ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Codex Incertus
Simplicius Incertus o Incerto – come ormai tutti gli studiosi riconoscono [1] – è stato il più grande retore e giurista dell’antichità. Le sue eccezionali doti di sapienza, intuizione ed equilibrio e la sua straordinaria abilità di oratore, su qualsivoglia argomento, furono evidenti fin dalla nascita (fu infatti immediatamente battezzato “fante”: qui fari potest, soprannome col quale divenne popolarissimo tra le Milizie) e tutti a lui si rivolgevano per risolvere qualsiasi genere di contrasto.
Ebbe vita lunghissima, tenuto conto dell’epoca.
Recenti studi hanno infatti dimostrato, in modo incontrovertibile, che Incerto il Giovane e Incerto il Vecchio furono in realtà la stessa persona ([2]). A differenza di quanto avvenuto per altri grandi dell’antichità [3], “Giovane” e “Vecchio” furono utilizzati per indicare non diverse persone, ma fasi diverse di una stessa vita. E siccome nell’antichità la vecchiaia iniziava intorno ai trent’anni, fino a quella soglia Incerto venne detto il Giovane, dopo venne denominato il Vecchio.
Egli fu perfettamente consapevole di essere il Giovane fino ad una certa età, e il Vecchio dopo.
Si narra, infatti, che l’imperatore Sesto Moscato Giubilo [4], ansioso di passare alla storia, gli chiese di raccogliere in un testo da diffondere in tutto l’impero le leggi fondamentali di Roma, comprendenti lo jus gentium. Allora, Incerto aveva poco più di vent’anni, ma la sua fama già aveva travalicato i confini delle Province anche più remote.
«Sono davvero onorato per la tua richiesta, imperatore» rispose Incerto «ma tu stai facendo una richiesta al Giovane; e forse soltanto il Vecchio, tenuto conto della complessità del lavoro che mi assegni, potrà soddisfarla».
L’imperatore non si perse d’animo:
«Dì al Giovane di parlarne col Vecchio» replicò «e vedete un poco, tutti e due, cosa potrete fare per accontentarmi».
Incerto il Giovane si mise al lavoro, certo che Incerto il Vecchio gliene sarebbe stato grato.
Ma, dopo una prima ricognizione delle numerose fonti, Incerto chiese all’imperatore:
«Nobile Moscato, le leggi di Roma possono consentire o possono vietare. A seconda di come imposterò la raccolta, potrà dirsi che è vietato tutto ciò che non è consentito, ovvero che è consentito tutto ciò che non è vietato».
L’imperatore convenne con tale rilievo. Dopo averci pensato un poco, disse:
«Incerto, ci devo riflettere ben bene. Se consento, diranno di me che sarò stato un imperatore liberale o, peggio, permissivo. Se vieto, diranno di me che ho preferito essere un cieco repressore. A me non importa cosa raccontino di me questi quattro buzzurri [5] dei miei contemporanei, però voglio che i posteri non abbiano a criticarmi. Mi occorre quindi un parere illuminato. Per la prima volta nella mia vita, ho paura di sbagliare. Mi rimetto alla tua ben nota saggezza».
Incerto rispose:
«Grande Moscato. Una sola persona potrà consigliarti al meglio. Questa persona è Incerto il Vecchio».
L’imperatore non si perse d’animo:
«Allora tu portati avanti col lavoro» disse «e quando verrà il tempo giusto, lo chiederò al Grande Incerto».
Quando Incerto ebbe compiuto il trentesimo anno, l’imperatore lo mandò a chiamare.
«Grande Incerto. Dimmi se debbo raccogliere leggi che consentono, o leggi che vietano. Non mi importa cosa diranno di me i contemporanei, che non stimo punto, ma voglio essere un esempio per la posterità».
«Imperatore» rispose Incerto il Vecchio «tu solo sei Grande, e lo sei sempre stato. Io ormai sono soltanto un Vecchio, e ti confesso di esserlo diventato proprio riflettendo attorno al quesìto che tu hai posto al Giovane Incerto. Sono giunto, dopo tanti anni, alla conclusione che non è tanto importante il segno delle tue leggi, quanto il loro numero e il loro oggetto. Se vieterai tante cose ne consentirai meno, e viceversa. Se ne consentirai poche ne avrai vietate tante, e viceversa. Qualsiasi soluzione ti espone al severo giudizio dei posteri. Se è quello che ti preme, devi assolutamente fare in modo di sottrarti ad un simile giudizio. Quando non puoi controllarlo, lo devi eliminare: il giudizio è invero l’arma più temibile dell’uomo. E quello dei posteri, te lo dico per esperienza, è il giudizio più impietoso, perché in genere non tiene conto delle contingenze nelle quali il caso ti ha costretto a operare».
L’imperatore, turbato, si ritirò nella sua residenza, per pensarci un po’ su.
Dopo qualche mese, mandò a chiamare Incerto il Vecchio.
«Incerto» disse l’imperatore «tu sei il più grande giurista della nostra storia. Il caso ha voluto che le nostre vite si incrociassero. Scusa se te lo dico apertamente, ma io vorrei trarre da questo fortunato incrocio il massimo di utile per me. Siccome la sola cosa che mi interessa è essere ricordato dalla posterità come il miglior imperatore di Roma, dimmi tu quale raccolta dovrò mettere in cantiere. Posso abrogare o approvare qualsiasi legge, non mi interessa a vantaggio o a detrimento di chi. Non mi interessa quale fenomeno si dovrà regolare con nuove leggi. Non mi interessa sapere di quante leggi abbiamo bisogno per realizzare il nostro disegno. La sola cosa che mi interessa è che la storia parli bene di me»
Incerto il Vecchio si avvicinò.
«Grande Moscato» disse «c’è una sola soluzione: devi fare in modo che le tue leggi non si capiscano. Più la legge è complessa, oscura, contraddittoria, maggiore sarà la responsabilità degli interpreti. Se la legge è fatta bene, dal tuo punto di vista (che è il solo che conta), essa potrà essere, al tempo stesso, permissiva e repressiva. Il risultato finale non dipenderà dalla legge, e quindi non sarà dipeso da te. Tu potrai sempre dire: questa interpretazione restrittiva non rispetta lo spirito e la lettera della legge, e viceversa. Se ti tieni l’ultima parola nessuno potrà giudicarti, e tu potrai sempre prevalere sulla legge. Ricordati, non esiste una legge buona o una legge cattiva: ne esistono soltanto buone o cattive interpretazioni e applicazioni. E tu, per non essere giudicato dall’interprete, devi porti al di sopra della legge e soprattutto al di sopra di chi, quella stessa legge, è chiamato ad interpretarla».
L’imperatore guardò il suo interlocutore con un velo di sospetto.
«Perché ti chiamano Incerto, Vecchio?».
«Non lo so, Grande Moscato; avevo lo stesso nome sin da Giovane; e del resto nessuno mi ha mai chiamato Simplicius, che è poi il mio primo nome, o Fante, che è il mio soprannome».
«Bene» disse l’imperatore dopo una breve riflessione «Giovane o Vecchio che tu sia, mi hai semplicemente convinto, Fante. Ti dò mandato di scrivere un intero codice di leggi che non si capiscono, e quando avrai terminato abrogherò tutte le leggi anteriori, perché solo il Codex Incertus dovrà avere applicazione, in tutto l’impero. Esso sarà la mia definitiva consacrazione. Il monumento delle leggi incomprensibili che onorerà per sempre la mia gloria. A te l’onore di coniarle».
Fu così che Incerto il Vecchio si mise al lavoro.
Ma era già molto avanti con gli anni, e ad un certo punto si accorse che non avrebbe mai avuto il tempo né le forze di completare la sua poderosa raccolta di astruserie.
Si presentò quindi dall’imperatore.
«Grande e Nobile Moscato, di protetta appellazione. Sono diventato troppo Vecchio. Improvvisamente. Temo che non riuscirò a completare il Codex Incertus. Ti chiedo di perdonarmi. Ho deluso le tue aspettative. Se aspetti me, stai fresco».
«Non preoccuparti, troppo Vecchio. Tu sei un grande giurista, il più grande che l’umanità avrà mai avuto. La tua mente è superiore a ogni altra: ciò che tu giudichi comprensibile, per altri è perfettamente incomprensibile, e viceversa. Ma hai commesso il più classico degli errori in cui incorre la mente superiore: giudicare gli altri sul tuo metro, senza tener conto che quelli sono ben diversi e ben peggiori di te. Mentre riflettevi, anch’io nel mio piccolo ho riflettuto. Io non ho la tua testa, ma proprio per questo posso vedere cose che tu non vedi. E sono giunto alla seguente conclusione: per i buzzurri che sono intorno a noi qualsiasi legge è incomprensibile. Il problema non è nelle leggi. Il Codex non serve, è già nella testa e nella coscienza di chi ci circonda. Mi limiterò ad alimentare stupidità ed ignoranza. Io, in ogni caso, avrò vinto la mia battaglia».
Incerto il Vecchio sorrise.
Guardò il suo interlocutore con ammirazione, sollevato, sapendo di essersi liberato di un compito molto difficile.
Sesto Moscato Giubilo gli rivolse uno sguardo annoiato.
Incerto si inchinò davanti all’imperatore e s’incamminò con passo veloce per la strada dei secoli, la stessa che porta sino a noi.
[1] Vedi, per tutti ed anche per citazioni, O. Ignazio Picone, Perdutamenti. Grandi e perdute menti del passato, Napoli, 2010, pag. 170.
[2] Il primo ad avanzare la rivoluzionaria ipotesi fu, com’è noto, Aristarco di Plotina, in Annales, IV, 2, De Illustribus, pag. 702.
[3] Il caso più noto è quello di Plinio; il Vecchio, infatti, altri non era che Gaio Plinio Secondo, morto tra le esalazioni sulfuree del Vesuvio il 25 agosto del 79 d.C., mentre il Giovane, nipote del primo, rispondeva al nome di Gaio Plinio Cecilio (anch’egli) Secondo, e del primo divenne il figlio adottivo dopo la morte di entrambi i genitori. Forse per distinguerlo dallo zio sarebbe stato sufficiente chiamarlo Cecilio, ma sembra che entrambi preferissero chiamarsi Plinio.
È nota la lite giudiziaria che contrappose i due Plinii quanto all’appellativo di Secondo, che in partenza spettava a entrambi; dopo la sentenza, emessa dal senatore Pellegrino Stanziale, esso non spettò più a nessuno dei due, perché il Giovane non riuscì a dimostrare l’esistenza di un Plinio Primo, mentre il Vecchio, che non voleva essere Secondo a nessuno, ma casomai Terzo, rifiutò l’appellativo di Primo e scelse di chiamarsi soltanto Plinio.
[4] Noto per essere stato, oltre che gran bevitore, il primo compilatore ufficiale dei mores romani. Le malelingue del tempo spiegavano il suo nome con l’effervescenza di cui l’imperatore era regolare vittima dopo aver bevuto sei coppe di vino dei Castelli.
[5] Il termine “buzzurro”, secondo le fonti ufficiali, avrebbe origine più tarda, designando coloro che, nell’evo medio, calavano dalle regioni settentrionali a Roma per vendere polenta e caldarroste, oltre che per pulire i camini delle case patrizie. Ma, sul punto, la testimonianza dello storico Aristarco non può mettersi in discussione: egli attesta infatti che l’imperatore era solito rivolgere ai suoi concittadini i termini di “buzzurro” ovvero di “ciafruijone”, dal significato esattamente corrispondente.
L’imparzialità del “maestro” nei concorsi universitari e la comunità scientifica (nota a Cons. St., sez. VI, 24 settembre 2020 n. 5610).
di Alessandro Cioffi.
Il caso è molto particolare: in un concorso interno per la chiamata di professore ordinario (art. 24, comma 6, della legge n. 240 del 2010), il membro designato dal dipartimento è il “maestro” delle due concorrenti, entrambe sue allieve. In un caso come questo, afferma il Consiglio di Stato, occorre evitare che un membro della commissione sia così vicino alle parti e bisogna attingere ad altri professori del settore scientifico-disciplinare.
