ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il 23 novembre per tanti è una data come un’altra, per alcuni invece è una ferita (ancora) dolorosissima: il ricordo del terremoto dell’Irpinia del 1980, quarant’anni fa, che vide circa 3.000 morti, e un vasto ed impervio territorio quasi completamente devastato.
Quello che segue è il “diario” di quei giorni di un (allora) giovane pretore, che ebbe la ventura di prendere servizio a S. Angelo dei Lombardi (epicentro del sisma) solo due mesi prima del terremoto.
UNA TOGA TRA LE MACERIE
Ernesto Aghina
Nel “secolo” passato, a differenza di quanto accade oggi, come è noto si poteva accedere alla magistratura subito dopo la laurea in giurisprudenza, senza necessità di un titolo supplementare e fu così che, superato il concorso, a soli 25 anni, indossai la toga che era stata di mio nonno materno.
La prima - e fondamentale - decisione di un “uditore giudiziario” (come una volta si chiamavano i neomagistrati) al termine del tirocinio, è quella della scelta della sede di esordio, operata - sulla base dell’elenco delle sedi disponibili – in ordine di graduatoria del concorso.
Ero il terzo dei non pochi napoletani, ed analizzando con trepidazione l’elenco degli uffici giudiziari disponibili (tradizionalmente quelli per cui nessuno degli “anziani” aveva fatto domanda di trasferimento), verificai con disappunto che nella lunga lista non era presente nemmeno un tribunale in Campania.
Solo un giorno dopo (ammetto l’addebito), ebbi modo di capire che la Pretura di S. Angelo dei Lombardi (località a me “cittadino” del tutto sconosciuta) non si trovava tra le brume del nord, quanto nelle verdi valli dell’Irpinia.
Mi recai pertanto per la prima volta in esplorazione a S. Angelo (e ricordo di quel breve tour conoscitivo solo una serie interminabile di tornanti) per accedere ad una cittadina arroccata su un’altura, scoprendo un Tribunale francamente bruttino, forse al disotto della media della grigia edilizia giudiziaria italica.
Non molto per la verità per alimentare il comprensibile entusiasmo di un esordiente ma, acquisita informazione che la sede sarebbe stata richiesta da un concittadino che mi precedeva, la cancellai dai miei orizzonti per dirigermi, insieme al collega De Carolis (oggi Presidente della Corte d’Appello di Napoli), alla volta di Ferrara, dove avevamo concordato di condividere l’inizio dell’attività giudiziaria.
Il fato, che notoriamente governa i destini degli uomini, aveva però in serbo una sorpresa: al momento della scelta della sede il collega che avrebbe dovuto insediarsi a S. Angelo mi comunicò che avrebbe optato per il Tribunale di Lagonegro, più lontano, ma che gli consentiva, sull’autostrada, un percorso più veloce e consono alle prestazioni della sua nuova autovettura.
Fu così che scelsi S. Angelo dei Lombardi, senza particolare convinzione né naturalmente curandomi di consultare la mappa sismica del territorio (cosa che da allora segnalo prudentemente di fare ai magistrati in tirocinio).
La nuova sede era raggiungibile in circa due ore di viaggio, per cui restavo sostanzialmente a Napoli, tra gli sguardi ironici di chi, motivato dalla destinazione in zone ad alta densità criminale, mi preconizzava un impegno giudiziario (in effetti non particolarmente suggestivo) formato da abigeati, pascoli abusivi o controversie agrarie in un’area caratterizzata per di più da una frammentazione della proprietà agricola.
Nel settembre 1980 mi trovai così, “giudice ragazzino” a tutti gli effetti, pretore (unico) a S. Angelo dei Lombardi, con la consueta trepidazione degli esordienti (la prima udienza non si scorda mai…), in un mondo rurale caratterizzato da un dialetto di difficile comprensione, dove ad esempio “strumento” qualificava il titolo di proprietà del terreno.
Ricordo che venni subito adottato dal personale amministrativo dell’ufficio, del tutto comprensivo per le mie inevitabili incertezze iniziali di giudice monocratico (quando si compone il collegio si fruisce dell’ausilio dell’esperienza dei colleghi più esperti), e tutti i funzionari di cancelleria sono stati miei indimenticati compagni di avventura, uniti in quella magica coesione lavorativa che caratterizzava solo il (mai troppo) rimpianto ufficio di Pretura mandamentale.
Il mio primo procedimento giudiziario non fu certamente eclatante: l’appello di un provvedimento di sfratto emesso dal giudice conciliatore, competente per le cause di minimo valore, relativo ad un esercizio commerciale cittadino.
Parva materia, verrebbe da dire, ma la paterna saggezza del vice pretore Mignone (un anziano avvocato che univa ad un’elegante calligrafia una profonda cultura umanistica), intuendo le mie perplessità di fronte ad una fattispecie mai esaminata prima durante il tirocinio, mi consigliò di non affrettare la decisione per poter meglio valutare il merito della questione giuridica.
Mi illustrò l’importanza che quel locale (il più importante ritrovo di S. Angelo) aveva nel contesto urbano, nonostante il modesto valore della causa, e l’opportunità di esaminare con cura gli atti; raccogliendo le sue indicazioni, il mio primo atto giudiziario fu quindi quello di sospendere l’esecuzione dello sfratto, prevista nella settimana successiva.
Il 23 novembre 1980, domenica, non ero a S. Angelo dei Lombardi, dove pure avevo preso in locazione un bilocale in prossimità del Castello longobardo, e nemmeno a Napoli, per cui non ho patito il terrore di quei lunghissimi 90 secondi del sisma: un altro, decisivo, segno del destino.
Il lunedì successivo, nell’iniziale ridda di confuse comunicazioni, come tanti non pienamente consapevole dell’area esatta interessata dal terremoto, raggiunsi in auto S. Angelo di buon’ora per la mia udienza penale.
Al mio arrivo trovai uno scenario agghiacciante, fatto di silenzi squarciati da urla di dolore, macerie ed ancora macerie per ogni dove: una cittadina sconvolta da un’apocalisse che me la rendeva (per quel poco che avevo imparato a conoscerla) del tutto irriconoscibile.
Il Tribunale (sede anche della Pretura), per quanto segnato da profonde e visibili ferite nella sua struttura, era tra i pochi edifici ancora agibili; il moderno ospedale un ammasso di detriti, la mia abitazione semplicemente dissolta.
Credo di essere stato tra i primi a raggiungere S. Angelo, in cui peraltro erano già presenti militari del genio e vigili del fuoco per cui, superato lo sbalordimento dinanzi ad uno spettacolo per me del tutto imprevisto, compresi che la mia tenuta da ufficio era del tutto inadeguata: mi tolsi giacca e cravatta e cominciai ad aiutare un gruppo di persone impegnate nel liberare da un cumulo di detriti una zona (posta in prossimità dell’incrocio che portava all’ufficio postale) in cui si avvertiva distintamente, sotto le macerie, un lamento.
Scavammo freneticamente a mani nude per un tempo che non riesco a quantificare, incoraggiati dalla percezione di suoni sempre più vicini, e mi resta ineludibilmente impressa nella memoria la sensazione al tempo stesso di sorpresa e angoscia che derivò dal veder ergersi dalle rovine un ……. pastore tedesco che terrorizzato, si diede alla fuga scartando in una corsa frenetica e incontrollata.
Il “mio” terremoto a S. Angelo dei Lombardi è da sempre tutto raccolto in quell’immagine di un cane impazzito, che si allontana tra le macerie, sbandando senza meta, in uno scenario di polvere e di morte.
A quel primo e terribile giorno seguirono accadimenti in frenetica successione, segnati dal disorientamento di un giovane pretore alla ricerca di un ruolo utile in quella tragedia, in cui le domande erano ben diverse e prioritarie rispetto a quelle di giustizia.
Mi recai pertanto a Napoli dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, dove venni confinato ad una lunghissima anticamera, interrotta solo quando, qualificandomi come Pretore di S. Angelo dei Lombardi, venni travolto dagli abbracci e dalla solidarietà dei colleghi che (impropriamente) mi qualificarono come una sorta di sopravvissuto.
Mi venne attribuita extra ordinem un’auto di servizio (con guida personale) e venni “promosso” sul campo da pretore a pubblico ministero (in uno con il collega Barbuto, pretore di Lacedonia), in un ufficio di Procura acefalo per il collocamento in aspettativa del Procuratore della Repubblica in carica, che all’epoca era privo di sostituti procuratori.
In un inverno gelido, senza alcuna esperienza professionale alle spalle, mi trovai a rappresentare l’istituzione giudiziaria dell’alta Irpinia dinanzi alle massime cariche dello Stato, tra cui l’indimenticato presidente Pertini, pranzando nella neve in tende militari e dormendo in un container metallico, posto dinanzi al Tribunale, assegnatomi dal neosindaco designato dopo la morte del suo predecessore.
Una sorta di epopea fatta di emergenze, situazioni imprevedibili che costringevano a decisioni metagiuridiche, il tutto sullo sfondo di uno scenario apocalittico, fatto di sofferenza e disperazione.
II dopo terremoto si connotò di dinamiche convulse e a volte surreali.
Ricordo la protesta dei cittadini di Lacedonia, esclusi dalle provvidenze post sismiche, che paralizzarono l’autostrada Napoli-Bari, determinando la “carica” (e numerosi arresti) da parte dei carabinieri guidati dal giovane capitano Enrico Cataldi (divenuto poi generale e comandante del Racis), catapultato in un solo giorno dal Trentino a S. Angelo dei Lombardi dopo il decesso del capitano Pecora.
Ho ancora vivida l’immagine della catasta di bare, di ogni tipo e dimensione, depositate davanti al cimitero (rivelatosi presto insufficiente), da una catena di soccorritori che avevano ricevuto via radio la segnalazione dell’emergenza ed erano generosamente accorsi con il loro carico ligneo, senza che alcuno avesse poi avvertito della saturazione della necessità, determinandone l’utilizzazione quale combustibile di falò notturni per attenuare i rigori della notte.
La successiva, accorata istanza di centinaia di familiari, che chiedevano di avere una tomba su cui piangere il congiunto deceduto (sepolto per l’emergenza in una fossa comune), mi indusse poi a disporre l’esumazione delle salme, per procedere al loro riconoscimento individuale.
Nel mosaico di fatalità non posso non ricomprendere anche la circostanza che molti cadaveri erano stati rinvenuti, nel tradizionale orario dell’appuntamento serale televisivo con la partita di calcio, sotto le macerie del bar Corrado, proprio l’esercizio di cui avevo (purtroppo) disposto poco prima la sospensione dell’esecuzione dello sfratto. Tra gli avventori anche l’allora sindaco di S. Angelo dei Lombardi, il giovane avvocato Guglielmo Castellano.
Rammento il pathos della mia prima esperienza di pubblico ministero in un processo contro un giovane ufficiale (inevitabilmente condannato ad una pena severa) accusato di avere occultato una cassetta contenente un piccolo tesoro in monete d’oro e dollari, consegnatagli dai suoi sottoposti, che l’avevano rinvenuta sotto le macerie di una casa di campagna, vulnerando così il credito meritoriamente acquisito sul campo dall’esercito.
Non ho dimenticato le precipitose fughe all’aperto derivanti dalle periodiche scosse di assestamento, che interrompevano l’attività di un ufficio giudiziario che aveva orgogliosamente ripreso la sua attività, processando per direttissima alcuni (fortunatamente pochi), “sciacalli” sorpresi a trafugare i poveri beni abbandonati tra le rovine.
Seguirono le indagini condotte sui cosiddetti “crolli facili”, l’arresto di esponenti del Genio Civile e di costruttori derivate dal deposito di elaborati peritali che avevano evidenziato plurime violazioni della normativa antisismica, la risonanza mediatica che accompagnò la solerte ripresa dell’attività giudiziaria nell’area del cratere, il titolo del quotidiano Il Mattino: “I giudici tra le macerie”.
La presenza di un collega (ma soprattutto un maestro) quale Franco Roberti, all’epoca giudice istruttore (poi assurto alla carica di procuratore Nazionale Antimafia), mi consentì di affrontare problematiche probabilmente impegnative per chiunque si fosse trovato ad affrontare una simile contingenza, ma sicuramente impensabili per un giovanissimo pretore, che doveva ogni volta affrontare e superare lo sconcerto dell’interlocutore (anche autorevole) di turno, sorpreso dall’incontro con un magistrato ben lontano dall’ austera saggezza che avrebbe dovuto connotarlo secondo l’immaginario collettivo.
Con Roberti, e con una colonna dell’esercito, fummo incaricati su disposizione “superiore” di prelevare tutti i fascicoli processuali depositati presso il Tribunale di S. Angelo, per trasferire (temporaneamente??) ad Avellino l’ufficio giudiziario. L’ostacolo umano dei corpi degli avvocati del Foro locale, sdraiati sulla neve per impedire la marcia dei camion, indusse a più miti consigli, evitando di infierire su una comunità segnata dalla sorte, che vedeva nel “suo” Tribunale un presidio di legalità e di vanto cittadino.
Ricordo le parole persuasive di Roberti: “Eccellenza, questa gente ha già perso tutto, se togliessimo loro anche il Tribunale, che è il centro della vita pubblica, completeremmo l'opera del terremoto”.
Quale giudice tutelare, curai la gestione di decine di tutele di minori, orfani per il sisma, raccogliendo storie strazianti di bambini irrimediabilmente stravolti da una violenza partita dalla terra e capace di scuotere il profondo del loro cuore, lì dove si nascondono le paure, in cui si era annidata per non lasciarli più.
Il cammino della ricostruzione fu lento e difficile, segnato anche da episodiche infiltrazioni camorristiche che determinarono un complesso dibattimento con numerosi imputati provenienti dall’agro sarnese-nocerino. Per portalo a termine revocai la mia domanda di trasferimento alla Procura di Napoli, e continuai per molti anni la mia funzione di Pretore, una sorta di “medico condotto” del diritto, aduso a ricevere i più disparati protagonisti di conflitti tra confinanti, beghe familiari, ecc., più inteso alla promozione di un accordo tra le parti più che a determinare la ragione e il torto secondo le norme del codice.
Ricordo con nostalgia un contadino (tale Petito) quasi quotidianamente presente in ufficio, con il volto perennemente bruciato dal sole e con una coppola a strette falde che, scappellandosi teatralmente dinanzi all’ “eccellenza”, rivelava la sommità di una cute bianchissima; sostanzialmente viveva per una causa che lo contrapponeva da anni ad un vicino per un “tomolo” di terreno. Quando la decisi (in senso per lui favorevole) percepii distintamente il suo disagio, superato solo dalla notizia dell’appello proposto da parte del suo rivale, che gli consentì (ne sono certo non senza soddisfazione), di legittimare le sue ulteriori peregrinazioni in Pretura, divenuta ormai la sua seconda casa...
Quel legame con S. Angelo dei Lombardi, insorto in una situazione tragica, ebbe modo di consolidarsi con il tempo, parallelamente alla scoperta di un territorio ricco di cultura e di tradizioni, a cui venni avvicinato da avvocati di grande umanità e capacità professionale.
Mi trasferii a Napoli solo quando, con la soppressione degli uffici di pretura, compresi che era venuto il tempo di chiudere un’esperienza irripetibile per affrontare un nuovo e diverso percorso.
Quarant’anni anni sono tanti, ma conservo nel cuore voci, volti ed immagini (sbiadite) di un tempo lontano, di una calamità naturale che mi sfiorò soltanto, ma in modo comunque sufficiente a determinare, in una palestra di formazione giudiziaria del tutto atipica, emozioni incancellabili.
La cittadinanza onoraria di S, Angelo dei Lombardi, conferitami in occasione di un anniversario di quel maledetto 23 novembre, è per me motivo di orgoglio come la sua motivazione “per aver difeso l’istituzione giustizia” nei giorni del terremoto, che campeggia sulla targa donatami dal Comune ed esposta nel mio ufficio, memore che “il ricordo della felicità non è più felicità, mentre il ricordo del dolore è ancora dolore”.
Elementi per un rapporto tra allocazione delle risorse sanitarie e diritto alla salute come problema biogiuridico nell’emergenza del COVID-19
di Aldo Rocco Vitale
Discorrendo con Platone intorno alle idee e usando “tavolità” e “coppità”
invece di tavola e coppa, Diogene disse: «Io, o Platone, vedo la tavola
e la coppa; ma non vedo le idee di tavola e coppa.»
