ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La rivoluzione “clandestina” dopo il caso Dj Fabo: commento alla sentenza del Tribunale di Ancona del 9 giugno 2021
di Daria Passaro
Sommario: 1. Il rumore di fondo del fine vita. Nelle mani di un Parlamento sordo - 2. Commento all’ordinanza del Tribunale di Ancora del 9 giugno 2021: il riconoscimento del “diritto all’accertamento” - 3. Verso il referendum sull’eutanasia legale, considerazioni e prospettive a breve termine.
1. Il rumore di fondo del fine vita. Nelle mani di un Parlamento sordo
Sono trascorsi due anni da quando il Parlamento fece scadere il tempo concesso dalla Corte costituzionale per riempire il profondo vuoto normativo intorno al suicidio assistito, prima di pronunciarsi sul noto caso di Dj Fabo e di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, finito a processo per aver aiutato a morire l’ex dj in una clinica in Svizzera.
L’ultimo tassello sul tema dell’aiuto al suicidio era stato apposto dalla scriminante ad hoc introdotta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 242/2019, un unicum nel panorama delle cause di non punibilità, coerentemente con le fattezze del tema del fine vita, un universo dai confini tutt’altro che agevolmente individuabili, al limite tra etica e biodiritto.
Nell’ormai celebre caso Cappato, i giudici costituzionali, con la sopra menzionata pronuncia avevano dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi ha agevolato l’esecuzione del proposito suicida di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili.
Tale incostituzionalità trova supporto, a sua volta, nella ratio della Legge sul testamento biologico, l. 22 dicembre 2017, n. 219, imperniata sull’inviolabile diritto all’autodeterminazione del paziente e sull’altrettanto irrinunciabile diritto a rifiutare trattamenti sanitari indesiderati, quand’anche necessari alla sopravvivenza.
Nondimeno, la configurabilità della scriminante novella introdotta dai giudici della Consulta, esige la presenza di requisiti precisi e indispensabili.
La persona interessata, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, deve essere tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale ed essere affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili. Nella medesima direzione, è presupposto imprescindibile che le precedenti condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura sanitaria nazionale pubblica, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Dinanzi alle rigorose coordinate disposte dalla Corte Costituzionale, la giurisprudenza di merito non è rimasta silente, di recente compiendo un ulteriore passo in avanti verso il diritto al suicidio assistito. Invero, la sentenza della Corte di Assise di Appello di Massa intervenuta il 27 luglio 2020 nel caso “Trentini”- dall’esito assolutorio per Mina Welby e Marco Cappato- partendo dai principi formulati nella sentenza della Consulta, aveva fornito un’ interpretazione estensiva della nozione di “trattamento di sostegno vitale”, riconoscendone la pacifica sussistenza in Davide Trentini. La portata estensiva e innovativa è ravvisabile nella circostanza in ordine alla quale, mentre nel caso esaminato dalla Consulta Fabiano Antoniani era tenuto in vita da una macchina, il paziente Trentini risultava affetto da sclerosi multipla.
La dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente “dipendenza da una macchina”, ben potendo venire in rilievo in tutti i trattamenti sanitari all’interruzione dei quali si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida.
Pertanto, in ottica volutamente ampliativa, la Corte di Assise di Massa, estendendo le maglie della nozione di “sostegno vitale” aveva lucidamente consentito l’applicazione della scriminante- per chi prestasse ausilio nell’esecuzione di un proposito suicidiario autonomamente cristallizzatosi- altresì nell’ipotesi di aiuto al suicidio di un paziente sottoposto a un trattamento farmacologico indispensabile, senza il quale seguirebbe certamente la morte.
Ad oggi, deve sottolinearsi che, sebbene la Corte Costituzionale del 2019 abbia in più battute ribadito la necessità di un chiaro intervento normativo sul tema del fine vita, ad apparire sordo alle esigenze di definizione legislativa è proprio il Parlamento, in seno al quale i numerosi disegni di legge presentati negli anni alle Camere sembrano dissolversi come polvere e giammai avanzare ad uno stadio maturo di regolamentazione.