In particolare, il Consiglio di Stato considera che oggi la comunità scientifica è molto più estesa che in passato: prima – si legge nella motivazione della sentenza - la comunità scientifica di un certo settore disciplinare aveva “carattere ristretto” e questo giustificava la “deroga alle norme di astensione che presiedono a qualsiasi procedura concorsuale”; oggi invece, dice la sentenza, vi è una “ampia diffusione numerica sul territorio”. Quindi, “il giudice della legittimità deve poter valutare se quel carattere di ristrettezza degli appartenenti al determinato settore scientifico in questione sussista ancora”. Rileva la sentenza che sono “145 i professori ordinari” di quel settore scientifico, secondo il sito del ministero, consultato nel momento del passaggio in decisione dell’appello. Secondo la sentenza, in conclusione: “questo numero” - 145 ordinari del settore- “non può più giustificare quella deroga” e quindi il professore in questione aveva “l’obbligo di astenersi”, in quanto “Maestro” di entrambi i concorrenti. Dunque la Sezione accoglie il ricorso e annulla tutti gli atti successivi al bando.
Il caso solleva molte domande: quando una comunità scientifica può dirsi ristretta e quando può dirsi estesa? Cosa si intende per “maestro”? E infine: è l’estensione di una comunità che segna la distanza e garantisce l’imparzialità?
Più semplicemente, nel concreto, la regola pratica che la sentenza offre è estratta da un caso che riguarda una fattispecie molto particolare, quasi unica: il maestro di due concorrenti, membro interno, in una procedura riservata. Ed è vero, sempre nel concreto, che un particolare in più viene dalle circostanze del fatto stesso – vi era stata una segnalazione preventiva all’ANAC e l’Autorità aveva risposto che in effetti vi è il “sospetto che la valutazione della candidata non sia stata oggettiva e genuina”; ed è, questo, un rilievo che la motivazione della sentenza coglie e menziona, citando il passo della delibera ANAC, nel momento della decisione. Infine, si deve osservare che nel caso di specie non esiste una norma ad hoc. E’ quindi naturale che il Consiglio di Stato abbia dato un segnale. Per questi caratteri del caso, sembra che la sentenza porga la soluzione di un caso raro e particolare, ma non la dettatura di un principio.
Quanto al principio, è bene ricordarne la formulazione classica, nella massima corrente elaborata dalla giurisprudenza: il rapporto maestro-allievo non altera di per sé l’imparzialità del concorso, perché l’interesse che può violare l’imparzialità è solo quello finanziario ed economico, fonte di rapporti patrimoniali e professionali[1].
Questa massima tradizionale, va precisato, è resa sul terreno degli interessi e sembra dire che la vicinanza scientifica non è un interesse pericoloso. Non dovrebbe alterare l’imparzialità di chi giudica, almeno in teoria. Nella sua realtà effettuale, però, questo caso così particolare fa intravedere qualcosa di più. Considerando la comunità di un settore scientifico, la relazione maestro allievo può essere pericolosa per l’imparzialità; così, quando la comunità scientifica è estesa, la relazione si può e di deve evitare, scegliendo un membro diverso.
Se questa è la regola pratica che è estraibile dalla sentenza, il sottinteso può essere questo: è l’estensione della comunità scientifica, ovvero la distanza, che garantisce l’imparzialità.
E’, questa, una visione che porge una questione più ampia, che supera l’imparzialità e riguarda la scienza stessa. E’ destinata ad altre sedi e qui si possono anticipare solo alcuni cenni. Siamo davanti ad una valutazione che riguarda la “scienza come professione”, ovvero la morale di una comunità scientifica, la sua latitudine e l’effettività dei rapporti che si intessono nello scientiam facere. Quindi nei concorsi. Da qui sorge un interrogativo di fondo: la scienza ha ancora un’etica della responsabilità?
E nel caso specifico: questa responsabilità si soddisfa con l’astensione del “maestro” o, invece, può entrare in una sfera di vicinanza, la valutazione dell’allievo, conservando quel carattere disinteressato che è proprio della scienza?
E infine: la regolazione giuridica di questa responsabilità dovrebbe essere materia dell’autonomia universitaria (art. 33 Cost. e codice di autoregolazione) o materia della legge?
Dovrebbe assumere la forma della responsabilità scientifica o quella del dovere giuridico?
Nel vuoto attuale, il Consiglio di Stato ha dettato la regola del caso concreto, aprendo la discussione al riguardo.
* * *
[1] Cons. Stato, Sez. V, n. 4782/2011; T.A.R. Lazio n. 6945/2013; Cons. Stato., sez. VI, n. 3366/2014; Cons. Stato, sez. VI, n. 4105/2017.
Deontologia e professionalità del magistrato nella giurisprudenza Cedu*
di Guido Raimondi
Affrontiamo oggi il tema della deontologia e della professionalità del magistrato in un momento nel quale la magistratura è nella tempesta, a causa dello scandalo suscitato dalle rivelazioni sulle modalità con le quali venivano prese, all’interno del CSM, le decisioni su importanti nomine nell’ambito giudiziario.
Sarebbe però sbagliato, credo, pensare che il discredito che indubbiamente è piovuto sui giudici sia un problema della sola magistratura. Una giustizia autorevole, autonoma e indipendente è condizione dell’esistenza di una moderna democrazia liberale, che è la forma di governo stabilita dalla nostra Costituzione e nella quale, fino a prova contraria, vogliamo vivere. Non si tratta di un valore esclusivamente nazionale. Al contrario, sessant’anni di giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le cui sentenze si indirizzano a 47 Stati europei, dimostrano che il progetto europeo è costruito a partire dal valore della democrazia liberale, condizione essenziale della quale è una giustizia autonoma, indipendente e credibile. Conferma eloquente di ciò vi è nell’appropriazione di questa giurisprudenza da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea, come si è visto con la serie di sentenze, relative alle recenti riforme del sistema giudiziario polacco, con le quali i giudici di Lussemburgo hanno ribadito l’imprescindibilità, per la costruzione europea, di una giustizia della qualità che ho indicato.
Sarebbe veramente miope, almeno da parte di chi abbia a cuore il buon funzionamento della democrazia, rallegrarsi del momento di difficoltà dell’istituzione giudiziaria, magari pensando, anche in buona fede, che una magistratura indebolita favorisca un migliore e più efficiente esercizio dell’azione politica.
Il legame indissolubile tra il sistema europeo di protezione dei diritti umani messo in piedi con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e la democrazia “effettiva” è stato più volte sottolineato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel far ciò, ha insistito, come per esempio, in modo emblematico, nella sentenza Handyside c. Regno Unito del 1976, sulla centralità della giustizia come presidio imprescindibile di ogni regime sinceramente democratico.
Le questioni concernenti il funzionamento della giustizia, “istituzione essenziale per ogni società democratica”, formano quindi oggetto di una particolare attenzione da parte della Corte europea. Bisogna tener conto, dice la Corte, della missione particolare del potere giudiziario nella società. Come garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto, la sua azione ha bisogno della fiducia dei cittadini per poter essere compiutamente realizzata.
Il tema è stato approfondito in particolare a proposito della libertà di espressione, pilastro della Convenzione, ma che richiede un trattamento particolare in materia di giustizia. La giurisprudenza può quindi ritenere necessario proteggere la giustizia contro attacchi infondati, ma dando per presupposto il dovere deontologico dei magistrati di mantenere il riserbo e quindi di non reagire (Prager et Oberschlick c. Austria >span class="sb8d990e2">1995).
L’espressione “autorità del potere giudiziario” riflette principalmente l’idea che i tribunali sono gli organi preposti a risolvere le controversie giuridiche e a pronunciarsi sulla colpevolezza o l’innocenza delle persone accusate in materia penale, che i consociati li considerino come tali e che la loro attitudine ad assolvere questa funzione susciti in essi “rispetto e fiducia” (Worm c. Austria del 1997). Ne va della considerazione di cui i tribunali di una società democratica devono godere non solo presso gli utenti della giustizia, ma anche presso l’opinione pubblica (Koudechkina c. Russia del 2009 ; Fey c. Austria >span class="sb8d990e2">1993). In particolare, dice la Corte, ci si deve attendere dai magistrati che essi facciano uso con ritegno della loro libertà di espressione tutte le volte che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario siano a rischio (Wille c. c. Liechtenstein del 1999).
Il tema della fiducia di cui i tribunali devono godere affinché lo Stato di diritto funzioni regolarmente, e dunque gli scopi della Convenzione siano adeguatamente realizzati, abbraccia anche quello della professionalità del magistrato, sempre tenendo a mente che questa esigenza riguarda non solo coloro che sono direttamente esposti ad una decisione giudiziaria, cioè gli utenti della giustizia, ma anche la società in generale. Questo è un tema, evidentemente, maggiormente rilevante nel quadro del “giusto processo” tutelato dall’articolo 6 della Convenzione, ma che trascende questa disposizione, elevandosi al rango dei principi fondamentali che innervano il sistema di tutela messo in piedi dalla Convenzione europea.
A proposito della professionalità e della sua garanzia la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di esprimersi anche partendo dal tema della libertà di espressione, escludendo che certe misure, volte al legittimo controllo della professionalità del magistrato e della sua attitudine ad esercitare le funzioni giudiziarie, potessero qualificarsi come ingerenza nella libertà di espressione.
Quindi, se non si può dire che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si sia occupata ex professo della deontologia e della professionalità del magistrato, importanti indicazioni sono ricavabili specialmente dalle decisioni della Corte in tema di libertà di espressione. Rileva anche la giurisprudenza sull’equo processo, relativa all’articolo 6 della Convenzione europea.
A proposito della professionalità, la Corte di Strasburgo ha detto che le misure volte alla preservazione e al controllo della professionalità dei magistrati non costituiscono ingerenze nella libertà di espressione, protetta dall’articolo 10 della Convenzione. Ad esempio, nella decisione Harabin c. Slovacchia del 2004, la Corte ha considerato che la determinazione del Governo convenuto di destituire il ricorrente dalle sue funzioni di Presidente della Corte suprema, sulla base di un rapporto del Ministero della giustizia, riguardava essenzialmente l’attitudine dell’interessato ad esercitare le sue funzioni. Si trattava cioè dell’apprezzamento delle sue competenze professionali e delle sue qualità personali nel quadro delle sue attività e comportamenti concernenti l’amministrazione della Corte suprema. Il rapporto del Ministero della giustizia menzionava in particolare, tra altri addebiti, il fatto che il ricorrente non avesse iniziato una procedura di destituzione contro un giudice della Corte suprema che aveva attaccato un funzionario del Ministero della giustizia e, inoltre, l’accusa di non applicare criteri professionali nell’esercizio delle sue funzioni nel quadro della selezione di candidati al posto di componente della Corte suprema. Anche se dal procedimento emergeva che il ricorrente aveva commentato un progetto di emendamento costituzionale esprimendo delle preoccupazioni quanto al rispetto del principio della separazione dei poteri e all’indipendenza della giustizia, i documenti in possesso della Corte non permettevano di stabilire che la proposta di destituirlo dalle sue funzioni fosse stata “esclusivamente o principalmente motivata da questi commenti”. Allo stesso modo, era il comportamento del ricorrente nel quadro dell’amministrazione della giustizia che costituiva l’aspetto essenziale del caso. La procedura disciplinare che era stata iniziata contro il ricorrente, dopo il suo rifiuto di consentire a dei funzionari del Ministero delle finanze una verifica (audit) che a suo giudizio sarebbe spettata alla Corte di conti, riguardava la maniera nella quale il giudice Harabin esercitava la sua funzione di Presidente della Corte suprema e quindi apparteneva alla sfera del suo impiego nella funzione pubblica. Inoltre, l’infrazione disciplinare della quale egli era stato ritenuto responsabile non si riferiva a dichiarazioni o opinioni espresse nel contesto di un pubblico dibattito, per cui la Corte ha concluso che la misura litigiosa non costituiva un’ingerenza nell’esercizio del diritto garantito dall’articolo 10 della Convenzione, e ha quindi dichiarato il ricorso manifestamente infondato.
La Corte è tornata sulla questione di recente in un caso molto conosciuto, quello della signora Kovesi, che in Romania era stata destituita dalla sua carica di Procuratore anticorruzione. La Corte si è pronunciata nel caso Kovesi c. Romania nel maggio di quest’anno, con una sentenza che è oramai definitiva. In questo caso, nel quale pure veniva in rilievo la violazione della libertà di espressione, il Governo convenuto si è difeso sostenendo che la destituzione della Signora Kovesi si doveva a motivi professionali. La Corte, pur ribadendo il principio espresso nella decisione Harabin, ha ritenuto che in questo caso fosse mancata la prova dell’asserzione del Governo, per cui la misura sofferta dalla ricorrente doveva considerarsi la conseguenza dell’esercizio della sua libertà di espressione.