E Platone: «È giusto. Hai gli occhi per vedere la coppa e la tavola,
ma non hai la mente per vederne le idee.»
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Bari, 2010, Vol. I, pag. 222.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il problema - 3. Conclusioni.
1. Introduzione
«La civiltà giudaico-cristiana è esaurita; è una potenza che ha fatto il suo tempo. La stella collassata collassa ancora di più, è nell’ordine del suo essere»:[1] così Michel Onfray ha sintetizzato il tramonto dell’influenza cristiana all’interno del mondo occidentale contemporaneo, potendosi estendere tale tendenza nei confronti di ogni premessa non soltanto di carattere teologico-religioso, nonostante proprio di origine teologico-religiosa sia il processo di secolarizzazione che ha condotto alla presente situazione,[2] ma anche soltanto trascendente con una parallela eclisse dell’influenza del pensiero metafisico,[3] andamento generale massimamente presente anche e soprattutto nel mondo del diritto che non soltanto è oramai del tutto secolarizzato,[4] ma – talvolta abbandonato alla solitudine nelle mani di un legislatore culturalmente sempre più inadeguato,[5] e talvolta forgiato a immagine e somiglianza della magistratura in quella sempre incandescente fucina del “creazionismo giudiziario” –[6] alla ricerca spasmodica di un fondamento post-metafisico.[7]
In questa direzione Tristram Engelhardt ha precisato che «poiché la cultura laica dominante del nostro tempo si colloca dopo Dio, la riflessione morale laica non può che occuparsi di ogni cosa come se essa non venisse da nessuna parte, non andasse da nessuna parte e non avesse alcuno sbocco finale. Deve trattarsi, cioè, di una morale e di una struttura politica costruite come se moralità, vita morale, strutture politiche e stati fossero in ultima analisi privi di significato […]. Tutto è in definitiva privo di senso».[8]
Proprio questa carenza di senso, del resto, costituisce la sfida intellettuale attualmente più ardua per il mondo contemporaneo agitato dal vortice dell’ideologia, e all’un tempo lo sprone per un ritorno ai più sicuri lidi del pensare, cioè del filosofare, ovvero del tentare di investigare razionalmente – cioè senza apriorismi, senza schemi ideologici, senza pregiudizi, ovvero con autentico spirito critico – la realtà, poiché come ha chiosato Jean-François Lyotard «c’è bisogno di filosofare perché abbiamo perso l’unità. L’origine della filosofia è la perdita dell’uno, è la morte del senso».[9]
In fondo, se per Hans-Georg Gadamer «l’istinto metafisico è troppo radicato nell’uomo per lasciarsi cancellare del tutto, anche ammesso che la metafisica abbia perduto per sempre il rango di “scienza prima”»,[10] ciò che qui s’intende non è una banale rivendicazione di un presunto diritto della metafisica, ma la più seria e difficile proposta di un recupero di una metafisica del diritto come tale in grado di riflettere quell’esigenza di razionalità oggi mancante a cui più sopra si è accennato.
Se infatti, per Martin Heidegger, la metafisica è il terreno in cui affondano le radici dell’albero della filosofia,[11] la metafisica del diritto, oggi, pare il solo terreno fertile da cui può (ri)nascere il bocciolo del suo senso fino ad ora smarrito, così da evitare l’illusione che il “diritto del vuoto”, parallelamente alla “società del vuoto”,[12] possa continuare autoreferenzialmente a legittimare se stesso.
In questa direzione vi sono ambiti in cui il diritto positivo da solo non riesce a dirimere determinate problematiche –[13] in modo razionale senza cioè abbandonare il fenomeno giuridico al mero volontarismo,[14] o, consequenzialmente e peggio,[15] al nichilismo –[16] che possono presentarsi all’attenzione del giurista (sia esso legislatore, interprete o applicatore del diritto), così come accade, per esempio, con i “nuovi temi” biogiuridici.[17]
A tal proposito occorre riconoscere che all’intenso agire di veri e propri processi mareali di ordine concettuale, che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni, sono soggette anche altre dimensioni della realtà oltre quella strettamente giuridica, come, per esempio, l’invecchiamento.
Se Cicerone preferiva «essere meno a lungo vecchio, che esser vecchio prima di esserlo»,[18] oggi si assiste ad una sempre più radicale opera di ristrutturazione complessiva della vecchiaia, non soltanto perché l’età media si è allungata o perché i progressi tecnico-scientifici consentono di “cronicizzare” – al fine di conviverci – quegli stati patologici che si presentano con l’avanzare dell’età e che magari un tempo erano annoverabili tra le cause prime di mortalità, ma anche e soprattutto perché tali recenti mutazioni riflettono la nuova prospettiva antropologica dominante sul senso della vita e, quindi, della morte,[19] oltre che dell’invecchiamento che di quest’ultima è sempre il mesto ambasciatore.
Arricchendosi la capacità dell’uomo di controllare la dimensione biologica, di scrutare i segreti del corpo, di scoprire i misteri della vita umana attraverso il potenziamento della biologia e della biomedicina, l’idea di poter controllare ogni aspetto dell’esistenza biologica si è fatta strada sempre più, fino alle sue logiche conseguenze, ritendo per un verso di poter ritardare la morte per il più lungo tempo possibile, e per altro verso perfino di eliminarla anche a costo di perdere tutto ciò che contraddistingue l’umanità, cioè la caducità e la mortalità dell’uomo.[20]
L’ambizione di una parte crescente del mondo scientifico, ben oltre ogni prospettiva distopica, ma pur sempre all’interno di quel vastissimo orizzonte dischiuso dai paradigmi della nuova antropologia rimodellata dalle più dinamiche frange di quella sempre più influente corrente di pensiero che è l’estropianesimo attuale,[21] di cancellare radicalmente l’invecchiamento tramite i mezzi tecnologici,[22] traduce quella forma neanche tanto implicita di vera e propria guerra tecno-culturale contro la morte – e probabilmente contro la stessa natura in quanto tale – che il mondo contemporaneo sta ormai conducendo da tempo.[23]
Sarebbe quanto mai opportuno comprendere se, in prospettiva, la vecchiaia possa diventare un problema maggiore di ciò che oggi rappresenta, se cioè possa essere dapprima teorizzato un “diritto a non invecchiare”, imponendosi, gradualmente con il tempo, perfino un “dovere di non invecchiare”, fino ad arrivare a considerare la vecchiaia perfino come una colpa, intanto sicuramente in senso morale e sociale, poi, chissà, magari, anche in senso giuridico.[24]
Occorre chiedersi, tuttavia, se la vecchiaia come colpa rappresenti una futuribile prospettiva per ora soltanto “fantascientifica”, o se invece vi siano attualmente degli elementi prodromici sul punto che disvelano i riflessi problematici di carattere giuridico riguardo alle politiche e alle prassi biomediche odierne nei confronti della popolazione meno giovane i cui diritti fondamentali possono essere messi in discussione già oggi in tempo di emergenza da pandemia Covid-19, specialmente in riferimento al rapporto tra allocazione delle scarse risorse sanitarie e tutela del diritto alla salute.
2. Il problema
Su “La Stampa” dello scorso 24 ottobre 2020 è stata pubblicata la notizia secondo cui l’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e la Società Svizzera di Medicina Intensiva hanno elaborato un protocollo secondo cui vengono individuate quattro tipologie di pazienti destinati a non essere ricoverati per Covid-19 nei reparti di in Terapia Intensiva: 1) età superiore a 85 anni; 2) età superiore a 75 anni accompagnata da almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e sopravvivenza stimata a meno di 24 mesi; 3) arresto cardiocircolatorio ricorrente, malattia oncologica con aspettativa di vita inferiore a 12 mesi, demenza grave, insufficienza cardiaca di classe NYHA IV; 4) malattia degenerativa allo stadio finale.[25]
La questione svizzera, lungi dall’essere di carattere locale, rappresenta una esemplificazione particolare di un problema generale che si sta ciclicamente riproponendo in ogni ordinamento giuridico chiamato a interrogarsi sulla gestione legale della allocazione delle limitate risorse nei sistemi sanitari nazionali posti sotto pressione a causa della pandemia da coronavirus in atto.[26]
Il problema, sicuramente, non è nuovo, essendo senza dubbio tanto risalente quanto ricorrente nella letteratura delle cosiddette “questioni bioetiche”,[27] ma la diffusione del Covid-19 lo ha reso un tema ancor più attuale e sicuramente tanto “virale” quanto vitale,[28] come dimostrano le recenti linee guida redatte dalla SIAARTI in Italia per stabilire i criteri di priorità attraverso le quali scegliere i pazienti da sottoporre alle cure di terapia intensiva e con cui si è deciso di effettuare tale selezione utilizzando il criterio dell’età, cioè favorendo i più giovani.[29]
Del resto, sul numero del 23 marzo 2020 del noto New England Journal of Medicine,[30] è stato pubblicato un contributo dal significativo titolo “Fair allocation of scarce medical resources in the time of Covid-19” nel quale gli autori – come sta accadendo un po’ dovunque nel mondo – si sono interrogati su quale sia la modalità migliore di allocazione delle scarse risorse sanitarie in un periodo di emergenza pandemica quale è quella attuale causata dalla diffusione del letale virus Covid-19.
Alla vetustà della tematica, tuttavia, si contrappone la novità della soluzione proposta, almeno da parte degli autori del suddetto contributo pubblicato su “NEJM”, cioè la possibilità non soltanto di sospendere la ventilazione per i pazienti Covid-19 che non hanno lunghe prospettive di vita, ma di poterla sospendere perfino senza il loro consenso e per di più senza che ciò possa essere considerato eticamente, giuridicamente e deontologicamente problematico.[31]
In senso contrario si è espresso, invece, il Comitato Nazionale per la Bioetica italiano ribadendo che il criterio clinico è l’unico eticamente accettabile in quanto «il più adeguato punto di riferimento, ritenendo ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, eticamente inaccettabile».[32]
In un successivo documento lo stesso CNB, inoltre, ha avuto modo di evidenziare la necessità etica e giuridica di una maggior tutela degli anziani – insieme ai disabili, ai minori, alle altre categorie di pazienti non-Covid – come categoria più fragile da salvaguardare.[33]
Negli anni, del resto, si è accentuata la rilevanza della dimensione economico-finanziaria all’interno delle problematiche relative alla sanità con evidenti riflessi anche sul piano della tutela effettiva di un diritto costituzionalmente rilevante e tutelato quale è il diritto alla salute, abbandonando un approccio giuridico “salutecentrico” in favore di un approccio sempre più “econometrico”.[34]
Sul punto la letteratura scientifica e la giurisprudenza sono pressoché illimitate, ma – con il dovuto spirito di sintesi maturato all’ombra della consapevolezza di una palese non esaustività enciclopedica delle presenti osservazioni – si può senza dubbio evidenziare il paradosso per cui proprio nell’epoca, quale è quella attuale, in cui per un verso, come già detto, si respinge la morte quale “economia della vita”,[35] pur essendo la morte all’un tempo reclamata come diritto,[36] per altro verso la morte sia divenuta lo strumento con cui garantire e ottimizzare l’efficienza della “vita dell’economia” alla base di un dato sistema sanitario, come, del resto, aveva già intuito Ivan Illich sottolineando che «la morte approvata dalla società è quella che avviene quando l’uomo è diventato inutile non solo come produttore, ma anche come consumatore».[37]
Si assiste, insomma, ad una vera e propria interversio morum, per cui si attribuisce un costo (rectius, un prezzo) a ciò che ha una dignità,[38] cioè sostanzialmente la vita umana, che si estrinseca dapprima in una economicizzazione del diritto in genere e di quello alla salute in particolare,[39] concludendosi infine in un acrobatico capovolgimento assiologico che sottomette il valore giuridico al valore contabile e che a sua volta confluisce in una vera e propria interversio iuris, per cui il diritto alla salute si rovescia silenziosamente in un singolare “dovere di morire” socialmente ed economicamente giustificato, tanto da potersi e doversi chiedere con Michael Sandel se vogliamo una società in cui ogni cosa ha un prezzo, oppure ci sono certi beni morali e civici che i mercati non onorano e che i soldi non possono comprare.[40]
L’improduttività e l’inattitudine al consumo dell’uomo non più produttivo e non più consumatore a causa della vecchiaia, della malattia o della disabilità,[41] segnano, infatti, nell’epoca post-capitalistica dell’espansione del mercatismo (o turbocapitalismo), inteso quale sublimazione totalizzante e ultimativamente totalitaria del vecchio capitalismo,[42] la consunzione di alcuni diritti come quello alla salute la cui tutela, in certe condizioni, diventa economicamente non vantaggiosa e quindi ridimensionabile, comprimibile o, perfino, sopprimibile.
L’homo oeconomicus,[43] cioè colui il quale antepone l’ottimizzazione economica dinnanzi al valore della vita e del diritto in sé considerato, prende il posto dell’homo juridicus,[44] cioè colui il quale riconosce non soltanto la dignità e l’autonomia epistemica della fenomenologia giuridica che non può essere piegata o piagata dal mondo tecnico come dal calcolo dell’utile economico, ma che soprattutto, prendendola sul serio, individua la fondamentalità di alcuni diritti umani – come quello alla salute – non tanto in una loro mitica o mistica inattingibilità ontologica, quanto piuttosto nella concretezza della loro contraddistintiva intangibilità costitutiva originaria meta-ordinamentale.[45]
I riflessi più strettamente giuridici non possono essere considerati minoritari, venendo in rilievo non soltanto la lesione del diritto fondamentale alla salute da cui discende il diritto all’assistenza sanitaria, ma anche il principio di uguaglianza per cui «l’obiettivo dell’eguale trattamento delle generazioni richiede che sia assegnato un uguale peso a livello di benessere individuale in ciascun momento del tempo»,[46] nonché il principio di autodeterminazione come valore costituzionalmente garantito.[47]
Con l’adozione di un approccio di carattere inizialmente economicistico e,[48] via via perfino utilitaristico,[49] si rischia, infatti, non soltanto la radicale soppressione del diritto alla salute, ma anche una sovversione del diritto di autodeterminazione così rilevante nell’odierno clima giuridico, come del resto indicato, pur tra i vari chiaroscuri, dalla stessa Corte Costituzionale con la recente sentenza 242/2019 sul cosiddetto “caso Cappato-DJ Fabo”.[50]
Per quanto sia ovvio che ad una situazione di emergenza si debba far fronte con norme e comportamenti emergenziali, occorre sottolineare che la gestione dell’emergenza non può mai travalicare i principi generali del diritto e dell’ordinamento, i diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti e tutelati, lo spirito di giustizia in se stessa considerata.
Così, occorre tener presente che la eventuale carente disponibilità delle risorse – con il problema relativo alla esatta loro allocazione tanto in un quadro macro-allocativo quanto in un quadro micro-allocativo –[51] non può mai rappresentare la legittimazione di una compressione o perfino di una soppressione del diritto alla salute prima e del diritto alla vita poi di coloro che, sebbene meno giovani, hanno necessità di accedere ai servizi sanitari essenziali – come le terapie intensive – al fine di veder concretamente tutelati i suddetti diritti.
Il diritto alla salute, infatti, se è davvero un diritto fondamentale, come del resto affermano norme sovranazionali e la stessa Costituzione,[52] nonostante qualche contraria opinione,[53] non può trovare limitazioni di carattere economico-contabilistico che ne comportino non soltanto una minore tutela o una (de)gradazione della stessa, ma neanche, a maggior ragione, un vero e proprio totale sacrificio, nemmeno in un contesto di carattere emergenziale come quello odierno.