Le esigenze di disegnare un limpido dato normativo si scontrano, fatalmente, con l’intuibile difficoltà di maneggiare un argomento sì delicato e complesso, dai risvolti tanto giuridici quanto etici, morali, religiosi, nonché con le ideologie di diffidenza, più o meno palesata, al cospetto del più ampio tema della Dolce Morte; così come si traduce dal greco la parola Eutanasia.
Nell’ordinamento italiano, tutto quello che promana dal Parlamento circa il fine vita è attualmente regolato dalla legge n. 219 del 2017, permettendo ad ogni persona capace di agire di esercitare il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, ivi compresi l’idratazione, la nutrizione e la ventilazione. Ne deriva il dovere del medico di rispettare la volontà espressa dal paziente nel rifiutare il trattamento sanitario o rinunciare al medesimo. Con la sentenza 242 del 2019 la Corte Costituzionale, si ribadisce, ha voluto fare un passo in più, sancendo in parte l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale sì da escludere la punibilità per chi agevoli il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi nelle situazioni sopra descritte.
Da tale avanzamento rivoluzionario prendeva forma la netta sensazione di un prossimo dibattito parlamentare a cui dare deciso compimento. Per contro, oggi questo auspicio smentito dalla realtà assume i connotati di un’ottimistica illusione, difficilmente realizzabile in assenza delle solide fondamenta di un servizio sanitario ineccepibile e efficiente, atto a individuare con chiarezza i “casi eccezionali e ben determinati” in cui è consentito scriminare l’ausilio fornito nell’abbreviare la vita. In disparate occasioni, i fautori dell’orientamento “diffidente” hanno evidenziato i rischi che comporterebbe una scelta da parte del legislatore di depenalizzazione o di legalizzazione del suicidio medicalmente assistito modellato sulla falsa riga di quello effettuato da alcuni paesi europei, pena il vulnus irrimediabile al principio secondo il quale compito primario e inderogabile del medico deve rimanere l’assoluto rispetto della vita dei pazienti.
Sullo sfondo, un ruolo di non poco conto è rivestito dal sistema delle cure palliative, a voler sottolineare come prima di offrire a un malato la possibilità di scegliere la morte come opzione vi sia ancora molto di cui discutere, moltissimo da attuare. Quel che è certo è che le pressanti esigenze di chiarezza e regolamentazione normativa mediante una legge sul fine vita non rappresentano il grido di una minoranza ideologicamente rumorosa, bensì una questione tutt’altro che meramente giuridica, appartenente davvero a tutti. Figurarsi al Parlamento, che proprio di tutti è la rappresentanza. Un tema, evidentemente, rispetto al quale il legislatore, lungi dal perseverare in una sorda inerzia, è tenuto ad imboccare, prima o poi, una direzione.
2. Commento all’ordinanza del Tribunale di Ancora del 9 giugno 2021: il riconoscimento del “diritto all’accertamento”
Come di sovente accade nell’evoluzione giuridica, in mancanza di un intervento legislativo chiarificatore da parte del Parlamento, la giurisprudenza di merito non rinuncia a colmare le lacune attraverso interpretazioni più o meno estensive ed esplicative del diritto positivo nonché degli orientamenti pretori precedentemente intervenuti. È quanto si è verificato in seno al Tribunale Ordinario di Ancona lo scorso 9 giugno, data in cui per la prima volta in Italia un giudice ordinario, con ordinanza, ha applicato i principi costituzionalmente orientati della sentenza Cappato al caso di un uomo tetraplegico di 43 anni.
Ancora una volta i giudici, che come disposto della Costituzione sono soggetti solo alla legge e alla medesima sono tenuti ad attenersi nell’applicazione del diritto cui sono chiamati, contribuiscono fattivamente ad attuare una rivoluzione quasi “dal basso”. Se un passo deciso verso la regolazione dei casi di suicidio assistito è stato compiuto dall’alto della sentenza della Corte Costituzionale del 2019 in relazione al caso Dj Fabo, accade nuovamente oggi- cosa che ancor più rileva- in sede di ordinario giudice di merito con atto di ordinanza.
