quello cioè sul quale si incentrano le critiche della collettività, che ritiene la magistratura tutta responsabile dell’incapacità di fornire adeguata e tempestiva risposta alle istanze della collettività. Orbene, in quest’ottica ea a mero titolo esemplificativo, non può che rimarcarsi l’impegno profuso da un’ampia porzione della magistratura volto ad individuare standard concreti e tangibili di produttività, non piegati a meri schemi previsionali dei singoli Uffici giudiziari, ma finalizzati a tracciare una forte linea di demarcazione tra la responsabilità della magistratura e la responsabilità politica di chi amministra la giustizia; siffatto impegno, nato in seno ad una delle libere associazioni di magistrati, oggi costituisce un progetto ampiamente condiviso da una larga parte della magistratura. Sicché l’idea che il confronto su detti temi possa essere frenato, impedito, oppure condizionato, regolamentato o ancor peggio orientato e perimetrato in un’unica sede è impraticabile ed eversiva.
La corrente come luogo di confronto e di conflitto delle idee è un patrimonio al quale la magistratura non può e non deve rinunziare; il conflitto delle proposte, delle idee, delle argomentazioni è la forma più alta di democrazia, come tale va alimentata non regolata, va valorizzata non mortificata, va esaltata non demonizzata.
Per converso occorre dotarsi di poderosi anticorpi avverso l’inadeguatezza, l’ambizione, l’improvvisazione di coloro che hanno provato nel passato anche non recente a trasformare le correnti da fucine di idee a centri (oligarchici) di potere. Le correnti devono tornare a veicolare costantemente ed esclusivamente proposte concrete di riforma del sistema giustizia (ancor meglio se volte ad una riduzione della relativa domanda), necessarie a risolvere la grave crisi di efficienza in cui versa il sistema giudiziario italiano, astenendosi al contempo da sollecitazioni in ambiti diversi da quello giudiziario al fine di non alimentare uno scontro tra Istituzioni tutt’altro che auspicabile e del quale noi magistrati saremmo così responsabili.
Non ci sarà nessun recupero di dignità dell’associazionismo giudiziario in tutte le sue articolazioni, della fiducia dei magistrati nelle aggregazioni associative e dei cittadini nei magistrati senza un sussulto di autorinnovamento che avrebbe dovuto (forse) alimentarsi prepotentemente dall’interno e non essere imposto dagli accadimenti esterni e che, se autentico, netto e deciso, potrà finanche sterilizzare le più nefaste proposte di riforma della magistratura. Preoccupa alquanto la celerità con cui si stanno elaborando, senza il contributo della magistratura tutta, di tutte le sue sensibilità, i progetti di riforma dell’Organo di Autogoverno, del suo sistema elettorale, e più in generale dell’ordinamento giudiziario. Sembra si sia imposto un modello di repentino intervento sul piano ordinamentale in cui alla tempestività dell’azione corrisponde una inaccettabile mortificazione del dibattito interno alla magistratura, del più genuino dipanarsi del conflitto delle idee prima all’interno delle singole libere associazioni di magistrati e poi in seno all’Associazione Nazionale Magistrati; la causa di ciò sembra albergare nella scarsa fiducia della collettività e della politica nella capacità della magistratura di elaborare proposte credibili nelle sedi naturali e di veicolarle all’esterno in maniera unitaria.
A siffatta scarsa fiducia occorre replicare valorizzando il dato del necessario rinnovamento dei consessi associativi, rendendo più fecondo e proficuo il confronto e la dialettica interna attraverso il coinvolgimento del più cospicuo numero di magistrati.
E’ il “banco di prova” dell’associazionismo giudiziario: se saremo capaci di fare autocritica e immaginare nuovi scenari, diversi dal passato, l’associazionismo avrà un futuro. Non bisogna avere paura di proporre e sperimentare percorsi nuovi, di innovare sul piano ordinamentale e associativo. Ma, per percorrere nuove strade, occorre maturare prima, con sincera autocritica, la consapevolezza della necessità di cambiamento, ed avere “nuovi occhi”. La frase più pericolosa in assoluto è, come diceva la matematica Grace Murray Hopper, “si è sempre fatto così”.