In questa direzione occorre tenere presente il contributo della giurisprudenza, almeno di quella costituzionale,[54] che ha avuto modo di esprimersi più volte sulla natura, la portata e l’importanza del diritto alla salute.[55]
Per la Corte Costituzionale, infatti, il diritto alla salute è «riconosciuto e garantito dall’art. 32 della Costituzione come un diritto primario e fondamentale che impone piena ed esaustiva tutela».[56]
Dalla ricostruzione che del diritto alla salute compie la Corte Costituzionale si possono ricavare i tre elementi costitutivi che lo determinano: 1) si articola in situazioni giuridiche soggettive diverse in dipendenza della natura e del tipo di protezione che l’ordinamento costituzionale assicura al bene dell’integrità e dell’equilibrio fisici e psichici della persona umana; 2) è un diritto erga omnes immediatamente garantito dalla Costituzione e dunque azionabile e tutelabile direttamente dai soggetti legittimati nei confronti degli autori dei comportamenti illeciti; 3) conferisce in concreto il diritto ai trattamenti sanitari dei quali la determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi è rimessa all’attuazione messa in essere da parte del legislatore.
Da ciò si evince, tuttavia, che dato il rilievo costituzionale e la fondabilità pre-costituzionale del diritto alla salute, esso non possa essere controbilanciato da un generico e collettivo interesse di carattere economico o contabilistico, proprio in considerazione della palese primazia che con tutta evidenza l’ordinamento gli attribuisce.
Cesare Mirabelli, del resto, non a caso ha puntualizzato che «il contemperamento con le esigenze di natura finanziaria ed organizzativa deve, in ogni caso, garantire l’erogazione delle prestazioni sanitarie indispensabili, assicurando tempestivamente le cure più idonee per lo stato di salute della persona. Deve essere, dunque, sempre garantita la compiuta attuazione del diritto alla salute, non essendo ammissibile che vi siano situazioni prive di tutela per un bene che è essenziale della persona».[57]
Si considerino, peraltro, le due prospettive fondamentali – cioè poste “segretamente” alla sua base – del suddetto approccio, cioè, da un lato il paternalismo,[58] e, ancor più problematicamente, dall’altro lato l’eugenetica,[59] binari cooperanti di un unico deragliamento giuridico qualora sia intrapresa la rotta ove essi conducono.
Plasmare la tutela del diritto alla salute, infatti, anche se in tempi emergenziali pandemici, secondo criteri utilitaristici o economicistici, significa re-introdurre una mentalità paternalistica, non più clinicamente giustificata, ma contabilisticamente fondata, come precisa, tra i tanti, John Wyatt secondo il quale «il vecchio modo paternalista di assegnazione e ripartizione delle spese relative all’assistenza sanitaria sotto il controllo diretto dei medici professionisti è stato adesso soppiantato da una nuova forma di paternalismo in cui sono degli economisti, esperti in spesa sanitaria, dei funzionari governativi, oppure dei burocrati ministeriali che stanno sempre di più prendendo il controllo della salute pubblica, nel nome di una pianificazione razionale ed efficiente delle spese».[60]
Limitare la tutela del diritto alla salute, anche se in tempi emergenziali pandemici, in virtù di una selezione dei pazienti in base alla loro età anagrafica, significa praticare una “politica” sostanzialmente eugenetica tesa a favorire i più “forti” ed eliminare i più “deboli”, cioè non soltanto contravvenire alla reale natura del diritto,[61] e, all’un tempo, alla vocazione umanitaria della stessa medicina,[62] ma anche e soprattutto violare apertamente e frontalmente alcune specifiche normative internazionali che vietano in modo esplicito ogni eventuale, diretta o indiretta, prassi eugenetica.[63]
In tal senso si pensi all’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,[64] all’articolo 11 della Convenzione di Oviedo,[65] ed implicitamente anche all’articolo 14 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo nella misura in cui vieta la discriminazione in base a qualunque altra condizione rispetto a quelle esplicitamente elencate.[66]
Confondendo il concetto di guarigione con quello all’assistenza sanitaria, dietro il filtro dell’ottimizzazione delle risorse, si finisce, insomma, per negare la cura di cui hanno diritto persone sofferenti, e pur probabilmente inguaribili, come gli anziani affetti da Covid-19 che si escludono aprioristicamente dalle terapie intensive, dimenticando non soltanto il senso del diritto e dell’etica medica, ma anche la preziosa lezione di Georges Canguilhem secondo il quale, infatti, «imparare a guarire significa imparare a conoscere la contraddizione tra la speranza di un giorno e lo scacco inevitabile alla fine. Senza mai dire di no alla speranza».[67]
Il baluardo un tempo gagliardo e oggi in rovina dell’umanesimo marxista,[68] avrebbe potuto costituire una valida alternativa critica nei confronti di simili prassi di espansionismo post-capitalistico oramai totalizzante e acriticamente accettato proprio da parte di molti, anche influenti, giuristi di ogni ordine e grado.
Del resto, anche la roccaforte dell’etica cristiana, oggi disarmata e collabente a causa dell’apice del processo suicidiario che l’occidente oramai da decenni ha mosso verso se stesso,[69] avrebbe potuto rappresentare un antibiotico contro quella virulenta carica pandemica costituita dall’antigiuridismo attuale sempre più capillarmente diffuso e di cui sono divenuti silente veicolo proprio gli stessi giuristi che supinamente e sociologicamente accettano logiche palesemente antigiuridiche un tempo risolutamente e coraggiosamente respinte.
Alcuni interrogativi sorgono, dunque, in modo spontaneo e inevitabile: in una situazione di emergenza come quella imposta dalla pandemia del coronavirus i diritti fondamentali, come quello alla salute e all’autodeterminazione, possono essere davvero ridimensionati, affievoliti o perfino negati? Il diritto all’autodeterminazione che sta vivendo una nuova stagione di vitalità e riconoscimento prima giudiziario e poi legale può incontrare nell’emergenza sanitaria l’unica vera forza in grado di contrastarne l’espansionismo? L’approccio economicistico è davvero l’unico in grado di poter dare una soluzione all’emergenza sanitaria? La prospettiva utilitarista è davvero compatibile con la struttura della Costituzione e dell’ordinamento giuridico italiani informati dal principio personalistico? Il calcolo economico dei costi-benefici può davvero assurgere a cifra ermeneutica dell’intera realtà giuridica? E’ l’economia che deve regolare il diritto o, piuttosto, è il diritto che deve regolare l’economia? E’ il risultato economico che deve disciplinare la vita delle persone e dei soggetti di diritto o è il principio di intangibilità della persona che deve disciplinare il risultato economico?
Con tutta evidenza, dunque, per comprendere il rapporto tra allocazione delle scarse risorse sanitarie e tutela del diritto alla salute nell’emergenza pandemica da Covid-19, invece di rinchiudersi nell’angolo di rigidi e statici – e francamente più semplici(stici) – rigori economici e contabili, si dovrebbe trovare il coraggio intellettuale e culturale di adottare una prospettiva dinamica, cioè ricorrere alla triangolazione di economia, diritto ed etica, come tale la sola in grado non tanto e non solo di rispettare lo statuto dell’economia, del diritto e della medicina, ma l’unica in grado di non violare arbitrariamente i diritti fondamentali dei singoli e di intere categorie di soggetti fragili che l’ordinamento dovrebbe primariamente tutelare per conservare oltre che la propria intrinseca giuridicità, la propria auspicabile umanità.
3. Conclusioni
«Sopprimo soltanto un mezzo uomo e non me ne vorrete per questo»:[70] così – nel celebre racconto di Albert Camus “La morte felice” – lo stanco, malato, privo di gambe, bisognoso di assistenza e di cure e soprattutto vecchio Zagreus incoraggia il giovane tentennante Mersault, lautamente ricompensato a tal fine, affinché esegua la prestazione, porti a termine il contratto stipulato, cioè sopprima il proprio stesso committente.
Considerare Zagreus soltanto un mezz’uomo per dimezzare la rilevanza morale della sua soppressione, significa sostanzialmente dimezzare la sua umanità, cioè, in definitiva, disumanizzarlo, pur senza comprendere, che una tale operazione costituisce una diretta violazione della dignità umana in quanto, con le parole di Abraham Heschel, «l’annullamento morale conduce allo sterminio fisico».[71]
Come ha giustamente osservato Dietrich Bonhoeffer, dunque, «la distinzione tra vita degna e vita indegna distrugge presto o tardi la vita stessa»,[72] e, inevitabilmente, anche il diritto.
Il diritto, infatti, non è economico, e non può e non deve essere economico. Il diritto è e deve rimanere giuridico per non tradire se stesso e la sua funzione, poiché il diritto non conosce e non può conoscere il servilismo in quanto è espressione della libertà e non della necessità, in quanto dovrebbe essere epifania del giusto e non imposizione dell’utile, in quanto riflesso dell’umanità degli esseri umani e non del loro tornaconto.
Subordinare il diritto alle pretese economiche o di altra natura ad esse simili, significa subordinare la libertà dello spirito allo spirito della necessità, significa soggiogare il diritto come espressione della costitutiva relazionalità naturale dell’uomo alla mera datità del mondo e del numero, significa escludere ciecamente la fondabilità sostanziale del fenomeno giuridico e quindi paradossalmente negare radicalmente il diritto, proprio in quanto giuristi, e l’umanità proprio in quanto esseri umani.
Oltre ogni ulteriore considerazione, non rimane, dunque, che chiedersi: siamo davvero pronti a vivere in un mondo inesorabilmente e irrevocabilmente privato dell’umanità e del diritto?
[1] Michel Onfray, Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, Ponte alle Grazie, Milano, 2017, pag. 601-602.
[2] «Il concetto di secolarizzazione non ha senso al di fuori del Cristianesimo»: Jacques Derrida, Quel che il Signore disse ad Abramo, Castelvecchi, 2005, pag. 30.
[3] «Sono stati “dimenticati” non solo i problemi specifici della trascendenza, ma in generale i problemi di fondo della filosofia e della metafisica. Non pochi filosofi si occupano oggi di questioni di carattere formale, connesse con il problema del “metodo” e del “linguaggio”, tralasciando per lo più la considerazione di ciò che con il metodo e con il linguaggio si dovrebbe raggiungere, ossia dei contenuti»: Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa, Raffaello Cortina, Milano, 2003, pag. 140.
[4] Thomas Gutmann, Secolarizzazione del diritto e giustificazione normativa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.
[5] https://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/09/27/news/impreparati-incompetenti-immaturi-il-ceto-politico-non-e-mai-stato-cosi-ignorante-1.310776
[6] «Gli spazi della discrezionalità interpretativa sono già fin troppo ampi, a causa dell’odierno caos legislativo, da sconsigliare che li si ampli ulteriormente teorizzando e legittimando il creazionismo della giurisdizione, destinato inevitabilmente a degenerare nel dispotismo giudiziario»: Luigi Ferrajoli, Contro il creazionismo giudiziario, Mucchi Editore, Modena, 2018, pag. 24-25.
[7] Valentin Petev, Per un’ontologia post-metafisica del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.
[8] Tristram Engelhardt, Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico, Claudiana, Torino, 2014, pag. 48.
[9] Jean-François Lyotard, Perché la filosofia è necessaria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013, pag. 23.
[10] Hans-Georg Gadamer, La responsabilità del pensare. Saggi ermeneutici, V&P, Milano, 2002, pag. 130.
[11] Martin Heidegger, Che cos’è la metafisica?, Adelphi, Milano, 2001, pag. 91.
[12] «La “società del vuoto” può legittimare se stessa. Il nulla su cui galleggia non è il baratro su cui sprofonda, ma lo spazio aereo della sua libertà. Perché ciò sia possibile, sopportabile, occorre la priorità del sogno sulla realtà. Il sacro post-moderno è il luogo della grande illusione, il ritorno dell’Eden perduto in cui Dio e il serpente si fondono nell’uomo “divino” elevato al di là del bene e del male»: Massimo Borghesi, Secolarizzazione e nichilismo, Cantagalli, Siena, 2005, pag. 24.
[13] «La dottrina del positivismo giuridico conosce molte varianti, tutte però concordi nel negare autentico valore teoretico al tema della giustizia o comunque nel qualificarlo alla stregua di un tema extra-giuridico[…]. Ridotto ad un insieme di norme tecniche[…] il diritto viene pensato dai positivisti alla stregua di uno degli strumenti sistemici dell’ordine sociale, il che indubbiamente esso è, purché però non si dimentichi che un ordine, in quanto tale, può anche essere, al limite, atrocemente ingiusto, come quello concentrazionario di un Lager. La dottrina giuspositivistica potrà anche ritenere che il regolamento interno di un campo di concentramento sia autentico diritto, ma dovrà pur riconoscere come sensata l’opinione assolutamente contraria di tutti coloro che sono in esso incarcerati»: Francesco D’Agostino, Corso breve di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2011, pag. 53.
[14] «Ciascuno di noi non si trova in un diritto, ma sceglie il proprio diritto»: Natalino Irti, Diritto senza verità, Laterza, Bari, 2011, pag. 13.
[15] «Nichilismo e formalismo sono stretti da un’intima fraternità: l’uno conduce all’altro»: Natalino Irti, Nichilismo giuridico, Laterza, bari, 2005, pag. 26.
[16] «Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso»: Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 2007, pag. 65.
[17] La letteratura sul punto è praticamente sterminata: a titolo di esempio cfr. i recenti: Salvatore Amato, Biodiritto 4.0. Intelligenza artificiale e nuove tecnologie, Giappichelli, Torino, 2020; Francesco D’Agostino, Bioetica. Questioni di confine, Studium, Bologna, 2019; Carla Faralli, Diritto, diritti e nuove tecnologie, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018; Aldo Rocco Vitale, Introduzione alla bioetica. Temi e problemi attuali, Il Cerchio, Fano, 2019.
[18] Cicerone, La vecchiezza, Bur, Milano, 2005, pag. 169.
[19] «Come concepiamo la vita e come concepiamo la morte sono soltanto due aspetti di un atteggiamento di fondo unitario»: Georg Simmel, Metafisica della morte e altri scritti, SE, Milano, 2012, pag. 9.
[20] «Una specie che riesce a creare artificialmente la propria immortalità, e che cerca di trasformarsi in mera informazione, rimane una specie umana?»: Jean Baudrillard, L’illusione dell’immortalità, Armando Editore, Roma, 2007, pag. 31.
[21] «The first fully developed transhumanist philosophy was defined by the “Principles of Extropy”, the first version of which was published in 1990. The concept of “extropy” was used to encapsulate the core values and goals of transhumanism. Intended not as a technical term opposed to entropy but instead as a metaphor, extropy was defined as the extent of a living or organizational system’s intelligence, functional order, vitality, and capacity and drive for improvement[…]. The Principles of Extropy include the concept of practical optimism or dynamic optimism which tempers an optimistic sense of radical possibility with an insistence that we actively create the future we desire»: Max More – Natasha Vita-More, The transhumanist reader, Wiley-Blackwell, Oxford, 2013, pag. 35.
[22] Secondo il noto biochimico Aubrey de Grey, per esempio, si potrebbe e si dovrebbe attuare il piano cosiddetto “SENS”, cioè Strategies for Engineered Negligible Senescence (ovvero, Strategie per una Senescenza Ingegnerizzata Trascurabile), con cui arrestare biologicamente il fenomeno dell’invecchiamento. Cfr. Aubrey de Grey – Michael Rae, La fine dell’invecchiamento. Come la scienza potrà esaudire il sogno dell’eterna giovinezza, D Editore, Roma, 2018.
[23] «La lotta contro la morte continua a progredire nelle direzioni che già avevo messo in luce vent’anni fa; da allora la speranza nel prolungamento della vita ha fatto progressi ovunque nel mondo e in Francia la durata media della vita è aumentata di una decina d’anni. La morte, insomma, continua a battere in ritirata. Eppure, sebbene nei Paesi più avanzati in campo medico il cancro e le malattie cardiovascolari assorbano ancora la maggior parte delle risorse e dell’attenzione pubblica, la ricerca ha tentato di aprire nuove brecce sul fronte della morte o ha previsto l’avvento di nuove tecniche per lottare contro la senescenza. E soprattutto assistiamo al progressivo delinearsi, negli Stati Uniti, di una vera e propria mobilitazione contro la vecchiaia e la morte: nascono addirittura associazioni che hanno lo scopo dichiarato di abolire la morte, la gente matura comincia a protestare contro la senescenza e anche i giovani a ribellarsi all’assurdità della morte»: Edgar Morin, L’uomo e la morte, Meltemi, Roma, 2002, pag. 342.
[24] Il tema, senza dubbio colorato di tratti da distopia orwelliana, è comune a quello dell’opera di narrativa dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna, Iperborea, Milano, 2008, pag. 47.