Invero, il Tribunale di Ancona, applicando i principi della Sentenza Cappato della Consulta, riconosce espressamente il diritto all’accertamento delle condizioni utili a scriminare l’aiuto al suicidio di un giovane uomo tetraplegico. La svolta è di non poco momento, per la prima volta un Tribunale impone alla ASL di verificare i presupposti stabiliti dai giudici costituzionali e, in caso positivo, ammettere il paziente alla somministrazione del farmaco letale, senza risvolti penalmente rilevanti per chi presti l’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p.
La pronuncia in esame racconta l’intenzione di proseguire il cammino intrapreso dai giudici per introdurre il diritto al suicidio assistito, supplendo alla mancanza di una legge del Parlamento. Il giurista tedesco Bernd Rüthers, in tempi non sospetti (1968) parlava di rivoluzione “clandestina”, come tendenza all’ormai irrefrenabile passaggio dallo Stato di Diritto allo Stato dei Giudici.
Ma dietro ogni svolta giurisprudenziale, deve ricordarsi, posano le vite degli individui e le occasioni poste dalla vita reale per interrogarsi sull’attualità del diritto nel dare risposte ai consociati. Per quanto attiene all’ordinanza anconetana, l’evoluzione trae origine dalla storia di un paziente di nome Mario, di anni 43, una storia come se ne sentono tante, fatta di dolore e di un presumibile epilogo infausto, che di “dolce morte” ha davvero poco. Ma di dignità ne ha tanta, di pretesa di rispettare la persona nella sua proiezione più grande, di lucido coraggio nel fronteggiare il dolore e la malattia, prendendo atto che altresì per chi vive in tali condizioni la vita degna di essere vissuta forse è altro e dovrebbe poter essere altro.
Mario, originario delle Marche, a causa di un grave incidente stradale che gli ha provocato la frattura della colonna vertebrale con la conseguente lesione del midollo spinale, ad oggi versa in condizioni irreversibili, essendo tetraplegico con altre gravi patologie da circa dieci anni.
Nell’ottica di accedere al suicidio assistito, nel mese di ottobre 2020 gli veniva comunicato un diniego da parte dell’ASL senza che venissero attivate le procedure indicate dalla sentenza della Corte costituzionale. Precisamente, davanti alla domanda di “accedere con urgenza a farmaco letale per procedere con suicidio assistito”, la ASL aveva motivato il proprio diniego partendo dalla vigente normativa sul consenso informato e sul rapporto medico-paziente (L. 219/2017) che né all’art. 1 in tema di consenso né all’art. 2 sulle cure palliative per il dolore consentirebbe al medico di somministrare farmaci letali.
Secondo la ASL, in mancanza di una legge in materia di suicidio assistito, non potrebbe ammettersi l'eutanasia ricorrendo ai principi formulati nella sentenza della Corte Costituzionale, che rispondeva al diverso problema di individuare una scriminante ad hoc nella punibilità del reato di aiuto al suicidio.
A ben vedere, a tale assunto non può prestarsi obiezione, la sentenza Cappato-Dj Fabo limitandosi a stabilire che per ottemperare alla richiesta della persona interessata occorre verificare da parte di una struttura pubblica del Ssn, previo parere del comitato etico territorialmente competente, il sussistere di almeno quattro condizioni: che la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; che sia affetta da una patologia irreversibile; che detta patologia determini intollerabili sofferenze psicofisiche; che il paziente sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Nondimeno, quel che sorprende è che la Asl abbia altresì negato l'attivazione delle procedure di verifica imposte dalla Consulta, finendo col negare qualsivoglia rilievo ad una pronuncia sì innovativa. Pertanto, con l’assistenza dei legali dell'Associazione Coscioni, da lungo tempo in primo piano sul tema, il paziente ha presentato ricorso di urgenza al Tribunale di Ancona, affinché venisse ordinato all'Asl la verifica delle sue condizioni.
