ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il punto sulla disciplina dell’obbligo vaccinale nel rapporto di lavoro
Considerazioni all’indomani della conversione del decreto legge 44/2021
di Marcello Basilico
La conversione del decreto legge 44/2021 avvenuta con la legge 28 maggio 2021, n. 76, ha apportato poche modifiche alla disciplina dell’obbligo vaccinale e, tra queste, una sola di caratura essenziale. Restano aperti perciò non pochi interrogativi sollevati dal congegno normativo. Alcuni di questi interferiscono col piano applicativo, Altri sono di sistema e rendono dubbia l’utilità stessa dell’introduzione dell’obbligo di fronte alle perduranti incertezze.
Sommario: 1. La conversione del d.l. 44/2021 - 2. L’identificazione dei soggetti obbligati - 3. Gli effetti della violazione dell’obbligo vaccinale sul rapporto di lavoro - 4. La sospensione dal servizio per effetto del rifiuto - 5. L’asserita neutralità disciplinare dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale - 6. I lavoratori espressamente esentati. - 7. Gli effetti dell’art. 4 sullo spettro degli obblighi datoriali di sicurezza - 8. La posizione dei lavoratori non ricompresi nelle categorie dei soggetti obbligati.
1. La conversione del d.l. 44/2021
La conversione del d.l. 44/2021 ad opera della legge 28 maggio 2021, n. 76 [[1]] è l’occasione per fare il punto sul dibattito sorto alla vigilia e sviluppatosi durante i due mesi di vigenza dell’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del decreto legge. E’ un dibattito che evidentemente non ha avuto la stessa fortuna di quello antecedente alla norma, il quale aveva sortito la scelta d’intervenire nella materia con disposizioni cogenti di fonte primaria.
Il legislatore si è appagato della disciplina introdotta in via d’urgenza, quasi insensibile alle molteplici sollecitazioni venute nelle settimane scorse affinché se ne rivedessero alcuni passaggi.
Le novità apportate in sede parlamentare al testo governativo sono infatti poche e prevalentemente di carattere formale, alcune addirittura schiettamente grammaticali. Sono correzioni che dimostrano, una volta di più, la precipitazione con cui si era provveduto alla stesura originaria, nella convinzione che l’intervento precettivo potesse avere un ruolo determinante nella corsa contro il tempo della campagna vaccinale.
Le integrazioni di portata sostanziale venute della conversione sono due. La prima concerne l’identificazione dei destinatari dell’obbligo vaccinale, in particolare la controversa categoria degli “operatori di interesse sanitario”. Sarà bene trattarne a parte.
La seconda novità è data dalla soppressione del termine “differimento” nel quinto comma dell’art. 4, a proposito dei contenuti possibili della documentazione che l’ASL può richiedere ai soggetti che le risultino non vaccinati. Il termine è parte dell’endiadi contenuta nel secondo comma, relativo ai casi d’insussistenza dell’obbligo per accertato pericolo per la salute (casi nei quali la vaccinazione può dunque essere, appunto, “omessa o differita”).
Si è ritenuto quindi irrilevante per l’autorità sanitaria la conoscenza in tali ipotesi dell’eventuale dilazione della somministrazione, essendo di per sé decisiva – nell’economia della campagna e dei profili organizzativi che derivano dal suo stato di avanzamento – la notizia che il soggetto sia esentato dal vincolo.
Di fronte ad una correzione tanto minuta ci si può rammaricare del fatto che il legislatore non abbia prestato uguale attenzione nel colmare la lacuna, da più parti segnalata [[2]], della mancata previsione della segnalazione a ordini professionali e datori di lavoro, a opera dell’ASL, dei soggetti dispensati dall’obbligo vaccinale, in parallelismo con quanto invece prescritto dal sesto comma dell’art. 4 per i soggetti inadempienti.
Per gli uni non meno che per gli altri la mancata sottoposizione alla vaccinazione comporta l’adozione di misure specifiche: i commi decimo e undicesimo dell’art. 4 enunciano quelle dovute per, rispettivamente, i lavoratori o i professionisti che siano risultati esentati. L’omessa prescrizione della comunicazione è quindi frutto d’un difetto di coordinamento nella disciplina dei percorsi procedimentali per le due categorie, difetto risolvibile mutando la previsione del sesto comma.
È inevitabile quindi che l’ASL debba comunicare a datori di lavoro e ordini professionali anche i nominativi degli esentati. Questa soluzione non è priva di significato in un quadro reso delicato dalle questioni di tutela della riservatezza che investono non solo l’identità di chi abbia avuto o meno la somministrazione del vaccino, ma prima ancora le condizioni cliniche della persona dispensata per ciò dal relativo obbligo.
2. L’identificazione dei soggetti obbligati
Il primo comma dell’art. 4 d.l. 44/2021 obbliga a vaccinarsi “gli esercenti le professioni sanitarie” e “gli operatori di interesse sanitario”. L’identificazione delle due categorie è precisata da un criterio oggettivo-geografico, costituito dallo svolgimento delle rispettive attività “nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali”. Non sembrano esservi dubbi sul fatto che questa locuzione sia riferibile a entrambe le categorie, dunque anche agli esercenti le professioni sanitarie, poiché, in caso contrario, si registrerebbe l’imposizione dell’obbligo anche in assenza delle finalità, enunciate nella premessa del precetto legislativo, di tutela della salute pubblica e del mantenimento delle adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Gli esercenti le professioni sanitarie coincidono con gli iscritti agli albi professionali previsti dall’art. 4, primo comma, della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (si tratta di medici-chirurghi; odontoiatri; veterinari; farmacisti; biologi; fisici; chimici; esercenti le professioni infermieristiche e di ostetrica; tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione).
Più complicata è sin da subito risultata l’operazione d’individuazione degli operatori di interesse sanitario. La legge di conversione si è data carico di sanare questa incertezza interpretativa, inserendo la locuzione “di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43”.
Quest’ultima è la disposizione che affida alle Regioni l’individuazione (e la formazione) dei profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitare definite dal primo comma dello stesso art. 1 l. 43/2006. Tale norma regolamenta le professioni sanitarie infermieristiche, di ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2000, n. 251, e del decreto del Ministro della sanità 29 marzo 2001, i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione. In forza del richiamo al DM 29.3.2001, rientrano tra gli esercenti le professioni sanitarie dell’art. 1 l. 43/2006 anche: podologi; fisioterapisti; logopedisti; ortottisti - assistenti di oftalmologia; terapisti della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva; tecnici della riabilitazione psichiatrica; terapisti occupazionali; educatori professionali; tecnico audiometrista; tecnici sanitari di laboratorio biomedico; tecnici sanitari di radiologia medica; tecnici di neurofisiopatologia; tecnici ortopedici; tecnici audioprotesisti; tecnici della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare; igienisti dentali; dietisti; tecnici della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro; nonché assistenti sanitari.
La modifica così apportata in sede di conversione conferma da un lato l’intento legislativo di richiedere una lettura formale delle categorie destinatarie dell’obbligo vaccinale, nel rispetto della riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, Cost. e del carattere di stretta interpretazione delle disposizioni che deroghino al principio dell’autodeterminazione dell’individuo nella sottoposizione a trattamenti sanitari [[3]].
D’altra parte però, il rinvio normativo non sembra perspicuo. Il primo comma dell’art. 1 l. 43/2006 identifica con precisione molti “operatori di professioni sanitarie” che non potevano probabilmente dirsi ricompresi nella formulazione originaria dell’art. 4, primo comma, d.l. 44/2021. Il rinvio rivolto invece al secondo comma – dunque alla competenza regionale di individuare operatori d’interesse sanitario diversi da quelli definiti come “operatori di professioni sanitarie” – dà campo alle incertezze sull’estensione effettiva della platea dei destinatari dell’obbligo.
Per di più l’allargamento eventuale risulta rimesso alla legislazione regionale, col rischio di andare a collidere con l’esigenza di uniformità della disciplina vaccinale sul territorio nazionale, che è connaturata alla garanzia del diritto della persona di essere curata efficacemente in condizioni di eguaglianza in tutto il Paese [[4]].
Pur nella sua approssimazione, la novità legislativa ha almeno un chiaro effetto indiretto, poiché rende insostenibile la tesi che avrebbe voluto identificare gli “operatori di interesse sanitario” sulla base di un’interpretazione teleologica o comunque basata su criteri esterni alla locuzione normativa, come quello riferito al rischio ambientale [[5]]. Muovendo dalla finalità di tutela della salute pubblica proclamata dal legislatore, si era ricercata una lettura di quella locuzione che valorizzasse il luogo della prestazione e i contatti interpersonali indotti, piuttosto che la categoria professionale di appartenenza, così da comprendere tra i soggetti obbligati figure come l’addetto alla mensa o alle pulizie in una struttura ospedaliera.
Questa tesi, mirando alla massima efficacia dell’obbligo vaccinale, rischiava di espandere oltremisura la nozione di operatori di interesse sanitario. Essa non trova certamente spazio nel nuovo dettato normativo, così come integrato dal rinvio a un fonte di diritto positivo.
Rimane il problema del mancato coinvolgimento di ampie fasce di lavoratori che certamente non possono annoverarsi tra le categorie di soggetti obbligati e che pur tuttavia svolgono, talvolta non meno di questi, le loro attività nelle strutture alla cui sicurezza mira l’imposizione dell’obbligo vaccinale.
3. Gli effetti della violazione dell’obbligo vaccinale sul rapporto di lavoro
In coerenza con gli obiettivi esposti in premessa, l’art. 4 rende l’autorità sanitaria (Regione e ASL) depositaria del “requisito essenziale” per l’esercizio del diritto allo svolgimento delle prestazioni di lavoro negli ambienti elencati, requisito rappresentato dall’assolvimento dell’obbligo vaccinale.
L’atto di accertamento (art. 4, sesto comma) della sua inosservanza comporta la sospensione di quel diritto. Viene così a configurarsi una situazione di factum principis ostativa all’attività del singolo lavoratore che, per espressa disposizione di legge, non esonera il datore di lavoro dalla prova dell’impossibilità di adibire il dipendente a mansioni diverse.
Il meccanismo previsto dall’ottavo comma dell’art. 4 – attribuzione, ove possibile, di mansioni anche inferiori e sospensione dal servizio come extrema ratio – deroga quindi alle regole generali introdotte per via giurisprudenziale, che riconducono le fattispecie analoghe all’impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.) [[6]]. Anche quando l’impossibilità sia solo parziale (art. 1464 c.c.), il datore di lavoro è ammesso a provare di non avere più interesse apprezzabile all’adempimento, dunque alla prosecuzione del rapporto lavorativo, in assenza del titolo abilitativo, perché il suo venire meno configuri un giustificato motivo oggettivo di licenziamento [[7]].
Di fronte alla violazione dell’obbligo vaccinale il datore di lavoro ha invece un margine di discrezionalità analogo – nella sottolineatura dell’inciso “ove possibile” – a quello riconosciuto dalle norme che gli affidano il delicato bilanciamento tra diritto alla salute (nell’accezione individuale) e diritto dell’imprenditore ad auto organizzarsi. Si pensi ai casi regolati dagli artt. 33, quinto comma, l. 104/92 o 42 d. lgs. 81/2008.
La perdita del requisito previsto dall’art. 4 d.l. 44/2021 configura quindi, per i soggetti obbligati, un’inidoneità parziale e temporanea (stante il termine di scadenza del vincolo) alla prestazione lavorativa.
Lo spazio dell’eventuale controllo giudiziale sulla scelta datoriale, qualora il lavoratore contesti l’esistenza inesplorata d’una possibilità di sua assegnazione a diverse mansioni, è limitato alla ragionevolezza della soluzione, che è altrimenti insindacabile [[8]]. Nell’impiego pubblico la verifica sarà facilitata dall’esistenza della pianta organica, che consente una vaglio immediato sull’esistenza o meno di posizioni disponibili; nel lavoro privato lo spazio per un’utile ricollocazione andrà ricercato secondo un criterio di compatibilità con l’organizzazione che l’imprenditore si era dato precedentemente, non potendosi di certo pretenderne la modifica in ragione del rifiuto del dipendente a sottoporsi alla vaccinazione.
È evidente che, tra le soluzioni praticabili in concreto, non può esservi quella di adibire il lavoratore refrattario ad altre mansioni che implichino comunque “contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2” (art. 4, sesto comma). Nelle strutture sanitarie o parificate di non grandi dimensioni la ricollocazione può risultare dunque assai problematica, soprattutto quando i rifiuti risultino numerosi.
È prevedibile che l’esistenza del rischio espositivo nelle diverse mansioni possa costituire una fonte di possibile contestazione. Il datore di lavoro dovrà dimostrarla per provare l’impossibilità di riposizionamento del dipendente. A questo riguardo potrebbe rivelarsi decisivo l’opportuno aggiornamento del documento aziendale di valutazione dei rischi [[9]].
4. La sospensione dal servizio per effetto del rifiuto
Nel meccanismo legislativo dell’art. 4 d. l. 44/2021 l’impossibilità di assegnazione del lavoratore a posizioni alternative, in conseguenza della sua inosservanza all’obbligo vaccinale, comporta la sospensione dal servizio, senza diritto a retribuzione o compenso di sorta (art. 4, ottavo comma).
La durata di questo provvedimento è predeterminata: “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”. Poiché suo presupposto è comunque l’impossibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, questi potrebbe rivendicare a buon diritto la cessazione anticipata della sospensione qualora nell’azienda si realizzino le condizioni per tale assegnazione.
La qualificazione della vaccinazione come requisito essenziale per la prestazione fa dubitare del fatto che essa possa costituire anche un requisito per l’assunzione e che dunque il datore di lavoro pubblico o privato sia legittimato a negare la partecipazione ad una selezione di chi ne sia sprovvisto. Il tema s’intreccia col diritto dell’aspirante alla riservatezza sul proprio stato.
È noto che, secondo il Garante della protezione dei dati personali, “non è comunque consentito al datore di lavoro raccogliere, direttamente dagli interessati, tramite il medico compente, altri professionisti sanitari o strutture sanitarie, informazioni in merito a tutti gli aspetti relativi alla vaccinazione, ivi compresa l’intenzione o meno della lavoratrice e del lavoratore di aderire alla campagna, alla avvenuta somministrazione (o meno) del vaccino e ad altri dati relativi alle condizioni di salute del lavoratore” [[10]].
La presenza di questa raccomandazione unitamente alla considerazione del carattere temporaneo della disciplina in esame, porterebbero ad escludere che l’osservanza dell’obbligo vaccinale possa configurare un requisito essenziale per l’assunzione. L’opinione non è unanime, poiché è controversa la premessa stessa sull’inesistenza del diritto del datore di lavoro di chiedere al medico competente l’accertamento sull’idoneità del lavoratore alla prestazione [[11]].