[25] https://www.lastampa.it/esteri/2020/10/24/news/la-svizzera-sceglie-rianimazione-negata-agli-anziani-malati-di-coronavirus-1.39453134
[26] Per una panoramica nei vari Paesi cfr.: http://bioetica.governo.it/italiano/comunicazione/covid-19-il-dibattito-a-livello-internazionale/i-pareri-per-paese/
[27] John Harris, QALYfying the value of life, in “Journal of Medical Ethics”, 1987, 13, 117-123; Laura Palazzani, Teorie della giustizia e allocazione delle risorse sanitarie, in “Medicina e morale”, 1996/5, 901-921; Adriano Bompiani, Economia ed etica nello sviluppo del Sistema sanitario italiano, in “Medicina e morale”, 1996/5, 923-934; Liss Per-Erik, Hard choices in public health: the allocation of scarce resources, in “Scandinavian Journal of Public Health”, 2003, 31, 156-157; AA.VV., Principles for allocation of scarce medical interventions, in “The Lancet”, 2009, 373, 423-431.
[28] Cfr. Antonio D’Aloia, Costituzione ed emergenza. L’esperienza del coronavirus, in “Rivista di biodiritto”, 2/2020, 14 marzo 2020; Caterina Di Costanzo, Vladimiro Zagrebelsky, L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, in “Rivista di biodiritto”, 2/2020, 15 marzo 2020.
[29] «L’allocazione in un contesto di grave carenza (shortage) delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la maggior speranza di vita»: SIAARTI, Raccomandazioni di etica clinics per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, 06/03/2020 disponibile presso il seguente indirizzo internet: http://www.siaarti.it/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI.aspx
[30] DOI: 10.1056/NEJMsb2005114
[31] Proprio per la preoccupazione suscitata da un tale orientamento il New York Times ha riportato l’allarme divampato nelle associazioni che rappresentano le persone affette da disabilità che in una simile prospettiva si vedrebbero negato il diritto all’assistenza sanitaria: https://www.nytimes.com/2020/03/23/us/coronavirus-washington-triage-disabled-handicapped.html; in questo senso anche una dichiarazione dell’ONU: https://www.onuitalia.it/covid-19-aggiornamenti-sul-lavoro-delle-nazioni-unite-onu-il-nuovo-coronavirus-mette-a-rischio-i-gruppi-piu-vulnerabili/
[32] CNB, Covid-19: la decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, 8 aprile 2020, pag. 2.
[33] «Fra i gruppi con particolari vulnerabilità citati, una considerazione speciale va riservata agli anziani e alle anziane, in primo luogo perché hanno pagato e stanno ancora pagando il prezzo più alto in vite umane. Ciò è vero soprattutto per quelli confinati nelle RSA, i più fragili: il fatto di essere ricoverati in istituzioni sociosanitarie, senza occasioni di uscita, da fattore di potenziale protezione si è trasformato in ulteriore pericolo. Hanno cioè pagato prima e più di altri il prezzo dell’impreparazione generale del sistema sanitario nell’individuare le filiere del contagio, nell’ informare correttamente gli addetti all’assistenza sulle misure di prevenzione, infine nel fornire a questi ultimi gli strumenti di protezione individuale per impedire il contagio. L’incapacità di fronteggiare il coronavirus nelle RSA si è innestata sulle precedenti inefficienze e storture dell’assistenza agli anziani, ancora diffuse, nonostante in Italia non manchino le buone esperienze. In particolare, è emersa una cultura dell’abbandono, coniugata a un’attitudine autoritaria nel gestire la vita delle persone fragili. Si auspica che questa dolorosa vicenda sia occasione per ripensare e ridisegnare il sistema di presa in carico degli anziani più fragili, con una scelta verso la domiciliarità, come luogo della cura e della protezione; nell’immediato, si assicuri l’adozione di misure di prevenzione adeguate su tutto il territorio nazionale, prevedendo linee guida di prevenzione specifiche per le residenze sociosanitarie per anziani»: CNB, Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale, 28 maggio 2020, pag. 16.
[34] «La ricerca del superamento del conflitto anacronistico tra etica medica e principi economici, a parere del sottoscritto, deve imboccare due vie. La prima è costituita dal contesto istituzionale giuridico e organizzativo in cui il medico opera. Tale contesto dovrebbe essere tale da indurre o incoraggiare il medico a tener conto delle implicazioni economiche del proprio comportamento[…]. La seconda strada da battere chiama direttamente in causa gli economisti sanitari impegnati in attività formative a livello universitario e post-universitario. In fondo, il passo da far compiere al medico è apparentemente molto semplice. Si tratta di cambiare il quesito, che ogni medico di coscienza si pone, e che può essere espresso come segue: quale decisione produce le migliori conseguenze per il benessere del mio paziente, nel seguente quale decisione comporterebbe le migliori conseguenze per la collettività se la mia decisione fosse assunta da tutti i colleghi che agiscono in circostanze assimilabili?»: Antonio Brenna, Considerazioni su medicina, economia ed etica, in AA.VV., Economia sanitaria. Linee e tendenze di ricerca in Italia, a cura di George France – Ermanno Attanasio, Giuffrè, Milano, 1993, pag. 456-457.
[35] Si pensi in tal senso alla consapevolezza della coappartenenza reciproca della vita e della morte già nota dalla sapienza classica, oggi purtroppo eccessivamente obliata, e magistralmente condensata dalle eterne parole di Eraclito:«Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita»: AA.VV., I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, 1981, pag. 210, n. 62.
[36] Ex plurimis cfr.: Aldo Rocco Vitale, L’eutanasia come problema biogiuridico, FrancoAngeli, Milano, 2017.
[37] Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Red, Milano, 2005, pag. 205.
[38] «Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può anche essere sostituito da qualcos’altro, equivalente; invece, ciò che non ha alcun prezzo, né quindi consente alcun equivalente, ha una dignità»: Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bur, Milano, 1995, pag. 183.
[39] «La questione da decidere non è se una società che segua l’analisi economica del diritto produrrà mutamenti che sono esclusivamente miglioramenti della ricchezza. La questione da decidere è se un tale mutamento sarebbe un miglioramento di valore»: Ronald Dworkin, Questioni di principio, Il Saggiatore, Milano, 1990, pag. 277.
[40] Michael Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano, 2013, pag. 202.
[41] «L’hadicappato è stato immediatamente considerato non utile»: Miguel Benasayag, La salute ad ogni costo. Medicina e biopotere, V&P, Milano, 2010, pag. 20.
[42] «La novità del turbo capitalismo consiste in una mera questione di intensità[…]. E’ una macchina che gira inesorabile, facendo a pezzi le consuetudini stabilite e le relazioni umane che le caratterizzano»: Edward Luttwak, La dittatura del capitalismo, Mondadori, Milano, 1999, pag. 54.
[43] «Una tipica esagerazione economica consiste nel sopravvalutare la velocità, e i servigi da essa resi alla ricchezza in confronto con il valore della vita umana»: Roberto Michels, Homo oeconomicus, Settimo Sigillo, Roma, 2001, pag. 24.
[44] «Fino a epoca recente l’economia politica si definiva tramite il suo oggetto (la produzione e lo scambio di beni materiali). Un primo tentativo di ampliamento è stato quello di includere, all’interno di questo oggetto, tutti i fenomeni relativi all’allocazione delle risorse scarse; così, però, la sfera si allarga enormemente, e l’economia si eleva a Scienza totale, rischiando di perdere la propria credibilità»: Alain Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto, Mondadori, Milano, 2005, pag. 88.
[45] «La dottrina dei diritti dell’uomo è nata dalla filosofia giusnaturalistica, la quale per giustificare l’esistenza di diritti appartenenti all’uomo in quanto tale, indipendentemente dallo Stato, era partita dall’ipotesi di uno stato di natura, dove i diritti dell’uomo sono pochi ed essenziali: il diritto alla vita e alla sopravvivenza, che include anche il diritto alla proprietà, e il diritto alla libertà, che comprende alcune libertà essenzialmente negative»: Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, pag. 74; contra Antonio Cassese che facendo proprie le riflessioni del biologo francese Jean Hamburger, sostanzialmente fondate su una antropologia negativa di matrice neo-hobbesiana che tuttavia ripercorre “biologicamente” l’antico oscuro sentiero dell’homo homini lupus ritiene invece che «il concetto di diritti dell’uomo non è ispirato dalla legge naturale della vita, è al contrario ribellione contro la legge naturale»: Antonio Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Bari, 2009, pag. 230-231.
[46] Giuseppe Clerico, L’allocazione delle risorse scarse, in AA..VV., Ambito e fonti del biodiritto, in Trattato di biodiritto, diretto da Stefano Rodotà – Paolo Zatti, Giuffrè, Milano, 2010, pag. 565-566.
[47] Per un completo approfondimento sul punto cfr. Lorenzo Chieffi, Il diritto all’autodeterminazione terapeutica. Origine ed evoluzione di un valore costituzionale, Giappichelli, Torino, 2019.
[48] «Teoria che assegna un ruolo determinante nella storia umana ai fattori economici»: Stefano Cremaschi, voce “Economicismo”, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano, 2006, Vol. 4, pag. 3208.
[49] «L’utilitarismo si presta all’instaurazione di una forma di paternalismo da parte di burocrazia ed esperti, i quali tengono in poco conto l’ideale liberale di autonomia individuale e gli altri valori liberali ad esso connessi, come l’offerta della possibilità di scelta»: Max Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società liberale, Donzelli Editore, Roma, 1996, pag. 88; contra, nel senso di una difesa del pensiero utilitarista, cfr. Maurizio Mori, Utilitarismo e morale razionale. Per una teoria etica obiettivista, Giuffrè, Milano, 1986.
[50] «Con l’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, il bene della vita dovrebbe essere riguardato unicamente in una prospettiva personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona, secondo il disposto dell’art. 3, secondo comma, Cost. Di qui la maggiore attenzione verso la libertà di autodeterminazione individuale, anche nelle fasi finali della vita, specie quando si tratti di persone che versano in condizioni di eccezionale sofferenza»: ¶ 3.1.
[51] Cfr. Eugenio Lecaldano, voce “Risorse sanitarie”, in Eugenio Lecaldano, Dizionario di bioetica, Laterza, Bari, 2002, pag. 267-269.
[52] «Ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell'attuazione di tutte le politiche ed attività dell'Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana»: art. 35 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo»: art. 32 Cost. Cfr. A. Oddenino, Profili internazionali ed europei del diritto alla salute, in AA.VV., Salute e sanità, in Trattato di biodiritto, diretto da Stefano Rodotà – Paolo Zatti, Giuffrè, Milano, 2010, pag. 65-145.
[53] «Un fondamentale diritto umano morale e laico all’assistenza sanitaria non esiste, e non esiste nemmeno un diritto ad un minimo decente di assistenza sanitaria»: H. Tristram Engelhardt, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano, 1999, pag. 391.
[54] Ex plurimis cfr.: Ida Teresi, La tutela della salute nelle decisioni della Corte Costituzionale, in Rassegna di diritto civile, 1/1998, pag. 114-150; Roberto Ferrara, Il diritto alla salute: i principi costituzionali, Salute e sanità, in Trattato di biodiritto, diretto da Stefano Rodotà – Paolo Zatti, Giuffrè, Milano, 2010, pag. 3-63.
[55] Corte Costituzionale sentenze n.: 88/1979; 184/1986; 559/1987; 992/1988; 1011/1988; 307/1990; 282/2002; 338/2003.
[56] C. Cost. n. 455/1990.
[57] Cesare Mirabelli, Allocazione delle risorse sanitarie, in AA.VV., Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2009, Vol. I, pag. 362.
[58] «Il paternalismo si esprime fondamentalmente in due direzioni: la forma assoluta e quella relativa, o, con altra terminologia, c’è un paternalismo forte e uno debole. Il primo è quello che va avanti e procede con interventi clinici a prescindere dalle volontà previamente espresse dal paziente. Quello debole, invece, è quell’azione presa nel migliore interesse del paziente che non può per qualche ragione in quel momento esprimere un pieno consenso, o che non è in grado di offrire nelle sue condizioni cliniche una scelta libera»: Giovanni Russo, voce “Paternalismo medico”, in Enciclopedia di bioetica e sessuologia, ElleDiCi, Torino, 2004, pag. 1342.
[59] «È vero che la nuova eugenetica, anche se mirata al benessere del singolo può avere conseguenze negative su altri, per esempio sui disabili»: Carlo Alberto Defanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo, Codice Edizioni, Torino, 2012, pag. 246.
[60] John Wyatt, Questioni di vita e di morte, Edizioni GBU, Roma, 2017, pag. 52.
[61] «Il diritto non può infatti violare il principio della inviolabilità dell’innocente senza negare la propria essenza di regola giusta per trasformarsi in violenza. Là dove per legge (in questo caso, davvero, atto di pura “volontà politica”, come si usa dire oggi) diventa lecito uccidere un innocente, s’instaura infatti l’arbitrio, ossia la licenza di compiere o di non compiere a proprio piacimento un atto dannoso per altri»: Sergio Cotta, Perché il diritto, Editrice La Scuola, Brescia, 1979, pag. 100.
[62] «Il paziente dev’essere assolutamente sicuro che il suo medico non diventi il suo boia e che nessuna definizione lo autorizzi mai a diventarlo»: Hans Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani: sulla ridefinizione pragmatica della morte, in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino, 1997, pag. 170.
[63] Cfr. Aldo Rocco Vitale, Il diritto alla salute tra selezione eugenetica e dignità della persona, in “Medicina e Morale”, 2017/3.
[64] «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche».
[65] «Ogni forma di discriminazione nei confronti di una persona in ragione del suo patrimonio genetico è vietata».
[66] «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
[67] Georges Canguilhem, Sulla medicina. Scritti 1955-1989, Einaudi, Torino, 2007, pag. 52.
[68] Gunther Rohrmoser, Marxismo e umanità, Queriniana, Brescia, 1976.
[69] Roger Scruton, Il suicidio dell’occidente, Le Lettere, Firenze, 2010.
[70] Albert Camus, op. cit., pag. 13.
[71] Abraham Heschel, Chi è l’uomo?, SE, Milano, 2005, pag. 41.
[72] Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1969, pag. 137.
Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione)[i].
di Fabio Francario
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda - 3.1. Due vicende emblematiche rimaste senza tutela: il diritto fondamentale all’accesso alla tutela giurisdizionale riconosciuto dalla CEDU; l’interesse (non immediatamente finale ma) strumentale - 4. Il rifiuto di giurisdizione come questione classica di giurisdizione - 5. Il problema dell’interpretazione evolutiva dell’interesse legittimo (ritorno al futuro) - 6. Un appuntamento rimandato.
1. Premessa
Mai definitivamente sopite, le dispute, dottrinali e giurisprudenziali, intorno alle questioni di giurisdizione ciclicamente si riaccendono facendo una gran confusione. Sembra quasi che più se ne discute, più la confusione cresca. Dal momento che stiamo vivendo uno di questi momenti, nell’affrontare il tema ritengo opportuna una premessa che chiarisca preliminarmente se e quali punti fermi vi siano nel nostro sistema costituzionale. Dunque, prima di tutto la Costituzione.
La riscrittura dell’art 111 Cost. operata con la revisione costituzionale del 1999, nel momento in cui ha inserito nell’articolato il nuovo primo comma (“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”), ha sicuramente offerto spunti per riconsiderare la problematica delle questioni di giurisdizione, ma non si può ancora guardare alla nuova norma come ad un punto fermo, essendo essa stessa praticamente al centro della discussione [ii]. Per stare ai punti fermi sicuramente offerti dalla Costituzione, tralasciando anche l’art 24 Cost., si può partire dal disposto dell’ultimo comma dell’articolo 111 e dal primo comma dell’art. 103, mantenuti fermi anche a seguito della revisione costituzionale operata nel 1999.