In tema di libertà di espressione, esprimendosi in generale sulla funzione pubblica, la Corte ha ammesso che è legittimo per lo Stato di imporre ai funzionari, in ragione del loro status, un dovere di riserbo, ma ha anche detto che la protezione dell’articolo 10 della Convenzione spetta anche a loro (Vogt c. Germania >span class="s6b621b36">, Guja c. Moldova del 2008). In questi casi, dunque, la Corte deve, tenendo conto delle circostanze specifiche di ogni fattispecie, valutare se sia stato rispettato un giusto equilibrio tra il diritto fondamentale dell’individuo alla libertà di espressione e l’interesse legittimo di uno Stato democratico a che la funzione pubblica operi ai fini enunciati nel secondo comma dell’articolo 10, cioè la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale e la sicurezza pubblica, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti di altri, per la prevenzione della diffusione di informazioni riservate o per mantenere l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. Nell’esercizio di questo controllo la Corte deve tener conto del fatto che, quando è in gioco la libertà di espressione dei funzionari, i “doveri e responsabilità” pure evocati dal secondo comma dell’articolo 10 rivestono un’importanza particolare che giustifica il riconoscimento alle autorità nazionali di un margine di apprezzamento per giudicare se l’ingerenza denunciata sia proporzionata allo scopo (Vogt, cit., e Albayrak c. Turchia del 2008).
Per quanto riguarda la magistratura, la Corte precisa che, tenuto conto del posto eminente di questa istituzione in una società democratica, questo approccio si applica anche nel caso di restrizioni relative alla libertà di espressione di un giudice nell’esercizio delle sue funzioni, anche se i magistrati non appartengono, in senso stretto, all’amministrazione (Albayrak, cit.).
La giurisprudenza riconosce che ci si può attendere dai magistrati un uso moderato (“avec retenue”) della loro libertà di espressione quando l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario possano essere messi in causa (Wille, cit., Kayasu c. Turchia del 2008, Koudechkina, cit., e D.G. c. Italia (n. 51160/06), del 2013). La divulgazione di certe informazioni, anche se esatte, deve avvenire con moderazione e discrezione (Koudechkina). In più occasioni la Corte ha sottolineato il ruolo particolare del potere giudiziario nella società: come garante della giustizia, valore fondamentale in uno Stato di diritto esso, come dicevo, deve godere della fiducia dei cittadini per assolvere compiutamente la sua missione. Quindi, nell’esercizio della funzione giurisdizionale, la più grande discrezione s’impone alle autorità giudiziarie quando esse sono chiamate a rendere giustizia, al fine di garantire la loro immagine di giudici imparziali (Olujić c. Croazia, del 2009).
Allo stesso tempo, la Corte di Strasburgo ha sottolineato che a proposito dell’intervento di magistrati nel dibattito sulla giustizia, l’importanza crescente che viene attribuita alla separazione dei poteri e alla necessità di preservare l’indipendenza della giustizia impone ad essa di esaminare con la massima attenzione ogni ingerenza nella libertà di espressione di un giudice che si trovi in una tale situazione (Harabin, cit. e Baka c. Ungheria del 2016 (GC)). Inoltre, le questioni inerenti al funzionamento della giustizia sono di interesse generale e quindi godono di una protezione elevata nel quadro dell’articolo 10 (Koudechkina, cit., e Morice c. Francia del 2015 (GC). Anche se un dibattito ha delle implicazioni politiche, ciò non è sufficiente di per sé per vietare a un giudice di pronunciarsi sull’argomento. In una società democratica, le questioni relative alla divisione dei poteri possono riguardare degli argomenti molto importanti per i quali il pubblico ha un legittimo interesse ad essere informato.
Un caso nel quale, tenuto conto delle valutazioni delle istanze disciplinari nazionali, che avevano sanzionato un magistrato per alcune dichiarazioni rilasciate ad un giornale quotidiano, la Corte di Strasburgo ha ritenuto, nel giudizio di proporzionalità quanto alla giustificabilità dell’ingerenza nella libertà di espressione del magistrato, che in quel caso dovesse prevalere la tutela dei doveri deontologici del magistrato sulla protezione del suo diritto alla libertà di espressione.
Si tratta di un caso che interessa il nostro Paese, il ricorso D.G. c. Italia (n. 51160/06), deciso dalla Corte europea con una sentenza del luglio 2013, e che è forse opportuno guardare un po’ più da vicino.
In questo caso i fatti erano i seguenti. Nel gennaio 2003 si svolse in Italia un concorso pubblico per l’assunzione di magistrati. In seguito, fu avviata un’indagine penale nei confronti di un membro della commissione di detto concorso, accusato di aver falsificato i risultati allo scopo di favorire un candidato.
Il 28 maggio 2003 il quotidiano Libero pubblicò un’intervista rilasciata dalla ricorrente, nella quale quest’ultima dichiarava quanto segue:
«Il lettore comune potrebbe chiedersi perché, se il fine dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) è quello di salvaguardare l’integrità dei principi sacrosanti della giustizia e dei suoi funzionari, esistono cinque fazioni ideologiche in forte disaccordo su come raggiungere questo scopo. Esse sono strutturate sul modello dei partiti politici: le toghe rosse a Napoli, le toghe verdi a Milano. Assistiamo a una perdita di pluralismo quando l’egemonia di una minoranza trascende l’interesse della maggioranza e si avvale dell’attività associativa per salvaguardare il proprio potere e i propri interessi. In questi ultimi giorni, abbiamo appreso la notizia, di gravità estrema, dell’intervento di un membro della commissione dell’ultimo concorso di accesso alla magistratura a favore del familiare di un noto magistrato napoletano, naturalmente già membro del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) e, ancor più naturalmente, attuale membro autorevole dell’ANM.»
Il 4 giugno 2003 quindici membri del Consiglio Superiore della Magistratura (il «CSM») trasmisero al Comitato di presidenza una nota il cui contenuto era il seguente:
«Richiesta di apertura di una pratica. Nel quotidiano Libero del 28 maggio 2003 la dott.ssa … (omissis), ha dichiarato: In questi ultimi giorni, abbiamo appreso la notizia, di gravità estrema, dell’intervento di un membro della commissione dell’ultimo concorso di accesso alla magistratura a favore del familiare di un noto magistrato napoletano, naturalmente già membro del CSM e, ancor più naturalmente, attuale membro autorevole dell’ANM. Rispetto a tale dichiarazione i consiglieri sottoscritti chiedono che sia aperta una pratica allo scopo di verificare se si tratti di una informazione effettiva e, all’esito delle verifiche, di adottare le misure necessarie.»
Il 12 giugno 2003 il quotidiano Libero pubblicò una seconda intervista della ricorrente nella quale quest’ultima precisava le sue precedenti dichiarazioni. L’articolo conteneva i passaggi seguenti:
«Mi dispiace che le dichiarazioni contenute nel recente articolo di Libero abbiano potuto urtare la sensibilità di qualche collega. È evidente che non mi sono espressa chiaramente. Mi riferivo a un nuovo giornalismo, che è cosa diversa rispetto a un dato oggettivo (...). Il riferimento ai probabili soggetti attivo e passivo coinvolti nei fatti era quantomeno generico (in proposito potrei citare tutta una serie di colleghi che possono rientrare nella tipologia indicata) e doveva essere letto nel contesto delle mie dichiarazioni, riguardanti la stigmatizzazione di una possibile convergenza di interessi tra l’ANM e il CSM. La mia iniziativa e le mie dichiarazioni sono volte a mettere in evidenza l’esistenza di probabili centri di potere che rischiano di offuscare l’immagine del giudice autonomo e indipendente che quotidianamente difendiamo nella nostra attività professionale.»
A seguito di tali interviste, sulla stampa furono pubblicati altri articoli che associavano la persona di E.F., un magistrato napoletano, ai fatti delittuosi legati al concorso pubblico di gennaio 2003.
Il Procuratore generale della Corte di cassazione iniziò un procedimento disciplinare, che si concluse con l’affermazione della responsabilità disciplinare della ricorrente, alla quale venne irrogata la sanzione dell’ammonimento. Il suo ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione venne respinto.
La Sezione disciplinare del CSM considerò anzitutto che le critiche della ricorrente relative all’attività e al funzionamento del CSM e dell’ANM costituissero la libera espressione di una convinzione personale, che non poteva in quanto tale essere oggetto di sanzioni. Invece, le affermazioni della ricorrente relative a un suo collega presentavano tutti gli elementi di un illecito disciplinare. Secondo la sezione, i dettagli forniti dalla ricorrente si riferivano senza dubbio alla persona di E.F., unico ex magistrato del CSM e attuale membro autorevole dell’ANM la cui figlia avesse partecipato al concorso per l’assunzione di magistrati in questione. Le dichiarazioni contestate tendevano dunque a confermare presso l’opinione pubblica delle voci diffamatorie, prive di fondamento, riguardanti un collega. La sezione disciplinare affermò che la ricorrente era venuta meno al suo dovere di discrezione inerente alle sue funzioni di magistrato e al suo dovere di lealtà e rispetto nei confronti di un collega. La sezione considerò infine che il fatto che le dichiarazioni in contestazione rientrassero in un contesto più generale permetteva tuttavia di infliggere solo un ammonimento, ossia la sanzione meno grave.
È di un certo interesse notare il ragionamento usato dalla Corte per escludere in questo caso la violazione dell’articolo 10. Dopo aver ricordato i principi fondamentali a proposito della libertà di espressione dei magistrati, principi che ho già evocato e che in definitiva richiedono che i magistrati facciano uso della loro libertà di espressione con riserbo ogniqualvolta l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario possano essere chiamati in causa (Wille, cit.), la Corte rammenta che il suo compito non è sostituirsi ai giudici nazionali, ma verificare sotto il profilo dell’articolo 10 le decisioni che questi ultimi hanno emesso in virtù del loro potere discrezionale. Per questo essa deve considerare l’«ingerenza» controversa alla luce di tutta la causa per stabilire se fosse «fondata su bisogni sociali imperativi» e se i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificarla appaiano «pertinenti e sufficienti» (Laranjeira Marques da Silva c. Portogallo del 2010), tenendo conto anche della gravità della sanzione irrogata (Ceylan c. Turchia [GC], del 1999-IV; Tammer c. Estonia, del 2001; Skałka c. Polonia, del 2003; Lešník c. Slovacchia, del 2003; e Perna c. Italia [GC], del 2003).
Detto tutto questo, sottolineando che la massima discrezione si addice ai magistrati, la Corte rammenta che questa discrezione deve indurli a non utilizzare la stampa, neanche per rispondere alle provocazioni. Così vogliono gli imperativi superiori della giustizia e l’importanza della funzione giudiziaria (Buscemi c. Italia, del 1999; Kayasu, cit., e Poyraz c. Turchia, del 2010).
Le dichiarazioni in questione facevano riferimento a reati gravi che sarebbero stati commessi da un collega magistrato. La ricorrente non contestava che le voci di manovre illecite da parte di E.F. non erano state confermate da alcun elemento oggettivo. La Corte ha rammentato l’importanza per i magistrati di beneficiare della fiducia del pubblico nell’esercizio delle loro funzioni (Poyraz, cit.).
La Corte ha poi ricordato che nelle cause, come quella di cui stiamo parlando, nelle quali è necessario, tra l’altro, trovare un equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata, in questo caso sotto l’aspetto della reputazione, e il diritto alla libertà di espressione, l’esito del ricorso non può, in linea di principio, variare a seconda che il ricorso sia stato proposto dalla persona oggetto di affermazioni ritenute diffamatorie dalla Corte, sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione, o dall’autore delle stesse affermazioni, sotto il profilo dell’articolo 10. In effetti, questi diritti meritano a priori pari rispetto.
In queste circostanze, la Corte ha ritenuto che i motivi invocati dalla sezione disciplinare per giustificare la sanzione fossero al tempo stesso pertinenti e sufficienti. Peraltro questa sanzione era la più lieve tra quelle previste dal diritto nazionale, ossia un ammonimento. Pertanto essa non poteva essere considerata sproporzionata.