In prima battuta, in data 26 marzo, il giudice del Tribunale ha confermato il diniego motivando che, pur riconoscendo nel paziente i requisiti previsti dalla Corte Costituzionale nella sentenza 242/19 sul caso Cappato-Dj Fabo, non sussisterebbero motivi per ritenere che la Corte abbia fondato un diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell'attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza; né può ritenersi che il riconoscimento dell'invocato diritto sia diretta conseguenza dell'individuazione della neo-introdotta scriminante.
Tanto deciso, la “rivoluzione clandestina” giunge a seguito del reclamo presentato dai legali di Mario all'ordinanza di diniego, i magistrati del Collegio del Tribunale di Ancona, dopo la discussione dell'udienza del 28 maggio in Camera di Consiglio, depositandone una nuova in cui si ordina all'Azienda sanitaria unica regionale delle Marche, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, di provvedere ad accertare la sussistenza delle condizioni previste dalla Consulta.
I giudici affermano con convinzione che l’istante ha il diritto di pretendere che si effettuino gli accertamenti disposti dalla Consulta con sentenza 242/19, affinché l'aiuto fornito non costituisca reato ai sensi dell'articolo 580 del codice penale.
L’ordinanza del 9 giugno ha precisato che l’istante, per vero, ha invocato non già un diritto al suicidio bensì il diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti illustrati dalla Consulta, il cui esito è pregiudiziale alla non punibilità dell’aiuto.
In base al quanto ritenuto, Mario avrà il diritto di pretendere dall’Asur Marche l’accertamento della sussistenza dei presupposti richiamati nella sentenza della Corte Costituzionale, in vista della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un soggetto terzo; la verifica sull’effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco (Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi) prescelti dall’istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibili, rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure o della sedazione profonda ovvero di qualsivoglia soluzione praticabile, ivi compresa la somministrazione di un farmaco diverso.
Nel disporre ciò, il giudice delle Marche ha espressamente richiamato quanto ritenuto altresì dalla Consulta nel 2019, secondo cui il potere di rifiuto delle cure con contestuale sedazione profonda- pacificamente previsto dalla legge n. 219/2017 agli artt. 1 e 2- potrebbe non essere ritenuto sufficiente dal paziente in questione, comportando un processo più lento per congedarsi dalla vita nonché più carico di sofferenze per sé e per i cari, per un tempo non determinabile. In effetti, il paziente de quo, ribadisce il Tribunale, versa in gravi e irreversibili condizioni patologiche, connotate dalla dipendenza continuativa da macchinari elettromedicali salvavita (pacemaker), da presidi medicali persistenti (catetere urinario) nonché da compromissione pressoché assoluta delle funzioni corporali.
Vieppiù che, come il giudice di Ancona tiene a evidenziare, si impone alla struttura ospedaliera di provvedere all’accertamento richiesto previa acquisizione del relativo parere del comitato etico territoriale.
La pronuncia di Ancona, dunque, compie ancora un passo in avanti, passando dalla non punibilità del reato per chi aiuta il malato a morire al riconoscimento di un vero e proprio diritto di questi a chiedere la verifica dei requisiti necessari al riconoscimento dell’esimente delineata dalla Consulta in occasione del caso Fabo.
Ciò che il giudice marchigiano ha sottolineato con forza è la circostanza per cui dalle statuizioni del 2019 giammai deve desumersi un diritto ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di ricorrere al suicidio assistito, quanto piuttosto un diritto all’accertamento dei presupposti stessi.
A tal fine, l’ordinanza ha affermato la necessità di fare distinzione tra la scriminante di un reato e la sussistenza di un diritto: come a voler specificare che un conto è dire che chi aiuta un malato al suicidio non commette un reato, un altro conto è sostenere che esista un diritto soggettivo del malato a togliersi la vita con un corrispondente obbligo dei sanitari a somministrare il farmaco letale.