Un argomento ulteriormente spendibile per la tesi contraria alla richiesta della vaccinazione ai fini dell’assunzione viene dalla comune opinione che esclude la rilevanza disciplinare del rifiuto di sottoporvisi. L’individuazione della sospensione temporanea del rapporto come soluzione estrema ne sarebbe la dimostrazione [[12]]. E’ un convincimento che merita tuttavia un approfondimento.
5. L’asserita neutralità disciplinare dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale
Prima che l’obbligo vaccinale venisse espressamente sancito dall’art. 4 d.l. 44/2021 v’era stato chi riteneva che esso fosse desumibile per alcune categorie di lavoratori, come medici e infermieri, dal loro codice deontologico e per altre in base alla necessità di garantire la sicurezza del loro ambiente di lavoro; in entrambe le ipotesi il vincolo andrebbe ricondotto alle regole integranti gli obblighi assunti col contratto di lavoro [[13]]. In una prospettiva di massima responsabilizzazione nello scenario della pandemia, si era quindi affermato che il rifiuto del vaccino come misura di sicurezza potesse configurare non una mera inidoneità professionale, incidente sul piano oggettivo della possibilità della prestazione, ma renitenza agli obblighi di protezione posti dal contratto di lavoro, rilevante sul piano disciplinare [[14]].
A ben vedere, nel dovere di diligenza imposto al lavoratore subordinato (art. 2104 c.c.) rientrano i comportamenti accessori funzionali alla resa d’una prestazione utile [[15]]. La violazione di queste regole di condotta ha rilievo disciplinare anche quando sia idonea a produrre un pregiudizio potenziale per la strutturazione aziendale [[16]]. Rientra certamente in questa ipotesi il rifiuto del lavoratore di osservare le misure di sicurezza richieste dall’imprenditore in ragione delle particolarità dell’attività esercitata, quando tale rifiuto sia suscettibile di mettere a repentaglio non solo la responsabilità, ma anche l’assetto organizzativo datoriale.
L’art. 4 d.l. 44/2021 ha enucleato le condotte cui il datore di lavoro deve attenersi, nel caso dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale del dipendente, sul piano dell’esercizio da parte sua delle facoltà riconducibili allo jus variandi. Si tratta di effetti di quell’inosservanza posti tutti sul piano oggettivo.
Sembra difficile però sostenere che un rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla vaccinazione possa essere, soprattutto in alcune condizioni specifiche, del tutto privo di rilevanza al (diverso) livello disciplinare, tanto più una volta che il lavoratore si dimostri consapevole delle complicazioni che la propria condotta comporta per l’organizzazione datoriale.
Escludendo che tale rifiuto possa configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il legislatore ha inviato un messaggio tale da impedire di ravvisarvi la ragione per l’applicazione d’una sanzione espulsiva. Resta dubbio, però, che esso sia del tutto neutro sul piano disciplinare.
Il tema è stato sino ad oggi eluso dalla gran parte dei commentatori, dato che l’intervento legislativo ha perseguito con chiarezza l’obiettivo di raffreddare una materia politicamente e ideologicamente bollente. Ma se si muove da premesse che attengono alla natura della vaccinazione come misura di sicurezza nell’ambiente di lavoro e ai correlati doveri di osservanza in capo ai lavoratori [[17]], non si può non considerarne le conseguenze sul versante disciplinare, confidando che la riflessione resti confinata nell’ambito meramente teoretico.
6. I lavoratori espressamente esentati
Per chi, pur rientrando nelle categorie dell’art. 4, primo comma, dimostri che la vaccinazione potrebbe causare un pericolo alla suaa salute, le conseguenze della mancata somministrazione sono rappresentate dall’assegnazione di mansioni diverse (commi secondo e nono) o, nel caso del lavoratore autonomo, dall’adozione di misure di prevenzione igienico-sanitario identificate specificamente per via protocollare (commi secondo e decimo). In ogni caso egli non può subire decurtazione alcuna della retribuzione.
Questa differenza rispetto alla posizione dei lavoratori renitenti concorre a dimostrare come il rifiuto non sia neutro, sul piano degli effetti soggettivi, neppure per il legislatore. Non a caso v’è chi, nel tracciare la distinzione tra i due regimi normativi, parla per i primi di una vera e propria “colpa”, attribuendo alla sospensione prevista dal sesto comma dell’art. 4 una “natura anche sanzionatoria” [[18]].
Non rileva il fatto che la sospensione dal servizio tra le misure organizzative per i lavoratori esentati non sia espressamente prevista. Sarebbe in effetti irragionevole pretendere che il datore di lavoro sia tenuto a ricollocarli altrove in azienda anche quando le sue dimensioni o la sua organizzazione non lo consentano; d’altronde è proprio la precisazione “senza decurtazione della retribuzione” a sottintendere la possibilità che, ove non sia possibile, il lavoratore esentato venga sospeso dal servizio sino al completamento della campagna vaccinale e comunque non oltre il 31.12.2021.
È da escludere, per altro verso, che nei suoi confronti scattino gli effetti generali dell’inidoneità sopravvenuta, con facoltà per il datore di lavoro di procedere al licenziamento: in tal caso il lavoratore esentato verrebbe a subire un trattamento deteriore rispetto a quello che ha violato l’obbligo vaccinale.
Razionalità vuole, in definitiva, che l’iter per le due categorie di personale corra su binari paralleli, con la sola differenza della conservazione integrale della retribuzione di chi sia dispensato dal rispetto dell’obbligo.
7. Gli effetti dell’art. 4 sullo spettro degli obblighi datoriali di sicurezza
Prima della disciplina in esame il cosiddetto decreto liquidità emanato in piena prima fase pandemica aveva stabilito che, “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 29-bis d.l. 23/2020, conv. nella legge 40/2020).
La norma sembra circoscrivere l’adempimento dell’obbligo dell’art. 2087 c.c. all’osservanza delle prescrizioni contenute nei protocolli. Questi hanno avuto il pregio di orientare gli atteggiamenti dei datori di lavoro in un momento storico in cui la diffusione del virus avveniva con picchi e dinamiche ancora sconosciute oltre che in assenza di misure generalizzate. Oggi la situazione è mutata, sia per le superiori cognizioni scientifiche acquisite in ordine al Covid-19 sia perché disponiamo di nuovi strumenti di prevenzione, primo tra tutti il vaccino.
In base all’art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro sorge in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo [[19]].
I parametri rispetto a cui va commisurata l’adeguatezza delle misure di sicurezza sono dunque quelli della particolarità della condizione lavorativa, con riferimento ad esempio alle c.d. “misure innominate” [[20]], e delle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento [[21]]. E’ di conseguenza difficile sostenere che l’osservanza delle sole prescrizioni protocollari, tra l’altro per lo più di portata elastica, esaurisca attualmente gli obblighi imposti al datore di lavoro da una disposizione a contenuto aperto e mobile come quella dell’art. 2087.
È semmai ragionevole ritenere che l’art. 29-bis d.l. 23/2020, tuttora vigente, racchiuda un precetto minimo, il cui rispetto non esonera da responsabilità, dovendo essere integrato o, in taluni casi, addirittura disatteso, ogni volta in cui le misure dei protocolli si rivelino insufficienti o perfino contrarie alle esigenze di tutela.
Ciò detto, l’inosservanza da parte del datore di lavoro degli oneri che gli sono imposti dall’art. 4 per la vaccinazione dei propri dipendenti – ad esempio per non averli inseriti nell’elenco trasmesso alle Regioni o alle Province autonome (terzo comma) – è foriero senz’altro di responsabilità contrattuale ex art. 2087, quando abbia causato danni all’integrità psicofisica del personale. Il comportamento colposo del lavoratore assumerà rilievo ai sensi dell’art. 1227 c.c. come causa di riduzione del risarcimento dovuto, fino ad eliderlo nel caso in cui esso si concretizzi nel rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione, come misura preventiva che appare, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, più efficace.
8. La posizione dei lavoratori non ricompresi nelle categorie dei soggetti obbligati
I contenuti del dibattito corrente prima dell’entrata in vigore del d.l. 44/2021 conservano attualità con riguardo alla posizione di quanti non rientrino nelle categorie dell’art. 4, primo comma. Ora quei contenuti sono però arricchiti dalla valutazione dei possibili riflessi, indiretti e sistematici, dell’esistenza di un obbligo vaccinale, seppure a loro non riferibile.
Il fatto che la nuova normativa abbia investito l’autorità pubblica sanitaria dell’accertamento del requisito essenziale è considerazione che, se utilizzata per dimostrare l’irrilevanza della mancata vaccinazione per i lavoratori non compresi nelle categorie obbligate [[22]], prova troppo. Con l’argomento a contrario si arriverebbe infatti al punto da negare che, laddove l’obbligo manchi, le misure di sicurezza imposte dalle disposizioni più generali andrebbero disapplicate, il che è ovviamente assurdo.
Tutti i lavoratori esposti ad agenti biologici sono soggetti alla sorveglianza sanitaria del medico competente (art. 41 d. lgs. 81/2008) quando il risultato della valutazione del rischio ne rilevi la necessità; in tal caso, su parere del medico competente stesso, il datore adotta le misure protettive speciali rappresentate, tra le altre, dalla “messa a disposizione di vaccini efficaci” e dall’allontanamento temporaneo dall’azienda (art. 279, commi primo e secondo, d. lgs. 81/2008).
L’esposizione ad agenti biologici rischiosi per la salute è dunque uno dei presupposti per l’adozione delle misure individuate volta a volta dal medico competente; esse includono l’eventualità – in caso di accertata inidoneità alla mansione specifica e fermo il trattamento retributivo originario – che il lavoratore sia assegnato, ove possibile, a mansioni equivalenti o, altrimenti, a mansioni inferiori (art. 42, primo comma, d. lgs. 81/2008).
Pare di potere dire che la modulazione di tali provvedimenti sia coerente con l’assenza dell’obbligo vaccinale; chi ne è esonerato non subisce conseguenze uguali o deteriori rispetto a quelle previste dall’art. 4; la mediazione data dal parere del medico competente esclude ogni automatismo applicativo e mira a garantire l’adozione della misura più consona – in base ai criteri oggettivi della fattibilità organizzativa (art. 42) e dell’esposizione a rischio (art. 279) – al caso concreto.
Nella perdurante efficacia di queste disposizioni – cui può attribuirsi portata generale, rispetto al regime speciale introdotto dall’art. 4 d.l. 44/2021 [[23]] – v’è dunque la chiave utile a evitare che, fuori dal territorio applicativo dell’obbligo vaccinale, il rapporto di lavoro abbia esecuzione in base a dinamiche indifferenti alle esigenze di tutela della salute pubblica e interna all’ambiente di lavoro. In tal modo l’ordinamento non rimane inerte nei confronti di quella platea di operatori che agiscono nel mondo della sanità pur senza rientrare tra i soggetti obbligati in forza della disciplina uscente dalla conversione del decreto legge.
Può sembrare paradossale che un lavoratore precedentemente idoneo alla mansione diventi inidoneo per il solo fatto della fruibilità del vaccino anti Covid-19. Si tratta però d’un paradosso apparente, poiché l’adattamento dell’obbligo di sicurezza (e della conseguente misura di prevenzione del rischio) all’evoluzione della scienza e della tecnica rappresenta il proprium del contenuto aperto e mobile del precetto dell’art. 2087 c.c., sicché anche il giudizio d’idoneità varia conseguentemente col progresso degli strumenti disponibili.
Resta da chiedersi, a rifinitura di questa ricostruzione teorica, se la “messa a disposizione” della vaccinazione ai sensi dell’art. 279, secondo comma, d. lgs. 81/2008 sia fonte in capo al lavoratore di un obbligo a tutto tondo [[24]] o invece di un mero “onere” che, in difetto d’un vincolo quale quello ex art. 4 d.l. 44/2021, lo lascia comunque libero di non vaccinarsi [[25]].
La prima soluzione risulta più coerente col disposto dell’art. 20, lett. b, d. lgs. 81/2008, che impone al dipendente l’osservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro ai fini della protezione collettiva e individuale. La seconda supererebbe però gli eventuali problemi di compatibilità di un obbligo vaccinale “mediato” dal giudizio medicale con la riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione.
Nell’uno come nell’altro caso restano spazi significativi di sindacabilità della scelta datoriale soprattutto in due momenti: la valutazione del rischio e il parere del medico competente. Quest’ultimo viene a essere così fortemente responsabilizzato in un quadro scientifico che al momento può dirsi tutt’altro che assestato.
[1] La legge di conversione è pubblicata in G.U. n. 128 del 31.5.2021.
[2] F. SCARPELLI, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 3 aprile 2021; M. MOCELLA, Vaccini e diritti costituzionali: una prospettiva europea, in diritti fondamentali.it, 2021, 2, 69.
[3] Si vedano in tal senso le annotazioni di P. PASCUCCI e C. LAZZARI, Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n. 44, in DSL, 2021, 1, 153-156.
[4] Corte cost., 18 gennaio 2015, n. 5.
[5] Cfr. R. RIVERSO, Note in tema di individuazione dei soggetti obbligati ai vaccini a seguito del decreto-legge n. 44/2021, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 12 aprile 2021.
[6] Cass., sez. lav., 30 maggio 2018, n. 13662, secondo cui il ritiro del tesserino per l’accesso all’area aeroportuale giustifica il licenziamento dell’operatore di settore.
[7] Cass., sez. lav., 11 novembre 2019, n. 29104, in merito alla licenziabilità della guardia privata giurata cui sia stata revocata la licenza di porto d’arma.
[8] Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755.
[9] In tal senso già F. SCARPELLI, cit., 6.
[10] Documento d’indirizzo del Garante per la protezione dei dati personali, denominato “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”, 13 maggio 2021.
[11] Tra questi L. DE ANGELIS, Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro, in Dibattito istantaneo su vaccini anti-Covid e rapporto di lavoro, promosso da O. Mazzotta, in www.rivistalabor.it, 17 febbraio 2021; P. ICHINO, Se la privacy (male intesa) gioca a favore del virus, in Corriere della Sera – Economia, 24 gennaio 2021; si veda anche Trib. Messina, ord. 12 dicembre 2020, in www.lavorosi.it, e il suo commento da parte di L. TASCHINI, Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del giudice del lavoro di Messina, in questa rivista, 16 febbraio 2021.
[12] Cfr. ancora F. SCARPELLI, cit., 7. Di opinione opposta è C. PISANI, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 7 aprile 2021.
[13] L. ZOPPOLI, in Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di M. Basilico in questa rivista, 22 gennaio 2021.