Non è senza rilievo, poi, che in chiusura della sentenza la Corte di Strasburgo abbia voluto distinguere questo caso italiano da quello Koudechkina c. Russia, cit., nel quale essa aveva concluso per la violazione dell’articolo 10 della Convenzione. In effetti, a differenza della ricorrente nel caso italiano, la sig.ra Koudechkina, giudice del Tribunale di Mosca, che si era presentata alle elezioni generali alla Duma, era stata sanzionata per aver espresso, nell’ambito della sua campagna elettorale, delle critiche sul funzionamento dei tribunali di Mosca e del sistema giudiziario. I fatti che aveva attribuito a degli individui identificati o identificabili (in particolare, il presidente del tribunale di Mosca) rientravano nella sua diretta esperienza ed erano stati in parte confermati da alcuni testimoni. Inoltre, la sanzione inflitta alla sig.ra Koudechkina aveva comportato per lei la perdita del suo posto e di qualsiasi possibilità di esercitare la funzione di giudice.
Come dicevo, non vi è nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo una disamina articolata della deontologia giudiziaria, ma dalle affermazioni che si è cercato di porre in rilievo emerge con cristallina chiarezza la grande preoccupazione della istituzione di Strasburgo perché venga preservato un bene indispensabile a quella “democrazia effettiva”, a sua volta premessa imprescindibile del sistema, cioè la credibilità della giustizia, vale a dire la fiducia di cui essa deve godere, sia presso i suoi utenti sia presso il pubblico in generale. Emblematico il caso italiano del quale abbiamo parlato, nel quale la Corte ha fatto prevalere le esigenze deontologiche che accompagnano la funzione giurisdizionale persino sul diritto che molti commentatori considerano quello ad essa più caro, cioè quello alla libertà di espressione.
Ne è implicazione certa il dovere degli Stati di provvedere in modo adeguato alla tutela dei due pilastri sui quali risposa la credibilità della funzione giurisdizionale, da una parte la professionalità e dall’altra l’assoluta integrità di coloro che sono chiamati ad amministrare la giustizia.
Mi pare appena il caso di aggiungere che uno Stato nel quale i cittadini hanno fiducia nella giustizia non è solo uno Stato che rispetta i propri obblighi internazionali, ma è uno Stato dove si vive meglio. Mi permetto di dire anche che il nostro impianto costituzionale e la qualità umana e professionale della nostra magistratura sono tali da permetterci di pensare che non è irraggiungibile il traguardo di una piena riconquista della fiducia nella giustizia da parte dei cittadini sia sotto l’aspetto professionale sia sotto quello deontologico, e ciò indipendentemente dagli obblighi internazionali che il nostro Paese ha assunto in tema di diritti umani. Il risultato sarà raggiunto tanto più facilmente quanto più i magistrati sapranno veramente interiorizzare il codice etico che essi stessi si sono dati attraverso l’ANM e, cosa, ancora più importante, questa interiorizzazione sarà stata riconosciuta all’esterno del nostro mondo.
*Relazione tenuta a Palermo il 21 settembre 2020, in occasione dell’ “Incontro di studio interdisciplinare sul tema: deontologia e professionalita’ del magistrato: un binomio indissolubile”, organizzato dalla struttura distrettuale di Palermo della Scuola della magistratura in occasione del 30^ anniversario dell'uccisione di Rosario Livatino.
L’adozione di maggiorenni e la tutela dei legami familiari di fatto. (Nota a Corte di Cassazione 3/04/2020, n. 7667 e a Corte d’appello di Roma 5/06/2020 n. 2637)
di Maria Giulia D’Ettore e Rita Russo
Sommario: 1. L’adozione di maggiorenne: l’evoluzione dell’istituto - 2. I recenti interventi della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Roma - 3. Il giudice nazionale e la interpretazione dei testi normativi alla luce della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’adozione di maggiorenne: l’evoluzione dell’istituto
Nel solco di una giurisprudenza nazionale e sovranazionale che intende dare risposta ad istanze di tutela della vita privata e familiare, in linea con un evidente mutamento della società civile ed un sempre crescente numero di nuclei familiari “allargati”, due recenti pronunce della Corte d’appello e della Corte di Cassazione ridisegnano i confini dell’istituto dell’adozione dei maggiorenni.
La tradizionale qualificazione in senso decisamente patrimoniale dell’adozione dei maggiorenni, concepita, nell’impianto del codice, quale strumento per dare un discendente, e quindi un erede, a chi, al contrario, non ne aveva, cede il passo ad esigenze solidaristiche ed alla necessità di dare veste giuridica a legami familiari nuovi, altrimenti non regolarizzabili [1].
Da istituto volto a realizzare non tanto l’interesse economico e morale dell’adottando, quanto quello dell’adottante alla perpetuazione della discendenza, in assenza di una filiazione biologica, l’adozione di maggiorenne diviene uno strumento di consolidamento di relazioni affettive familiari di fatto, consolidatesi nel tempo, anche per il tramite di un’interpretazione estensiva dell’art. 291 c.c.
Nella sua formulazione letterale, l’art 291 c.c. consente l’adozione di maggiorenni alle persone che non abbiano discendenti legittimi (o legittimati[2]), che abbiano compiuto gli anni trentacinque e che superino di almeno di diciotto anni l’età di coloro che essi intendono adottare.
In presenza delle condizioni di legge, l’adozione di maggiorenni, a differenza di quanto previsto per le forme di adozione dei minori, non determina l’insorgere di un rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato, né tra adottato e parenti dell’adottante[3] e non interrompe il legame tra l’adottato e la propria famiglia d’origine, nei confronti della quale l’adottato conserva tutti i diritti e gli obblighi.
L’adottato, oltre ad assumerne il cognome che si antepone al proprio, acquista poi i diritti successori di figlio nei confronti dell’adottante, secondo quanto previsto dal libro II del codice civile, mentre l’adottante non acquista alcun diritto successorio nei confronti dell’adottato.
Sebbene all’adozione non consegua alcun obbligo di mantenimento, l’adottante e l’adottato sono reciprocamente tenuti alla prestazione alimentare.
In questo quadro normativo si è assistito, nel tempo, ad una vera e propria riscrittura dell’art 291 c.c. e ad un progressivo ampliamento delle ipotesi concrete in cui, secondo la giurisprudenza, è consentita l’adozione di maggiorenne, con tutto ciò che ne consegue quanto a reciproci diritti ed obblighi delle parti.
Dapprima, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art 291 c.c. nella parte in cui non consente l’adozione di un maggiorenne anche da parte di chi abbia figli legittimi o legittimati maggiorenni e consenzienti all’adozione, ritenendo dunque non ostativa all’adozione l’esistenza di figli, in presenza dell’ulteriore requisito, non previsto dalla legge, del consenso di costoro[4].
In seguito, la Corte Costituzionale ha ulteriormente temperato il divieto di adozione, ritenendo non ostativa la presenza di figli maggiorenni interdetti, dei quali non sia possibile acquisire il consenso[5].
Al fine di rimediare alla inevitabile disparità di trattamento che l’art 291 c.c. poneva tra figli legittimi e figli (allora denominati) naturali, poiché l’eventuale presenza di figli naturali non era ostativa all’adozione, la Corte Costituzionale[6] ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui non prevede che l’adozione di maggiorenni non possa essere pronunciata in presenza di figli naturali dell’adottante minorenni o, se maggiorenni, non consenzienti[7].
Anche la giurisprudenza della Corte di cassazione ha contribuito ad ampliare la portata applicativa dell’art 291 c.c., ritenendo superabile l’impedimento alla richiesta di adozione determinato dalla presenza di figli minori, seppur questi siano ex lege incapaci di esprimere un valido consenso.
Dapprima, ha ritenuto applicabile l’istituto in caso di adozione della prole del coniuge dell’adottante, laddove uno dei due figli del coniuge sia minore e l’altro sia divenuto di recente maggiorenne, nell’ottica di consentire ad entrambi, in quanto provenienti dalla stessa famiglia, il diritto di inserirsi nel nucleo familiare del quale fa parte il comune genitore, consentendo, in queste ipotesi, una ragionevole riduzione del divario minimo di età tra adottante ed adottato[8].
In seguito, ha ritenuto che possa essere adottato il figlio maggiorenne del coniuge, che già appartenga, insieme al proprio genitore naturale ed ai fratelli minorenni “ex uno latere” al contesto materiale ed affettivo della famiglia del richiedente, fermo restando il potere-dovere del giudice di procedere all’audizione dei minori e del loro curatore speciale [9].
In queste ipotesi il giudice, tenuto a valutare in forza dell’art 312 c.c. non soltanto la sussistenza di tutte le condizioni di legge ma anche la convenienza dell’adozione per l’adottato, deve verificare se “l’interesse dell’adottato trovi effettiva e concreta realizzazione nel costituendo vincolo familiare, vale a dire nella comunione di intenti […] di tutti i membri del nucleo domestico e, soprattutto, dei figli dell’adottante”.
Nella giurisprudenza della Corte di cassazione assume dunque rilevanza centrale l’interesse dell’adottato di vedersi assicurato un legame stabile all’interno di una famiglia allargata, della quale egli si riconosce e nella quale è riconosciuto come parte integrante da tutti i membri, compresi i minori.
2. I recenti interventi della Corte di cassazione e della Corte d’appello di Roma
E’ proprio nel quadro di questa evoluzione giurisprudenziale che si pongono le due pronunce in commento.
Il caso vagliato dalla Corte di cassazione (sent.n.7667/2020) riguarda una donna, rimasta orfana di padre, che sin dall’età di dodici anni era vissuta con la madre ed il compagno di lei, che l’aveva cresciuta come una figlia propria. Pur a fronte di un legame consolidato (30 anni), in difetto del requisito della differenza di età previsto dall’art 291 c.c., la Corte d’appello di Bologna aveva ritenuto sussistente un impedimento all’adozione.
La Corte di cassazione ha preliminarmente disatteso la sollecitazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art 291 c.c. in relazione agli artt. 2, 3, 10 e 30 Cost., tenuto conto della giurisprudenza della Corte Costituzionale[10] che aveva già ritenuto infondata la questione della disparità di disciplina tra l’adozione dei minori e dei maggiorenni, sul presupposto della diversità strutturale dei due istituti, poiché, mentre la prima ha come essenziale obiettivo l’interesse del minore ad un ambiente familiare stabile ed armonioso, nel quale possa svilupparsi la sua personalità, di contro la seconda non determina necessariamente l’instaurarsi o il permanere di una convivenza familiare.
Tuttavia, la Suprema Corte evidenzia, in linea con i precedenti citati, come l’istituto dell’adozione dei maggiorenni abbia progressivamente perso la funzione originaria di assicurare all’adottante la continuità della casata e del patrimonio, per assumere una nuova valenza solidaristica che, seppur distinta da quella dell’adozione dei minori, è comunque meritevole di tutela, in quanto finalizzata a garantire riconoscimento giuridico alla relazione sociale, affettiva ed identitaria e alla storia personale di adottante ed adottato, così consentendo la formazione di “famiglie” tra soggetti già legati da vincoli personali, morali e civili.
In questo senso, la Corte ritiene consentita un’interpretazione dell’art 291 c.c. costituzionalmente conforme agli art 2, 3 e 30 Cost., ma anche all’art 10 Cost. in relazione all’art 8 CEDU, all’art 7 della Carta Europea dei diritti fondamentali e dell’art 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo.
L’art 8 CEDU impone, infatti, allo Stato obblighi positivi di tutela effettiva della “vita privata e familiare”, secondo la nozione ampia elaborata dalla giurisprudenza delle Corti sovranazionali, comprensiva di ogni espressione della personalità e dignità della persona, rispetto alla quale il limite della differenza di età rappresenta “un’indebita anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare”.