L’ultimo comma dell’art 111 Cost. chiarisce che l’attribuzione alla Corte di Cassazione della competenza a decidere i ricorsi proposti per motivi inerenti alla giurisdizione “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti” non è un’invenzione creativa della corte medesima, ma il portato di una ben precisa disposizione costituzionale recata da tale articolo. Come tutte le norme, anche quella recata dall’ultimo comma dell’art 111 Cost. va ovviamente interpretata; ma è anche vero che l’interpretazione, oltre alle sue diverse possibili forme e tipologie, ha comunque il suo ovvio limite nel fatto che non può giungere al punto di vanificare la previsione normativa, svuotandola di contenuto. Quale che sia, la previsione deve pertanto avere un senso e deve averlo il fatto che la norma costituzionale attribuisce la decisione alla Corte di Cassazione. Dopo di che si apre lo spazio per la definizione dei criteri da impiegare per capire come e quando si prefiguri una questione di giurisdizione.
Sotto questo profilo, il secondo punto fermo è offerto dal disposto dell’art 103, primo comma: “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”. Anche in tal caso, va ripetuta l’ovvia considerazione appena svolta sui limiti dell’interpretazione, che non trova spazio “in claris”. Prima che si apra lo spazio per l’interpretazione, non si può negare che la Costituzione vede il giudice ordinario come il giudice naturale dei diritti soggettivi e quello amministrativo come il giudice naturale degli interessi legittimi[iii]. Il che riflette una ratio sufficientemente chiara e perfettamente comprensibile: se a fronte dell’attività amministrativa si volessero tutelati solo i diritti soggettivi in quanto tali, il giudice ordinario sarebbe più che sufficiente in quanto la tutela risarcitoria è quella che generalmente assiste le situazioni di diritto soggettivo nel sistema della tutela civile dei diritti[iv] e che può essere da questi pacificamente erogata anche nei confronti della pubblica amministrazione; il giudice amministrativo nasce per rispondere ad un bisogno di tutela, diverso da quello già soddisfatto attraverso la figura del diritto soggettivo, impiegando una tecnica di tutela adeguata ad assicurare la soddisfazione dell’interesse (legittimo) attraverso l’annullamento della decisione amministrativa illegittima[v].
Nell’indicare i punti fermi di qualsiasi operazione ricostruttiva mi limito a questi soli due articoli, anche se l’elencazione andrebbe immediatamente integrata almeno con il disposto dell’art 113 Cost. se si passa a considerare anche il profilo del livello minimo di tutela che deve essere garantito al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione.
Insisto sul fatto che questa distinzione tra diritto e interesse è un punto fermo dal quale deve muovere l’interpretazione, perché non mi risulta che le disposizioni costituzionali sul punto siano mai state riscritte o venute meno anche quando si è cercato di rimuovere il criterio fondamentale di riparto , come suol dirsi, a Costituzione invariata[vi]. Se poi l’interpretazione ignora o oblitera questo dato di partenza, l’operazione non mi pare ermeneuticamente corretta. Mi risulta anzi che, le volte in cui la Corte costituzionale è intervenuta in materia, la distinzione è stata sempre costantemente ribadita come criterio fondante la giurisdizione. Il riferimento corre immediatamente, per fare solo un esempio, alla ormai storica sentenza 204 del 2004, la quale ha precisato che il potere discrezionale del legislatore di ridistribuire le funzioni giurisdizionali tra i due ordini di giudici deve muoversi nei confini dettati dalla Costituzione e deve pertanto necessariamente “considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte e non fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo delle materie”; con le ulteriori precisazioni che il “necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall’art 103” e che “in nessun caso il legislatore ordinario può far sì che la pubblica amministrazione sia, in quanto tale, assoggettata ad una particolare giurisdizione, ovvero sottratta alla giurisdizione alla quale soggiace “qualsiasi litigante privato”: la specialità di un giudice può fondarsi esclusivamente sul fatto che questo sia chiamato ad assicurare la giustizia nell’amministrazione, e non mai sul mero fatto che parte in causa sia la pubblica amministrazione”.
Punto di partenza obbligato è dunque che, nel sistema di giustizia amministrativa dualistico voluto e riconosciuto dalla Costituzione, le questioni di giurisdizione si pongono in maniera direi quasi fisiologica e che spetta alla Corte di Cassazione decidere se e come una determinata tipologia d’interesse sia ritenuta meritevole di protezione da parte dell’Ordinamento e, conseguentemente, quale sia la giurisdizione competente a conoscere dell’eventuale controversia.
Fatta questa doverosa premessa, si può venire all’attualità del tema.
2. La vicenda
Viene proposto alle Sezioni Unite ricorso avverso una sentenza del Consiglio di Stato che ha riformato una sentenza TAR nella parte in cui quest’ultimo aveva rigettato nel merito i motivi di ricorso, proposti dal ricorrente avverso l’aggiudicazione di una gara d’appalto, dopo che nella stessa sentenza il medesimo TAR aveva già rigettato anche i motivi proposti avverso l’esclusione. Secondo il Consiglio di Stato la ricorrente, una volta accertata l’illegittimità della sua esclusione, doveva ritenersi “portatrice di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore economico che non ha partecipato alla gara”; ovverossia: non poteva vantare la titolarità di un interesse legittimo. Qui non ci si può trincerare dietro giri di parole, cercando di sostenere che è questione soltanto di assenza di presupposti processuali, di mancanza cioè di un interesse a ricorrere cha abbia i caratteri dell’attualità e dell’immediatezza. Affermare che il ricorrente è portatore di un interesse di mero fatto significa escludere che possa vantare la titolarità di un interesse che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela e che possa quindi agire per chiederne la protezione in sede giurisdizionale[vii].
Messa così, la questione sembra una piana questione di giurisdizione, senza che vi sia necessità d’invocare interpretazioni evolutive di sorta. Il fatto è che poi bisogna deciderla. E la Cassazione si trova di fronte al fatto che la situazione è ritenuta tutelabile dal diritto eurounitario, come interpretato dalla Corte di giustizia, che è comunque fonte di diritto obbiettivo per l’ordinamento nazionale; e al fatto che per il giudice amministrativo nazionale, il Consiglio di Stato, non lo è. E sembra quasi abdicare al suo ruolo di giudice della giurisdizione
Investite del ricorso per diniego di giurisdizione, le Sezioni Unite ritengono infatti necessario chiedere pregiudizialmente alla Corte di giustizia UE di pronunciarsi sulle tre seguenti questioni: se il rimedio del ricorso per cassazione per «difetto di potere giurisdizionale» possa essere utilizzato “per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell'Unione europea (nella specie, in tema di aggiudicazione degli appalti pubblici nei quali gli Stati membri hanno rinunciato ad esercitare loro poteri sovrani in senso incompatibile con tale diritto, con l'effetto di determinare il consolidamento di violazioni del diritto comunitario che potrebbero essere corrette tramite il predetto rimedio e di pregiudicare l'uniforme applicazione del diritto dell'Unione e l'effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria, in contrasto con l'esigenza che tale diritto riceva piena e sollecita attuazione da parte di ogni giudice, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione da parte della Corte di giustizia, tenuto conto dei limiti alla «autonomia procedurale» degli Stati membri nella conformazione degli istituti processuali”; se il ricorso per cassazione sia altresì “proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l'applicazione del diritto dell'Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit, C-238/81) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell'Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l'effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento del) l’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell'Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell'Unione”); infine, “se i principi dichiarati dalla Corte di giustizia con le sentenze 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18; 5 aprile 2016, Puligienica, C-689/13; 4 luglio 2013, Fastweb, C-100/12, in relazione agli articoli 1, par. 1 e 3, e 2, par. 1, della direttiva 89/665/CEE, modificata dalla direttiva 2007/66/CE, siano applicabili nella fattispecie che è oggetto del procedimento principale, in cui, contestate dall'impresa concorrente l'esclusione da una procedura di gara di appalto e I 'aggiudicazione ad altra impresa, il Consiglio di Stato esamini nel merito il solo motivo di ricorso con cui l'impresa esclusa contesti il punteggio inferiore alla «soglia di sbarramento» attribuito alla propria offerta tecnica e, esaminando prioritariamente i ricorsi incidentali dell'amministrazione aggiudicatrice e dell'impresa aggiudicataria, li accolga dichiarando inammissibili (e ometta di esaminare nel merito) gli altri motivi del ricorso principale che contestino l'esito della gara per altre ragioni (per indeterminatezza dei criteri di valutazione delle offerte nel disciplinare di gara, mancata motivazione dei voti assegnati, illegittima nomina e composizione della commissione di gara), in applicazione di una prassi giurisprudenziale nazionale secondo la quale l'impresa che sia stata esclusa da una gara di appalto non sarebbe legittimata a proporre censure miranti a contestare l'aggiudicazione all'impresa concorrente, anche mediante la caducazione della procedura di gara, dovendosi valutare se sia compatibile con il diritto dell'Unione l'effetto di precludere all'impresa il diritto di sottoporre all'esame del giudice ogni ragione di contestazione dell'esito della gara, in una situazione in cui la sua esclusione non sia stata definitivamente accertata e in cui ciascun concorrente può far valere un analogo interesse legittimo all'esclusione dell'offerta degli altri, che può portare alla constatazione dell'impossibilità per l'amministrazione aggiudicatrice di procedere alla scelta di un'offerta regolare e all'avvio di una nuova procedura di aggiudicazione, alla quale ciascuno degli offerenti potrebbe partecipare”.
Le questioni sono formulate in maniera articolata e complessa, ma si può ritenere che, in ultima analisi, si chiede alla Corte di giustizia di chiarire pregiudizialmente se l’ordinamento nazionale debba necessariamente prevedere rimedi interni per evitare che le pronunce giurisdizionali lascino prive di tutela situazioni soggettive di rilevanza comunitaria; se sotto questo profilo sia sindacabile anche l’omissione del necessario rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia[viii] e, infine, se per il diritto comunitario sia tutelabile l’interesse del concorrente, la cui esclusione non sia stata definitivamente accertata, a sottoporre all’esame del giudice ogni ragione di contestazione dell’esito della gara che possa portare alla constatazione dell'impossibilità per l'amministrazione aggiudicatrice di procedere regolarmente alla scelta di un'offerta e all'avvio di una nuova procedura di aggiudicazione.
3.1. Due vicende emblematiche rimaste senza tutela: il diritto fondamentale all’accesso alla tutela giurisdizionale riconosciuto dalla CEDU; l’interesse (non immediatamente finale ma) strumentale
Convincimento diffuso nei primi commenti dottrinari apparsi sull’ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 18 settembre 2020 è che l’ordinanza rifletta una ostinazione della Corte di Cassazione di difficile comprensione e spiegazione alla luce del fatto che la Corte costituzionale con la sentenza n 6 del 2018 dovrebbe aver detto l’ultima parola sui limiti del sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stati per motivi di giurisdizione. Non manca chi afferma infatti che le Sezioni Unite tornano nuovamente sulla questione “poco curanti di quello che deve considerarsi ormai un assetto costituzionale”[ix], ovvero che le Sezioni Unite disattendono la Consulta”[x] o pongono in discussione la Costituzione “così come interpretata dalla Corte costituzionale” davanti al giudice europeo[xi], ovvero ancora che “L’attività creativa è semmai delle Sezioni unite, non del giudice amministrativo”[xii] oppure che si sarebbe di fronte all’ennesima manifestazione “di un’attitudine espansionistica della Cassazione nei confronti del giudice amministrativo”[xiii].
Questa sensazione di meraviglia o stupore, se non quasi di fastidio, affonda le radici nel convincimento che la Cassazione si pone in tal modo in netto contrasto con quanto avrebbe definitivamente chiarito la Corte costituzionale con la sentenza 6/2018; contrasto che sembrerebbe del resto esplicitamente dichiarato dalla stessa ordinanza delle Sezioni Unite che reputa necessario investire della questione la Corte di giustizia facendo riferimento “ad una prassi interpretativa … quale si evince dalla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 e dalla giurisprudenza nazionale successiva che, modificando il precedente orientamento, ha ritenuto che il rimedio del ricorso per cassazione, sotto il profilo del così detto difetto di potere giurisdizionale, non possa essere utilizzato per impugnare intenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea”.
Facendo le opportune distinzioni, il contrasto può anche apparire meno radicale di quel che sembra, ma le due vicende sollevate dalle Sezioni Unite, la prima decisa da Corte cost 6/2018 e la seconda adesso rimessa alla Corte di Giustizia, sono emblematiche dell’attuale stato del nostro sistema di giustizia amministrativa, che sembra immerso in una situazione di perenne fluidità, a scapito delle garanzie di certezza che regole processuali ormai codificate dovrebbero assicurare. Non mi pare, però, che si possa dire che se colpe, se così si può dire, vi sono, queste siano tutte della Cassazione. Anzi, credo si possa dire che tutte e tre le nostre Corti Supreme, Corte costituzionale, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato, abbiano fatto un bel pasticcio, se è vero, come è, che, alla fine della storia (ammesso che questa storia possa mai aver fine), un diritto ritenuto fondamentale dalla Corte EDU è rimasto privo di giudice nel nostro ordinamento; così come sembrerebbe allo stato rimanere privo di giudice e di tutela un interesse che l’ordinamento eurounitario vuole invece senza ombra di dubbio protetto.
Nel bene e nel male, le due vicende (quella attualmente riemessa alla Corte di giustizia e quella decisa da Corte cost. 6/2018) sono comunque collegate ed è bene pertanto ricordare preliminarmente cosa sia successo anche nel primo caso.
3.2. La vicenda decisa da Corte cost 6/2018 è originata da una (sconsiderata) norma di legge che nel lontano 1998 dispone sulla giurisdizione nelle controversie di lavoro con le pubbliche amministrazioni, sopprimendo la possibilità di tutela giurisdizionale per alcuni diritti. In un primo tempo tutte e tre le nostre Supreme Corti, costituzionale civile e amministrativa, respingono le istanze di tutela di chi si era visto privato della possibilità di agire in giudizio (Cass. S.U. 30 01 2003 n. 1511 e 03 05 2005 n. 9101; Corte cost. 07 10 2005 n. 382 e ultima Ad. Plen. 21 02 2007 n. 4 che dichiara il difetto – a questo punto assoluto, essendo già esclusa la giurisdizione ordinaria - di giurisdizione). La questione viene però portata all’attenzione della CEDU, che, con le sentenze Mottola e Staibano del 2014 dichiara che ciò è lesivo del diritto fondamentale al giusto processo (accesso al giudice). Ciò pone il problema delle sorti delle pronunce contrastanti già rese dal giudice nazionale e l’Adunanza Plenaria, investita del ricorso per revocazione proposto dai ricorrenti vittoriosi in Corte EDU, porta la questione alla Corte costituzionale per sentire dichiarare la incostituzionalità della mancata inclusione di tale ipotesi (di contrasto con pronuncia della Corte EDU) tra i casi di revocazione; incostituzionalità che la Corte costituzionale evita però di pronunciare ritenendo che sia il legislatore a dover intervenire per trovare la giusta composizione del conflitto.
In altri casi in cui la sentenza del Consiglio di Stato non era ancora passata in giudicato per la pendenza del termine lungo, la declinatoria di giurisdizione viene impugnata in Cassazione per rifiuto di giurisdizione, anziché con ricorso per revocazione; ed è così che le Sezioni Unite (ord.za 8 4 2016 n. 6891) rimettono a loro volta la questione alla Corte costituzionale, che si pronuncia appunto con la sentenza 6 del 2018. Se la Corte avesse dichiarato l’illegittimità della sconsiderata norma recata dall’art 69 co. 7 del d. lgs. 165/2001, per contrasto con la norma interposta della Convenzione come già interpretata dalla CEDU, avremmo avuto sicuramente meno problemi. Si consuma invece un grosso pasticcio. Nonostante la norma oggetto del giudizio di costituzionalità fosse pacificamente ed esplicitamente una norma regolatrice della giurisdizione, le Sezioni Unite non si limitano a rappresentare il contrasto dell’art 69 co. 7 del d. lgs. 165/2001 con la norma interposta derivante dell’interpretazione della CEDU, ma ritengono di dover precisare che “la situazione in questione rientra in uno di quei casi estremi in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno”; e, dal canto suo, la Corte costituzionale, fuorviata da una tale argomentazione giuridica, ritiene non rilevante la questione imperniando anch’essa il proprio percorso motivazionale nella confutazione della tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione possa comprendere anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando qualificandosi come una interpretazione evolutiva poiché ciò “non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale” (aggiungendo, dopo che aveva in precedenza evitato di emettere una pronuncia additiva quando questione praticamente identica era stata sollevata dall’Ad Plen., che il rimedio opportuno per rimuovere il contrasto con la sentenza CEDU sarebbe semmai quello della introduzione di un nuovo caso di revocazione!).