4. C.S.M.
Il C.S.M. è titolare di molteplici poteri discrezionali - non solo riguardo alle nomine - nelle cui sfuggenti dinamiche si insinuano le derive correntizie, anche perché i magistrati interessati non godono di forme di partecipazione. E’ necessario ridurre i poteri, la discrezionalità? E’ sufficiente implementare la trasparenza del potere e le forme di partecipazione?
Il C.S.M. è un organo al quale, nelle varie scelte, è stata affidata una discrezionalità che si è cercato di autolimitare attraverso la predeterminazione di criteri volti a rendere trasparente le proprie decisioni e ciò attraverso l’emanazione di delibere sui diversi aspetti su cui è chiamato a decidere.
Per fare un esempio concreto, per la nomina dei direttivi e semi direttivi, è stato varato il Testo Unico sulla dirigenza in cui sono stati elencati diversi criteri di valutazione dei profili professionali dei canditati che, correttamente applicati, dovrebbero portare ad una decisione trasparente che dia conto del percorso motivazionale del Consiglio basati su elementi di merito (i cd. titoli), ove però non sono indicate -in maniera netta e chiara- le priorità di un criterio rispetto ad un altro e, conseguentemente, basta valorizzarne uno al posto di un altro, per posizioni simili se non identiche, potendo giungere a decisioni opposte sulla base del rapporto di forza (rectius: voti) che i gruppi consiliari hanno all’interno del Consiglio.
Quindi, il primo problema da risolvere è stabilire in maniera netta e chiara quali siano i criteri prioritari tra quelli menzionati nel T.U. e non lasciarli tutti in un unico calderone che possa portare la discrezionalità del Consiglio a sfociare nell’arbitrio.
Poi, il secondo problema è quello della trasparenza, in quanto le delibere del Consiglio, che formalmente possano apparire ben motivate, non rendono palesi gli elementi fattuali sulla base dei quali vengono elaborate: occorre, quindi, che tutti gli atti (curriculum, titoli, documenti, pareri, progetti organizzativi, etc. etc.) che delineano i profili professionali dei candidati vengano resi pubblici sul sito del C.S.M. a pena d’inammissibilità della domanda per un posto dirigenziale.
D’altronde si tratta di posti pubblici e di grande responsabilità e, per tale ragione, ogni candidato che aspiri a diventare un dirigente non può invocare la privacy, atteso che va a svolgere un ruolo di rappresentanza dello Stato ed è diritto di tutti i cittadini conoscere chi dirigerà gli uffici che amministrano la Giustizia in nome loro.
Allo stesso modo, tale ragione di trasparenza, rappresenta l’assunzione pubblica di responsabilità da parte dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura per le decisioni che devono prendere ove dovranno rendere conto a tutti se le loro motivazioni siano aderenti o meno agli elementi fattuali dei profili professionali esaminati.
Infine, per eliminare in radice qualsiasi dubbio sugli abusi delle decisioni consiliari (se orientate ad una appartenenza correntizia rispetto al merito), occorre abolire l’art. 5 della legge 3 gennaio 1981 attinente alla non punibilità dei componenti del Consiglio superiore per le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni.
Questa è una norma che non ha ragione d’essere, atteso che nelle decisioni sul conferimento di un incarico direttivo o semidirettivo, trattandosi di un concorso pubblico per “titoli”, l’organo consiliare non svolge alcuna funzione “politica”, e per tale ragione al pari di qualsiasi concorso pubblico, se si commettono degli abusi occorre risponderne.
5. A.N.M. e C.S.M.
A.N.M. e C.S.M. rappresentano la stessa sostanza sotto forme diverse?