Il giudice di merito è pertanto chiamato ad adeguarsi alla rivisitazione storico-sistematica dell’istituto, formatasi nel diritto vivente e ad adoperarsi al fine di fornire riconoscimento a situazioni familiari consolidatesi nel tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris, come nel caso sottoposto alla Corte, in cui emergeva un legame padre-figlia dell’adottanda con l’adottato, a prescindere dalla differenza di età tra i due richiesta dalla legge. Secondo la Suprema Corte l’interpretazione conforme al dettato costituzionale ed alla normativa sovranazionale giustifica la deroga al limite di età previsto dall’art 291 c.c. anche se, stando al dettato normativo, il requisito della differenza d’età sembrerebbe imperativo, e quindi superabile solo tramite un intervento della Corte costituzionale, peraltro esplicitamente richiesto dai ricorrenti. La Corte di legittimità ritiene però non necessario questo passaggio ritenendo, nel caso di specie, di operare una interpretazione costituzionalmente orientata, volta a rendere compatibile l’art. 291 c.c. con l’art 2 Cost., perché diversamente si impedirebbe, pur a fronte di una formazione sociale di fatto consolidatasi nel tempo, all’adottato di esercitare appieno i suoi inalienabili diritti, e con l’art 3 Cost., dovendosi rimuovere l’irragionevole disparità di trattamento con l’adottante che presenti una differenza di età marginalmente inferiore al tetto legale e questo proprio perché la ratio dell’istituto, alla luce dell’evoluzione sociale, è diversa da quella che aveva ispirato il legislatore.
La Corte d’appello di Roma, invece, con la sentenza n.2637/2020 affronta il diverso profilo della compatibilità tra adozione di maggiorenne e presenza di figli minori dell’adottante; il caso riguarda una coppia di coniugi, genitori adottivi dal 2013 di due minori, che hanno domandato di adottare una giovane donna, nata nel 1997 in Bielorussia e già presente nel contesto familiare sin da bambina, poiché ospitata dalla famiglia per alcuni periodi dell’anno nell’ambito di programmi solidaristici di sostegno ed ospitalità di bambini bielorussi e successivamente trasferitasi, una volta raggiunta la maggiore età, presso il nucleo familiare, con regolare presenza sul territorio italiano in forza di un permesso di soggiorno per motivi di studio. Il Tribunale di Frosinone aveva ritenuto ostativa all’adozione la presenza nel nucleo familiare dei due figli minori.
La Corte d’appello richiama i precedenti arresti in materia della Corte di cassazione ed in particolare quello sopra esaminato, ed evidenzia la necessità di dare riconoscimento formale ad un lungo legame di affetto tra adottanti e adottata e tra questa ed i figli minori della coppia, che si caratterizza per una condivisione di vita prescindente da vincoli di consanguineità, ritenendo giustificata, seppur in un diverso caso, la deroga all’art 291 c.c.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, dall’istruttoria svolta (osservazioni del Servizio Sociale, ascolto giudiziale dei minori e consenso prestato dal curatore speciale dei minori) è emersa l’esistenza di un rapporto di condivisione ed affetto tra tutti i membri del nucleo familiare interessato: l’adottanda, infatti, ha fatto ingresso nella famiglia ancor prima dei due minori, cresciuti con la sua costante presenza come una sorella maggiore, cosicché non soltanto vi è tra gli adottanti e l’adottanda un legame assimilabile ad un autentico rapporto di filiazione, ma anche un rapporto tra adottanda e minore assimilabile ad un rapporto fraterno.
Anche in questo caso, il rigido disposto dell’art 291 c.c. è superato per il tramite di un’interpretazione funzionale alla tutela dell’unità familiare, garantita dall’art 30 Cost. e dall’art 8 CEDU: l’adozione non risponde ad una mera esigenza patrimoniale dei soli adottanti, né ad una pura convenienza economica dell’adottata di conseguire i benefici successori di figlia, ma assurge a strumento di tutela dell’interesse morale e giuridico di tutti i componenti del nucleo, adottanti, adottata e minori, di veder riconosciuta quella formazione sociale nella quale essi si identificano come autentica “famiglia”.
3. Il giudice nazionale e l’interpretazione dei testi normativi alla luce della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo
Le sentenze in esame costituiscono un esempio piuttosto evidente di come stia cambiando l’approccio del giudice alla lettura dei testi normativi.
In particolare, ciò vale per quei settori, come il diritto di famiglia, ove i cambiamenti del costume sono veloci e sono stati, negli ultimi tempi, anche in qualche misura rivoluzionari, generando una forte richiesta di produzione normativa ad hoc cui il legislatore non riesce -o in qualche caso non vuole - dare risposte tempestive e complete. Ciononostante, l’istanza sociale esiste e viene rivolta al giudice, che non può limitarsi ad un non liquet, ma è tenuto a dare una risposta, a maggior ragione qualora si tratti di diritti fondamentali.
In ciò si evidenzia la dimensione fattuale del diritto, laddove per fattualità del diritto si intende quella “enorme virulenza dei fatti, che hanno la vigorìa di condizionare il diritto e di plasmarlo”[11].
Ecco quindi il ricorso ad istituti che, nati per finalità ormai poco attuali, vengono ripensati e rivisti per rispondere ad esigenze nuove: come nel caso della adozione di maggiorenni, chiamata a rispondere non più alla esigenza di trasmettere il patrimonio e il nome familiare ma alle esigenze di tutela della famiglie ricomposte o ricostituite, e in qualche caso anche a dare veste giuridica a legami che altrimenti non potrebbero mantenersi.
In questi casi il giudice è chiamato ad applicare la legge secondo una interpretazione orientata, oltre che dalla logica e dalla individuazione della ratio legis, anche dai principi e dai valori. La presenza di una pluralità di principi, dati da più Carte dei valori, comporta infatti l’esigenza del bilanciamento, che è operato in primo luogo dalla Corte costituzionale, ma anche dal giudice comune[12].
Nella difficile opera di bilanciamento tra i valori il giudice deve da un lato attuare pienamente la sua funzione, dall’altro deve fare attenzione a non travalicarla, sostituendosi al legislatore o alla Corte Costituzionale. E’ quindi necessario trovare il punto di equilibrio nel dialogo con la Corte costituzionale, considerando che più volte la Consulta ha rimarcato il dovere del giudice di rendere l’interpretazione costituzionalmente conforme e che la declaratoria di incostituzionalità è l’extrema ratio, cui ricorrere solamente laddove sia impossibile trarre dalla disposizione, della cui costituzionalità si dubita, una norma conforme a Costituzione.
Il giudice nazionale però, nella sua opera interpretativa, dialoga non solo con la Corte Costituzionale ma anche con le Corti sovranazionali ed in particolare con la Corte europea dei diritti dell’Uomo, interprete di quella Convenzione dei diritti dell’Uomo cui più volte ricorre la giurisprudenza di merito e di legittimità al fine di assicurare il massimo livello di tutela possibile alle situazioni in concreto prospettate. Infine, il giudice deve necessariamente dialogare con la Corte di giustizia della Unione europea, perché non può sottarsi al dovere di applicare il diritto europeo, anche disapplicando la norma interna, nei termini in cui la Corte europea lo interpretata. Si manifesta in questi termini il fenomeno dell’interpretazione conforme, che si presenta, oggi, in tre forme: interpretazione conforme a Costituzione, interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, e interpretazione conforme a Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
Ciò vale in particolare per la Corte di cassazione quando, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, produce il diritto vivente. Si è parlato, in questi termini, di un cambio di prospettiva della funzione nomofilattica che diviene una sorta di “mutazione genetica” della Corte di cassazione, che deve garantire (anche) l’uniforme interpretazione della legge come reinterpretata alla luce della CEDU, dei trattati internazionali e del diritto di matrice UE[13].
Così, nella magmatica materia del diritto di famiglia e nell’esame della istanze di tutela dei nuovi diritti, il principio costituzionale di tutela delle formazioni sociali solidaristiche si legge anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, ove è stata elaborata una nozione di «vita familiare», tutelata dall’art. 8 della Convenzione, più ampia di quella tradizionale, inserendovi anche i legami familiari di fatto e attribuendo agli Stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli della stessa, le varie forme di tutela. Si è detto ad esempio che anche la filiazione adottiva costituisce «vita familiare» ai sensi dell’art. 8; che l’art. 8 è applicabile allorquando esista un legame familiare anche solo di fatto; persino la «vita familiare progettata» non è stata completamente esclusa dall’ambito di applicazione dell’articolo 8. Si delinea così una nozione di legame familiare in cui rileva, in primo luogo, la presenza di un vincolo giuridicamente formalizzato o persino l’aspirazione a stabilire una famiglia, purché si accompagni ad una chiara base giuridica o ad un legame di consanguineità. Inoltre, la Corte riconosce che può essere tutelata la vita familiare di fatto pur in assenza di un legame biologico o di un chiaro fondamento normativo, purché sussistano però legami personali genuini[14].
E’ comprensibile allora che l’interprete vada alla ricerca di un mezzo di tutela di quei legami di fatto che si presentato solidi e solidaristicamente connotati, cercando nella compagine del diritto interno quelle norme che, mediante l’interpretazione conforme, possono applicarsi alla fattispecie e soddisfare la richiesta di costituzione del vincolo giuridico.
4. Considerazioni conclusive
Muoviamo adesso dall’assunto che ogni norma ha una sua ratio e cioè una finalità, e che a diverse finalità corrispondono istituti giuridici differenti.
Ciò posto, dire che l’adozione dei maggiorenni oggi “ha perso la sua originaria natura di strumento volto a tutelare l'adottante per assumere una valenza solidaristica che, seppure distinta da quella inerente all'adozione di minori, non è immeritevole di tutela” significa forse che accanto all’adozione speciale (di minorenni) e all’adozione dei maggiorenni tradizionale, entrambi istituti di diritto positivo, si è affiancato un terzo istituto di creazione pretoria che serve a ratificare i legami familiari di fatto? E in tal caso qual è la sua massima capacità espansiva?
La domanda non è peregrina perché è da chiedersi se questo ipotetico “terzo istituto” può servire a ratificare legami familiari di fatto asimmetrici, ma non negli stessi termini in cui è asimmetrico, in natura, il legame tra genitori e figli.
Si pensi ad esempio ad una persona adulta, possibilmente sola che, per fini caritevoli, accolga nella sua casa un migrante, anch’egli adulto sebbene di età inferiore, che si crei un vincolo solidaristico, e che, dopo un congruo tempo di convivenza, questa debba interrompersi perché al migrante viene rigettata la richiesta di premesso di soggiorno. Se si è creato un legame personale solidaristico di tipo familiare, non connotato però da affettività di coppia, potrebbe in ipotesi essere tutelato tramite adozione, malgrado la differenza d’età non lo consenta?
Quelle che sembrano questioni pragmatiche di rilievo statistico minimo rendono evidente che la questione coinvolge ben altri e più alti interrogativi, sui quali sia la giurisprudenza che la dottrina si interrogano e cioè quale sia il limite per il giudice nella interpretazione conforme alla Costituzione e alle altre Carte dei valori. E’ tutt’ora considerato un punto fermo, infatti, che la lettera della legge non possa essere travalicata attraverso l’interpretazione, al punto di pervenire ad una vera e propria “disapplicazione” del testo normativo[15]. Il dovere di ricercare un’interpretazione incontra dei limiti, tesi a garantire il soddisfacimento di due esigenze: da una parte, la distinzione di ruoli e funzioni tra giurisdizione comune e giurisdizione costituzionale e, dall’altra, la fondamentale esigenza di certezza del diritto, che, in un sistema, quale il nostro, ove non vige il principio dello stare decisis, può essere garantita appieno solamente da pronunce aventi effetti erga omnes[16].
La posta è alta, perché l’esistenza di precedenti giurisprudenziali contraddittori, in particolare se essi riguardano la portata di un diritto fondamentale o le limitazioni che lo caratterizzano, potrebbe condurre a risultati imprevedibili o arbitrari e, in ultima analisi, conseguire l’effetto paradossale di privare gli interessati di una protezione veramente efficace ed effettiva dei loro diritti.
[1] Per un approfondimento v. A. GIUSTI, L'adozione di persone maggiori di età, in BONILINI, Trattato di diritto di famiglia, Torino, 2016.
[2] Nella formulazione ante unificazione dello status di figlio, realizzata dalla l. 219/2012.
[3] Sono fatto salve le eccezioni di legge con riferimento, ad esempio, agli impedimenti matrimoniali (art. 87 c.c.).
[4] Corte Cost., 19.05.1988 n. 557.
[5] Corte Cost., 20.07.1992 n. 345.