[14] R. RIVERSO, in Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato, cit.; L. DE ANGELIS, Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro, cit.; in posizione intermedia (per la quale il rifiuto ingiustificato può configurare inadempimento contrattuale, non di gravità tale però da legittimare il licenziamento) V.A. POSO, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale? Intervista di M. Basilico in questa rivista, 30 marzo 2021.
[15] Cass., sez. lav., 26 settembre 1995, n. 10187.
[16] Cass., sez. lav., 16 settembre 2002, n. 13536.
[17] In questo senso cfr. anche R. DE LUCA TAMAJO, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale?, cit; nonché A. DE MATTEIS, Prime notazioni sul d.l. 1° aprile 2021, n. 44 sull’obbligo di vaccino del personale sanitario, in www.il giuslavorista.it, 6 aprile 2021.
[18] C. PISANI, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione, cit..
[19] Cass., sez. lav., 15 luglio 2020, n. 15112.
[20] Cass., sez. lav., 18 novembre 2019, n. 29879.
[21] Cass., sez. lav., ord. 8 ottobre 2018, n. 24742.
[22] Così F. SCARPELLI, cit., 7-8.
[23] Di rapporto di genus a species parlano espressamente P. PASCUCCI e C. LAZZARI, cit., 157 segg. .
[24] E’ di questa opinione A. DE MATTEIS, cit. .
[25] Quest’ultima è la tesi di C. PISANI, cit., 10, che menziona allo scopo Corte cost., 6 giugno 2019, n. 137.
Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione
di Raffaele Frasca
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e le sue ricadute. - 2.1. L’esposizione dei fatti. - 2.2. L’esposizione dei motivi. - 3. L’epifania formale della c.d. autosufficienza. - 4. La soppressione della Sesta Sezione Civile. - 5. Il criterio di delega di cui alla lettera e). - 6. Il c.d. procedimento accelerato di definizione dei ricorsi. - 7. Il proposto restyling dell’art. 377, dell’art. 378, dell’art. 379 e dell’art. 391-bis c.p.c. - 8. La novità del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.
1. Premessa.
L’intento con cui mi ero accinto a questo scritto era quello di commentare un testo che era apparso come possibile “emendamento governativo” alla legge delega di riforma del processo civile (d.d.l. n. 1662/S/XVIII) nella parte in cui conteneva un art. 6-bis riguardante la Corte di Cassazione.
Senonché, il 24 maggio scorso, la Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi, presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, ha presentato al Ministro della Giustizia, un testo recante “Proposte normative e note illustrative”, nel quale l’art. 6-bis ha un contenuto recante previsioni di criteri di delega ulteriori rispetto a quelli che figuravano nel testo precedente su cui avevo iniziato a svolgere le mie considerazioni (e, in un caso, a proposito del c.d. procedimento camerale accelerato, un testo che non reca una previsione che appariva invece nel testo originariamente comparso) ed inoltre vede trasferita in un diverso articolo, l’art. 6-quater, una parte del contenuto. Tale testo è comparso ed è divenuto disponibile, per quanto mi consta, la mattina del 27 maggio. Il testo reca anche la proposta di un articolato recante modifiche al codice di procedure civile quali le si sono immaginate in attuazione dei criteri di delega.
La novità del giorno 27 mi ha costretto ad una riconversione di quanto avevo in corso d’opera.
Il documento della Commissione, peraltro, per la Corte di Cassazione reca anche contenuti che concernono la costituzione di uffici per il giudice presso la Corte e la Procura Generale, un art. 6-ter che concerne modifiche all’ordinamento giudiziario quanto ai magistrati del Massimario e un art. 6-quinquies che propone un restyling dell’art. 37 che fotografi lo stato della giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla norma quanto al potere di rilevazione di parte e del giudice.
Di tali contenuti non mi occuperò se non indirettamente ed in modo limitato. Mi concentrerò sugli artt. 6-bis e 6-quater e nell’esporre le mie considerazioni procederò seguendo l’ordine dei criteri di delega e, quindi, esaminando, quando necessario, come si prevedrebbe di attuarli nell’articolato che accompagna la relazione.
Le considerazioni che verrò svolgendo risulteranno indirettamente farsi carico delle opinioni recentemente espresse qualche giorno fa dai Professori Bruno Capponi e Andrea Panzarola proprio su questa rivista.
2. Il principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e le sue ricadute.
Nell’art. 6-bis si indica nella lettera a) come primo principio e criterio direttivo quello della introduzione del “principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte” e se ne offrono due specificazioni con i nn. 1 e 2.
Nel n. 1 si prevede che “le parti redigano il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato>>.
L’attuazione del principio viene poi programmata proponendo l’inserimento di un art. 133-ter nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, con il seguente tenore: “ Al fine del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza di cui all’articolo 366 c.p.c., le parti redigono il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato”
Dunque, si prevede una sorta di “potere regolamentare” del Primo Presidente, con onere di consultazione preventiva dei soggetti indicati. I contenuti di tale attività riecheggeranno verosimilmente quelli del Protocollo del 17 dicembre 2015 tuttora vigente, concluso fra il Primo Presidente e il Consiglio Nazionale Forense. La previsione dell’art. 133-ter ha, peraltro, una struttura singolare, in quanto l’esercizio del potere si dice finalizzato ad assicurare “il fine del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza di cui all’art. 366 c.p.c.” ed il termine di riferimento soggettivo del “rispetto” sono le parti: dunque, la lettura della futura norma parrebbe evidenziare l’imposizione di un obbligo alle parti in ordine alla redazione del ricorso che si dice finalizzato al rispetto di qualcosa che emerge dalla norma codicistica dell’art. 366.
Per apprezzare il significato della proposta innovativa è necessario considerare che al criterio di delega di cui al citato n. 1 segue quello di cui al n. 2, secondo il quale, sempre ai fini dell’introduzione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte, si dispone che l’attuazione della delega preveda che “il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione>>.
La proposta di norma di delegazione, dunque, prevede che si debba intervenire sul requisito dell’esposizione e su quello dei motivi.
Puntualmente, l’articolato immagina allora un intervento sui numeri 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.
Ne deriva che, conforme alla funzione della norma dell’art. 366, le proposte innovazioni incideranno sui c.d. requisiti di contenuto-forma del ricorso per cassazione, che l’art. 366 appunto disciplina.
2.1. L’esposizione dei fatti.
La proposta riguardante il n. 3 di tale norma si risolve in una riscrittura del suo n. 3 con la sostituzione alla prescrizione della “esposizione sommaria” di quella della “chiara ed essenziale esposizione”, che riprende il criterio di delega. L’introduzione dei requisiti di chiarezza ed essenzialità al posto della “esposizione sommaria” a mio avviso non rappresenta una novità sostanziale, perché sia la chiarezza sia l’essenzialità sono caratteri che la giurisprudenza della Corte di Cassazione rinviene connaturali all’adempimento del requisito della sommaria esposizione. L’esigenza di chiarezza, una volta correlato il requisito dell’esposizione sommaria ai fatti di causa trova attualmente la sua necessaria epifania nella necessità, atteso il riferimento ai fatti al plurale e considerato che i fatti della causa possono essere sia processuali che sostanziali, che si evidenzino sebbene in modo sommario sia i fatti dedotti a fondamento della domanda e quelli prospettati con le difese, sia i fatti inerenti allo svolgimento processuale di primo grado, sia il tenore della decisione di primo grado, sia le ragioni dell’appello (supponendo l’appellabilità e non la ricorribilità direttamente in Cassazione) e le difese contrapposte, sia i fatti inerenti lo svolgimento processuale del giudizio di appello, sia in fine le ragioni della decisione di appello. E’ questo che si coglie nella consolidata giurisprudenza della Corte.
Semmai, è da rilevare che in essa si rinviene un orientamento che esige che una simile esposizione debba concretarsi in una parte apposita del ricorso ed altro orientamento che è disposto ad evincerla anche dall’illustrazione dei motivi, ancorché nel modello attuale dell’art. 366 c.p.c. l’esposizione sommaria sia individuata – a pena di inammissibilità – come una parte distinta dai motivi. Questa seconda opzione non è certo conforme, al di là di tale dato testuale, all’esigenza di chiarezza: un ricorso che esordisce con l’illustrazione dei motivi non soddisfa il modello della chiarezza perché induce alla loro lettura senza una previa conoscenza del fatto sostanziale e processuale e nella res sperata che di esso il o i motivi contengano la rivelazione. Rivelazione che, si badi, al di là di quanto può apparire funzionale alla stessa illustrazione del motivo, dovrebbe essere di contenuti tali da consentire di ritenere che il motivo stesso sia spendibile in sede di legittimità. L’esistenza di tali incognite nella conoscenza dell’esposizione del fatto nell’attuale vigenza del n. 3 dell’art. 366 non mi sembra che consenta di dire che un ricorso che manchi di una parte dedicata all’esposizione del fatto rispetti il requisito della chiarezza. Che poi, in mancanza dell’espressa previsione della chiarezza nel testo attuale, utilizzando il concetto normativo della idoneità al raggiungimento dello scopo - previsto per la disciplina delle nullità, ma, a mio avviso applicabile alle cause di inammissibilità purché non si debba cercare aliunde rispetto all’atto - si possa avallare l’orientamento più liberale reputando che la previsione di requisiti distinti nell’art. 366 non vi sia d’ostacolo, è idea forse condivisibile (specie in presenza di un ricorso con un solo motivo o con pochi motivi).
Ma, mi domanda, lo sarebbe nell’eventuale vigenza del testo di cui all’articolato?
Mi parrebbe di no, giacché l’espresso riferimento della chiarezza dell’esposizione dei fatti nel n. 3 dell’art. 366 c.p.c. potrebbe rafforzare la tesi che il ricorso debba avere una parte “dedicata” all’esposizione del fatto e che, in mancanza, non si debba fare ricorso alla lettura dei motivi o, comunque, considerarla sufficiente a fornirla. E’ palese che un ricorso mancante formalmente di una parte dedicata all’esposizione del fatto non possa definirsi “chiaro” e la ricerca nei motivi del fatto sostanziale e processuale, se avvenisse, avverrebbe proprio per la constatazione della mancanza di chiarezza dell’attuazione del modello normativo di ricorso ed in contraddizione questa volta patente con la lettera della legge.
Mi preme, allora, rilevare che una implicazione del nuovo testo potrà essere proprio l’esclusione della possibilità di praticare l’orientamento liberale di cui ho detto.
Tanto più in presenza di una innovazione come l’art. 133-ter se l’attività regolamentare ivi prevista prevedrà, come sarà certo ed a somiglianza del mentovato Protocollo, che il ricorso rechi una parte dedicata all’esposizione dei fatti della causa.
Pur in presenza di una innovazione, come ho detto, non sostanziale, il suo carattere formale sarebbe denso comunque di conseguenze applicative.
Corre l’obbligo di rilevare che la prescrizione del requisito di chiarezza, peraltro, la si prevede congiuntamente a quella della “essenzialità”.
Ebbene, la proposta di inserimento dell’aggettivo “essenziale” non sarebbe neppure essa innocua: essa darà nuova ed ulteriore giustificazione al consolidato filone di giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite, che nella vigenza dell’attuale n. 3 dell’art. 366 censura l’esposizione di fatti per così dire “eccedentaria”, cioè – secondo consolidati precedenti che si occupano delle varie specie di eccedenza - assemblata, riproduttiva – nei vari modi resi possibili dalla tecnica redazionale - degli atti del giudizio di merito: è palese che simili forme contraddirebbero manifestamente l’essenzialità e ben dovrebbero essere sanzionate come lo sono e nella vigenza del nuovo testo immaginato, lo sarebbero in forza di un disposto esplicito.
Un’ultima notazione.
Ancorché l’art. 133-ter prima evocato alluda all’esigenza di sinteticità e non a quella di essenzialità, tale norma e, dunque, le previsioni del decreto del Primo Presidente, sia quanto alla struttura del ricorso (e, dunque, all’indicazione di una parte del ricorso dedicata all’esposizione dei fatti), sia quanto alla fissazione di limiti quantitativi (salve le eccezioni giustificate dalla particolarità della vicenda, che il decreto non dovrebbe mancare di prevedere), saranno da considerare imperative e rifluenti quindi sull’ammissibilità del ricorso quanto al requisito dell’art. 366 n. 3 ( e ciò a differenza di quelle del Protocollo del 2015, che hanno valore di “consiglio”).
2.2. L’esposizione dei motivi.
In secondo luogo, il criterio di delega prevede, nel ricordato n. 2, che sempre a pena di inammissibilità il ricorso debba contenere “la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione>> ed a questo si correla un intervento sul n. 4 dell’art. 366, nel quale si sostituisce all’articolo “i” con cui esso inizia, l’inciso “la chiara e sintetica esposizione dei”, che così risulta premessa alla parola “motivi”. Nel contempo, si sopprime l’inciso finale “secondo quanto previsto dall’articolo 366-bis”, lasciato nella norma del legislatore della l. n. n. 69 del 2009, allorquando il suo articolo 47, comma 1, lett. d) abrogò l’art. 366-bis. Mancata soppressione che, per i più fini esegeti e cultori del diritto delle fonti, avrebbe potuto anche implicare la conservazione della previsione dell’art. 366-bis anziché come norma come disposizione integratrice proprio del n. 4, nel senso di indicare la tecnica di redazione dei motivi. E ciò, per quanto attiene al vizio di cui an. 5 dell’art. 360 con riferimento alla “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa”, a seguito della novella del n. 5 operata dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni nella l. n. 134 del 2012. Invero, quando il legislatore abroga una norma ed essa è richiamata da altra norma, occorre verificare se la soppressione diretta della norma abrogata non l’abbia lasciata vigente come disposizione individuatrice del contenuto dell’altra che la richiamava, in assenza di abrogazione del richiamo.
L’introduzione del requisito della “chiarezza” sarebbe da salutare con positività perché nuovamente segnerebbe una innovazione formale diretta a corroborare quanto è già dato rinvenire nella giurisprudenza della Corte, nella quale sovente si vede evocato come requisito di ammissibilità del motivo proprio la “chiarezza”.
Su che cosa potrà significare la chiarezza rilevo che, quando si tratti di vizio in iure relativo a motivo sostanziale o processuale, occorrerà evidenziare in modo appunto “chiaro”, cioè idoneo ad esprimere i termini e le ragioni della doglianza, la sussistenza del vizio e, per la violazione di norme processuali, riguardo alle quali la Corte di Cassazione giudica del fatto processuale inerente all’applicazione della norma del procedimento, le coordinate di esso.