Comunque sia, sta di fatto che una dichiarazione fatta in via generale e astratta di difetto (assoluto) di giurisdizione nei confronti di un diritto ritenuto fondamentale dalla Corte EDU è rimasta così insindacabile[xiv]. Davvero un bel pasticcio, nel quale ognuna delle nostre Supreme Corti ci ha messo del suo, con buona pace dell’auspicato rimedio all’incertezza del diritto che dovrebbe scaturire dal “dialogo” tra le Corti.
3.3. Il caso attuale è frutto invece del difficile dialogo che il nostro Consiglio di Stato ha con la Corte di giustizia sulla tutelabilità di interessi non “finali”, ma strumentali o procedimentali nelle gare pubbliche d’appalto. Volendo semplificare: sul modo d’intendere l’interesse legittimo.
La giurisprudenza della Corte di giustizia Europea maturata sul tema del ricorso incidentale escludente ha ripetutamente precisato che l’interesse, o se si vuole il bene protetto, non è necessariamente solo quello patrimonialmente apprezzabile all’aggiudicazione della gara espletata, ma anche quello alla correttezza della procedura alla quale si sia partecipato. Sono note le decisioni Fastweb del 2013 (4 luglio 2013, C-100/12, Puligienica del 2016 (5 aprile 2016, C-689/13) e Lombardi del 2019 (5 settembre 2019, C-333/18). Ci si limita a ricordare che l’ultima pronuncia viene resa su rimessione della questione da parte dell’Adunanza Plenaria (ord.za n. 6 dell’11 05 2018) che, trincerandosi dietro la confusione tra interesse ad agire e interesso protetto, riteneva fosse “maggiormente armonico con il sistema processuale nazionale e con il principio di autonomia processuale incentrato sull’ iniziativa delle parti (ed “in parte qua” comune a quello di numerosi Stati-Membri), che venisse precisato che l’interesse del ricorrente principale attinto da un ricorso incidentale escludente, in quanto limitato alla reiterazione della procedura di gara (con esclusione di profili concernenti la “regolarità delle procedure di gara”), dovrebbe essere valutato nella sua concretezza, e non con riferimento a ragioni astratte, dal Giudice adìto” e che “in quest’ottica, sarebbe opportuno che venisse rimesso agli ordinamenti processuali degli Stati Membri, in ossequio all’autonomia processuale loro riconosciuta, il compito di individuare le modalità di dimostrazione della concretezza del detto interesse, garantendo il diritto di difesa delle offerenti rimaste in gara e non evocate nel processo ed in armonia con i principi in materia di interesse concreto e attuale della parte al ricorso e in punto di onere della prova”. Per tutta risposta, nella sentenza Lombardi, la Corte di giustizia afferma chiaramente che “l’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che esso osta a che un ricorso principale, proposto da un offerente che abbia interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono quest’ultimo, ed inteso ad ottenere l’esclusione di un altro offerente, venga dichiarato irricevibile in applicazione delle norme o delle prassi giurisprudenziali procedurali nazionali disciplinanti il trattamento dei ricorsi intesi alla reciproca esclusione, quali che siano il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto e il numero di quelli che hanno presentato ricorso”; precisando che “il principio di autonomia processuale degli Stati membri … non possa, comunque, giustificare disposizioni di diritto interno che rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione” (compreso il diritto alla buona amministrazione). Per essere ancor più chiari, la Corte di giustizia, dopo aver richiamato (par. 22) il disposto dell’art 1 par. 1 terzo comma della direttiva 89/665 (cd direttiva ricorsi) sa norma del quale “i ricorsi contro le decisioni adottate da un’amministrazione aggiudicatrice devono, per essere considerati efficaci, essere accessibili almeno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto”, precisa al successivo par. 24 “che il ricorso incidentale dell’aggiudicatario non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente escluso qualora la regolarità dell’offerta di ciascuno degli operatori venga contestata nell’ambito del medesimo procedimento, dato che, in una situazione del genere, ciascuno dei concorrenti può far valere un legittimo interesse equivalente all’esclusione dell’offerta degli altri, che può portare alla constatazione dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere alla scelta di un’offerta regolare”.
Costante dunque il tentativo del giudice amministrativo nazionale di negare la tutelabilità dell’interesse strumentale e non finale e di restringere il diritto d’azione avverso l’attività illegittima solo a chi possa trarne immediato e concreto vantaggio; altrettanto costante la posizione della Corte europea nel ritenere meritevole di tutela l’interesse anche solo strumentale, ravvisabile laddove la probabilità di conseguire il bene della vita cui si aspira è garantita dalla correttezza del procedimento amministrativo.
In caso di specie s’inscrive a pieno titolo in questo filone, in quanto il Consiglio di Stato nega la possibilità di ravvisare un interesse legittimo se l’interesse è soltanto strumentale alla ripetizione della gara e ritiene che in tal caso si sia in presenza di un interesse di mero fatto.
4. Il rifiuto di giurisdizione come questione classica di giurisdizione
La presunta “ostinazione” delle Sezioni Unite muove dunque da queste due situazioni emblematiche, nelle quali si riscontra il rifiuto aprioristico, fatto in via generale e astratta, di tutelare situazioni giuridiche soggettive che l’ordinamento reputa invece meritevoli di tutela. Entrambi i casi potevano essere decisi come classiche questioni di giurisdizione, perché in entrambi i casi si discuteva di un asserito difetto assoluto di giurisdizione; da decidere previa risoluzione dell’incidente di costituzionalità della norma di legge che, in contrasto con sentenza CEDU, nega la tutelabilità della situazione soggettiva, in un caso; dichiarando se l’interesse è meritevole di tutela come interesse legittimo, nel secondo caso. Le questioni, tuttavia, non sono state prospettate dalle Sezioni Unite in questi termini, ma assumendo che si fosse in presenza di un novum genus frutto di una interpretazione evolutiva che implicava l’allargamento del novero delle questioni di giurisdizione classiche. Rimandando ad altra occasione la considerazione delle ragioni che spingono la Corte di Cassazione in questa direzione, diventa importante a questo punto fare una distinzione.
Una cosa è, infatti, che nei tempi più recenti le Sezioni Unite abbiano prospettato una nuova figura di “rifiuto di giurisdizione” nell’ambito di una interpretazione evolutiva finalizzata ad attrarre nell’orbita dei motivi di giurisdizione casi estremi in cui l’errore di diritto rende la decisione giurisdizionale abnorme e si traduce in un diniego sostanziale di giustizia. Altra che la figura del rifiuto è sempre esistita come classica questione di giurisdizione.
Nei tempi meno recenti la figura del rifiuto di giurisdizione non ha avuto particolare evidenza perché tradizionalmente il problema e il dibattito si sono focalizzati principalmente sulla distinzione tra diritto e interesse e sulla formulazione di criteri di volta in volta mutevoli su cui fondare la distinzione[xv], ma ciò non deve far dimenticare che si è sempre pacificamente ritenuto che, a fianco al problema del conflitto relativo, virtuale o reale, tra giudice ordinario e amministrativo derivante dalla qualificazione della situazione soggettiva in termini di diritto o interesse, la questione di giurisdizione si potesse anche porre sotto il profilo del rifiuto di giurisdizione o dell’eccesso di potere giurisdizionale. Se solo si prende come termine di riferimento la classificazione operata (verrebbe da dire, in tempi non sospetti) da Mario Nigro, si vede come la tipizzazione dei possibili motivi di giurisdizione non solo comprende espressamente la figura del rifiuto di giurisdizione, ma apre proprio con essa l’elencazione delle tre possibili ipotesi classiche : “a) rifiuto di esercizio della potestà giurisdizionale sull’erroneo presupposto che la materia non possa essere oggetto, in modo assoluto, di funzione giurisdizionale o che non possa essere oggetto della funzione giurisdizionale propria dell’organo investito della domanda; b) invasione della sfera dell’altrui giurisdizione, cioè di quella attribuita ad altro giudice (giudice ordinario o giudice speciale); c) cd eccesso di potere giurisdizionale … … sconfinamento dell’attività giurisdizionale ordinaria o speciale nel campo dei poteri spettanti ad organi amministrativi o legislativi o costituzionali…”[xvi].
Per tradizione consolidata, motivo di giurisdizione è dunque non solo l’ipotesi del conflitto relativo di giurisdizione, reale o virtuale, tra giudice ordinario ed amministrativo; ma anche quella dell’eccesso di potere giurisdizionale, che si configura laddove il giudice amministrativo si sostituisce al legislatore o all’amministrazione tutelando situazioni soggettive che l’ordinamento non considera invece rilevanti come interessi protetti; nonché quella del rifiuto di giurisdizione, che si configura appunto laddove il giudice amministrativo nega in via generale e astratta la possibilità di tutelare un interesse che l’ordinamento vuole invece protetto[xvii].
Rimane dunque pacifico che il rifiuto di giurisdizione (e l’eccesso di potere giurisdizionale) possano essere annoverati tra i motivi di giurisdizione e che le Sezioni Unite possano sindacare sotto questi profili le sentenze del Consiglio di Stato dichiarando, in astratto e senza pregiudicare le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda, che una determinata tipologia d’interesse sia meritevole di protezione giurisdizionale ovvero che non lo sia.
A scanso di equivoci vale la pena ricordare che ciò è esplicitamente ribadito nella stessa sentenza 6/2018 della Corte costituzionale: “L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici”.
5. Il problema dell’interpretazione “evolutiva” dell’interesse legittimo (ritorno al futuro)
Le questioni si sarebbero potute dunque decidere secondo gli schemi classici, senza scomodare interpretazioni evolutive di sorta o creazione di nuovi generi. Anche sgombrando il campo dall’equivoco dell’interpretazione evolutiva, nel primo caso le Sezioni Unite non potevano però fare comunque a meno d’investire pregiudizialmente la Corte costituzionale, poiché il diniego assoluto di giurisdizione contrastante con la lesione del diritto fondamentale accertata dalla decisione CEDU aveva causa in una norma di legge. Nel caso attuale viene da osservare che le forche caudine dell’interpretazione evolutiva non hanno lasciato alla Corte di Cassazione altra via che quella di investire la Corte di giustizia della questione della tutelabilità degli interessi ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento comunitario; ma, in questo caso, eliminando l’equivoco della interpretazione evolutiva, la decisione avrebbe potuto essere tranquillamente presa senza necessità alcuna di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Tranquillamente si fa per dire perché, se ciò fosse avvenuto, le Sezioni Unite si sarebbero comunque trovate di fronte ad una decisione non facile da prendere, stante l’ostinazione del Consiglio di Stato a negare la configurabilità di un interesse legittimo in casi come quello di specie e la conseguente necessità di definire positivamente quale sia l’effettiva consistenza di questa situazione giuridica soggettiva che ci fa discutere da più di un secolo.
Probabilmente si sarebbe resa necessaria un’altra decisione “storica”, com’è stata quella sulla risarcibilità dell’interesse legittimo adottata nel 1999 sempre dalle Sezioni Unite, perché il vero tema posto sul tavolo della discussione da una questione di giurisdizione siffatta è proprio questo del chiarimento della natura e della consistenza dell’interesse legittimo. Nella sua essenza, il problema sembrerebbe riproporsi nell’assolutezza in cui era stato posto prima della Riforma Crispi e dell’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato nelle storiche parole del relatore della legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865, Pasquale Stanislao Mancini, riferite al cittadino che non potesse vantare un vero e proprio diritto nei confronti della pubblica amministrazione, ma avesse nondimeno uno specifico “interesse” a contestare una decisione amministrativa: “Ebbene, ch’ei si rassegni”[xviii]. Ecco, siamo praticamente tornati innanzi al medesimo bivio, perché anche oggi si tratta di stabilire se il cittadino debba rassegnarsi o se sia giusto e doveroso tutelare l’interesse strumentale al corretto esercizio del potere; ovvero se l’interesse legittimo debba irrigidirsi sul carattere di una situazione finale o possa o debba sfruttare l’elasticità propria di una situazione strumentale. Sotto questo profilo, l’appuntamento con il passato è comunque soltanto rimandato; nel senso che il futuro intreccio tra le pronunce Corte di giustizia e Cassazione e (se verrà investita) Corte costituzionale dovrà necessariamente fornire un chiarimento al riguardo. Le Sezioni Unite, in ultima analisi, hanno messo al centro della discussione una questione che non riguarda le decisioni abnormi del giudice amministrativo ma l’estensione della figura dell’interesse legittimo; questione che nel nostro ordinamento nazionale comunque non pare affatto scontata.
6. Un appuntamento rimandato
Si può conclusivamente osservare che, allo stato attuale, c’è sicuramente un netto contrasto tra Corte di giustizia e Consiglio di Stato sul modo d’intendere l’interesse legittimo, ma non mi pare che vi sia netto contrasto anche tra Corte di giustizia e Corte costituzionale
E’ evidente che la Corte di giustizia sposa una concezione decisamente elastica dell’interesse legittimo come interesse meritevole di protezione nei confronti della pubblica amministrazione[xix], ma anche la Corte costituzionale non è certamente irrigidita in una concezione puramente finalistica che possa escluderne la elasticità. Senza riandare necessariamente alla sentenza 204 del 2004, si può considerare anche solo la più recente sentenza 5 11 2019 n. 271 (resa con riferimento alle disposizioni, per quanto successivamente abrogate, recate dall’art. 120 comma 2 bis c.p.a. che oneravano le imprese partecipanti alle procedure di affidamento dei contratti pubblici d’impugnare immediatamente le ammissioni delle altre imprese partecipanti), nella quale la Corte costituzionale, nell’escludere che la giurisdizione amministrativa abbia i caratteri propri di una giurisdizione di tipo oggettivo, ha già anticipato che “la giurisdizione amministrativa, nelle controversie tra amministrati e pubblico potere, sia primariamente rivolta alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive e solo mediatamente al ripristino della legalità dell’azione amministrativa, legalità che pertanto può e deve essere processualmente perseguita entro e non oltre il perimetro dato dalle esigenze di tutela giurisdizionale dei cittadini”; ed ha precisato che “se è vero che gli artt. 24, 103 e 113 Cost., in linea con le acquisizioni della giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno posto al centro della giurisdizione amministrativa l’interesse sostanziale al bene della vita, deve anche riconoscersi che attribuire rilevanza, in casi particolari, ad interessi strumentali può comportare un ampliamento della tutela attraverso una sua anticipazione e non è distonico rispetto ai ricordati precetti costituzionali, sempre che sussista un solido collegamento con l’interesse finale e non si tratti di un espediente per garantire la legalità in sé dell’azione amministrativa, anche al costo di alterare l’equilibrio del rapporto tra le parti proprio dei processi a carattere dispositivo”.
Il richiamo al saldo collegamento con l’interesse finale richiama le lucide teorizzazioni dottrinarie che hanno da sempre sostenuto che il diritto soggettivo è il presupposto necessario per la qualificazione dell’interesse legittimo e che quanto differenzia le due situazioni sono in ultima analisi i modi e i limiti in cui l’interesse sostanziale riceve protezione: immediata e diretta nel diritto soggettivo; indiretta e mediata nell’interesse legittimo[xx]. Soddisfazione immediata e diretta della pretesa al bene della vita nel caso del diritto soggettivo; probabilità della soddisfazione della pretesa al bene della vita attraverso la garanzia di una corretta azione amministrativa nel caso dell’interesse legittimo. Sembra di leggere le sentenze della Corte di giustizia Europea sul tema del ricorso incidentale, senza che si debba agitare lo spauracchio di una giurisdizione di diritto oggettivo che nessuno vuole[xxi]. Allo stato, non mi pare che tra Corte di giustizia europea e Corte costituzionale vi sia un contrasto sul modo d’intendere l’interesse legittimo (e quindi il proprium della giurisdizione amministrativa nel nostro ordinamento nazionale) tale da preconizzare l’innalzamento di controlimiti a seguito della futura pronuncia della Corte di giustizia. La formulazione impiegata dalla Corte costituzionale così come l’attuale stato del dibattito anche dottrinario, escludono il carattere oggettivo della giurisdizione amministrativa ma non negano affatto il carattere strumentale dell’interesse legittimo e non escludono l’elasticità della figura. Certamente dopo la pronuncia delle Sezioni Unite si andrà necessariamente ad un chiarimento sull’effettiva natura e consistenza dell’interesse legittimo, ma è ancora tutto da vedere se questo porterà ad appiattire completamente la figura su quella del diritto soggettivo, ravvisandolo (l’interesse legittimo) solo ove sia in grado di garantire utilità finali; ovvero se conserverà e svilupperà quell’elasticità, auspicata e richiesta soprattutto dalla Corte di giustizia, tipica di una situazione strumentale correlata all’esercizio del potere amministrativo; di un potere che comunque, prima ancora di essere autoritativo, non può ritenersi proprio del soggetto titolare dell’interesse.