No, A.N.M. e C.S.M. hanno forma e soprattutto sostanza ben diverse: associazione privata l’una e organo istituzionale l’altro.
L'A.n.m. è un organo rappresentativo di gran parte dei magistrati italiani che tutela gli interessi morali ed economici dei magistrati, il prestigio ed il rispetto della funzione giudiziaria. Svolge la sua attività attraverso documenti, proposte di riforma legislativa, convegni, seminari, in relazione alle riforme necessarie ad assicurare un migliore servizio giustizia.
Il C.S.M. è l'organo di rilievo costituzionale che assicura il rispetto dei principi costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura. È un organo di governo autonomo rispetto agli altri poteri dello Stato.
Soltanto coloro che hanno dismesso le vesti e quindi i valori di magistrati per elargire incarichi giudiziari con grezze trattative fondate su alleanze correntizie hanno snaturato entrambi gli organismi determinando quella commistione patologica che è stata di recente disvelata in tutta la sua gravità. D’altra parte, chi ha inteso gestire l’A.N.M. imitando malamente metodi della più bassa politica per meri fini elettorali di bottega, chi ha rifiutato il dialogo culturale tra le varie componenti, chi ha dimostrato di essere fortemente parziale non censurando in alcun modo comportamenti di incontestabile evidenza, ha in tal modo tradito gli stessi scopi originari dell’organismo associativo, ossia garantire le funzioni e le prerogative dell’ordine giudiziario, tutelare gli interessi morali dei magistrati, il prestigio e il rispetto della funzione giudiziaria,
Questi sono gli scopi in cui crediamo e che vogliamo tornino a segnare l’azione di una rinnovata Associazione Nazionale Magistrati, che si riappropri del ruolo di vera anima rappresentativa della maggior parte della Magistratura, fatta di persone che hanno scelto questo percorso professionale perché si sentono partecipi e garanti dei valori di indipendenza, integrità e giustizia, che attuano nel loro lavoro quotidiano, lontano da ogni clamore, e che desiderano siano rispettati anche nei loro confronti dai colleghi che li rappresentano ad ogni livello, sia nell’Associazione Nazionale Magistrati che nel Consiglio Superiore della Magistratura. Ed è per questo che Magistratura Indipendente aveva proposto all’attuale C.D.C., e poi all’assemblea degli associati del settembre 2019, di arginare la deriva dell’associazionismo quale sicuro trampolino di lancio per ottenere l’elezione al Consiglio Superiore della Magistratura, ponendo la non candidabilità dei componenti del C.D.C. dell’ANM alle prime elezioni del C.S.M. successive al termine del loro mandato, ricevendone un pervicace rifiuto per le ragioni che sono ora sotto gli occhi di tutti.
6. Pubblici ministeri e A.N.M
Perché i vertici dell’A.N.M. sono quasi sempre ricoperti da pubblici ministeri?
E’ effettivamente un dato che balza agli occhi e che può spiegarsi sia con una maggior dimestichezza del Pubblico Ministero a interloquire oralmente, a prendere la parola nell’attività giudiziaria e segnatamente nel processo, sia con la maggiore facilità di combinare l’impegno lavorativo con quello associativo - che si aggiunge al primo non essendo previsti distacchi sindacali – essendo la Procura un ufficio impersonale.
Incide anche, sicuramente, una forte preponderanza nel dibattito pubblico dei temi legati alla giustizia penale, con una continua enfatizzazione delle notizie legate ad atti di indagine che, a sua volta, rischia di determinare un anomalo circuito mediatico-giudiziario. Sovrapponendosi causa ed effetto, i Pubblici Ministeri si trovano perciò più portati a proporsi per incarichi di vertice ovvero comunque di rappresentanza dell’A.N.M. per continuità con l’impegno lavotrativo; vi è però il rischio di privilegiare, quantomeno nella percezione pubblica, la trattazione di tali temi a scapito di quelli più generali ed anche più complessi del funzionamento della giustizia civile e di quelli assolutamente centrali relativi al funzionamento degli uffici giudiziari che devono invece essere al centro dell’azione associativa.