[6] Corte Cost., 20.07.2004 n. 245.
[7] La questione è oggi superata, attesa l’unificazione dello status di figlio ad opera della l. 219/2012, ma comunque rilevante, poiché il disposto dell’art. 291 c.c. non è stato adeguato e reca ancora riferimento ai figli “legittimi”.
[8] Cass. 14.01.1999 n. 354.
[9] Cass. 03.02. 2006 n. 2426.
[10] Corte Cost., 15.3.1993 n. 89 e Corte Cost. 17.11.2000 n. 500.
[11] P. GROSSI, Sulla odierna fattualità del diritto in Giustizia civile on line, 2014,n.1.
[12] v. R. CONTI, L'interpretazione conforme e il giudice dai tre cappelli, in La Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, Roma, 2011.
[13] R. CONTI, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle
Interpretazioni, in Consulta on line, 2015, f.III, 7 dicembre 2015.
[14] v. le seguenti sentenze della Corte EDU: 5.6.2014, I.S. c. Germania; 27.4. 2010, Moretti e Benedetti c. Italia; 4.7.2014, D. e altri c. Belgio; 27.1.2015 e Grande Camera 24.1.2017 entrambe nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia; 15.09.2011, Schneider c. Germania.
[15] M. RUOTOLO, Quando il giudice deve “fare da sé”, in Questione giustizia, 22 ottobre 2018.
[16] Si veda F. DELÙ, L’interpretazione conforme e i suoi limiti, https://www.gruppodipisa.it
Spese di giudizio e poteri del giudice amministrativo: la condanna forfettaria.
(nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547)
di Roberto Fusco
Sommario: 1. Una breve premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo. – 2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese. – 3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati. – 4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato. – 5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Premessa sulle spese di giudizio nel processo amministrativo.
Le spese di giudizio, nella loro accezione più ampia, ricomprendono tutti quegli esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo di un processo. In base ad una ricostruzione funzionale elaborata dalla dottrina, i costi del processo amministrativo possono essere suddivisi in tre diverse categorie: i costi necessari (contributo unificato), quelli normali (per lo più costituiti dai compensi dei legali) e quelli eventuali (spese aggravate, sanzione pecuniaria, astreinte)[1].
Tali tipologie di spese assolvono a funzioni differenti: il contributo unificato serve a finanziare il funzionamento dei tribunali, i compensi agli avvocati servono a garantire il diritto di ciascuno a difendersi in giudizio, mentre le sanzioni per i comportamenti processuali illeciti o comunque abusivi servono a punire i responsabili degli stessi e ad evitare la reiterazione di tali condotte processuali.
A queste diverse funzioni corrispondono differenti regole per il loro riparto: il contributo unificato segue le regole della soccombenza e dell’anticipazione[2], i compensi spettanti ai difensori sono generalmente assoggettati alla regola della soccombenza[3], le c.d. spese aggravate e le sanzioni processuali, previste per le parti che si comportano in maniera illecita o comunque abusiva, richiedono una serie di requisiti specifici per la loro irrogazione[4].
La condanna alle spese, pertanto, può racchiudere al suo interno componenti molto diverse tra loro che non sono assoggettate ad un regime unitario, ma seguono regole differenti per la loro attribuzione a carico delle parti del processo[5].
Una componente quantitativamente molto rilevante della condanna alle spese è costituita dai compensi professionali degli avvocati che prendono parte al giudizio in qualità di rappresentanti delle parti costituite. Le regole per il loro riparto e i criteri da seguire per la loro quantificazione hanno da sempre ingenerato notevoli questioni interpretative che ad oggi non possono ritenersi sopite.
A tal proposito si possono enucleare nella prassi almeno due problematiche ricorrenti: la prima è costituita dalla resilienza del giudice amministrativo a condannare alle spese la parte soccombente, abusando del suo potere discrezionale di compensazione; la seconda è costituita dalla mancanza di aderenza delle liquidazioni giudiziali ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 per le prestazioni professionali forensi.
2. I profili ricostruttivi della disciplina della condanna alle spese.
Nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è stato da sempre ancorato al principio di soccombenza[6], ancor prima di mutuare la propria disciplina dal processo civile[7]. Inizialmente, però, tale principio è stato largamente eluso dalla neo-istituita Sezione IV del Consiglio di Stato, che aveva stabilito il principio secondo il quale la pubblica amministrazione che agisce in veste di autorità non può essere condannata alle spese[8].
Col passare degli anni tale irresponsabilità nei confronti delle amministrazioni (statali) si è progressivamente attenuata, ma tutte le pubbliche amministrazioni hanno conservato a lungo un regime di privilegio nei confronti della condanna alle spese. Infatti, il requisito dei “giusti motivi” ha permesso per molto tempo al giudice amministrativo di disporre la compensazione con ampia (e talora eccessiva) generosità nei confronti delle parti soccombenti, soprattutto qualora queste fossero delle pubbliche amministrazioni.
La regola della soccombenza è stata poi ripresa dalla successiva l. n. 1034/1971[9] e confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti[10]. L’art. 91, comma 1, c.p.c. prevede che, all’esito della definizione della controversia, vadano addebitate alla parte soccombente non solo le spese necessarie per lo svolgimento del processo, ma anche gli onorari per la difesa in giudizio e che entrambi gli importi debbano essere liquidati nella sentenza[11].
Quella della soccombenza, così come prevista dal nostro codice di procedura civile, non è una regola assoluta, ma può subire delle eccezioni. Il giudice, infatti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., può compensare (parzialmente o per intero) le spese tra le parti in caso di soccombenza reciproca e di accoglimento parziale della domanda ovvero nel caso di novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. L’art. 92 c.p.c., però, è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ne ha ridefinito sensibilmente i limiti, dichiarando l’illegittimità costituzionale del secondo comma nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa compensare le spese tra le parti (parzialmente o per intero) anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre quelle nominativamente indicate[12].
Nonostante questo pronunciamento della Consulta, si deve evidenziare che la coeva generosità del giudice amministrativo nel compensare le spese è un fenomeno tuttora estremamente attuale[13]. Infatti, il Consiglio di Stato ha più volte affermato che la decisione del giudice di compensare le spese costituisce una valutazione discrezionale insindacabile in sede di appello, a cui fanno eccezione solo le statuizioni che siano manifestamente irragionevoli, abnormi, illogiche ovvero le condanne a somme palesemente inadeguate[14]. Tale potere discrezionale talvolta si fonda non solo su motivazioni di ordine giuridico, ma anche su ragioni di equità e di convenienza[15].
Questo atteggiamento, in parte comprensibile a causa della maggiore aleatorietà delle controversie amministrative (che, generalizzando, sono di solito più complesse e incerte di quelle civili[16]), negli ultimi tempi si è notevolmente attenuato, ma tuttora si rinvengono di frequente sentenze che compensano le spese richiamandosi semplicemente ai generici “giusti motivi”[17].
Tale prassi, alla luce dell’attuale quadro normativo, non può essere condivisa, poiché rischia di comprimere il diritto della parte vittoriosa di essere interamente ristorata dei costi sostenuti per il suo legittimo diritto di agire e difendersi in giudizio[18]. La compensazione delle spese di lite dovrebbe sempre essere prevista entro i limiti tracciati dal combinato disposto degli artt. 91 e 92 c.p.c. come interpretato dalla Corte costituzionale e fornita di un’adeguata motivazione[19].
3. I parametri per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati.
Le regole del codice di procedura civile e del codice del processo amministrativo fino ad ora analizzate riguardano l’an della condanna alle spese, ossia i limiti entro i quali il giudice deve applicare o meno la regola della soccombenza e condannare chi ha perso a sopportare i costi della lite.
Per definire il quantum della soccombenza[20], invece, la succitata normativa non è sufficiente, dovendo essere integrata dalla disciplina prescritta dal d.m. n. 55/2014, il quale prevede i criteri e i parametri per la liquidazione dei compensi spettanti ai difensori per l’attività svolta in giudizio[21].
Il giudice, nel condannare la parte soccombente alla refusione delle spese legali del vincitore, dovrebbe calcolare i relativi importi applicando i parametri medi previsti nel citato decreto per ognuna delle cinque diverse fasi previste con riferimento alle controversie davanti al giudice amministrativo, ossia: la fase di studio della controversia, la fase introduttiva del giudizio, la fase istruttoria e/o di trattazione, la fase decisionale e la fase cautelare[22].
Nonostante le tabelle prescrivano degli importi fissi (valori medi) per ogni fase delle controversie aventi il medesimo valore, il giudice ha comunque alcuni strumenti attraverso i quali può graduare (in aumento e in diminuzione) il quantum della condanna. Infatti, il compenso dell’avvocato deve essere liquidato in maniera proporzionale all’attività svolta, tenendo conto di una serie di fattori che consentano di variare la liquidazione aumentando o diminuendo gli importi in percentuale rispetto ai valori medi previsti[23]. A tal fine, l’art. 4, d.m. n. 55/2014, consente al giudice sia di aumentare i valori (espressamente qualificati come) medi delle tabelle allegate al decreto di regola fino all’80%[24], sia di diminuire detti valori in ogni caso non oltre il 50% e non oltre il 70% per la fase istruttoria[25].
Pertanto, nonostante i parametri medi siano predeterminati, al giudice rimane comunque un’ampia discrezionalità in sede di liquidazione dei compensi. Nella prassi, però, tale discrezionalità non viene quasi mai esternata attraverso un’adeguata motivazione che dia conto dell’aderenza ai succitati parametri medi e alle variazioni rispetto agli stessi.
Nel processo amministrativo, normalmente, il quantum del rimborso viene stabilito forfettariamente dal giudice, anche perché, al contrario di quanto accade nel giudizio civile, i difensori solitamente non depositano la nota spese quando la causa passa in decisione[26].
Le spese legali liquidate, inoltre, oltre ad essere stabilite forfettariamente senza alcuna motivazione che permetta un collegamento ai parametri normativamente previsti, il più delle volte sono anche eccessivamente ridotte, ossia si pongono al di sotto della somma che dovrebbe essere liquidata avuto riguardo ai parametri minimi, ossia ai parametri medi previsti al netto delle possibili (massime) riduzioni da applicare.
4. Le condanne forfettarie della Sezione IV del Consiglio di Stato.
Il caso di specie riguarda la contestazione in appello di una sentenza del T.A.R. Lazio con la quale veniva liquidato, in favore dei difensori delle parti vittoriose, un importo ritenuto sproporzionato rispetto al valore medio dei parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[27].
Più precisamente, il giudice di primo grado, chiamato a decidere su quattro ricorsi aventi ad oggetto l’ottemperanza relativa al pagamento di somme a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo (ai sensi della c.d. legge Pinto[28]), previa loro riunione, li ha accolti, condannando il Ministero dell’economia e delle finanze resistente a corrispondere l’esigua somma complessiva di 400 euro (pari a 100 euro a favore di ogni ricorrente)[29].
I ricorrenti, pur se vittoriosi in primo grado, decidevano di appellare la sentenza del T.A.R. deducendo l’incongruità del quantum della condanna alle spese, essendo la stessa in palese contrasto con il combinato disposto degli artt. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. prevedenti la disciplina della condanna alle spese nel giudizio amministrativo e con le regole previste dal d.m. n. 55/2014 per la quantificazione compensi forensi.
L’adita Sezione IV del Consiglio di Stato ha accolto il proposto appello rideterminando la somma spettante in complessivi 2.000 euro per le spese dei quattro giudizi di primo grado (ossia 500 euro per ciascuna parte) compensando, però, le spese del giudizio d’appello.
La sentenza in commento, nel rideterminare il quantum della soccombenza statuita in primo grado, ricalca pedissequamente altre pronunce della Sezione IV del Consiglio di Stato con le quali, relativamente a giudizi di ottemperanza similari a quello considerato, è stata fissata una sorta di “soglia minima” (sempre pari a 500 euro) sotto la quale non sia ammissibile liquidare i compensi spettanti ai difensori[30].
Il Collegio, nell’iter argomentativo a supporto di questa decisione, preliminarmente ricorda che il giudice amministrativo gode di ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione[31], con il solo limite che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi[32]. Viene precisato però che, qualora il giudice amministrativo decida di disporre la condanna al pagamento delle spese (non compensando le stesse), esso deve “tenere conto” del d.m. n. 55/2014, non potendo la liquidazione delle spese essere “manifestamente sproporzionata” rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto.