Quel che si rileva è il dato obiettivo in ordine al quale dopo dieci mesi, passando per due udienze e due pronunce, dietro la persistente intenzione di recarsi in Svizzera per morire aiutato dai familiari senza che rischino di essere inquisiti, il paziente de quo sarà sottoposto alla verifica delle sue condizioni che rendono non punibile l'aiuto al suicidio.
Ne deriva che, nell’ipotesi di accertamento positivo da parte dei sanitari, l’uomo avrà diritto di accedere al farmaco letale da lui richiesto per garantirgli una morte rapida ed indolore, senza dover temere risvolti penalmente rilevante per chi presti l’aiuto al suicidio.
La svolta pretoria intercorsa nella giurisprudenza di merito è di immediata evidenza e costituisce la riprova di come, in assenza di un pur necessario intervento legislativo sul tema, i giudici di merito, dietro le rigide coordinate disegnate dalla Consulta, possano attuare una rivoluzione a tutti gli effetti, esaminando i contorni del caso concretamente posto alla loro attenzione.
Si delinea, così, lo spazio di un filone di giurisprudenza per così dire “normativa” idonea non solo a far luce su questioni ricorrenti nella prassi, ma soprattutto a costituire una base di pronunce utili a meglio orientare il legislatore che, inevitabilmente, si troverà presto a legiferare in materia e a dover dare risposte, tardive ma imprescindibili, a problematiche giuridiche, etiche e sovra-individuali difficilmente procrastinabili sine die.
3. Verso il referendum sull’eutanasia legale, considerazioni e prospettive a breve termine
Quanto asserito dal Tribunale di Ancora in ordine all’accertamento delle condizioni idonee a scriminare l’aiuto al suicidio rappresenta senza particolari dubbi la conferma di come in Italia manchi ancora una legge sul fine vita, la cui importanza è richiamata ripetutamente nelle tredici pagine di ordinanza del tribunale anconetano.
A fronte di casi ormai sempre più frequenti di pazienti che chiedono di poter scegliere come morire- vedendosi costretti a impegnativi viaggi all’estero o, diversamente, a terminare la propria vita in un dolore che non ritengono di poter sopportare- al cospetto di un Parlamento paralizzato e sordo persino ai richiami della Corte costituzionale, è stata avanzata la necessità di un referendum sul tema. Come a voler dichiarare che, se a tutti gli effetti deve ritenersi possibile una rivoluzione dal basso, questa è, fino a prova contraria, nelle mani dei cittadini.
A tal fine, l’associazione Coscioni ha recentemente giocato la carta del referendum costituzionale, depositando in Corte di Cassazione a Roma un referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 del codice penale sulla fattispecie di reato dell’omicidio del consenziente. Ne deriva che, se i promotori dovessero raccogliere le firme richieste e vincere il referendum, verrebbe depenalizzata l’eutanasia attiva, il medico potendo somministrare un farmaco eutanasico al paziente che lo richiedesse, come già previsto in altri paesi europei e non.
Da ultima, la Spagna ha visto l’entrata in vigore della propria legge sull’eutanasia solo il 25 giugno scorso, divenendo il settimo paese al mondo a depenalizzare l’aiuto a morire per pazienti affetti da determinati tipi di malattie gravi e incurabili. La norma, varata nel mese di marzo 2021, prevedeva un periodo di tre mesi per consentire alle regioni del paese iberico di creare organismi responsabili di valutare le richieste di accesso a tale diritto, sebbene tale programmazione non sia stata poi effettivamente compiuta in tutte le regioni. Permangono, difatti, crescenti dubbi sul piano applicativo, altresì in ragione della categoria dei medici “obiettori di coscienza”, in alcune regioni prevedendosi la formazione di liste dei professionisti sanitari contrari alla pratica eutanasica.