L’esigenza di sinteticità a questo punto servirà a rendere in via indiretta precettive le indicazioni somministrate dal provvedimento ai sensi dell’art. 133-bis: la loro inosservanza potrà anche qui far dire il motivo inammissibile, là dove senza giustificato motivo, che, evidentemente nel provvedimento presidenziale si lascerà come eccezione (sperabilmente da adeguatamente spiegarsi), siano violati i limiti quantitativi là fissati.
Non toccati dall’innovazione proposta saranno i tradizionali principi di specificità del motivo di ricorso per cassazione e di necessaria correlazione del motivo alla motivazione, siccome espressi da consolidata giurisprudenza: sia consento rinviare a Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017, che in motivazione ribadisce i principi di diritto consolidati enunciati da Cass. n. 4741 del 2005 e da Cass. n. 359 del 2005 (che esprimono una delle declinazioni formali in cui i detti principi trovano consolidata epifania nella giurisprudenza della corte).
3. L’epifania formale della c.d. autosufficienza.
Il criterio di delega di cui alla lettera c) dispone che si debba “specificare in che cosa consiste il principio di autosufficienza del ricorso, prevedendo che il ricorso debba contenere la specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, del passo dell’atto processuale, del documento e del contratto o accordo collettivo sul quale lo stesso si fonda, nonché del momento in cui essi sono stati depositati o si sono formati nel processo, e stabilendo che il rispetto di tale onere e di quanto previsto dal numero 4 dell’articolo 369 del codice di procedura civile soddisfa tale principio>>.
La previsione viene integralmente riproposta nell’articolato come nuovo testo dell’art. 366 n. 6 c.p.c., il quale la ripete a partire dalle parole “la specifica indicazione”.
La proposta fotografa certamente uno dei contenuti che la giurisprudenza della Corte assegna al c.d. principio di autosufficienza, che nella norma del n. 6 dell’art. 366 nel testo attuale ha trovato il precipitato normativo espresso dell’esegesi della tecnica di deduzione del motivo di ricorso per cassazione, la cui elaborazione era iniziata sul finire dello scorso secolo a partire da una sentenza estesa dall’indimenticabile Stefano Evangelista.
La “fotografia” è da apprezzare, ma è riuscita – sia detto senza tentennamenti -incompleta, il che dovrebbe indurre a ripensare l’articolato e prima ancora il criterio di delega. E’ certamente positiva la specificazione che per ogni motivo si deve indicare in modo specifico il “passo” degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi fondanti: essa rappresenta l’avallo, sotto il profilo del c.d. onere di riproduzione del contenuto di ciò che fonda il motivo, di quanto afferma la costante giurisprudenza della Corte, essendo stata abbandonata da tempo l’idea che invece occorra (a pena di inammissibilità) la riproduzione totale nel motivo dell’atto, del documento, etc., che in passato, anche prima della introduzione del n. 6 dell’art. 366, talvolta in modo errato era stata sostenuta.
Il testo proposto non lo dice, ma, per il tramite dell’esigenza di “specifica indicazione” resterebbe giustamente ferma la possibilità che essa venga adempiuta sia tramite riproduzione diretta del passo, sia tramite riproduzione indiretta di esso con precisazione della parte corrispondente nell’atto, nel documento e nel contratto o accordo collettivo. Il modo di realizzare la specificità dell’indicazione del passo resterà conchiuso in queste due alternative.
Parimenti trasferisce nella norma ciò che la giurisprudenza della Corte esige attualmente come contenuto dell’art. 366 n. 6 l’indicazione del momento in cui l’atto, il documento, etc. è stato depositato o si è formato nel processo, intendendo per tale quello di merito.
Entrambe le specificazioni originano dai principi affermati da Cass. (ord.) n. 22303 del 2008 e ribaditi da Cass., Sez. Un., n. 28547 del 2008 e, poi dalla giurisprudenza successiva anche a Sezioni Unite.
L’intento della proposta di delega e l’articolato che ne rappresenterebbe il precipitato non possono che essere approvati come utile precisazione nel testo normativo di ciò che già ora vi si scorge.
Dove, invece, sia l’indicazione del criterio di delega, sia la sua trasposizione nel testo del n. 6 non mi paiono meritevoli di approvazione è quanto al resto.
Sia l’una che l’altro fanno infatti confusione e, peraltro, incorrono in un’omissione.
Vengo a quest’ultima.
Il testo novellato non specifica che l’onere di indicazione specifica deve comprendere anche l’indicazione del se e dove l’atto processuale (che, si badi, se non è nella disposizione della parte, è producibile, in quanto fondante il motivo, anche in copia), il documento o il contratto o accordo collettivo sia stato prodotto e, dunque, sia esaminabile nel giudizio di legittimità.
Nell’attuale vigenza dell’art. 366 n. 6 sempre l’appena evocata giurisprudenza aveva sottolineato che requisito dell’onere di indicazione è anche la c.d. localizzazione nel giudizio di legittimità. Cass., Sez. Un., n. 22726 del 2011 aveva sottolineato che la parte interessata, cioè il ricorrente o il controricorrente, possono fare riferimento alla presenza dell’atto processuale, del documento o dell’atto o accordo collettivo, nel fascicolo d’ufficio o in quello della controparte (salvo in tal caso scontare, alludo al ricorrente, la mancata costituzione della controparte intimata e l’eventuale assenza nel fascicolo d’ufficio del fascicolo di detta controparte), ma ciò al fine di esentarsi dall’onere, diverso da quello dell’art. 366 n. 6, di produzione di essi, prescritto dal n. 4 dell’art. 369 c.p.c. Era ed è ferma, dunque, l’esigenza di enunciare comunque la localizzazione, tanto in caso di produzione diretta, quanto per il caso di riferimento alla presenza aliunde.
Invece, sia il criterio di delega sia la norma “dimenticano” l’onere di localizzazione nel giudizio di legittimità come requisito contenutistico del ricorso e, cosa ancora più criticabile, “fanno confusione”. Infatti, là dove il programmato secondo inciso del n. 6 dovrebbe dire che “Il rispetto della previsione del numero 6) del primo comma e del numero 4) dell’articolo 369 soddisfa il requisito dell’autosufficienza>> evidenzia: a) per un verso appunto una confusione - tanto più indebita dato che si lascia immutato l’art. 369 n. 4 c.p.c. - fra l’onere correlato all’indicazione specifica, che è requisito di contenuto-forma del ricorso, prescritto a pena di inammissibilità, e l’onere di produzione degli atti di cui al n. 6 dell’art. 366, che invece è prescritto a pena di improcedibilità; b) e, per altro verso, esenterebbe il ricorrente (o il controricorrente) dall’onere di localizzazione nel giudizio di legittimità come requisito inerente all’indicazione specifica.
Ne conseguirebbe che sarebbe onere della Corte controllare se la parte abbia prodotto l’atto, il documento o l’accordo o contratto collettivo e, soprattutto, di procedere a tale ricerca “alla cieca”, con evidente rischio di errori e perdita di tempo e ciò almeno per tutti gli atti e documenti che non siano atti processuali presenti necessariamente in originale nel fascicolo d’ufficio. Ricordo, poi, che attualmente, peraltro, pur essendo vigente il terzo comma dell’art. 369 che prescrive l’onere a carico della parte della richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, i fascicoli, pur in presenza di richiesta, vengono trasmessi, essendo vigente una disposizione dell’allora Primo Presidente Aggiunto Vincenzo Carbone, solo in taluni limitatissimi casi (la disposizione venne adottata per impedire l’afflusso dei fascicoli di merito, in ragione sia di esigenze di rischi per la stabilità del Palazzo, sia di mancanza di spazi di allocazione). Il recente parziale decollo del digitale in Cassazione non contempla, del resto, la possibilità di accesso da parte della Corte al digitale dei giudizi di merito o una sorta di possibile collegamento.
La divisata nuova norma è, dunque, doppiamente criticabile: sottrae un contenuto all’onere di indicazione specifica, confonde due diversi requisiti. Inoltre, è gravemente inopportuna ai fini della rapida gestione del processo, segnatamente della sollecita attività di spoglio, e crea rischi di errori.
Non solo. Essa, sottolineando che il rispetto del n. 4 dell’art. 369 partecipa al soddisfacimento dell’autosufficienza, scilicet dell’onere di indicazione specifica, parrebbe precludere l’applicazione dei ricordati principi, indicati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 22726 del 2011. La produzione sarebbe sempre necessaria.
E’ opportuno, dunque, a mio sommesso avviso, che il criterio di delega sia rivisto.
4. La soppressione della Sesta Sezione Civile.
Passo all’esame del criterio di delega di cui alla lettera c), secondo il quale si deve provvedere ad “unificare i riti camerali, attualmente disciplinati dagli articoli 380-bis (Procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso) e 380-bis.1 del codice di procedura civile (Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice), prevedendo: 1) la soppressione, anche nell’Ordinamento giudiziario, della sezione di cui all’articolo 376 del codice di procedura civile e la concentrazione della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici; 2) l’abrogazione del procedimento disciplinato dall’articolo 380-bis del codice di procedura civile e il mantenimento di quello disciplinato dall’articolo 380-bis.1 del codice di procedura civile>>. Il criterio, che, dopo la generica previsione dell’unificazione dei procedimenti in camera di consiglio, oggi distinti fra quello di cui all’art. 380-bis e quello di cui all’art. 380-bis.1. c.p.c., si sviluppa in concreto con la proposta della soppressione della Sesta Sezione Civile, cioè dell’apposita sezione di cui all’art. 376 c.p.c., ed il trasferimento “della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici”.
L’espressione sottende che ciò che faceva la Sesta Sezione dovrebbe farlo ogni sezione e lo dovrebbe fare con il procedimento camerale di cui all’art. 380-bis.1. e – limitatamente al regolamento di competenza (per il regolamento di giurisdizione sono competenti le Sezioni Unite) – con il procedimento camerale di cui all’art. 380-ter c.p.c.
Com’è noto la competenza della Sesta Sezione secondo il rito dell’art. 380-bis concerne le ipotesi di cui ai nn. 1 e 5 dell’art. 375 c.p.c., cioè l’inammissibilità del ricorso e la sua manifesta fondatezza od infondatezza. Ad esse la delega chiede di aggiungere quella della improcedibilità, che, peraltro, si riteneva compresa implicitamente nel n. 1 data la sua parentela con l’inammissibilità.
Singolarmente si tace sull’attività preliminare della Sesta, quella di spoglio, finalizzata ad intercettare i ricorsi meritevoli di inammissibilità o manifesta infondatezza/fondatezza. Ma è chiaro che anch’essa viene trasferita alla sezione semplice, per cui in sede di intervento sull’art. 376 c.p.c. occorrerà riferire l’assegnazione dei ricorsi alla sezione competente tabellarmente.
Che dire della proposta di soppressione?
La particolare composizione della Sesta è nota. Si tratta di una sezione che è composta da sottosezioni figlie della sezione semplice madre, ma pur sempre di una sezione unitaria, cui è preposto un presidente titolare con competenze sue proprie a livello tabellare.
Il carattere unitario della Sezione, per la verità, è stato sempre relativizzato dalla circostanza che il presidente titolare di solito ha assunto la funzione di coordinatore della sottosezione di provenienza, e anche quando non l’ha fatto si è astenuto e si astiene dal presiedere collegi presso tutte le sottosezioni. Ciò che, invece, a mio avviso, avrebbe garantito la formazione in seno alle Sottosezioni di giurisprudenze e prassi applicative coincidenti sui requisiti di ammissibilità del ricorso, alla cui valutazione la Sesta è preposta, nonché anche la formazione di orientamenti uniformi circa il grado di apprezzamento della manifesta fondatezza o infondatezza.
Poco praticata è stata la stanza di compensazione delle c.d. Sezioni Unite di Sesta, pur tabellarmente introdotte: esse si sono riunte pochissime volte.
La prassi della Sesta è stata, dunque, quella di una sezione unitaria operante come tale in modo del tutto relativo.
Nella sostanza ogni sottosezione, salvo quella occasionalmente coordinata dal presidente titolare (che in dipendenza del suo status non aveva quel vincolo), ha operato ed opera in stretto coordinamento con la sezione madre.
Il problema che, com’è noto, si è verificato, è stato che la Sesta non intercettava e non intercetta tutti i ricorsi che sarebbero di sua competenza.
In tanto, l’attività di spoglio svolta dal singolo consigliere risulta automaticamente finalizzata ad acquisire una “provvista” da utilizzare per la formulazione della proposta da decidersi in camera di consiglio ed è palese che una simile legittima finalità, una volta correlata con il limite della quota di “ingaggio” per numero di ricorsi da trattare in adunanza ai sensi dell’art. 380-bis, non poteva come non può che indurre a rimettere alla Sezione Madre anche ricorsi che sarebbero decidibili dalla Sesta. Non solo: la previsione della proposta sconsiglia di trattare in Sesta ricorsi che, pur presentando le caratteristiche del n. 1 o del n. 5 dell’art. 375 richiederebbero per il numero dei motivi una proposta molto articolata. Il fattore tempo e quello quantitativo sul numero di ricorsi da trattare lo giustificano. Inoltre, il numero di consiglieri di provenienza di ogni sezione madre, tanto nei casi di coassegnazione quanto nei casi di assegnazione in esclusiva, anch’esso ha giuocato nello stesso senso.
Ciò nonostante, i livelli produttivi della Sesta sono quelli che hanno assicurato – almeno prima del riversarsi sulla Corte di ricorsi in materia di protezione internazionale sulle decisioni in unico grado – che il monte ricorsi pendenti non crescesse di anno in anno. Esigenza che non può certo essere vista come disvalore adducendo che meglio sarebbe dedicarsi alla decisione dei soli ricorsi fondati e, quindi, intercettarli e trattarli prioritariamente.
Vien fatto allora di domandarsi se la paventata soppressione della Sesta sia cosa buona e giusta.
Non mi pare, come pure è stato detto, che la soppressione sia stata suggerita dal Primo Presidente: la lettura della Relazione Illustrativa suggeriva – si veda alle pagg. 150-151 - solo l’unificazione dei riti camerali.
Dico senza esitazioni che la soppressione non mi sembra una buona idea per una serie di ragioni.
La prima è quella stessa che, come ho detto, ha rappresentato un limite alla funzionalità della Sesta. Alludo al carattere di sostanziale separatezza fra le sottosezioni, che impediva o rendeva difficile la nomofilachia soprattutto sulle cause di inammissibilità e, in misura minore, sugli standard di apprezzamento della manifesta fondatezza/infondatezza.
Sotto il primo aspetto, il trasferimento alle sezioni semplici della competenza ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 375 confermerà la separatezza sui criteri di valutazione della inammissibilità, con il perpetuarsi di orientamenti contrastanti e non omogenei.