7. Pesi e contrappesi
La realizzazione degli scopi statutari sembra richiedere all’A.N.M. di attivarsi anche, e forse soprattutto, nel controllo dell’organo di autogoverno. E’ mancato questo controllo?
Non condivido l'idea che l'A.N.M. abbia tra le sue funzioni quella di attivare forme di controllo del C.S.M.
Il Consiglio Superiore della Magistratura adempie la funzione assegnatagli dall'art. 105 della Costituzione: esso si pone come organismo costituzionale che assicura il rispetto del principio di autonomia ed indipendenza dell'Ordine giudiziario. Proprio in ragione di tale funzione è prevista una sua composizione mista di laici e togati ed è stabilita, per la legittimità delle sue deliberazioni, una presenza numerica minima sia di laici sia di togati.
La rilevanza dei compiti assegnati dalla Costituzione al Consiglio comporta di per sé che il suo corretto e tempestivo funzionamento sia assicurato anche dalla piena consapevolezza, da parte di ogni singolo consigliere, della rilevanza della funzione svolta e quindi dall'adozione, da parte sua, di regole di comportamento coerenti col ruolo affidatogli.
Attribuire ad un organismo associativo, come l’A.N.M., un potere di controllo verso il C.S.M., presieduto dal Presidente della Repubblica, mal si concilia con lo svolgimento delle funzioni istituzionali demandato ai consiglieri.
La magistratura associata, però, per il miglioramento del sistema giudiziario, deve mantenere e consolidare quelle forme di dialogo propositivo già avviate da tempo con l’istituzione consiliare attraverso la partecipazione a tavoli tecnici, commissioni di studio, audizioni, sulle principali tematiche inerenti l'ordinamento giudiziario e l'attività di normazione secondaria dell’organo di governo autonomo della Magistratura, ed in particolare: i criteri di nomina dei dirigenti degli Uffici, i carichi di lavoro, le valutazioni di professionalità, ma anche le criticità dell’organico e la carenza di personale amministrativo.
8. Le elezioni del Comitato Direttivo Centrale
La mancanza di condizioni per l’azione politica - diversamente argomentata da ogni corrente - ha portato al ritiro “politico” dalla G.E.C di praticamente tutti i componenti. Perché, viste anche le annunciate riforme, ciò non ha condotto allo svolgimento immediato delle elezioni del Comitato Direttivo Centrale?
La mancata indizione di una data ravvicinata per la elezione di una nuova compagine associativa è stata la motivazione che ha determinato l’allontanamento anticipato di Magistratura Indipendente dal C.D.C. E’ stata una scelta dolorosa ma meditata: non ci siamo più riconosciuti nei valori fondativi della A.N.M.
Sarebbe stata necessaria una maggiore e diversa sensibilità, ma gli altri gruppi si sono coalizzati votando per un rinvio di oltre 5 mesi, a nostro giudizio non giustificato in virtù sia della condizione già in essere in prorogatio dei poteri sia per la assoluta straordinarietà del momento.
Nell’ultima riunione del 23 maggio a cui abbiamo partecipato (la registrazione è disponibile su radio radicale) abbiamo assistito nostro malgrado a un susseguirsi di accuse e contro accuse tra Area e Upc, di dimissioni di singoli componenti dalla G.E.C. a cui ne sono seguite altre dal C.D.C. nei giorni successivi, frutti avvelenati dello stillicidio giornaliero messo in atto dagli organi di stampa che pubblicano i messaggi tratti dal telefono del dott. Palamara.