Quindi, la sentenza, pur non statuendo esplicitamente il valore vincolante ed inderogabile dei parametri, prescrive che il giudice, nel liquidare i compensi spettanti ai legali, debba quantomeno tenerli in debita considerazione[33]. Ma nonostante tale corretta affermazione di principio, il Consiglio di Stato, nel rideterminare l’importo della condanna alle spese, invece di operare una liquidazione in aderenza ai parametri, decide a sua volta di adottare la diversa quantificazione forfettaria di 500 euro per ogni giudizio di primo grado, limitandosi a richiamare la consolidata giurisprudenza anzi citata della Sezione IV sul punto[34].
Una possibile spiegazione di questo scostamento è rinvenibile in quella giurisprudenza di una diversa Sezione del Consiglio di Stato (la Sezione III) che non ritiene di applicare ai giudizi in materia di ottemperanza i parametri previsti per i giudizi amministrativi davanti al T.A.R. (tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014) ma, piuttosto, quelli relativi alle procedure esecutive mobiliari (tabella n. 16 allegata al d.m. n. 55/2014)[35]. Ma di tale impostazione – di per sé fortemente opinabile – non vi è traccia nella sentenza in commento, che non aggancia la liquidazione delle spese a quei parametri di cui, poco prima, ha raccomandato l’osservanza.
5. Alcune brevi considerazioni conclusive.
In linea generale, nei casi in cui il giudice amministrativo riesce a vincere la sua endemica tendenza a ricorrere alla compensazione delle spese di lite, spesso (per non dire sempre) la condanna è liquidata in misura forfettaria, di gran lunga in ribasso rispetto ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014 e senza alcuna motivazione a riguardo; quasi mai, alla parte vittoriosa è liquidata una somma realmente satisfattiva che gli consenta di restare “indenne dalla lite”[36] dal punto di vista patrimoniale.
La sentenza in commento costituisce un chiaro esempio di queste due diverse criticità, ossia, l’abuso della compensazione con esclusivo riferimento alla sussistenza dei “giusti motivi” e la persistenza delle liquidazioni forfettarie non agganciate ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014. Tali problematiche convivono all’interno della medesima pronuncia poiché, da una parte, il giudice d’appello ridetermina forfettariamente il quantum della condanna alle spese di primo grado e, dall’altra, compensa le spese del giudizio d’appello adducendo la presenza dei “giusti motivi” di compensazione.
Con riferimento al potere di compensare le spese legali non si può che richiamarsi a quanto detto in precedenza. Pur trattandosi di un potere altamente discrezionale, esso deve essere esercitato entro il perimetro tracciato dall’art. 92 c.p.c. nella sua versione costituzionalmente orientata. Pertanto, il giudice che decida di compensare le spese al di fuori dei casi normativamente previsti, dovrà esplicitare quali sono le “altre gravi ed eccezionali motivazioni” che lo hanno determinato in tal senso, non potendo i generici “giusti motivi” costituire una causa legittima per non addossare le spese alla parte soccombente.
Con riferimento alla quantificazione della soccombenza, occorre rilevare come nella prassi, solitamente, chi vince si vede riconosciuta una somma molto inferiore rispetto a quella che poi dovrà corrispondere al suo difensore per l’attività svolta[37]. Il fulcro del problema risiede nel riconoscimento o meno di un’efficacia vincolante ai parametri previsti dal d.m. n. 55/2014[38]. A tal proposito nella giurisprudenza amministrativa si sono formati due contrapposti orientamenti: quello che legittima il potere del giudice amministrativo di derogare a detti parametri[39] e quello che predica la necessità per il giudice di attenersi agli stessi[40].
La sentenza in commento sembra propendere per il rispetto dei succitati parametri. Infatti, pur non prevedendo esplicitamente l’inderogabilità dei parametri minimi, stabilisce che la liquidazione delle spese non possa essere «manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale». Pertanto, anche volendo aderire alla teoria della derogabilità dei parametri, il giudice che ritenga di non volerli rispettare dovrebbe quantomeno esplicitare i motivi eccezionali che lo hanno determinato ad effettuare tale scelta con riferimento alle circostanze del caso concreto.
Tale pronuncia, quindi, appare condivisibile nella misura in cui conferma la crescente consapevolezza del giudice amministrativo della necessità di adeguare il quantum delle condanne a degli importi realmente satisfattivi per la parte vittoriosa, in ottemperanza a quanto prescrive il d.m. n. 55/2014. Non lo è altrettanto, invece, né quando concede la compensazione delle spese in appello con la formula dei “giusti motivi”, né quando ridetermina le spese dovute in primo grado forfettariamente, in misura inferiore e senza alcun riferimento ai parametri previsti per i giudizi amministrativi.
A tal proposito è lecito augurarsi un cambiamento delle abitudini sia da parte degli avvocati, che potrebbero (analogamente a quanto avviene nel processo civile) depositare note spese comprovanti l’attività svolta (senza temere che questo sia indizio della loro scarsa dimestichezza con il giudizio amministrativo agli occhi del Collegio), sia da parte dei giudici, che dovrebbero sempre più liquidare i compensi a carico della parte soccombente e in misura rispettosa dei parametri normativamente previsti.
* * *
[1] F.G. SCOCA, Il costo del processo tra misura di efficienza e ostacolo all’accesso, in Dir. proc. amm., n. 4/2014, p. 1432. In senso sostanzialmente analogo, ma con riferimento al processo civile, già F. CARNELUTTI, Istituzioni del diritto processuale italiano, I, Roma, 1956, p. 216, distingueva i costi generali (da intendersi come la frazione imputabile a ciascun processo delle spese generali dell’amministrazione della giustizia) da quelli particolari (da intendersi come le spese necessarie per i singoli atti del processo, comprendenti sia le spese vive che il compenso dovuto a difensori e consulenti tecnici).
[2] Sul regime giuridico del contributo unificato e sulla sua problematica onerosità si segnalano: A. CRISMANI, I procedimenti giurisdizionali eccessivamente onerosi, n. 12/2014, p. 2819 ss.; F. SAITTA, Effettività della tutela e costo del processo amministrativo in materia di appalti: la (discutibile) opinione dei giudici europei sul contributo unificato, in www.lexitalia.it, n. 10/2015; C. LAMBERTI, La corte di giustizia «salva» il contributo unificato e devolve al giudice l’«esonero» dal cumulo, in www.giustamm.it, n. 12/2015; F. MONCERI, Costi del processo amministrativo. Limiti alla imposizione del contributo unificato sui c.d. motivi aggiunti e tutela europea del diritto di difesa, in www.giustamm.it, n. 9/2016.
[3] Sul riparto delle spese legali nel processo amministrativo si segnalano: E. FOLLIERI, Condanna al pagamento delle spese di lite, in F.G. SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2013, p. 194 ss.; A. BARLETTA, La difesa in giudizio delle parti e la disciplina in materia di spese di lite, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, vol. II, p. 120 e ss.; M. MENGOZZI, Spese di giudizio, in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 359 e ss. al quale si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici sul tema (p. 359).
[4] Sulle spese aggravate e sulle sanzioni processuali si segnalano: M.A. SANDULLI, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in www.federalismi.it, n. 20/2012; N. PAOLANTONIO, Linee evolutive della figura dell’abuso processuale in diritto amministrativo, in www.giustamm.it, n. 10/2014; M. LIPARI, La nuova sanzione per “lite temeraria” nel decreto sviluppo e nel correttivo al codice del processo amministrativo: un istituto di dubbia utilità, 2011, in www.giustizia-amministrativa.it
[5] In tale contributo ci si soffermerà esclusivamente sulla ripetizione delle spese legali dovute per l’attività degli avvocati. Ci si limita ad evidenziare che l’art. 13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 112/2002 prescrive una disciplina particolare per il contributo unificato nel processo amministrativo, precisando che tale tributo è dovuto “in ogni caso” dalla parte soccombente, anche nell’ipotesi di compensazione delle spese. Esso, pertanto, non viene trattato alla stessa stregua delle spese legali. Altrettanto può dirsi in relazione alla responsabilità aggravata e alla sanzione per la temerarietà della lite che devono rispettare i requisiti previsti dall’art. 26 c.p.a. e dall’art. 96 c.p.c. per la loro applicazione.
[6] Secondo l’insegnamento di G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Torino, 1901, p. 243, «soccombente è colui contro il quale la dichiarazione del diritto, la pronuncia del giudice, avviene: sia il convenuto contro il quale la domanda è accolta; sia l’attore contro il quale la domanda è dichiarata senza fondamento». La soccombenza, conosciuta anche come la regola del c.d. victus victori (in base alla quale il rimborso delle spese, letteralmente “vitto”, spetta al vincitore) trova la sua ragion d’essere nella circostanza che la parte vittoriosa in giudizio deve ottenere il riconoscimento integrale del suo diritto e che, quindi, non deve subire un danno patrimoniale dipendente dall’esborso monetario per il fatto di essersi dovuta rivolgere a un giudice.
[7] La norma originaria era prescritta nell’art. 50 del Regolamento di procedura dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato, 17 ottobre 1889, n. 6516, secondo il quale: «le parti soccombenti sono condannate nelle spese». Successivamente, la regola della soccombenza è stata prevista in linea generale anche dall’art. 68 del r.d. n. 642/1907.
[8] Tale esclusione veniva motivata dal fatto che la pubblica amministrazione nel processo amministrativo non assumesse la veste e la qualità di parte e che stesse in giudizio solo per la tutela dell’interesse pubblico affidatole (vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 8 gennaio 1891, in Giust. amm., 1891, I, p. 22 ss.). Sul tema si rinvia a: G. CHIOVENDA, La Pubblica Amministrazione e la condanna nelle spese davanti alla IV Sezione del Consiglio di Stato, in Giust. amm., 1896, vol. IV, p. 84 ss.; F. CAMMEO, La condanna solidale nelle spese giudiziali dinanzi alle giurisdizioni di giustizia amministrativa, in Giur. it., 1911, vol. III, p. 6 ss.; R. MALINVERNO, La condanna alle spese nei giudizi amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1932, I, p. 509 ss.
[9] L’art. 26, comma 4, della l. n. 1034/1971 prevedeva che: «In ogni caso, la sentenza provvede sulle spese di giudizio. Si applicano a tale riguardo le norme del codice di procedura civile».
[10] L’art. 26, comma 1, c.p.a. prevede, poi, la possibilità per il giudice, anche d’ufficio, di condannare la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata in presenza di “motivi manifestamente infondati”. Tale norma ricalca pedissequamente il dettato dell’art. 96, comma 3 c.p.c., salvo differenziarsene per due elementi di specialità: il presupposto della condanna (che viene individuato nella manifesta infondatezza dei motivi) e la sua quantificazione (che non può eccedere il doppio delle spese liquidate dal giudice). L’art. 26, comma 2 c.p.a., inoltre, prescrive una vera e propria sanzione per la parte che agisce o resiste temerariamente in giudizio, che può essere condannata, anche d’ufficio, al pagamento di una somma non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo.
[11] L’art. 91, comma 1, c.p.c., quando parla di “onorari di difesa” si riferisce esclusivamente ai compensi spettanti ai difensori per l’espletata attività giudiziaria, mentre quando parla di “spese giudiziali” si riferisce a tutti i restanti esborsi che, complessivamente considerati, costituiscono il costo del processo.
[12] Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, in Giur. cost., n. 2/2018, p. 703 ss. Per un commento a tale sentenza si rinvia a F. TEDIOLI, La Corte costituzionale estende il perimetro della compensazione delle spese giudiziali, in Studium Iuris, n. 10/2018, p. 1147 ss.
[13] In linea generale, infatti, nonostante l’attuale quadro normativo, sembra comunque piuttosto radicata nella giurisprudenza l’idea di un’ampia discrezionalità del giudice amministrativo in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei “giusti motivi” di compensazione. Esemplificativamente, a riguardo, si può citare tra le tante: Cons. St., Sez. III, 26 aprile 2019, n. 2689, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «Per la pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria anche nell’attuale quadro normativo, il Tar ha ampi poteri discrezionali in ordine al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. St., A.P., 24 maggio 2007, n. 8)».