Inoltre, ravviso un’ulteriore difficoltà di rapido funzionamento delle sezioni nella gestione del camerale loro trasferito. Mentre l’esistenza di una cancelleria unitaria della Sesta assicurava che dalla cancelleria centrale i ricorsi affluissero ad essa e fossero gestiti, sebbene in funzione dello smistamento alla sottosezione, da un unico ufficio, nello scenario utilizzato dalla legge delega occorrerà che presso ogni sezione sia istituito un ufficio di cancelleria preposto alla ricezione dei ricorsi dalla cancelleria centrale, con conseguente necessità di una ridistribuzione del personale già in servizio alla Sesta presso le sezioni semplici. L’afflusso diretto alla cancelleria di ogni sezione ed in ipotesi ad un ufficio a ciò preposto creerà un problema di allocazione dei fascicoli, che esigerà la ricerca di nuovi spazi a disposizione di ogni sezione. Ciò, a meno di immaginare che per ogni sezione l’ufficio addetto a ricevere i ricorsi dalla cancelleria centrale resti allocato dove attualmente è allocata la cancelleria della Sesta, che è il piano terra del Palazzaccio. Ma, in tal caso, occorrerà cercare dislocazioni diverse per ogni ufficio sezionale, con tutto ciò che ne segue.
Qualora si scegliesse la seconda soluzione continuerà a presentarsi il problema del trasferimento dei fascicoli da non trattarsi in camerale per la trattazione non camerale, cioè in udienza pubblica, presso la sezione, anche qui con problemi organizzativi.
Sul versante magistratuale, occorrerà creare presso ogni sezione un ufficio composto da magistrati addetti o da tutti i magistrati addetti alla sezione che in primo luogo ed in via immediata debba individuare i ricorsi da trattarsi con il procedimento camerale. Ed anche in tal caso si porrà un problema di allocazione dei magistrati per l’attività di spoglio a ciò finalizzata in una sede presso la sezione, a mano di immaginare che la sede sia quella che oggi hanno le sottosezioni della Sesta.
Quelli indicati sono problemi che non possono essere sottovalutati.
Si potrebbe pensare che tali problemi, una volta considerato che la metà o poco più dei ricorsi ricevuti ogni anno sono ormai di spettanza della Sezione Tributaria, ad una radicale riorganizzazione, che veda tale sezione allocata a piano terra, dove ora c’è la Sesta. Ciò consentirebbe di ridistribuire alle altre sezioni semplici dell’edificio gli spazi attualmente occupati dalla Tributaria al quarto piano.
Quelli accennati possono sembrare falsi problemi solo a chi non conosce la struttura organizzativa della Corte e non mi sembrano da sottovalutare.
Non va sottaciuto che, inoltre, l’ipotesi dell’ascesa dalla cancelleria centrale dei fascicoli al quarto piano presso ogni sezione dovrà fare i conti con le esigenze di staticità del palazzo.
Solo il pieno decollo del processo digitale in Cassazione potrebbe ridimensionare le ultime problematiche che ho indicato.
Un effetto oggettivo di ridimensionamento delle stesse potrebbe verificarsi solo se la legge delegata dovesse disporre che la nuova normativa concerna i ricorsi introdotti dopo la sua entrata in vigore e la Sesta Sezione fosse lasciata operare per i ricorsi introdotti prima.
Concludo allora dicendo che forse sarebbe miglior partito conservare la Sesta Sezione rinforzandola e prevedere che anch’essa adotti il rito dell’art. 380-bis.1. eliminando la proposta ed escludendo da esso la comunicazione della fissazione al P.G. E semmai conservare quel rito anche per i ricorsi rimessi, in sede di spoglio, alla sezione madre.
5. Il criterio di delega di cui alla lettera e).
Una qualche sorpresa desta la previsione di delega di cui alla lettera e) e ciò per la prima parte, cioè là dove prevede la possibilità che il provvedimento emesso a seguito del procedimento camerale ormai concentrato sull’art. 380-bis.1 e sulla ben più limitata ipotesi di cui all’art. 380-ter c.p.c. possa essere depositato immediatamente in cancelleria. Parlo di sorpresa perché tale possibilità esiste già attualmente, nulla vietando al relatore di depositare l’ordinanza anche immediatamente dopo la chiusura della camera di consiglio, naturalmente se l’abbia redatta come progetto di decisione ed essa sia stata approvata dal Collegio. E nulla vieta al presidente, che deve sottoscrivere egli solo l’ordinanza, di sottoscriverla hic et hinde. Il problema è che attualmente bisogna attendere che la cancelleria registri il deposito della minuta da parte del relatore e la trasferisca al presidente, il che difficilmente può avvenire con immediatezza. La previsione mi pare perciò poco comprensibile ed inutile. Né le cose muterebbero con l’avvento del processo digitale, che non eliminerà la trafila descritta, trasferendola appunto sul digitale.
Invece, la seconda previsione di delega, quella che in via alternativa ed in realtà obbligatoria se non si sceglie il deposito immediato prevede che il Collegio assegni per il deposito e la pubblicazione un termine di sessanta giorni per la redazione e la pubblicazione, appare semplicemente sconcertante quanto all’uso accoppiato del termine “redazione”, che è atto interno al relatore come tale, e del termine “pubblicazione”, che concerne un’attività della cancelleria, anziché di quello “deposito della minuta”. Non è dato comprendere non solo il senso dell’assegnazione di uno stesso termine per due adempimenti diversi ed ascrivibili il primo al relatore ed il secondo alla cancelleria. La confusione del testo del criterio di delega, si badi, si apprezzerebbe anche se si ragionasse in un’ottica di (futuro) processo digitale.
Per fortuna l’articolato mette le cose a posto almeno quanto al secondo profilo appena considerato. Infatti, nell’art. 380-bis.1. (e la stessa previsione è inserita nell’art. 380-ter) si prevede la seguente aggiunta: “L’ordinanza, succintamente motivata, è depositata entro sessanta giorni dall’adunanza; il collegio può disporre tuttavia il deposito immediato >>. Come si vede è il collegio, in via di eccezione, che può disporre il deposito immediato, ma appunto solo il deposito. Semmai, la previsione normale del deposito entro sessanta giorni implicherebbe il riconoscimento a livello normativo di un termine che avrebbe rilievo disciplinare.
6. Il c.d. procedimento accelerato di definizione dei ricorsi.
Il criterio di delega di cui alla lettera e) introduce, o meglio programma, una rilevante novità, che definisce “procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale”. Il fatto che si preveda tale procedimento “per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati”, assegna a tale nuovo procedimento un àmbito interno al solo procedimento camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c. e lascia fuori il procedimento di cui all’art. 380-ter c.p.c. Le ipotesi considerate sono quelle del n. 1 e del n. 5 dell’art. 375 c.p.c. e, del resto, la lettura del criterio di delega prevede un procedimento incompatibile con quello di cui all’art. 380-ter, che suppone la previa richiesta delle conclusioni al Pubblico Ministero.
L’articolato propone l’attuazione del criterio di delega con la sostituzione dell’art. 380-bis che viene rubricato “Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati”. Nel primo comma della norma si prevede – dopo un poco comprensibile inciso eccettuativo (“se non è stata ancora fissata la data della decisione in camera di consiglio”: esso potrebbe alludere ad una fissazione che sia oggetto di ripensamento, ma l’ipotesi non è verosimile, giacché la scelta della procedura accelerata evidentemente sarà praticata all’esito dello spoglio del ricorso) - che nei casi indicati “il giudice della Corte” “formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta fondatezza o infondatezza ravvisata”.
La previsione riecheggia il modus operandi dell’attuale Sesta Sezione nelle dette ipotesi. Sorprende, come già nella proposta di delega, che la formulazione della proposta sia misteriosamente riferita al “giudice della Corte”. Verosimilmente, si è voluto alludere al relatore che attualmente viene designato secondo il meccanismo dell’art. 377 c.p.c., ma comunque sarebbe meglio che il legislatore delegato adempia alla delega in questo modo, cioè inserendo nella norma il riferimento al relatore.
Dopo di che si prevede che la proposta, da depositarsi in cancelleria, sia comunicata agli avvocati delle parti: anche qui l’attuazione della legge delega dovrebbe rimediare a due omissioni che, a mio avviso, si colgono nell’articolato.
Quella sul chi deve disporre la comunicazione e, prima ancora, quella sul chi deve disporre che si provveda alla comunicazione, così determinando l’inizio del procedimento acceleratorio.
Quanto alla prima, anche se lo stesso uso del termine comunicazione lo sottende, sarebbe meglio indicare che alla comunicazione debba provvedere la cancelleria e magari disporre che la stessa, decorso il termine dal perfezionamento della comunicazione, ne dia avviso, salvo stabilire a chi.
Quanto alla seconda omissione, che, invece, è più problematica, il rimediarvi dovrebbe opportunamente consistere in una delle due seguenti alternative: la delega dovrebbe adempiervi o prevedendo che la comunicazione sia disposta direttamente dal relatore che ha formulato la proposta o che sia ordinata dal presidente della sezione. Questa seconda alternativa mi parrebbe più ragionevole, perché implicherebbe che la pregnanza della proposta sia vagliata anche dal presidente, il che garantirebbe criteri di valutazione uniformi delle condizioni di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza.
Mi rendo conto, tuttavia, che questa seconda soluzione potrebbe restare “sulla carta” quanto a questa ponderazione da parte del presidente. La ragione sta nella tirannia dei numeri che la potrebbe rendere difficile. Comunque, la logica della spettanza al presidente della sezione mi sembra più corretta, tenuto conto che gli atti di impulso alla trattazione del “Giudice Corte di Cassazione” e tale risulta in via eventuale la comunicazione della proposta sono affidati al primo presidente o al presidente della sezione.
Non è previsto che la proposta sia comunicata al Pubblico Ministero, che in tal modo la ignorerà.
A seguito della comunicazione della proposta, ecco la rilevante novità, si prevede poi – nel terzo comma dell’art. 380-bis - che “che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato” e quindi - nel quarto comma – che “il giudice pronuncia decreto di estinzione e liquida le spese”, al quale – secondo il comma successivo – spetta l’efficacia di titolo esecutivo quanto alla pronuncia sulle spese. L’ultimo comma dispone, poi, che in tal caso, cioè “nel caso di definizione del giudizio [di cassazione] ai sensi del presente articolo”, il ricorrente, pur essendo soccombente, beneficia dell’esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.
La fattispecie di estinzione nuova così immaginata non viene qualificata come estinzione per rinuncia al giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 390 c.p.c. Nella sostanza, dal punto di vista del ricorrente, lo è, sebbene sub specie di rinuncia tacita (o, se si preferisce, desunta da un’omissione concludente). Tuttavia, a differenza che per la rinuncia di cui all’art. 390 c.p.c. l’effetto di tale tacita rinuncia può essere escluso dalla richiesta di fissazione della camera di consiglio da parte del resistente, che così assume, a differenza di quanto avviene nell’istituto dell’art. 390 c.p.c., un ruolo condizionante e di possibile interlocuzione. Ulteriore distacco dalla disciplina dell’art. 390 si ha per quanto attiene alle spese, dato che qui si prevede che esse debbano essere liquidate e lo si prevede ragionevolmente, giacché bisogna disincentivare la parte resistente dal chiedere la trattazione.
La dichiarazione di estinzione del giudizio di cassazione determinerà, come di consueto accade per la rinuncia di cui all’art. 390 c.p.c., il passaggio in cosa giudicata della decisione impugnata, con applicazione del principio di cui all’art. 338 c.p.c. La situazione giuridica oggetto del giudizio risulterà regolata dall’assetto risultante da detta sentenza.
L’articolato non dice, come non lo dice la delega, chi sia il “giudice” che pronuncia il decreto. L’evidente omologia con la disciplina dell’art. 391 c.p.c. suggerirebbe l’idea che si tratti del presidente, ma si potrebbe pensare che si tratti del relatore, cioè del “Giudice della Corte”. Sarà opportuno chiarirlo.
Quid iuris nel caso di erronea declaratoria di estinzione, ad esempio perché l’opposizione era stata proposta o non era stata proposta per mancanza o vizi della comunicazione della proposta? L’ipotetica attuazione della proposta di delega credo che dovrà disciplinare questa fattispecie.
Il caso di una richiesta tardiva non mi pare possa essere regolato allo stesso modo: la legge allude alla mancanza della richiesta nel termine di venti giorni e non anche alla richiesta oltre tale termine. Dovrebbe allora farsi luogo alla fissazione dell’adunanza camerale.
La nuova futuristica previsione non mi sembra, tuttavia, del tutto convincente.
A mio avviso la Commissione avrebbe dovuto proporre un’innovazione più radicale, cioè quella dell’adozione di una vera e propria ipotetica ordinanza provvisoria motivata succintamente ed enunciante la soluzione di inammissibilità, di improcedibilità, di infondatezza del ricorso, con la previsione della comunicazione alle parti costituite e l’assegnazione di un termine per la proposizione di un’opposizione motivata ad istanza della parte interessata, da decidersi dal collegio in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1, in mancanza della quale semmai dovrebbe scattare il meccanismo di dichiarazione dell’estinzione.
Una innovazione in qualche modo simile chi scrive l’aveva prospettata in occasione di un breve intervento svolto nel brevissimo spazio che fu concesso ai partecipanti dopo le relazioni nell’assemblea della Corte di Cassazione tenutasi nel giugno del 2015, allorché si discuteva delle proposte di riforma poi sfociate nel d.lg. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni nella l. n. 197 del 2016.
Spiego le ragioni del mio dissenso dalla proposta in cantiere e del sostegno della diversa proposta indicata.
A me pare che l’invio ai difensori di una proposta recante la sintetica indicazione della o delle cause di inammissibilità o della causa di improcedibilità o della causa o delle cause di manifesta infondatezza, difficilmente sortirà l’effetto di “convincere” quel difensore a non chiedere comunque la trattazione in adunanza camerale.
La ragione è ovvia: una enunciazione sintetica come quella che in concreto, in ossequio al Protocollo del 2016, viene fatta nell’attuale versione della proposta di cui all’art. 380-bis c.p.c. risulta avere un’efficacia di convincimento quantomeno dubbia. In tanto, se un difensore ha proposto il ricorso ed è veramente incorso in una causa di inammissibilità, improcedibilità o ha proposto un ricorso manifestamente infondato, è palese che si tratterà di un difensore poco avveduto, che ha fatto male il suo mestiere di cassazionista. Ed allora non è sperabile che una soltanto sintetica indicazione del perché ha sbagliato lo dissuada dal richiedere la trattazione in camera di consiglio. Quello che accadrà, di fronte alla sinteticità dell’indicazione della causa di definizione del ricorso, sarà verosimilmente che quel difensore che nel proporre il ricorso ha sbagliato non abbia la capacità di comprendere ed apprezzare l’efficacia persuasiva, pur esistente, della sintetica proposta. Il solo rischio di non sfuggire all’onere del c.d. doppio contributo mi sembrerebbe un deterrente di poco valore sempre per il difensore che versi nell’indicata condizione. Al di fuori del caso che ho ipotizzato, quello del cassazionista “maldestro”, comunque a me pare che l’efficacia persuasiva di una proposta sintetica meramente indicativa possa avere sempre un valore persuasivo del tutto relativo almeno nei casi di inammissibilità del ricorso per problemi di c.d. contenuto-forma e per quelli di manifesta infondatezza e ciò anche quando fosse accompagnata dall’indicazione di precedenti, in una logica simile a quella raccomandata dal ricordato Protocollo.