Un fiume di fango trasversale che avrebbe dovuto suggerire una accelerazione verso il rinnovo dell’associazione e non già l’opzione di auto-conservazione. Ci siamo chiesti con quale credibilità e autorevolezza l’attuale C.D.C. possa essere rappresentativo dell’intera magistratura italiana e sedersi ad un ipotetico tavolo di riforme quando la stampa si spinge finanche ad additare addirittura la A.N.M. come la vera loggia eversiva che mina la democrazia, equiparando la vicenda “magistropoli” alla P2 .
Non abbiamo mai chiesto e non chiediamo, in questa pur terribile fase, di esprimere giudizi sommari su singole responsabilità individuali, come invece avvenne da parte di altri un anno fa con spregiudicata e impudente ferocia. Abbiamo piuttosto semplicemente ritenuto che la via del voto fosse quella più lineare, corretta e, in qualche modo, auspicabilmente riparatrice dei gravi errori commessi.
Non potevamo rimanere indifferenti di fronte al rifiuto di una rapida svolta: occorreva al più presto cambiare il volto della rappresentanza dell’A.N.M., con proposte concrete e credibili per intraprendere un incisivo percorso di recupero della dignità e della autorevolezza della Magistratura.
Questo C.D.C. è in regime di “prorogatio”, situazione che già di per sé è del tutto anomala, ancorché determinata dall’emergenza sanitaria.
Oggi tale regime di proroga non è più giustificato, sia perché è urgente porre fine al più presto alle delegittimazioni che stanno vedendo come protagonisti alcuni rappresentanti, anche autorevoli, della G.E.C., sia perché non sono ravvisabili ostacoli per organizzare le elezioni attraverso il voto telematico (sarebbe stato sufficiente pagare un sovraprezzo alla società incaricata perchè concludesse le sue attività tecniche in tempo utile per svolgere le elezioni entro luglio, lavorando anche nei giorni festivi), sia perchè il voto telematico, comunque, è stato pensato per facilitare ed accelerare le operazioni di voto e non certo quale alibi per allontanarle il più possibile, sicchè, se necessario, ben poteva rinviarsi il voto telematico a tempi più consoni ed andare alle urne a luglio con le modalità consuete, essendo ripresa anche l’attività giudiziaria ed essendo venuti meno dunque gli impedimenti legati alla emergenza sanitaria .
Ci è stato però risposto laconicamente che occorre tempo per mettere a punto i profili tecnici della nuova piattaforma di voto. Ci è sembrato un modo surrettizio di argomentare, irrispettoso degli associati che stanno vivendo un periodo di grave sconcerto ed incertezza e che hanno il diritto di esprimersi con il voto; insomma una opzione miope ed egocentrica, che ci ha visti in totale disaccordo.
Voltare al più presto pagina, ricominciare un nuovo corso, è un dovere che va al di là degli interessi dei singoli gruppi, è un dovere superiore che tutti noi abbiamo verso la nostra associazione, verso i nostri associati, verso la Magistratura.
Nel quadro di delegittimazione emerso, protrarre questo C.D.C. sino ad ottobre inoltrato significa sottrarsi alle nostre responsabilità, significa rinunciare ad ogni credibilità dell’Associazione, significa ritardare - per quanto ingiustificatamente possibile – di sottoporsi al giudizio dei magistrati che rappresentiamo.
La A.N.M aveva (ed ha) tutte le necessarie capacità e risorse umane, economiche e tecnologiche per proporre il voto, se non a luglio, quantomeno entro il mese di settembre, e anche questa mediazione era stata del resto offerta da Magistratura Indipendente, ma invano. Non c’era la volontà politica e di questo abbiamo preso atto e ne è conseguito un gesto di responsabilità verso tutti gli associati e verso la stessa A.N.M. quale luogo di autentico e genuino confronto e di rappresentanza anche esterna della Magistratura nel suo complesso.
9. Le elezioni dei Consigli giudiziari
In occasione delle elezioni suppletive per il C.S.M., l’A.N.M. ha cercato di favorire un metodo di candidatura svincolato dalle correnti. E per le elezioni dei Consigli giudiziari?