Tornando al fronte nazionale, nell’iniziativa referendaria in corso deve ravvisarsi una mossa tanto audace quanto non agevole da realizzare, in tutta Italia prevedendo la raccolta di 500.000 firme tra luglio e settembre- da consegnare in Corte di Cassazione il 30 settembre- altresì attraverso la disponibilità di volontari disposti a predisporre luoghi e occasioni utili al raccoglimento delle stesse. D’altro canto, ad oggi risulta essere l’unica possibilità per legalizzare l’eutanasia in questa legislatura, diversamente si rinvierebbe la prospettiva di un intervento legislativo a non prima di 3 o 4 anni, sempre che nel prossimo Parlamento vi sia una maggioranza favorevole. Ancora una volta, in ogni caso, ciò che sorprende è il persistente silenzio della classe politica sul tema.
Il recentissimo avvio della raccolta firme in esame- promossa dall’Associazione Luca Coscioni durante la campagna tenutasi presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati- ha preannunciato il repentino allestimento dei primi tavoli a cominciare da Milano e Roma, per poi estendersi a tutta Italia.
A ben vedere, il referendum per l'Eutanasia Legale è stato depositato su iniziativa della predetta Associazione lo scorso 20 aprile in Corte di Cassazione, prevedendo una parziale abrogazione dell'art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente), che ad oggi, ferme restando le precisazioni della Consulta sulla scriminante prospettabile nei casi di aiuto al suicidio, impedisce con rigore la realizzazione dell’eutanasia attiva, sul modello olandese o belga. Si tratterebbe, inevitabilmente, si una rivoluzione copernicana su quello che per decenni è apparso come un baluardo intramontabile nel nostro ordinamento, ossia il divieto di pratiche atte a cagionare il decesso tramite la somministrazione diretta e non autonoma di farmaci che inducono la morte.
In realtà, in disparte all’iniziativa referendaria, l’urgenza di una regolamentazione su base normativa intorno al tema de quo è altresì il riflesso dell’esaminata sentenza proveniente dalla Corte Costituzionale nel 2019, che tiene fuori dall’ambito applicativo della non punibilità almeno due fattispecie di pazienti: chi non è tenuto in vita da sostegni vitali, come i malati di cancro, nonché i pazienti non sono in grado di darsi la morte autonomamente, in quanto totalmente immobilizzati.
Rebus sic stantibus, una decisa mobilitazione, vogliasi in direzione referendaria ovvero in ottica legislativa, rappresenta un’incombenza non ulteriormente rimandabile.
Inoltre, se si rileva che sono trascorsi 37 anni da quando Loris Fortuna, il padre della legge sul divorzio, presentò la prima proposta di legge per la legalizzazione dell'eutanasia, la prima occasione di silenzio serbato dal Parlamento risale a molti anni fa. E, se non bastasse, ne sono passati 15 dalla lotta di Piergiorgio Welby, "appena" 8 anni dal deposito della legge di iniziativa popolare sottoscritta da 140.000 cittadini. Passando per i processi Dj Fabo, Davide Trentini e autorevoli richiami della Corte costituzionale.
Certa è la convinzione che l’esigenza normativa che gravita intorno al fine vita non è battaglia di pochi, non è la storia di “casi”, più o meno noti all’opinione pubblica. Non è neppure una successione di risvolti giurisprudenziali, di interpretazioni estensive e costituzionalmente orientate. È la storia di persone, di famiglie, di vite umane vissute in stato di sofferenza e agonia, persone a cui spetta tempo, attenzione, discussione, normazione e, se non altro, doveroso rispetto. Alle spalle del diritto, giova ripeterlo, risiede e scalpita la vita reale in tutta la sua complessità.
La strada è ancora e sempre in salita, il dettato della Consulta rappresenta una solida base e l’ordinanza del Tribunale di Ancona uno dei tanti tasselli mancanti.
Anche l’immagine di un tavolo di raccolta firme, visto da lontano, sembra essere poco più di una goccia nel mare, ma del resto, i latini direbbero gutta cavat lapidem non vi, sed saepe cadendo, "la goccia perfora la pietra non con la forza, bensì con il continuo stillicidio".