[14] In tal senso ex multis si vedano le recenti: Cons. St., Sez. IV, 30 marzo 2020, n. 2167, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 28 febbraio 2020, n. 1454, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 17 febbraio 2020, n. 1204, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] In tal senso vedasi ex multis: Cons. St., Sez. IV, 25 febbraio 2019, n. 1306, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. V, 23 giugno 2014, n. 3131, in Foro amm., n. 6/2014, p. 1741.
[16] In tal senso V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, p. 661, secondo il quale nel processo amministrativo sono «spesso estremamente incerte le posizioni della ragione e del torto».
[17] Secondo J. BERCELLI, Parti, difensori, spese, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 419: «Una così patente e costante elusione della legge da parte dei giudici amministrativi trova la sua giustificazione storica e logico giuridica nella circostanza (…) che il processo amministrativo è sì un processo di parti, ma non è mai stato e non è tuttora un processo di parti paritarie».
[18] In tal senso vedasi già G. CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, cit., p. 84.
[19] Secondo T.A.R. Lombardia (Milano), Sez. II, 10 gennaio 2020, n. 74, in www.giustizia-amministrativa.it, le altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni possono «individuarsi nella complessità delle questioni affrontate dal Collegio». In tale direzione si pone anche qualche recente sentenza del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. di St., Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 6995, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale la decisione di compensare le spese (anche alla luce della sentenza Corte Cost. n. 77/2018) è «una valutazione riservata all’organo giudicante e avente natura discrezionale, che il Legislatore ha però circondato di un onere motivazionale rinforzato, al fine di mantenere inalterato il rapporto di regola ad eccezione, esistente tra i principi di condanna del soccombente e compensazione delle spese».
[20] È bene chiarire che la quantificazione complessiva delle spese di giudizio è cosa diversa dalla quantificazione delle spese legali propriamente intese, che vengono liquidate a favore della parte vittoriosa per il pagamento della sua difesa tecnica in giudizio. La quantificazione totale delle spese, infatti, dipende dalla sommatoria di tutti gli elementi che compongono la condanna alle spese. Oltre agli onorari (rectius compensi) di difesa bisogna calcolare la ripetizione del contributo unificato anticipato dal ricorrente e le eventuali ulteriori somme che il soccombente sarà costretto a pagare a titolo di responsabilità ai sensi degli artt. 26 c.p.a. e 96 c.p.c. Per la quantificazione delle spese legali, invece, salva una possibile loro riduzione per la violazione dei doveri imposti ai sensi dell’art. 92, comma 1, c.p.c. (spese eccessive o superflue) e dell’art. 26, comma 1, c.p.a. (doveri di chiarezza e sinteticità), occorre riferirsi alle regole prescritte nel d.m. n. 55/2014.
[21] Il d.m. giustizia n. 55/2014 “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247” ha previsto un innovativo sistema di quantificazione delle prestazioni professionali degli avvocati, abolendo le precedenti tariffe forensi (onorari e diritti) e sostituendole con dei parametri per la liquidazione delle prestazioni da calcolarsi in relazione all’attività svolta e al valore della controversia. Tali parametri, inizialmente introdotti, in applicazione dell’art. 13, comma 6, l. n. 247/2012 (c.d. Legge dell’ordinamento forense), dal d.m. n. 140/2012, sono attualmente previsti dal d.m. n. 55/2014 come da ultimo modificato con il d.m. n. 37/2018.
[22] Sono previste due diverse tabelle rispettivamente per i giudizi innanzi al Tribunale amministrativo regionale (tabella n. 21) e per i giudizi innanzi al Consiglio di Stato (tabella n. 22). In entrambe le tabelle, per ognuna delle succitate fasi, sono previsti dei parametri (medi) diversi a seconda del valore della controversia.
[23] Più precisamente, l’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 prevede che: «Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto dei contrasti giurisprudenziali, e della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti».
[24] Altri aumenti sono poi previsti in relazione all’esito della controversia: in caso di conciliazione giudiziale o di transazione, la liquidazione del compenso può essere aumentata fino a un quarto (art. 4, comma 6), mentre può essere concesso un aumento fino a un terzo del compenso quando le difese della parte vittoriosa sono state dichiarate manifestamente fondate (art. 4, comma 8). È previsto, inoltre, che il compenso possa essere aumentato del 30% rispetto al valore previsto quando gli atti, depositati con modalità telematiche, sono redatti «con tecniche informatiche idonee ad agevolare la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto» (art. 4, comma 1-bis). Il riferimento è relativo a quelli che vengono chiamati “collegamenti ipertestuali”, ossia i link che consentono, una volta realizzati all’interno dell’atto predisposto dal legale con il proprio software di videoscrittura, di poter visualizzare e consultare immediatamente, con un semplice click del mouse, il documento citato nell’atto e allegato nella “busta telematica”. È poi previsto che il compenso relativo alla fase introduttiva del giudizio è di regola aumentato sino al 50% quando sono proposti motivi aggiunti (art. 4, comma 10-bis). Inoltre, quando l’avvocato assiste più soggetti, tali importi possono essere ulteriormente aumentati in percentuali variabili a seconda del numero dei clienti assistiti (art. 4, comma 2).
[25] Art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014 che è stato significativamente inciso dal d.m. n. 37/2018 che ha posto un limite al potere giurisdizionale di ridurre i compensi eliminando la locuzione “di regola” (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018) e precisando che la diminuzione non potrà andare “in ogni caso” oltre il 50% per cento e oltre il 70% per la fase istruttoria (art. 1, comma 1, lett. a, d.m. n. 37/2018). Il regolamento prevede poi anche due diversi casi in cui il compenso dovrebbe essere ridotto rispetto a tali valori per un comportamento non adeguato del difensore: viene previsto che costituisce elemento da valutare negativamente in sede di liquidazione del compenso l’adozione di condotte abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi ragionevoli (art. 4, comma 7); e viene sancita la riduzione del 50% del compenso liquidabile al difensore nei casi di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., nonché nei casi di pronunce di inammissibilità, improcedibilità o improponibilità della domanda, ove concorrano gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione (art. 4, comma 9).
[26] In questi termini E. FOLLIERI, op. cit., p. 195. In tal senso vedasi ex multis Cons. St., Sez. V, 11 luglio 2017, n. 3407, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «costituisce prassi consolidata nella giurisprudenza amministrativa liquidare spese e onorari in misura forfetaria, senza analiticamente rifarsi agli elementi della tariffa professionale, in applicazione di dominanti criteri di equità, prassi alla quale si è adeguata anche quella degli avvocati di non allegare la nota degli onorari e delle spese con riferimento alle singole voci della tabella; in tale ottica i criteri di liquidazione vengono ricavati non tanto nel raffronto fra la tariffa professionale e il valore economico della causa, quanto piuttosto in circostanze eterogenee, peculiari per ogni giudizio, variabili di volta in volta, quali la maggiore o minore complessità delle questioni affrontate, l’applicazione di precetti giurisprudenziali consolidati, la natura della pretesa di cui si chiede l’affermazione e il comportamento tenuto dalle parti».
[27] La sentenza in commento è Cons. St., Sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5547, che ha annullato T.A.R. Lazio (Roma), Sez. II, 19 settembre 2019, n. 11130, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[28] Si tratta della l. n. 89/2001 recante “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”.
[29] Le spese sono state liquidate ai due difensori, dichiaratesi antistatari, nella misura di 200 euro ciascuno, dato che questi avevano proposto due ricorsi ciascuno (nell’interesse di altrettanti ricorrenti) che sono poi stati riuniti dal T.A.R. Lazio che li ha decisi con la citata sentenza n. 11130/2020.
[30] I precedenti conformi della Sezione IV che vengono richiamati sono: Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e n. 4434; Cons. St., Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8126; Cons. St., Sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7360, n. 7366 e n. 7380; Cons. St., Sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 6798; Cons. St., Sez. IV, 4 ottobre 2019, n. 6682 e n. 6683; Cons. St., Sez. IV, 26 settembre 2019, n. 6446, 6448, n. 6449, n. 6450 e n. 6451; Cons. St., Sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6321; Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2019, n. 6260; tutte consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[31] A tal proposito vengono citate diverse sentenze del Consiglio di Stato tra le quali si segnala Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8, in www.giustizia-amministrativa.it. Inoltre, il Collegio richiama anche la nota sentenza Corte cost., 19 aprile 2018, n. 77, cit., con la quale sono stati estesi i poteri di compensazione del giudice amministrativo anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni oltre a quelle nominativamente indicate dall’art. 92, comma 2, c.p.c.
[32] Tra le sentenze citate si segnalano le recenti sentenze “gemelle” Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4433 e Cons. St., Sez. IV, 10 luglio 2020, n. 4434, entrambe consultabili in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] La sentenza prevede che il giudice amministrativo, nel liquidare i compensi, debba altresì considerare le caratteristiche dell’attività prestata, il valore dell’affare e gli altri criteri normativamente previsti dall’art. 4, comma 1, d.m. n. 55/2014.
[34] Nel caso di specie, però, detto importo, seppur rideterminato in aumento, non è comunque in linea con la somma che la parte vittoriosa avrebbe dovuto ottenere applicando i parametri minimi, prendendo come base di calcolo i parametri medi previsti dalla tabella n. 21 allegata al d.m. n. 55/2014.
[35] Vedasi a riguardo Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2016, n. 1247, in Foro amm., n. 3/2016, p. 560, secondo la quale il giudizio di ottemperanza, per i suoi contenuti derivati dal precedente giudizio e per la struttura processuale, presenta un grado di complessità molto inferiore e paragonabile alle procedure esecutive mobiliari, necessità per cui si dovrebbero applicare i (più bassi) parametri previsti dalla tabella n. 16.
[36] Per usare le parole di G. CHIOVENDA, op. cit., p. 244, «Io non ripeterò mai abbastanza che il diritto deve uscire indenne dalla lite, e che l’obbligo dell’indennità dee far capo a chi della lite fu causa».
[37] A tal proposito occorre fare una importante precisazione: quando parliamo della condanna alle spese legali, intendiamo la liquidazione delle spese di lite effettuata dal giudice a favore della parte vittoriosa, che è cosa ben diversa dal diritto al compenso professionale che l’avvocato matura nei confronti del suo cliente in virtù di un rapporto civilistico di natura obbligatoria. Infatti, benché tra la disciplina del compenso professionale dell’avvocato e quella inerente all’obbligo di rifusione delle spese tra le parti vi siano innegabili connessioni logiche e giuridiche, le stesse si pongono su due piani diametralmente diversi, essendo due obbligazioni distinte sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo. La disciplina relativa al compenso degli avvocati attiene ai rapporti che ciascuna parte del processo ha con il proprio legale ed ha ad oggetto un diritto di credito che origina da un contratto di mandato (ovvero un vincolo di carattere contrattuale) e la relativa regolamentazione va ricercata nelle norme del codice civile e nella legge professionale forense.
[38] Lo stesso concetto di “parametro” non è ontologicamente un qualcosa di rigido ed immodificabile, ma un’espressione ammantata di una valenza orientativa più che precettiva. È anche vero, però, che il d.m. n. 55/2014 prescrive dei limiti precisi entro i quali poter diminuire i parametri medi previsti per ogni tipologia di giudizio in relazione al valore della controversia.
[39] Vedasi ex multis: Cons. di St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014.
[40] Sebbene la giurisprudenza prevalente deponesse per la natura non vincolante dei parametri (in tal senso vedasi: Cons. St., Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4679, in Foro amm., n. 9/2014, p. 2284; Cons. St., Sez. IV, 29 dicembre 2014, 6381, in Foro amm., n. 12/2014, p. 3092), di recente la Corte di Cassazione con due ordinanze (Cass., civ., Sez. II, ord. 17 gennaio 2018 n. 1018, in Dir e giust., 18 gennaio 2018; e Cass. civ., Sez. II, ord. 31 agosto 2018 n. 21487, in Dir e giust., 5 settembre 2018) ha previsto il divieto per il giudice di liquidare il compenso professionale al di sotto dei parametri previsti. A supporto di tale seconda impostazione depone anche l’ultima modifica dell’art. 1, comma 4, d.m. n. 55/2014 ad opera dell’art. 1, comma 1, d.m. 37/2018 che ha previsto l’impossibilità di diminuire “in ogni caso” i valori dei parametri al di sotto del 50%.
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