Va considerato che qui si tratta di apprezzare una proposta che in mancanza di richiesta di trattazione determina l’estinzione del giudizio di cassazione, mentre l’attuale proposta in sede di art. 380-bis è destinata ad essere discussa nell’adunanza camerale, in vista della quale può essere presentata memoria.
Vi sarebbe poi da fare i conti con il problema della relazione che il difensore dovrà fare al cliente sulla proposta ed è palese, per un verso che spiegare al cliente una “proposta” prospettando che è meglio non insistere chiedendo la trattazione sarà opera difficile per il difensore, dato che egli non potrà presentare la proposta come una decisione della Corte.
E’ per queste ragioni che credo sarebbe molto più opportuno adottare la soluzione della pronuncia da parte del relatore non già di una proposta, bensì di una vera e propria ordinanza ipotetica e condizionale motivata, sebbene succintamente, come imporrebbe l’ordinario procedimento ai sensi dell’art. 380-bis.1, dichiarativa della causa di inammissibilità, improcedibilità, manifesta infondatezza. Essa sarebbe contestabile, all’esito della comunicazione, non già con una mera richiesta di trattazione, bensì con un’opposizione motivata, che esprima in primo luogo il dissenso dall’ordinanza ipotetica e che sia da decidere dal Collegio in sede camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1.
Questa soluzione potrebbe essere accompagnata da una serie di previsioni accessorie: la prima è che l’ordinanza motivata redatta dal relatore designato dovrebbe recare il visto del presidente di sezione eventualmente preposto in sede sezionale alla gestione del procedimento accelerato. Ciò garantirebbe per un verso uniformità di valutazioni nella redazione dei provvedimenti e, per altro verso, garantirebbe una maggiore ponderazione della decisione.
La seconda previsione auspicabile, al fine di evitare opposizioni meramente dilatorie e comunque di assicurarle ponderate, dovrebbe essere il riconoscimento, in sede di trattazione camerale collegiale, qualora il ricorso venga dichiarato inammissibile o improcedibile o rigettato con la mera condivisione della motivazione enunciata dall’ordinanza opposta, del dovere del collegio di condannare ai sensi dell’art. 96, comma terzo, c.p.c.
La proposta che qui enuncio dovrebbe in particolare essere corredata dalle seguenti previsioni: a) l’ordinanza condizionale non dovrebbe recare la statuizione sulle spese; b) l’opposizione dovrebbe farsi entro un termine che, anche per lasciare spazio alla ponderazione della parte, dovrebbe essere di quaranta giorni; c) la legittimazione a proporla dovrebbe spettare solo alla parte soccombente per effetto della causa di inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso; d) nel caso di ordinanza decisoria ipotetica di più ricorsi riuniti o di ricorso principale ed incidentale, la legittimazione sarebbe riferibile a ciascuna delle parti soccombenti sui vari ricorsi e la sua proposizione porrebbe tuttavia nel nulla l’ordinanza anche per il resto, occorrendo che la decisione sui ricorsi sia unitaria; e) l’opposizione dovrebbe comunque determinare sempre una decisione del Collegio che assorba l’ordinanza ipotetica e condizionale, in pratica risolvendosi nella determinazione della sua automatica caducazione e della necessità di una decisione collegiale; f) l’opposizione dovrebbe essere motivata, cioè enunciare una critica alla motivazione contenuta nell’ordinanza condizionale e la mancanza di tale critica dovrebbe comportare una decisione collegiale che, dandone atto, decida il ricorso anche soltanto rinviando ad essa e pronunciando nello stesso senso sul ricorso con obbligatoria condanna, oltre che alle spese, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.; g) analoga soluzione dovrebbe darsi per il caso di opposizione che risulti proposta oltre il termine previsto; h) se l’opposizione venga ritenuta ammissibile, ma infondata soltanto per l’infondatezza della critica pur rivolta all’ordinanza condizionale, parimenti l’ordinanza collegiale dovrebbe recare la nuova decisione conforme del ricorso e contenere non solo la statuizione sulle spese, ma pure la condanna di cui al terzo comma dell’art. 96; i) nel caso di fondatezza dell’opposizione l’ordinanza collegiale dovrebbe procedere alla decisione del ricorso; l) nel caso in cui l’ordinanza recasse una ipotetica decisione provvisoria sul ricorso principale e su quello o su quelli incidentali, la proposizione dell’opposizione quanto alla proposta di decisione su uno dei ricorsi, automaticamente renderebbe necessaria la decisione collegiale su tutti i ricorsi, non potendosi immaginare che vi siano fonti di decisione distinte; m) nel caso di mancanza dell’opposizione nel termine si dovrebbe prevedere che l’ordinanza condizionale comunque si risolva e si dovrebbe adottare la soluzione della pronuncia del decreto di estinzione immaginata dall’articolato di cui si è riferito, con ciò che ne segue.
Sempre se si condividesse l’idea che il procedimento acceleratorio debba imperniarsi su un provvedimento motivato equivalente ad un’ordinanza decisoria, nella parziale condivisione della logica della Commissione, si potrebbe scegliere – ma mi parrebbe meno opportuno - anche la strada per cui la parte soccombente potrebbe fare anche un’opposizione immotivata o, se si vuole, chiedere la trattazione in adunanza camerale, con automatica caducazione dell’ordinanza. Ferme le conseguenze in termini di art. 96, terzo comma, c.p.c. nel caso della condivisione da parte del Collegio della motivazione dell’ordinanza e nel caso di richiesta tardiva. Nel caso di mancanza della richiesta si potrebbe prevedere sempre il decreto di cui ho detto sub m).
7. Il proposto restyling dell’art. 377, dell’art. 378, dell’art. 379 e dell’art. 391-bis c.p.c.
Nell’articolato – sulla base del criterio di delega di cui alla lettera g) – si prevedendo alcuni interventi sugli artt. 377, 378 e 379 c.p.c.
L’art. 377 c.p.c. conserva la sua rubrica e, a parte l’incongruenza già sopra segnalata della permanenza del richiamo al presidente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c., innova nel senso che anche al Pubblico Ministero debba darsi comunicazione dalla cancelleria della fissazione dell’udienza o dell’adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1: il riferimento all’adunanza va così inteso in quanto l’articolato lascia invece immutato l’art. 380-ter c.p.c.
Sempre l’art. 377 c.p.c. dispone eleva anche per udienze pubbliche a quaranta giorni il termine entro il quale deve farsi la detta comunicazione alle parti e al Pubblico Ministero.
L’art. 378 c.p.c. prevede in un primo comma che anche il P.G. possa presentare memorie in funzione dell’udienza pubblica dieci giorni prima di essa ed in un secondo comma lascia immutato il termine di cinque giorni per le parti e sancisce il principio, mutuato dalla giurisprudenza della Corte, che le memorie servono solo “per illustrare i motivi già esposti negli atti introduttivi e per replicare alle ragioni delle altre parti e alle memorie del pubblico ministero.”.
L’art. 379 c.p.c., in fine, viene rimodulato prevedendo nel primo comma che nell’udienza pubblica il relatore debba riferire “sinteticamente” e, con opportuna innovazione, che, “ove occorra, il presidente o anche il relatore indicano le questioni rilevanti per la decisione”, nonché, correlativamente, nel secondo comma, che i difensori delle parti svolgano lde difese “anche con particolare riferimento a specifici aspetti evidenziati dal presidente o dal relatore”. Si propone, poi, opportunamente l’aggiunta di un quarto comma, che dovrebbe disporre in tal senso: “Il presidente dirige la discussione fissando, se lo ritiene necessario, limiti temporali per il suo svolgimento”. In fine nell’art. 391-bis l’adunanza camerale diventa, al posto di quella di cu al sopprimendo art. 380-bis, quella ai sensi dell’art. 380-bis.1.
8. La novità del c.d. rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione.
Il criterio di delega di cui all’art. 6-quater prevede una sostanziale innovazione, che nell’articolato viene realizzata con l’introduzione nel Codice di procedura Civile del nuovo art. 362-bis, rubricato “Rinvio pregiudiziale”.
Il primo comma della nuova norma suonerebbe in questi termini: “Fuori dei casi in cui procede in base agli articoli 394 e 400, il giudice di merito può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le condizioni di cui al secondo comma” Si immagina, dunque, che il giudice di merito – al di fuori del caso in cui operi come giudice di rinvio e della revocazione – possa interrogare la Corte di Cassazione in ordine alla risoluzione di una questione di diritto rilevante per la definizione, anche solo in parte, della controversia. Può trattarsi sia del giudice di pace, sia del tribunale come giudice di primo grado o di appello, sia della corte di appello.
Il secondo comma indica le condizioni per l’esercizio del potere in questi termini: “Il rinvio può essere disposto dal giudice quando: 1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte; 2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza; 3) presenti particolari difficoltà interpretative; 4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
La proposta di innovazione mi sembra da valutare assolutamente con favore ed anzi la vedo come l’unica opzione possibile per preservare la funzione assegnata alla Corte di Cassazione dall’art. 67 dell’Ordinamento Giudiziario e nel contempo giustificare la conservazione della norma dell’art. 111, settimo comma, della Costituzione, che è – a mio modo di vedere – l’architrave dell’assetto costituzionale della Magistratura Ordinaria e per tale ragione, se è vero che è responsabile dell’assedio inusitato di ricorsi cui è da tempo sottoposta la Corte di Cassazione, difenderei dai ricorrenti auspici di modifica costituzionale nel senso di restringere la ricorribilità.
Il meccanismo immaginato dalla proposta sarebbe particolarmente idoneo a consentire un intervento nomofilattico della Corte di Cassazione soprattutto a proposito dell’esegesi di nuove norme, riguardo ala quale oggi bisogna aspettare molti anni prima che arrivi davanti alla Corte. Semmai, il limite della proposta è che non sarebbe applicabile alla giurisdizione in materia tributaria, atteso che i giudici di merito tributari sono estranei alla giurisdizione ordinaria e considerato che la norma, quando parla del giudice di merito, essendo inserenda nel Codice di Procedura Civile è norma interna alla giurisdizione civile ordinaria. Auspicherei, tra l’altro per il fatto che il succedersi di norme nuove è vorticoso nella materia tributaria, che si immagini in sede di attuazione della delega un’estensione.
Le ipotesi nelle quali è previsto il rinvio mi sembrano ben calibrate e semmai, proprio raccordandomi a quella della norma nuova, si potrebbe prevedere a proposito di essa un espresso riferimento.
Naturalmente, il potere resta affidato alla oculatezza del giudice di merito e per le norme nuove alla circostanza che la questione interpretativa si sia manifestata almeno in una prima fase di vigenza e applicazione della nuova norma, con risultati incerti.
In ordine al procedimento di rimessione, la norma prevede che: “Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto. Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte”
Il procedimento successivo dinanzi alla Corte è regolato in questi termini: “Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma. Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza”
La norma non lo dice, ma le parti del giudizio di merito naturalmente dovrebbero potersi costituire e discutere nella pubblica udienza.
Si prevede, poi, che: “il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”
Il carattere vincolante, come dimostra il secondo inciso, se il rinvio sarà disposto dal giudice di primo grado, opererà anche per il giudice di appello e, ovviamente, anche se il giudizio tornasse di nuovo in Cassazione.
Quid iuris se, successivamente alla risposta della Corte, quest’ultima muti il suo avviso sulla questione interpretativa e il procedimento in cui era stata data disposta al quesito sia ancora non definito? E’ opportuno che la norma delegata si occupi del problema.
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Nota a Ordinanza del Tribunale di Palermo sez. V civile specializzata in materia di impresa, 17.03.2021
di Marcello Mauceri
Sommario: 1. Termini della questione oggetto dell’ordinanza cautelare - 2. Aspetti di diritto processuale - 3. Quadro normativo di riferimento - 4. Abuso del diritto e violazione del canone di buona fede: sistema dei rimedi - 5. Conclusioni.
1. Termini della questione oggetto dell’ordinanza cautelare
Il tribunale di Palermo con l’ordinanza in commento decide in sede cautelare d’urgenza su un ricorso proposto da un esercizio di “Compro oro” che si è visto recapitare la comunicazione immotivata di recesso della banca dal contratto di corrente di corrispondenza a tempo indeterminato, senza apertura di credito e con saldo finale attivo. Il conto è stato acceso da oltre dieci anni senza subire nel tempo modifiche di sorta [1].
Lamenta il ricorrente che l’esercizio del diritto potestativo di recesso ad nutum sia avvenuto in modo abusivo tenuto conto dell’evoluzione della normativa comunitaria che appare fare emergere un vero e proprio obbligo a contrarre delle banche con riferimento, quanto meno, ai conti correnti di base, cui specularmente corrisponde un vero e proprio diritto al conto corrente del richiedente.
Lamenta altresì che la mancanza del conto corrente gli impedirebbe di fatto l’esercizio dell’attività economica costituente l’oggetto sociale, stante che la normativa sulla lotta al riciclaggio e all’evasione fiscale, unitamente alle stringenti esigenze di tracciabilità dei pagamenti e alla diffusa dematerializzazione della moneta, non consentirebbe di operare tramite contante.
Deduce inoltre di essersi attivato presso altri istituti di credito per ottenere l’apertura di un conto senza positivi riscontri.
D’altro canto la banca invoca la libertà di esercizio del recesso trattandosi di conto corrente contratto a tempo indeterminato per come disciplinato dall’art. 1833 c.c. e ribadisce peraltro che il preavviso di sessanta giorni (ben superiore al limite di legge) dimostra la correttezza del suo agire.
2. Aspetti di diritto processuale
Il giudice della cautela in primis dà conto dell’ampio spettro di ipotesi in cui è possibile disporre in via cautelare con il duttile strumento del provvedimento d’urgenza contemplato dall’art. 700 c.p.c.; ribadendo la discrezionalità che la legge offre al decidente per neutralizzare il “pericolo imminente e irreparabile” che vulnera la posizione giuridica soggettiva da tutelare nelle more della decisione di merito, la cui attesa potrebbe definitivamente frustrare il bene della vita (e le connesse utilità) ad essa sotteso.