Riferimenti
1. Corte Costituzionale, ordinanza del 24 ottobre 2018, n. 207, depositata il 16 novembre 2018, pubblicata in G.U. il 21 novembre 2018 n. 46;
2. Corte Costituzionale, sentenza del 25 settembre 2019, n. 242, depositata il 22 novembre 2019, pubblicata in G.U. il 27 novembre 2019 n. 48;
3. Corte d’Assise di Appello di Massa, sentenza del 27 luglio 2020 n. 1, depositata il 2 settembre 2020;
4. Legge sul Consenso Informato e sulle DAT del 22 dicembre 2017 n. 219, pubblicata in G.U. del 16 gennaio 2018, n. 12;
5. Passaro D., Lo scenario italiano del fine vita, in Giustizia Insieme, 15 aprile 2019;
6. Passaro D., A sostegno e a difesa della persona umana: il diritto al rifiuto delle cure tra poteri dell’ADS e prerogative del giudice tutelare, in Giustizia Insieme , 24 marzo 2020;
7. Tribunale Ordinario di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021, Presidente Silvia Corinaldesi, Estensore Alessandro Di Taro.
8.V. gli interventi editi sulla Rivista sul tema del fine vita, a partire da "Il fine vita e il legislatore pensante." Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli). 4 Il fine vita e il legislatore pensante. 4. Il punto di vista dei civilisti (di Mirzia Bianca, Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano)
Giustizia e comunicazione. 7) Il linguaggio giuridico nell’Accademia
di Marina Castellaneta
La rubrica della Rivista sul tema Giustizia e comunicazione, proseguendo nel percorso annunciato nell’editoriale del 18 maggio 2021, dopo aver ascoltato la voce della magistratura di legittimità e di merito nei contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, ospitato il punto di vista della comunicazione professionale di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, discusso del valore della parola quale strumento chiave dell’emancipazione dell’individuo e della società nel contributo di Francesco Messina, affronta il tema del linguaggio dell’Accademia.
Nello scritto che segue, la Professoressa Marina Castellaneta, esperta di linguaggio giuridico e degli atti processuali, offre un quadro lucido e disincantato della lingua delle aule universitarie, evidenziandone criticità e carenze. La giurista sofferma poi l’attenzione sull’interazione tra lingua parlata e scritta, stigmatizzando lo scarso valore riconosciuto a quest’ultima soprattutto in ambito accademico, mettendo in luce le falle di un sistema in cui si arriva alla tesi di laurea senza aver mai scritto nulla prima, ed in cui, invece, sarebbe massimamente opportuno che il futuro avvocato, giurista, magistrato o altro professionista conosca e applichi le regole del linguaggio chiaro sintetico e preciso, evitando stereotipi a vantaggio della qualità.
L’elaborato affronta inoltre il tema della tecnica di redazione degli atti legislativi, non risparmiando di enfatizzare la differenza tra il legislatore attuale e quelli passati.
§§§
Periodi lunghi, giungla di subordinate, profluvio di parole superflue, aggettivi roboanti, gerundi a più non posso. Rendere oscuro ciò che è chiaro e non far comprendere ciò che è oscuro. E, poi, mai far mancare “atteso che”, “di guisa”, “talché”, “ed invero”, qualunque cosa vogliano dire nello specifico contesto di un discorso (lezione, conferenza, consigli di organi collegiali, verbali di concorso, saggi). Si aggiunga un linguaggio stereotipato, zeppo al tempo stesso di termini arcaici e usati in modo inappropriato e ricorso massiccio all’inglese, anche quando esiste una parola italiana ancora più chiara. È questo in diversi casi il linguaggio giuridico che esce dall’accademia e talvolta travolge gli studenti che sin dalle aule universitarie si confrontano con scritti di difficile comprensione non solo per il contenuto, ma anche per la scrittura utilizzata. E, di conseguenza, poi ripropongono quei riti di scrittura. E questo vale anche per il linguaggio nelle aule universitarie con buona pace di ciò che è realmente l’insegnamento: non monologhi con pubblico, ma trasmissione e scambio del sapere.