Il punto critico dell’attuale sistema elettorale del C.S.M. con collegio unico nazionale non è nel momento di individuazione delle candidature poiché ciascun magistrato, previa raccolta di sole 25 firme di presentazione, può proporre autonomamente e individualmente la propria candidatura.
La vera questione è la difficoltà per il candidato di farsi conoscere al di fuori del distretto di appartenenza, svolgendosi come detto la competizione elettorale in un collegio unico nazionale, ed è qui che il supporto delle correnti diventa decisivo e fortemente condizionante il risultato finale.
Le elezioni dei consigli giudiziari si svolgono nel più limitato ambito del distretto di ciascuna Corte d’Appello che consente un più diretto rapporto fra elettore ed eletto. In questo caso l’A.N.M. non deve occuparsi né rivendicare un proprio ruolo dell’individuazione delle candidature; deve, invece, soprattutto in un momento come questo, lasciare tutto lo spazio ai singoli magistrati limitandosi ad organizzare momenti di informazione e di confronto distrettuale per far conoscere le candidature.
10. Futuro prossimo
Quale futuro si prospetta per le correnti e l’A.N.M.?
Le correnti, come luogo di confronto su diversi modelli di magistrato e modi di intendere la giurisdizione, sono espressione della libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, garantite a tutti i cittadini ed anche ai magistrati, in quanto tali; esse sono, in certa misura, ineliminabili.
Questo non vuol dire non accorgersi, e non combattere gli elementi di degenerazione del sistema, tra cui il carrierismo che si è sviluppato, dal 2006 in poi, con la riforma del T.U della dirigenza giudiziaria.
I recenti avvenimenti hanno disvelato un malcostume intollerabile. Un’ondata di sdegno attraversa la magistratura ma anche l’opinione pubblica.
Secondo l’ultimo studio condotto da Euromedia Research l’indice di fiducia nella magistratura è crollato di 12,3 punti, scendendo fino al 26,4%, e ben 7 italiani su 10 non credono nell’imparzialità e nel funzionamento dell’ordine giudiziario.
E’ un fatto grave, atteso che la giustizia viene amministrata in nome del popolo.
Mai come ora dobbiamo però avere speranza in un rilancio dell’associativismo giudiziario. Scriveva Pablo Neruda “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”.
Ci troviamo dinanzi ad un bivio e dobbiamo decidere se cambiare il sistema nell’interesse, prima ancora che dei magistrati, dei cittadini che guardano attoniti agli avvenimenti di questi mesi.
O se, come vediamo in alcuni contesti associativi, fingere di cambiare, fare opera di maquillage, per lasciare “gattopardescamente” tutto come prima.
Non basta interrogarsi sulle ragioni di fondo che hanno portato all’attuale degenerazione e formulare, come si legge in certi interventi sulle mailing list, dotte dissertazioni e analisi acute. Serve una reazione morale, un moto d’orgoglio delle diverse componenti associative e dell’A.N.M. nel suo complesso. La A.N.M. che verrà dovrà farsi portatrice autorevole, senza i compromessi e i conflitti di interesse che imbrigliano purtroppo gli attuali suoi dirigenti dimissionari, di proposte concrete e realmente praticabili nell’immediatezza.
Magistratura Indipendente ha indicato alcuni punti fermi del processo di rinnovamento, come la riforma del sistema elettorale del C.S.M. in modo da valorizzare il rapporto di conoscenza diretto tra candidato/elettore, le modifiche di legge e dei regolamenti interni sul versante degli incarichi direttivi onde ridurre gli spazi di discrezionalità consiliari, l’attuazione di un sistema di incompatibilità tra cariche nell’A.N.M. e nel C.S.M. per evitare l’osmosi impropria tra le due istituzioni e il meccanismo delle c.d. “porte girevoli”.
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