Sul punto può dirsi ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale nel senso dell’ammissibilità della tutela cautelare atipica in funzione della difesa di diritti non assoluti, come l'accertamento della legittimità dell'esercizio del recesso, “in quanto scopo della tutela cautelare è quello di impedire che il tempo necessario alla pronuncia di merito pregiudichi in maniera irreparabile le utilità che il titolare della situazione giuridica violata avrebbe potuto trarre da una pronuncia tempestiva a sé favorevole o, comunque, necessarie a scongiurare l'aggravamento di una situazione già pregiudicata “[2].
Detta tutela in particolare non può essere negata nemmeno di fronte ad obblighi di fare ( o non fare) infungibili come potrebbe essere il diritto alla prosecuzione del rapporto contrattuale, perché nell’ambito dei rapporti obbligatori, il carattere infungibile dell’obbligazione di cui si predica l’inadempimento, non preclude una statuizione di condanna; tenuto conto peraltro delle potenzialità coercitive introdotte con l’art. 614-bis c.p.c. (rubricato “Misure di coercizione indiretta”) che si inserisce coerentemente nel quadro dei principi di effettività della tutela giudiziale per come emergono dalla Costituzione e dalle norme di matrice comunitaria.[3]
Ed allora l’ordinanza in commento pare non discostarsi da quel filone giurisprudenziale che predica l’ammissibilità di inibitorie atipiche in funzione della tutela urgente delle più diverse situazioni giuridiche soggettive, che invocano rapidità e incisività di intervento.
3. Quadro normativo di riferimento
Le norme che vengono scrutinate per trovare la soluzione al problema di offrire tutela effettiva all’imprenditore, privato dall’oggi al domani (si direbbe brutalmente) dello strumento essenziale per continuare ad operare legalmente nel settore di riferimento - ossia un ordinario conto corrente di corrispondenza - sono in prima battuta gli artt. 1697 c.c. e 2597 c.c.
La prima norma è stata ritenuta una applicazione speciale della seconda, anche se le opinioni al riguardo non sono uniformi [4].
Di esse però viene per lo più esclusa l’applicabilità in via analogica.
La dottrina si è occupata della possibilità di rinvenire nel sistema normativo obblighi a contrarre oltre lo stesso perimetro delle norme speciali traendo spunto dal principio generale del neminem laedere recato dall’art 2043 c.c. “opportunamente interpretato”[5] .
Ne consegue che il danno ingiusto provocato dal rifiuto a contrarre a sua volta animato da intenti emulativi, ricattatori, discriminatori, sopraffattori, potrebbe trovare adeguata sanzione nel rimedio risarcitorio apprestato dalla menzionata norma. Ma ciò merita un approfondimento che verrà svolto più oltre.
Non diversamente, e procedendo per esclusione, il tribunale, pur constatando un trend normativo favorevole a riconoscere ai cittadini dell’unione europea un vero e proprio diritto al conto corrente con caratteristiche di base (anche a prescindere dalle loro condizioni reddituali, finanziarie o di solvibilità) finisce con escluderne l’applicabilità al caso di specie, per la semplice ed evidente circostanza che sia la Direttiva UE 2014/92 sia il decreto legislativo applicativo, a sua volta attuato dal D.M. 70/2018, si rivolgono esplicitamente al consumatore ossia “ la persona fisica che agisca a fini che non rientrano nella sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale” ( art.1 Dir.).
Pertanto sul punto non occorre dilungarsi ulteriormente, tenuto conto che quanto emerge dai considerando non ha alcuna valenza precettiva e il diritto in questione non trova spazio fuori dai rapporti consumeristici [6].
4. Abuso del diritto e violazione del canone di buona fede: sistema dei rimedi
A questo punto, constatata l’assenza di un diritto al conto corrente ed uno speculare obbligo della banca a contrarre, il giudice esamina e risolve (in senso positivo per il ricorrente) la questio iuris, ricorrendo alla figura dell’abuso di diritto per come costruito nel suo percorso argomentativo da un noto precedente giurisprudenziale; richiamando cioè in toto la sentenza della suprema corte pronunziata in un caso di recesso ad nutum considerato “arbitrario, cioè ad libitum” siccome abusivo.[7]
La tesi in estrema sintesi è la seguente: l’ordinamento offre sempre al giudice il potere di controllare l’esercizio del diritto soggettivo nelle sue molteplici manifestazioni per verificarne la sua conformità ai principi di buona fede, correttezza e lealtà; apprestando, in caso di suo esercizio abusivo, ossia di frattura fra potere conferito dalla norma o dal contratto e scopo per il quale è stato conferito, sia il rimedio reale dell’inefficacia dell’atto sia quello risarcitorio del danno.
Non è questa la sede per ripercorrere i profili dogmatici e l’evoluzione dottrinale della discussa figura dell’abuso del diritto e della sua interazione con la clausola generale di buona fede in senso oggettivo, su cui si sono riversati fiumi di inchiostro: ora per negarne la sua esistenza, ora per affermarne la sua inutilità pratica, ora per esaltarne le potenzialità applicative in un sistema economico sempre più complesso e dinamico [8].
Purtuttavia alcune considerazioni sul tema vengono sollecitate dalla decisione del tribunale che si analizza.
Il caso affrontato dalla suprema corte non pare sovrapponibile a quello di cui si discute: lì siamo di fronte al un caso di recesso contrattuale, ossia previsto da un’apposita pattuizione convenzionale, rispetto alla quale si discetta di controllo dell’autonomia contrattuale, di controllo giudiziale in via modificativa o integrativa dello statuto negoziale, di esecuzione negoziale secondo buona fede; qui invece è la legge la sola fonte del diritto potestativo unilateralmente esercitato (c.d. recesso legale); lì le parti sono legate da un contratto di concessione di vendita rispetto al quale l’abuso di dipendenza economica è rinvenibile nella squilibrata trama di pattuizioni intercorse fra loro; qui si è in presenza di in contratto di conto corrente bancario di base dove i reciproci diritti e obblighi hanno ampiezza e contenuti affatto differenti e il contesto di mercato si colloca su ben altro piano; li la pretesa lesione dei concessionari trova ristoro nella richiesta del risarcimento del danno; qui nella paralisi degli effetti del recesso [9].
Se il ricorso alla teorica dell’abuso disvelato dalla violazione canone generale di buona fede è argomento dotato di sua persuasività non convince l’esito finale cui perviene la decisione in esame, ossia la declaratoria di inefficacia del recesso. La sterilizzazione cioè degli effetti di un atto di esercizio di un diritto potestativo che la legge riconosce in forza della indeterminatezza del tempo per cui il contratto è stato stipulato [10].
La contraddizione appare in ciò: se da un lato si esclude l’esistenza di un obbligo legale a contrarre in capo alla banca e di conseguenza lo speculare diritto al conto corrente quanto meno di base (al contrario ipotizzabile solo per la diversa figura della persona fisica qualificata come consumatore), paralizzare gli effetti del recesso ad nutum significa null’altro che obbligarla a mantenere il rapporto contrattuale in vita e quindi obbligarla sine die a svolgere lo specifico ed infungibile facere costituito dal servizio di cassa, tipico del conto corrente bancario.[11]
Ma obbligare la parte a mantenere ed erogare il complesso servizio di cassa - in esecuzione di un contratto di durata - significa in definitiva riguardare la fattispecie in termini di obbligo legale a contrarre. Con evidente contraddizione rispetto a quanto prima affermato nel senso della esclusione di tale obbligo al di fuori delle specifiche e precise previsioni normative, di cui peraltro si predica la non applicabilità in via analogica.
Orbene ciò non vuol dire affatto che nel bilanciamento degli interessi in gioco - alla luce dei principi costituzionali di solidarietà economica e utilità sociale dell’agire economico - debba prevalere l’arbitrio o il capriccio di chi esercita il potere legalmente previsto col conseguente ingiusto e sproporzionato sacrificio di chi lo subisce [12].
Significa che solo il rimedio risarcitorio possa ritenersi sempre ravvisabile, tenuto conto fra l’altro che i canoni di buona fede, correttezza e lealtà attengono nel caso di specie alla sfera delle regole di condotta (e alle modalità concrete di esplicazione di questa)[13].
È evidente nel caso che si esamina il conflitto di interessi di cui sono portatori i soggetti del contratto: da un lato quello della banca di non sopportare eccessivi oneri di “compliance” indotti dalla particolare e “sensibile” attività economica del “ c.d. compro oro” e dunque i relativi costi per ottemperare agli obblighi nascenti dalla normativa antiriciclaggio; dall’altra quella dell’imprenditore-cliente che senza conto corrente basico con i connessi servizi di cassa ( fornitura del POS, della carta di debito, etc.) non potrebbe di fatto proseguire nella propria attività commerciale, se non contravvenendo alle stringenti norme ( anche penali ) che la presiedono.
Il problema allora si sposta di necessità sul piano squisitamente probatorio.
Posto che la banca che recede ad nutum ha certamente l’onere in prima battuta di dimostrare di avere concesso i termini di preavviso normativamente prefissati, l’altro contraente dovrà dimostrare che l’esercizio di tale potere è avvenuto con modalità abusive dopo avere creato il legittimo affidamento nella normale prosecuzione del rapporto; dovrà allegare e dimostrare in modo convincente di non avere potuto reperire valide alternative sul mercato creditizio; dovrà allegare e dimostrare di avere subito atteggiamenti ritorsivi pur in assenza di anomalie contabili o carenze di solvibilità. E così via.
Il risarcimento potrà sicuramente essere per equivalente e fondarsi sul principio che l’ingiustizia del danno presuppone la lesione di ampie e sempre nuove situazioni soggettive che l’ordinamento giuridico viene riconoscendo anche nell’intrecciarsi di norme nazionali e unionali.
5. Conclusioni
È qui allora che la iurisdictio correttamente esercitata diventa cruciale nel dirimere contrasti di tal fatta, facendo prudente uso della discrezionalità che l’ordinamento giuridico le assegna in vista della giustizia del caso concreto.
L’uso della figura dell’abuso del diritto come principio implicito e permeante la tavola dei diritti e dei doveri già prefigurato in Costituzione appare in tutta la sua dimensione dinamica come elemento correttivo in presenza di comportamenti oggettivamente anomali (o anormali) che dunque tradiscono i limiti interni della stessa posizione giuridica soggettiva, di fatto negandola.
Con ciò si vuole affermare che il divieto di abusare del diritto significa in un certo modo negare il diritto stesso: abuso che appunto “vive dello scarto fra fattispecie normativa e fatto concreto” [14].
Le considerazioni sopra svolte appaiono corroborate dal diritto comunitario e dalla dottrina che ne ha elaborato i profili di sistema, configurando l’abuso di diritto come forma di controllo e regolazione del modo di esercizio delle situazioni giuridiche soggettive [15].
È del tutto evidente che l’art. 54 (“Divieto dell’abuso del diritto”) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, avente com’è noto lo stesso valore giuridico dei trattati internazionali, può diventare il grimaldello interpretativo che toglie ogni dubbio circa il potere del giudice di scongiurare ogni utilizzo distonico, deviato o distorto del potere che pure la legge in astratto riconosce [16].
Ma l’operazione ermeneutica va condotta con grande prudenza e discernimento, al fine di non entrare a gamba tesa su quell’area di libertà di scelta economica che proprio la Costituzione intende preservare con l’art. 41, I comma. E ciò tanto più che il limite e il confine fra libera scelta decisionale in materia economica quale prerogativa dell’imprenditore che opera su un libero mercato (con assunzione dei conseguenti rischi) e sindacato giurisdizionale sull’atto di autonomia negoziale (ossia, come nel caso di specie, esercizio del diritto potestativo di recesso ad nutum quale negozio unilaterale recettizio) diventa assai labile e a rischio di dubbie (e per ciò stesso non auspicabili) riperimetrazioni.
[1] Sul provvedimento in commento v. L. MORMILE, Conto Corrente e recesso ad nutum, in www.ilcaso.it.
[2] In questo senso v. Trib. Pescara, ord. 11.12.2020 che a sua volta richiama Trib. Milano Sez. Specializzata in materia di imprese, 03.01.2013.
[3] Cfr. al riguardo Cass. Sez. 1, n. 19454 del 23/09/2011 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 18779 del 05/09/2014; Cass. Sez. 3, n. 9957 del 13/10/1997; Cass. Sez. 1, n. 15349 del 01/12/2000).
[4] Sul punto si vedano ex multis, A. DE MARTINI, voce Obbligo a contrarre, Novissimo dig. it., XI, Torino, 1965, pp. 694 ss.; C. OSTI, Nuovi obblighi a contrarre, Torino, 2004; L. MONTESANO, voce Obbligo a contrarre, Enc. dir., vol. XXIX Milano, 1979, pp. 509 ss.; G. GABRIELLI, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974; B. CARPINO, L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977; L. NIVARRA, L’obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989; ID., La disciplina della concorrenza. Il monopolio, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992; M. LIBERTINI, L'imprenditore e gli obblighi di contrarre, in Tratt. dir. comm. e dir. pubb. econom., diretto da F. Galgano, IV, Padova, 1981, pp. 272 ss.; M. LIBERTINI – P. M. SANFILIPPO, voce Obbligo a contrarre, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, pp. 480 ss.; P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969.
[5] In questo senso sono le illuminanti considerazioni di R. SACCO, Il contratto Imposto, Trattato di diritto privato, Vol. 10, pag. 369 ss.
[6] Il trentacinquesimo considerando della Direttiva UE 2014/92 recita: “È opportuno evitare di discriminare i consumatori che soggiornano legalmente nell’Unione a motivo della cittadinanza o del luogo di residenza o per qualsiasi altro motivo di cui all’articolo 21 della Carta dei diritti fonda mentali dell’Unione europea («Carta») in relazione alla richiesta di aprire un conto di pagamento o all’accesso al conto all’interno dell’Unione. Inoltre, è opportuno che gli Stati membri garantiscano l’accesso ai conti di paga mento con caratteristiche di base a prescindere dalle condizioni finanziarie dei consumatori, ad esempio il loro status professionale, il livello reddituale, la solvibilità o il fallimento”.
[7] Il riferimento è alla nota sentenza della cassazione n. 20106/2009, oggetto di sferzanti critiche da A. GENTILI, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, Responsabilità civile e previdenza ,2010, pag. 354 che trova “stupefacente che i giudici possano rifare i contratti che a loro non sembrano equi”; v. anche C.A. NIGRO, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), nota a Cass. 18 settembre n. 20106, Giust. Civ. 2010, n. 20106, che nota come “il tema della buona fede e quello dell’abuso siano stati sovrapposti, ove non addirittura confusi, almeno sul piano applicativo: certo è che i rapporti tra l’una e l’altro appaiono descritti in modo poco chiaro, ed in alcuni passaggi in termini che sembrano addirittura contraddittori”.