Per concludere sul punto, sono dell’avviso che le Sezioni Unite avrebbero potuto evitare di sollevare la pregiudiziale comunitaria e decidere la questione di giurisdizione come una classica ipotesi di rifiuto o diniego di giurisdizione, decidendola in conformità alla norma comunitaria derivante dall’interpretazione della Corte di giustizia che, in quanto tale, è fonte di diritto obbiettivo anche nell’ordinamento nazionale e che vuole protetto come interesse legittimo l’interesse di chi abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e lamenti l’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere alla scelta di un’offerta regolare. La questione di giurisdizione non è stata decisa, ma l’appuntamento è stato per ora soltanto rimandato.
[i] L’articolo riproduce il testo scritto dell’intervento al convegno organizzato dall’Università di Roma Tre – Giurisprudenza sul tema dei “Limiti esterni di giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE (a proposito di Cass. S.U. n. 19598/2020)”.
[ii] La letteratura sul tema è ovviamente copiosa. Gli spunti sono efficacemente sintetizzati e riassunti nel Memorandum sulle tre giurisdizioni superiori, in Foro It., V, 57 ss con interventi di A. Proto Pisani– G.Scarselli, La strana idea di consentire ai giudici amministrativi di comporre i collegi delle sezioni unite; G.Canzio, Le buone ragioni di un memorandum; A.Proto Pisani, Chiosa ad una recente conferenza tenuta a Roma il 18 dicembre 2017 presso il parlamento in tema di giustizia con la partecipazione di autorevolissime personalità; A. Carratta- G. Costantino - G. Ruffini, Per la salvaguardia delle prerogative costituzionali della Corte di Cassazione; Lamorgese A., Note in margine al memorandum sulle giurisdizioni; E. Scoditti., Il mutamento costituzionale materiale su diritti soggettivi e giudice amministrativo e il sindacato della Corte di Cassazione; G. Amoroso, Le sezioni unite civili della Corte di cassazione a composizione allargata: considerazioni a margine del memorandum sulle tre giurisdizioni; F. Patroni Griffi, Per un dialogo tra le corti al sevizio del cittadino e non di giudici e giuristi; M. Luciani, Il memorandum delle giurisdizioni superiori e la discussione sulla certezza del diritto; A. Travi A., Rapporti tra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione; Consolo C., La base partecipativa e l’aspirazione alla nomofilachia; A. Pajno, Un memorandum virtuoso;G. D’Auria, Memorandum sulle giurisdizioni e Corte dei Conti; C.M. Barone – R. Pardolesi, Qualche minimale considerazione conclusiva. Successivamente v. anche Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo: i settori controversi e l’esigenza di speditezza del processo civile, incontro di studi organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con l’Ufficio Studi, massimario e formazione della giustizia amministrativa i cui atti sono pubblicati sul sito della giustizia amministrativa, sub voce “Convegni”, Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo: i settori controversi e l’esigenza di speditezza del processo civile, Roma 16 marzo 2017. A seguito della recente ordinanza delle Sezioni Unite v. anche A. Carratta, G. Costantino, G. Ruffini, Limiti esterni della giurisdizione: il contrasto tra Sezioni unite e Corte costituzionale arriva alla corte UE. Note a prima lettura di Cass sez un 18 settembre 2020 n. 19598, in QG, 2020.
[iii] E. Cannada - Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, Milano, 1968.
[iv] Cfr A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987.
[v] Al riguardo si rinvia a F. Francario, Osservazioni a margine dello studio di Franco Scoca sulla figura dell’interesse legittimo, in Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 497 ss e, amplius, F. Francario, Forme e tecniche di tutela del diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione, in S. Mazzamuto ( a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Napoli, 1989 ripubbl. in Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, cit., 317 ss. Sotto questo profilo è assoluta la convergenza con quanto osserva M. Mazzamuto che, pur critico nei confronti dell’affermazione del principio della giurisdizione unica sui diritti soggettivi, afferma che “il giudice civile è inidoneo a trattare le controversie di diritto pubblico perchè il sistema pubblicistico si fonda su principi radicalmente diversi da quelli che caratterizzano il sistema di diritto privato” e che la necessità del giudice speciale si spiega si spiega perché la questioni giuridiche non sono “compatibili con l’ambientazione sistematica del giudice civile”; cfr.: M. Mazzamuto, Il riparto di giurisdizione. Apologia del diritto amministrativo e del suo giudice, Napoli, 2008, 219. Diversamente dal Mazzamuto, si è dell’opinione che l’affermazione del principio della giurisdizione unica sui diritti soggettivi valga a rinforzare la comprensione della specialità della tutela erogata a vantaggio delle situazioni d’interesse legittimo, evitando che questa finisca con l’appiattirsi su quella tipica già delle situazioni di diritto soggettivo a scapito della garanzia che deve invece fornire nei rapporti di diritto pubblico.
[vi] Per tutti v. V. Cerulli Irelli, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al Codice del processo amministrativo), in Dir. Proc. Amm., 2012, 436 ss.
[vii] Per tutti v. F.G. Scoca, Interessi protetti (dir. amm.), in Enc Giur Treccani, XVII, Roma, 1989, 1.
[viii] Ritiene che la questione dell’omesso rinvio assorbirebbe in realtà il primo quesito e che l’art 267 TFUE vada inteso come norma sulla giurisdizione (che giustificherebbe il sindacato della Corte di Cassazione sulla sentenza del Consiglio di Stato ma non il rinvio alla Corte di giustizia, che dovrebbe essere operato dal Consiglio di Stato “ove ritenesse di non poter modificare la propria precedente impostazione alla luce della pronuncia della Corte di Cassazione”) G. Greco, La violazione del diritto dell’Unione europea come possibile difetto di giurisdizione?, in Eurojus, 4/2020.
[ix] B. De Santis, Considerazioni di prima lettura sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia di Cass. S.U. n. 19598/2020, in Judicium.it, 12 10 2020
[x] M. Clarich, Giurisdizione: partita a poker tra Cassazione e Consulta sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Norme e Tributi, Il sole 24ore, 14 ottobre 2020
[xi] Cfr. B. Caravita Di Toritto, La Cassazione pone in discussione la Costituzione davanti al giudice europeo? – Postilla a S. Barbareschi – L.A. Caruso, La recente giurisprudenza costituzionale e la Corte di Cassazione “fuori contesto”: considerazioni a prima lettura di ord. Cass. SS.UU. 18 settembre 2020 n. 19598, in Federalismi.it, paper 4 11 2020.
[xii] G. Tropea, ll Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» in Giustiziainsieme.it, 7 10 2020.
[xiii] M. Mazzamuto, Le Sezioni Unite della Cassazione garanti del diritto UE?, in corso di pubblicazione su Riv it dir pubbl com.
[xiv] L’evoluzione della complessa vicenda è seguita nella successione dei suoi momenti essenziali sopra riassunti in F.Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato, in Federalismi.it, 13/2017; Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Treccani, Libro dell’anno del diritto, 2017 e Diniego di giurisdizione, in Treccani, Libro dell’anno del diritto, 2019 ai quali si rinvia per la più completa ricostruzione e per gli ulteriori riferimenti.
[xv] Il riferimento è alla distinzione, ad esempio, tra atti d’impero e di gestione; norme d’azione e relazione, carenza di potere e cattivo uso del potere e via discorrendo; per tutti al riguardo v. E. Cannada Bartoli, Giurisdizione (conflitti di), in Enc dir., XIX, Milano, 1970, 295ss.
[xvi] M. Nigro., Giustizia amministrativa, 2 ° ed., 1979, 197.
[xvii] Non si condivide ovviamente la tesi che vorrebbe esclusa dal sindacato sulla giurisdizione l’ipotesi del difetto assoluto di giurisdizione, nel presupposto che in tal caso si dovrebbe sollevare conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale stante la riserva costituzionale di giurisdizione stabilita a favore del giudice speciale; in tal senso v.invece M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 4/2012, 1693 che richiama anche V. Caianiello, Il cosiddetto limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Giur. It., 1977,IV, 23 ss.
[xviii] Il passo è riportato in A. Salandra, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, 1897, 350 “Sia pure che I'autorità amministrativa abbia fallito alla sua missione, che non abbia provveduto con opportunità e saggezza, che non abbia saputo ottenere la massima somma di prosperità e di sicurezza pubblica mercé i suoi atti; sia pure che essa abbia, e forse anche senza motivi, rifiutato ad un cittadino una permissione, un vantaggio, un favore, che ogni ragione di prudenza e di buona economia consigliasse di accordargli; ovvero gli abbia ordinato di concorrere con soverchio e non necessario disagio allo scopo di un pubblico servigio, cui abbia potestà di provvedere con l'opera gratuita dei privati; sia pure che questo cittadino è stato in conseguenza ferito, e forse anche gravemente, nei propri interessi: che perciò? ... Che cosa ha sofferto il cittadino in tutte le ipotesi testé discorse? Semplicemente una lesione degl'interessi? Ebbene ch'ei si rassegni”.
[xix] In tal senso da ultimo v. D. Capotorto, Le condizioni dell’azione nel contenzioso amministrativo in materia di appalti: “l’interesse meramente potenziale” nuovo paradigma dell’ordinamento processuale?, in Dir. Proc. Amm., 3/2020, 665 ss al quale si rinvia per gli ulteriori riferimenti dottrinari.
[xx] Per tutti si rinvia a E. Cannada Bartoli, Interesse (dir. amm.), in Enc. Dir., XXII, Varese, 1972, 9 ss; A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1989, 1202; G. Miele, Questioni vecchie e nuove in materia di distinzione del diritto dall’interesse nella giustizia amministrativa, in Foro amm. 1940, ripubbl. in Scritti giuridici, Milano, 1987, 275 ss e F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017 al quale si rinvia per la compiuta ricostruzione delle diverse posizioni dottrinali. Mi limito ad osservare che il collegamento con la situazione di diritto soggettivo è evidente nei casi di interessi oppositivi, quando l’interesse del privato fronteggia provvedimenti ablatori o restrittivi o limitativi di diritti reali o personali che già rientrano nella sfera giuridica individuale. In questi casi l’interesse legittimo prende vita nel momento in cui il diritto viene a contatto con l’esercizio del potere amministrativo e viene protetto, prima e fuori del processo amministrativo già nel dialogo procedimentale con l’amministrazione, come interesse a conservare il bene oggetto del diritto soggettivo. Anche nel caso degli interessi pretensivi, il collegamento con la situazione di diritto soggettivo si rende evidente solo che se ne eviti la confusione con il bene della vita che si aspira a conseguire e che potrà essere oggetto immediato e diretto di una pretesa tutelabile come diritto soggettivo solo se beneficiari del provvedimento finale. Una volta chiarito che non si fa riferimento al diritto a conseguire l’appalto o a vincere un concorso pubblico o a ottenere una concessione, è difficile non rinvenire anche solo nella nostra Carta costituzionale un diritto o una libertà fondamentale dell’individuo (libertà d’iniziativa economica; libertà di circolazione; diritto al lavoro; diritto alla salute diritto all’istruzione etc.) che non legittimino una richiesta di partecipazione al procedimento finalizzato ad attribuire il bene della vita cui si aspira. Se poi l’interesse non ha alcuna situazione ritenuta meritevole di protezione da parte dell’ordinamento sulla quale appoggiarsi, vuol dire che si ricade nell’ipotesi di un mero interesse di fatto, non tutelabile né come diritto soggettivo, né come interesse legittimo. La condizione del “saldo collegamento” postula la necessaria elasticità della figura dell’interesse legittimo.
[xxi] Andrebbe in realtà sottolineato al riguardo che la distinzione dall’interesse sostanziale protetto e la risoluzione dell’interesse legittimo nell’interesse alla legalità dell’azione amministrativa sul piano teorico avvengono proprio se e in quanto, in punto di rilevanza della situazione soggettiva, si ponga l’accento unicamente sull’interesse come presupposto processuale. Tra i contributi più recenti sul tema v. S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo: un’analisi alla luce della dicotomia giurisdizione soggettiva/giurisdizione oggettiva, in Dir. Proc. Amm., 3/2020, 602 ss ed ivi per gli ulteriori riferimenti dottrinari tra i quali si segnalano i contributi raccolti nel volume F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di ), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
Il diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Il Diario di un giudice di Dante Troisi: un classico intramontabile – 2. Una riflessione senza tempo sulla condizione professionale dei magistrati italiani – 3. Le ragioni di attualità del Diario di un giudice di fronte alla crisi epocale della magistratura italiana – 4. Lo sguardo profondo e antiretorico sulla magistratura e il pericolo incombente del conformismo giudiziario.
1. Il Diario di un giudice di Dante Troisi: un classico intramontabile
Il Diario di un giudice di Dante Troisi[1] è una lettura che ha accompagnato i miei ventiquattro anni di magistratura, diventando, con il passare del tempo, una presenza costante e stimolante della mia vita professionale.
Con quest’opera straordinaria e purtroppo poco conosciuta dai magistrati più giovani nel mio ventennio di magistratura mi sono sempre confrontato[2], ricavandone un monito indispensabile per ricordarmi quello che ogni magistrato – forse – dovrebbe fare e quello che comunque non dovrebbe mai fare; monito che mi accompagna insieme a poche altre opere letterarie – su tutte l’altrettanto straordinario Porte aperte di Leonardo Sciascia[3] – che hanno guidato il mio percorso professionale, soprattutto nei periodi di crisi epocale, come quello che il mondo della giurisdizione sta vivendo, sempre più stretto tra problemi etici, dilemmi associativi ed emergenze pandemiche[4].
Il Diario di un giudice, al contempo, oltre a rappresentare una presenza costante della mia vita professionale, ha sempre orientato i miei comportamenti, rappresentando i microcosmi così mirabilmente descritti da Dante Troisi uno stimolo necessario per comprendere che, al di là delle pubbliche virtù tradizionalmente proclamate dai magistrati e dalla magistratura associata, talora in buona fede talaltra no, i loro vizi privati sono rimasti immutati nel tempo, allignando nei difetti e nelle debolezze degli esseri umani. Nonostante tutto, però, la magistratura ha sempre trovato al suo interno gli anticorpi per andare avanti e per reagire ai mali che, spesso, inquinano l’animo dei suoi tormentati esponenti, soprattutto quelli più smaniosi di procedere verso ambite mete direttive, prima degli altri, come che sia; mali, che, in fondo, sono quelli che albergano in tanti esseri umani: ambizione umana, conformismo sociale, carrierismo professionale.
2. Una riflessione senza tempo sulla condizione professionale dei magistrati italiani
La mia scoperta del Diario di un giudice risale a oltre un ventennio addietro, quando ne acquistai una copia nell’edizione dell’Einaudi del 1997, pubblicata dopo quarantadue anni dalla sua prima edizione, che era uscita nel 1955 presso la stessa casa editrice.
Fin dalle prime pagine del Diario, rimasi colpito dallo sguardo, apparentemente severo, con cui Dante Troisi guardava al mondo della magistratura al quale solo da poco tempo apparteneva e agli uomini che lo rappresentavano, quantomeno sotto il profilo umano, in modo del tutto inadeguato.
Ed è per questo che, nel corso degli anni, ho riletto il Diario di un giudice diverse volte, con cadenza sostanzialmente quinquennale, e mi sono spinto, con esiti non sempre fortunati, a suggerirne la lettura a quanti, colleghi e non, operano nel mondo della giurisdizione, cercando di percorrerne le strade con serenità, con onestà e, per quanto sia possibile per un essere umano, senza ipocrisie.