[8] R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in La parte generale del diritto civile, 2, Il diritto soggettivo, nel Trattato di diritto civile diretto dal medesimo, Torino, 2001, p. 320.
[9] Secondo la giurisprudenza “si ha dipendenza economica quando si è dedicata la propria attività imprenditoriale ad un unico produttore”: così L. DELLI PRISCOLI, nota a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, Giur. Comm. 2010, pag. 834.
[10] In dottrina si è osservato al riguardo che il divieto dei vincoli perpetui è espressivo di un principio di ordine pubblico” così FRANZONI, Degli effetti del contratto, in il Codice Civile. Commentario diretto da P. Schlesinger. Art. 1374-2381, Milano 1999, 323 ss.
[11] Pacificamente qualificato come “contratto innominato misto (consensuale, di durata) con cui il cliente investe la banca di un mandato generale ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far confluire nel conto le somme acquisite in esecuzione del mandato” C. SANDEI, in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN – TRABUCCHI, PADOVA, 2014, sub art. 1852 Codice Civile, n. 2-3.
[12] Il rimedio risarcitorio sembra prevalere nella giurisprudenza della cassazione che ancora di recente ha affermato con chiarezza che l’esercizio del recesso in violazione della regola della buona fede in executivis è di per sé idoneo a por fine al rapporto contrattuale, “mentre l’inadempimento a tale fondamentale canone comporterà unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca, che tale regola abbia violato”: Cass. civ. sez. I, 16.04.2021, n. 10125.
[13] v. Tribunale di Grosseto, 02.05.2020, n. 311: “la violazione delle di regole di condotta (discendenti dalla clausola generale di cui all’art. 1375 c.c.) non può dare luogo ad invalidità e dunque a inefficacia dell’atto che costituisce esercizio del diritto potestativo riconosciuto alla legge o dal contratto, sicché il recesso abusivo è in ogni caso valido ed efficace e dunque idoneo a determinare lo scioglimento del rapporto contrattuale (contra Cass. sent. 20106/09, rimasta sostanzialmente isolata)”.
[14] “Un diritto non può mai essere abusivo in sé, pena la contraddittorietà della locuzione e del fenomeno giuridico cui essa rimanda. Il predicato dell’abusività, invece, e da correlare al divenire del diritto stesso, o – meglio ancora – al profilo dinamico dei poteri e delle facoltà che in esso sono racchiusi, dei quali rivela e spiega la condizione patologica, riflettendosi sulla stabilità o sull’efficacia dell’atto”: C.NIGRO, op.cit, pag,21 in nota.
[15] v. S.CAFARO, L’abuso del diritto nel sistema comunitario: dal caso Van Binsbergen alla Carta dei Diritti, passando per gli ordinamenti nazionali, Il diritto dell’Unione europea, 2003,293; R. T. BONAZINGA, Abuso del diritto e rimedi esperibili, www.comparazionedirittocivile.it che sottolinea come i rimedi sanzionatori di comportamenti abusi riguardano “ il profilo di applicazione uniforme delle disposizioni comunitari al fine di salvaguardare la certezza del diritto e la prevedibilità delle soluzioni giurisprudenziali anche nell’ordinamento giuridico comunitario”.
[16] Interessante a tal riguardo quanto affermato da Cass. pen. 21.05.2010, n. 28658, nel caso in cui la fattispecie oggetto di cognizione non ricada nell’ambito di applicazione del diritto europeo: “la Carta costituisce uno strumento di interpretazione privilegiata per il diritto interno che si deve presumere coerente con quei valori che gli Stati membri e gli organi dell’Unione hanno comunemente accettato”; ed ancora, “la nomofilachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento dei diritto comune europeo” .
Diritto a Teatro - L'Antigone di Sofocle
Il progetto “Diritto a Teatro” prende vita dall’iniziativa di una compagnia teatrale composta principalmente da avvocati e operatori del diritto che nel corso dell’ultimo decennio, in occasione di prestigiosi eventi culturali, ha portato in scena diverse opere, tutte fondamentalmente caratterizzate da temi culturali e sociali afferenti le profonde questioni del diritto.
Tra queste possiamo ricordare “Dreyfus”, rappresentato anche al Teatro La Pergola di Firenze nel 2013 in occasione della Giornata della Memoria e “Gandhi avvocato” al Teatro Bolognini di Pistoia Capitale Italiana della cultura 2017 in occasione del convegno con i premi Nobel per la pace Sabrina Ebadi e Abdeiazizi Essid.
Quest’anno la compagnia ha lavorato per portare in scena l’Antigone di Sofocle in una versione che, pur restando fedele all’originale per quanto riguarda il testo, si discosta dalla tradizione dal punto di vista della messa in scena: muovendo dalla originaria scansione di tempi e stasimi, ripropone costumi, musica dal vivo ed interpretazioni sceniche che trascinano l’occhio e la mente dello spettatore attraverso i secoli.
Nella tragedia di Sofocle lo scontro tra Creonte e Antigone rappresentata l’eterna possibile contrapposizione tra la Legge e la Giustizia, ed è proprio questo conflitto che la compagnia vuole riproporre con questo progetto, interpretando al meglio il nucleo fondamentale dello stesso, la possibile contrapposizione tra legge e morale, lasciando intatte negli spettatori le ragioni dell’una e dell’altra, in un conflitto attualissimo, che accompagna l’essenza stessa dell’uomo singolo e del suo rapporto con la comunità nella quale attraversa la sua esistenza.
La modernità dell’opera si trova già nel suo eterno contenuto ma la messa in scena, con la musica dal vivo degli Odd Man Out, la voce di Elisa Castellis, il coro composto da attori confusi fra il pubblico e l’alternanza dei costumi antichi e moderni, aiuterà a renderla assolutamente particolare.
I due ruoli principali di Creonte e di Antigone saranno interpretati rispettivamente da Alfonso Veneroso e Giulia Rupi, due professionisti di primissimo piano a livello nazionale, con grande e rilevante esperienza teatrale.
L’opera sarà rappresentata il 17 e il 18 giugno al Teatro Palladium di Roma, gestito dalla Fondazione dell’Università Roma Tre Teatro Palladium, Fondazione alla quale verrà destinato l’intero incasso. Il 7 giugno si terrà un webinar sul tema.
Brevi osservazioni di carattere tecnico e culturale su “Proposte normative e note illustrative” rese pubbliche dal Ministero della Giustizia di Andrea Proto Pisani
Molto sinteticamente si osserva quanto segue.
1) Ufficio del processo.
- Estrema varietà dei criteri di selezione senza indicazione, almeno in prospettiva, di criteri unitari.
- Non si accenna neanche al rapporto di lavoro, se non che è a tempo determinato; né all’impegno settimanale, né alla retribuzione, né al trattamento di previdenza e assistenza. Si ignorano gli interventi della Commissione e della Corte Europea di Giustizia.
2) A.D.R.: carattere tutto corporativo cui ci si ispira, senza capirne il perché.
- Sul piano culturale la ratio e il valore della mediazione – comunemente insegnato dagli esperti di questa materia – è il suo fondarsi sul consenso delle parti nel volere utilizzare l’attività di un terzo per pervenire ad una soluzione condivisa.
- Il getto della recente decisione della Corte di Cassazione riguardo ai soggetti che devono partecipare al primo incontro, sa di ripicca.
- La impossibilità di delegare l’avvocato, con la forma della autentica in calce o a margine, è anche qui pura ripicca, anche perché la procura per scrittura privata, se non se ne contesta l’autenticità della sottoscrizione, è forma con cui si può disporre o transigere controversie relative a materie anche di immenso valore, salvo ovviamente la necessità dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata per la trascrizione ecc.;
- Quanto alla mediazione delegata dal Giudice: in grado d’appello è follia; ma è follia perché il lavoro di selezione consentirebbe al Giudice di risolvere la controversia con estrema semplicità;
- Viene, a pensare male, prevista perché in questo modo si individuano le uniche ipotesi di mediazione in cui la percentuale delle controversie risolte con l’accordo è elevata o elevatissima.
Concludendo, sulla base del consenso tutto è delegabile (si pensi alla delega attualmente prevista dal Giudice della separazione giudiziale) ma il prevedere la mediazione obbligatoria condizione di procedibilità costituisce un inutile appesantimento e allungamento dei tempi della giustizia civile.
3) Appello.
Si tratta della parte migliore delle proposte, sol che:
- si sopprimessero i filtri;
- si aprisse ai nova: essenziali per rimediare agli errori di uno dei 245 mila avvocati esistenti;
- si prospettasse nella relazione l’opportunità di eliminare, di sopprimere tutte le ipotesi di inappellabilità delle sentenze (o provvedimenti analoghi), di primo grado, allo scopo di assicurare l’unico vero filtro – allo stato – immaginabile al ricorso in Cassazione.
4) Cassazione: è disdicevole intervenire per legge sul giudizio di Cassazione una volta ogni cinque anni o addirittura meno.
Gli interventi veri sulla Cassazione dovrebbero probabilmente agire sull’interpretazione del secondo comma dell’art. 111, modificando l’intepretazione che incautamente la Cassazione stessa, senza prevedere le tragiche conseguenze che ne sarebbero determinate, determinò quando dal 1956 in poi sottrasse alla Corte costituzionale (entrata in funzione quell’anno) il controllo di costituzionalità delle norme che escludono il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti aventi forma diversa da quella di sentenza.
Inoltre, nulla si dice circa il controllo dei diritti del contribuente tramite il ricorso per Cassazione con il suo relativo ingolfamento.
5) Giudice di Pace (e cenni sui Giudici onorari in genere).
- In via preliminare nulla si dice sui criteri di selezione e del rapporto di lavoro (indeterminato, retribuzione, ecc.).
- Il criterio del valore è cieco, lo si ripete per l’ennesima volta.
- Scelta la materia, sarebbe molto più semplice assicurare la specializzazione del Giudice non togato.
Considerazione pratica: i danni anche elevatissimi alla persona da infortunistica stradale, in pratica sono determinati prima dal C.T.U., poi normalmente dalle “tabelle” o in mancanza da altro C.T.U. Anche questa ovvietà è ignorata dai nostri aspiranti legislatori.
Sul piano delle scelte culturali:
- un solo Giudice onorario di primo grado, competente solo per materie predeterminate e non di volta in volta previste dal Presidente di sezione o dai singoli Giudici togati. Ovviamente la disciplina dell’eventuale incompetenza dovrebbe essere semplificata al massimo perché si resterebbe pressoché sempre nell’ambito del “circondario”.
- Ovvia necessità della previsione dei criteri di selezione e di disciplina del rapporto.
6) Volontaria giurisdizione.
- Ci si dimentica di prevedere una disciplina adeguata alle ipotesi più delicate costituite dalla “gestione di interessi” che incidono su diritti: queste ipotesi costituiscono il nucleo forte su cui mi sembra l’ampia riflessione dottrinale abbia richiamato con forza l’attenzione (vedi gli studi di Civinini, Montesano, Lanfranchi e, se si vuole, la sintesi da me tentata nelle Lezioni).
7) Esecuzione forzata.
Non sono competente della materia, ma mi sembra che la vendita telematica avrebbe meritato di essere considerata, così come probabilmente sarebbe stata necessaria quantomeno la consultazione di qualche esperto in materia notarile.
8) Controversie in materia di famiglia e di minori.
è questo il settore in cui più si avvertono veri e propri svarioni culturali.
Si prevede in via generale l’istituzione di un Tribunale della Famiglia e dei Minori, Tribunale che dovrebbe operare in via monocratica, quale - direi proprio - Giudice specializzato:
A) ma non si tiene conto alcuno che una volta eliminato l’addebito viene meno del tutto ogni necessità di prevedere due processi distinti, l’uno relativo alla separazione giudiziale e l’altro al divorzio: tutt’al più, se proprio si vuole, si potrebbe prevedere che l’instaurazione dell’unico processo preveda che fra la data della notifica dell’atto introduttivo e la prima udienza intercorra un termine dilatorio – diciamo sei mesi – per consentire un ultimo ripensamento. Quanto alla necessità di interventi urgenti sui figli e sul mantenimento, sarebbe sufficiente il richiamo del c.d. procedimento cautelare uniforme previsto dagli artt. 669 bis e ss., procedimento applicabile anche in caso in cui sorga una questione sulla materia di genitorialità.
B) Non si ha consapevolezza della abnorme sovrapposizione effettuata negli anni ’30 del secolo scorso tra amministrazione e giurisdizione in materia minorile, e conseguentemente:
1 – si continua nell’errore grave (grave anche per le abnormi conseguenze in tema di rapporti tra Giudice e Servizi Sociali) di attribuire al Tribunale dei Minorenni il potere di agire d’ufficio in palese violazione del principio della domanda, principio che se non conosciuto determinerebbe sicuramente la bocciatura dello studente ad un esame di Procedura civile e anche penale.
Lo svarione è grave perché intanto si può prevedere che il TM agisca d’ufficio in quanto si ritiene ammissibile che i Servizi Sociali (o altri terzi del tutto estranei al rapporto genitoriale) anziché rivolgersi al Pubblico Ministero (ovviamente specializzato in materia di famiglia e di minori) si rivolgano direttamente al Giudice, con tutte le gravissime conseguenze di cui le tragiche vicende di Bibbiena costituiscono l’esempio più recente ma nient’affatto isolato.
2 - Ad evitare ulteriori gravi violazioni nella formazione del convincimento del Giudice, sarebbe opportuno esplicitare che anche in controversie relative alla genitorialità le prove vanno formate nel contraddittorio delle parti nel corso del processo e in particolare che le relazioni dei Servizi Sociali non possano avere alcun valore (a meno che l’operatore sociale sia a conoscenza di fatti e ne riferisca in giudizio a seguito di testimonianza dedotta e assunta secondo le regole).
3 – L’istituzione della sezione specializzata in materia di famiglia e di minori imporrebbe non solo, ovviamente, la soppressione formale del Tribunale dei minirenni (con il venir meno del relativo posto di direttivo), ma anche la attribuzione a tale sezione di tutte le controversie attualmente devolute al Tribunale dei minorenni, ivi compresi i procedimenti in materia di adozione, e la loro conseguente trattazione e decisione da parte del giudice monocratico.
Il tutto sembrerebbe a mio avviso ovvio, ma non lo è per difetto culturale, ovviamente non degli autorevoli componenti della Commissione ma degli assistenti di cui si siano avvalsi.
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