Nel frattempo, però, il Diario di un giudice, da libro di culto non molto frequentato dai magistrati della mia generazione, ha finito per diventare una sorta di classico della letteratura giudiziaria, venendo spesso accomunato a un’altra opera, forse più fortunata, come l’Elogio dei giudici scritto da un avvocato di Piero Calamandrei[5].
La più recente fortuna dell’opera di Dante Troisi, invero, ha subito un nuovo impulso, dovuto alla sua ripubblicazione, accompagnata da un bellissimo commento del mai troppo rimpianto Andrea Camilleri, avvenuta nel 2011[6], grazie alla Casa editrice Sellerio di Palermo, che ha consentito al Diario di un giudice un periodo, per la verità non troppo lungo, di nuova popolarità.
Dopo questo periodo di non lunghissima riscoperta, sul Diario di un giudice è tornato il silenzio, come mi è stato confermato recentemente nel corso di una conversazione da un collega, che mi ha detto di non sapere che il comico di San Giorgio a Cremano – ovvero Massimo Troisi – avesse scritto un libro così importante sulla magistratura italiana.
Quest’ultimo colloquio, tuttavia, ha nuovamente acceso il mio interesse per il Diario, su cui, grazie all’apertura culturale di Giustizia Insieme, sto riflettendo e di cui vorrei riproporre la lettura.
3. Le ragioni di attualità del Diario di un giudice di fronte alla crisi epocale della magistratura italiana
Sorgono a questo punto due domande spontanee: cos’è veramente il Diario di un giudice e quale utilità può avere un’opera letteraria scritta negli anni Cinquanta per un magistrato dei nostri tempi, anzi di questi bruttissimi tempi?
Il Diario di un giudice di Dante Troisi è una raccolta di racconti brevi, di vago sapore memorialistico, che descrivono l’ambiente giudiziario del Tribunale di Cassino, in cui all’inizio degli anni Cinquanta l’Autore – di origini irpine, essendo nato a Tufo nel 1920 – aveva iniziato la sua carriera di magistrato. In questo contesto giudiziario, provinciale e all’apparenza distante da quello attuale, operano i protagonisti che animano le sue trame narrative, che vengono descritte con un tono tragicomico.
La lontananza dalle vicende, umane e professionali, descritte da Dante Troisi è però solo cronologica, perché i ritratti dei travet che animano il Diario di un giudice sono descritti con uno sguardo acuto, senza tempo, che fa dei suoi racconti uno specchio dei difetti professionali e delle debolezze umane dei magistrati, di allora come di adesso, che si sono mantenuti costanti nei decenni e che hanno fatto precipitare la magistratura nella crisi epocale che stiamo attraversando. Lo sguardo di Troisi, al contempo, pur essendo apparentemente severo, possiede connotazioni pietose ed empatiche verso gli individui che rappresentano la giurisdizione, che fanno ritenere il Diario un’opera unica nel panorama nostrano, tutt’altro che moralistica, assumendo i caratteri di una riflessione imperitura sugli uomini di giustizia; caratteri che fanno del Diario un classico insuperato della letteratura giudiziaria.
La forza straordinaria del Diario di un giudice, a ben vedere, consiste proprio nello sguardo universale con cui Dante Troisi osserva il mondo della giurisdizione, individuandone le crepe nei difetti degli esseri umani, narrati con modalità che, nonostante i sessantacinque anni trascorsi dalla prima edizione del volume, appaiono di grande attualità e riescono a descrivere i vizi privati e le pubbliche virtù dei magistrati italiani, cogliendo entrambi nella loro intima essenza.
Il Diario, infatti, descrive una magistratura italiana, in fondo perbene, schiacciata da una gerarchia elitaria e carrierista – non del tutto lontana da quella de Il contesto di Leonardo Sciascia[7] –, guidata da una visione burocratica della professione, ispirandosi alla quale l’intera giurisdizione, a cascata, viene travolta dalle sue debolezze umane e dalle sue ambizioni; difetti, questi ultimi, rimasti immutati nel corso degli anni e che ci rendono straordinariamente attuale l’opera di Dante Troisi.
Non si può, invero, non rilevare che il peso della burocrazia giudiziaria, che per Dante Troisi era soprattutto un retaggio culturale ottocentesco, a partire dalla riforma ordinamentale del 2007, è andato crescendo, modificando l’antropologia dei magistrati italiani e spingendoli verso una ricerca sempre maggiore di elementi di arricchimento curriculare e di potentati associativi, che prescinde dalla qualità individuale e che porta a omologare le carriere. A ben vedere, è proprio l’analisi – essa sì impietosa – della pressione burocratica sulla magistratura, che Troisi avvertiva come il peggiore nemico del giudice e che, nell’ultimo quindicennio, si è andata accentuando, a rendere il Diario di un giudice una riflessione non solo attuale, ma come detto senza tempo, proprio come le considerazioni sciasciane di Porte aperte[8], alle quali mi sono riferito in apertura di questo breve intervento.
Mi sono ripromesso, nell’accingermi a riparlare del Diario di Troisi, di non utilizzare un gergo per addetti ai lavori, allo scopo di non penalizzare la grandezza dell’opera letteraria su cui sto riflettendo, ma non posso non richiamare il procedimento sempre più complesso con cui, di anno in anno, vengono approvate le tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari da parte degli organismi competenti, che ci fa comprendere l’attualità dei timori del nostro Autore sulla burocratizzazione della magistratura italiana e sulla crisi di valori, ideali e professionali, che incombe sui suoi esponenti.
In questa cornice, è bene ricordare a quanti non lo sapessero che, dopo la pubblicazione del suo Diario, Dante Troisi veniva sottoposto a un procedimento disciplinare per avere diffamato l’intero corpo giudiziario dall’allora Ministero di Grazia e Giustizia, l’onorevole Aldo Moro[9]. In quella occasione, Dante Troisi vedeva schierarsi dalla sua parte alcuni tra i più autorevoli esponenti del mondo giuridico del tempo come Arturo Carlo Jemolo[10] e soprattutto Alessandro Galante Garrone[11] – il quale ultimo lo difendeva appassionatamente nel procedimento disciplinare nel frattempo attivato nei suoi confronti –, ma non riusciva a evitare la sanzione disciplinare che, all’epoca, a molti sembrava ingiusta, ma che oggi appare addirittura inspiegabile.
4. Lo sguardo profondo e antiretorico sulla magistratura e il pericolo incombente del conformismo giudiziario
A mio parere, è proprio questo approccio privo di retorica e antiburocratico a farci comprendere le ragioni della grandezza del Diario di Troisi, che costituisce una riflessione, per me insuperabile, sulla solitudine del giudice, sulle difficoltà della sua professione e sullo scollamento quasi irreversibile tra la giurisdizione, i vertici degli uffici giudiziari e i magistrati, ai quali l’Autore – consapevole del conformismo professionale che li schiaccia – guarda sempre con umana comprensione.
Nel suo Diario, infatti, Dante Troisi descrive una magistratura, come detto perbene, ma non del tutto consapevole dei suoi doveri etici e deontologici, e non sempre capace di valutare le ragioni più profonde dei comportamenti dei suoi giudicati, essendo essenzialmente preoccupata – verrebbe da dire: allora come adesso – dai condizionamenti burocratici impostigli dai suoi vertici e dall’ordinamento giudiziario, con un approccio all’attività professionale che ha riacquistato un sapore drammaticamente attuale.
Questo approccio, tuttavia, è privo di toni censori o dileggianti, privilegiando Dante Troisi una dimensione, etica, interiore, dei suoi ritratti giudiziari, perseguita ponendo al centro della sua riflessione, in una sorta di contrapposizione esistenziale, i magistrati e la giurisdizione, o meglio i magistrati e una burocrazia giudiziaria rigida e opprimente; oppressione che, spingendo i magistrati verso un inesorabile conformismo giudiziario, gli fa perdere il punto di riferimento, primario e insostituibile, della loro funzione: il cittadino, che è l’indagato-imputato nel processo penale e la parte privata nel processo civile.
Sotto questo profilo, tra i tanti esemplari passaggi della narrazione del Diario, mi piace ricordare quello in cui Troisi descrive l’atteggiamento di comprensione che i magistrati dovrebbero avere nei confronti dei soggetti con cui si confrontano professionalmente: «Si dovrebbe imporre ai giudici di osservare quanto accade mentre gli altri giudici sono in camera di consiglio. Almeno una volta al mese, mescolarsi alla folla dietro la transenna, guardare gli imputati, i testimoni, gli avvocati; soprattutto guardare gli imputati quando suona il campanello che annuncia il ritorno del collegio per la lettura del dispositivo […]»[12]. E ancora: «Non dimenticheranno gli occhi sul crocefisso o sul difensore che pare possa ancora aiutarli, la mano sulla spalla della madre o della sposa, l’espressione di fiducia, di rimorso, la silenziosa promessa di ravvedimento»[13].
Questi aspetti, a mio parere, finiscono per rendere il Diario di Troisi, a più di un cinquantennio dalla sua pubblicazione, l’opera letteraria che, con maggiore efficacia, descrive la difficoltà di esercitare la giurisdizione nella società moderna, proponendo una figura non oleografica di magistrato, che è angosciato, allora come oggi, dai risultati del suo lavoro e da una burocrazia giudiziaria che privilegia il dato quantitativo al dato qualitativo.
Ed è proprio questo sguardo – intimistico, empatico, lungimirante – che fa del Diario di un giudice un’opera unica, differenziandola da altri, pur importanti, cimenti letterari, ai quali manca quello sguardo interiore, tipico di chi vive l’esercizio della giurisdizione non come ricerca del potere personale o del consenso sociale, perseguiti attraverso comportamenti conformistici e omologanti, ma con i tormenti tipici dell’intellettuale moderno.
Questi tormenti, ancora oggi, non sono agevolati da un ordinamento giudiziario che tende a privilegiare gli aspetti statistici e burocratici della professione giurisdizionale, che marginalizzano le idealità e privilegiano i carrierismi, determinando, in ultima analisi, quelle storture alle quali, ormai da tempo si assiste con un senso di impotenza.
Mi piace concludere questo accorato invito alla lettura del Diario di Dante Troisi, richiamando un passaggio nel quale si sintetizza il timore reverenziale del magistrato collocato in una posizione apicale – in questo caso il presidente del suo tribunale – di fronte alla burocrazia giudiziaria e ai suoi superiori, descritto con un’incomparabile, amara, ironia. Timore reverenziale che, nell’ultimo quindicennio, è ricomparso con rinnovato vigore negli attuali vertici giudiziari, in conseguenza dell’introduzione della procedura di conferma quadriennale da parte del Consiglio Superiore della Magistratura dei magistrati che svolgono funzioni direttive e semidirettive prevista dagli artt. 45 e 46 del d.lvo 5 aprile 2006, n. 160, già più volte modificata, nonostante la vita relativamente breve, ma travagliata, di tale testo normativo[14].
Torna, pertanto, di attualità la riflessione letteraria di Dante Troisi e la sua visione – sicuramente universale e appunto senza tempo – del mondo della giurisdizione italiana e del suo nemico principale: il conformismo giudiziario, che è la conseguenza del rapporto ambiguo e mai del tutto risolto tra burocrazia giurisdizionale, aspirazioni professionali individuali e, nei nostri tempi, potere associativo.
A proposito, dell’inizio di una giornata di lavoro del suo presidente, Troisi racconta magistralmente: «Appena arriva in ufficio, il presidente si precipita in cancelleria; gli tremano le mani mentre fruga nella posta per accertarsi se vi sono lettere dei “superiori”. Noi attorno gli sorvegliamo il viso e quando un afflusso di sangue gli imporpora le guance è segno che non ha trovato nulla e tira il fiato; se invece serra le mandibole e le braccia gli si irrigidiscono, vediamo le dita stringere la busta con una repulsione a stento dominata dalla riverenza: adagio adagio la cava dalle altre e dilata le narici come per fiutarne il contenuto. Vive infatti con una paura continua non già di non saper fare il giudice, ma di non riuscire in qualche cosa gradito al superiore»[15].
[1] Questo intervento è dedicato all’opera D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1955.
Dante Troisi (1920-1989), che ne è l’Autore, è un stato un magistrato e uno scrittore italiano, che ha svolto le funzioni di magistrato, prevalentemente penale, dapprima a Cassino e successivamente a Roma; come scrittore, Dante Troisi, oltre al Diario di un giudice, ha pubblicato anche altre opere letterarie, le più note delle quali sono Id., L'odore dei cattolici, Canesi, Roma, 1963; Id., La sopravvivenza, Rusconi, Milano, 1981; Id., La finta notte, Rusconi, Milano, 1984; Id., L’Inquisitore dell’interno sedici, Studio Tesi, Pordenone, 1986.
[2] Il mio interesse, ormai ventennale per Dante Troisi, tra l’altro, è testimoniato da un intervento di qualche addietro, come A. Centonze, La solitudine dei giudici di Dante Troisi e il peso insostenibile della burocrazia giudiziaria: lungimiranza culturale o sensibilità d’autore?, in Criminalia, 2012, pp. 685 ss.
[3] Si veda L. Sciascia, Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987.
[4] Sui problemi etici e sui dilemmi associativi citati nel testo non mi sento di fornire alcuna indicazione; invece, sull’incidenza del fenomeno pandemico noto come coronavirus, tra i tanti interventi sull’argomento, mi permetto di segnalare, per la particolare acutezza delle loro analisi, gli interventi di F. Gianfilippi, Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020, n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario, in www.giustiziainsieme, 18 marzo 2020; e G. Santalucia, L’impatto sulla giustizia penale dell’emergenza da COVID-19: affinamenti delle contromisure legislative, in www.giustiziainsieme, 18 marzo 2020.
[5] Ci si riferisce a P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze, Mondadori, 1945.
[6] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice (1955), Sellerio, Palermo, 2012.
[7] Ci si riferisce a L. Sciascia, Il contesto. Una parodia, Einaudi, Torino, 1971.
[8] Vedi supra, nota 2.
[9] Non mi sembra il caso di fornire alcuna indicazione su Aldo Moro, personaggio che fa parte dell’immaginario collettivo, pur se mi pareva utile citarlo come il Ministro di Grazia e Giustizia che esercitò il potere disciplinare nei confronti di Dante Troisi.
[10] Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), di origini siciliane, è stato un giurista di formazione cattolico-liberale, che ha insegnato diritto ecclesiastico a Sassari, Bologna, Milano e Roma; è stato anche accademico dei lincei.
[11] Alessandro Galante Garrone (1909-2003), di origini torinesi, è stato un magistrato e un professore universitario, che ha insegnato a Cagliari e a Torino; è famosa la definizione di “mite giacobino” che diede di se stesso, tra l’altro, in una bellissima autobiografia scritta in collaborazione con Paolo Borgna, un magistrato torinese.
[12] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, cit., pag. 77.
[13] Si veda D. Troisi, op. ult. cit., pag. 77.
[14] Per inquadrare questi profili ordinamentali, si rinvia al Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria approvato dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera del 30 luglio 2010, più volte modificato, in www.csm.it/delibere.
[15] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, cit., pp. 52 e 53.
Motivi di giurisdizione e pregiudiziale comunitaria
II 6 novembre si è tenuto il webinar sul tema “Limiti esterni di giurisdizione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE (a proposito di Cass. S.U. n. 19598/2020)”, organizzato dall’Università di Roma Tre – Giurisprudenza.
Contenuti, problemi e prospettive aperte dalla recente ordinanza delle Sezioni Unite, che ha sollevato un’articolata questione di pregiudizialità comunitaria sulla controversa deducibilità del rifiuto di giurisdizione come motivo di ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, sono stati discussi nel corso del convegno, che ha visto come relatori i Prof.ri Enzo Cannizzaro e Massimo Luciani dell’Università La Sapienza, Antonio Carratta e Giuseppe Ruffini dell’Università Roma Tre, Aldo Travi dell’Università Cattolica di Milano e Fabio Francario dell’Università di Siena. Coordinati dal Prof. Giorgio Costantino, i lavori sono stati infine conclusi dalla Prof.ssa Maria Alessandra Sandulli.
La rivista mette a disposizione dei propri lettori la registrazione del convegno.
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