Il linguaggio nell’accademia malgrado i cambiamenti epocali non fa molti passi avanti e non riesce ad evolversi malgrado i mutamenti nella comunicazione e malgrado interventi, appelli di giuristi e dell’Accademia della Crusca per evitare anglicismi e complessità inutili che trasformano degli scritti scientifici, che dovrebbero servire a divulgare lo stato delle conoscenze e fare avanzare le ricerche in un settore, a messaggi in codice comprensibili solo a una determinata categoria di persone di riferimento. Un linguaggio per un circolo ristretto che si riproduce e che impedisce anche la diffusione della cultura scientifica.
Mentre tutto cambia i riti del linguaggio giuridico, almeno in molte aule universitarie, rimangono gli stessi. E che in pochi vogliano davvero cambiare è evidente dalla circostanza che, mentre si discute di modificare i corsi di studio in giurisprudenza, non risultano proposte per rendere obbligatorie materie come linguaggio e scrittura giuridica. Né ci si interroga più di tanto sulla necessità di prevedere aggiornamenti sulle modalità della didattica per gli stessi docenti, a partire dal linguaggio e dalla comunicazione, che pure sarebbe necessaria per favorire la diffusione anche di verifiche scritte.
E così mentre la Scuola Superiore della Magistratura prevede tra le attività formative corsi e incontri sulla scrittura giuridica e la Scuola Superiore dell’Avvocatura ha attivato analoghi percorsi[1], l’anello debole di un cambiamento non più rinviabile è proprio all’interno dell’università perché il contributo dell’accademia al miglioramento del linguaggio e della scrittura giuridica è limitato e lasciato alla buona volontà di pochi. Se poi si leggono talvolta sentenze incomprensibili, atti legali che puntando su un linguaggio aulico mettono da parte ogni forma di chiarezza, non si può non individuare tra i responsabili anche l’università.
Tutti d’accordo sul degrado del linguaggio e sulla necessità di sradicare quella che la giurista autrice del saggio imperdibile “Prontuario di punteggiatura” Bice Mortara Garavelli chiamava i “fossili lessicali”, ma pochi pronti a rendere il cambiamento strutturale[2]. Anche perché, come al solito, ci sono in ballo crediti formativi che poi contano per la programmazione, l’invenzione di un algoritmo e la programmazione dei posti.
In molti Dipartimenti di giurisprudenza delle università italiane, nonché nelle associazioni scientifiche il tema non sembra appassionare e in effetti non risultano proposte particolarmente innovative neanche da contesti collettivi come le conferenze dei direttori e la Conferenza delle Associazioni Scientifiche di Area Giuridica (CASAG) che raccoglie le società scientifiche di diversi settori disciplinari. Si procede così in ordine sparso: alcune università hanno compreso, infatti, la necessità di un insegnamento ad hoc sul linguaggio e sulla scrittura giuridica e hanno attivato dei percorsi, in taluni casi favorendo anche la formazione dei docenti. Ancorati a un linguaggio quasi rituale e talvolta quasi funzionale a rendere complesso ciò che è chiaro, costituito da frasi fatte e da “formule” ripetute che danno sicurezza, non sono pochi quelli che trascurano l’importanza di esempi e modelli chiari per accantonare finalmente una lingua stereotipata[3]. Che talvolta è frutto di un vuoto di contenuti con le parole utilizzate non per chiarire ma per soffocare o nascondere ciò che non c’è.
Tra le diverse iniziative, si può ricordare l’Università di Trento che ha un corso opzionale su “Le abilità del giurista” curato dal professore Giovanni Pascuzzi che nel programma prevede anche una parte dedicata alla redazione di testi, saggi giuridici, tesi, atti normativi, atti del processo e pareri[4].
Il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bari aveva previsto per l’anno accademico 2019/2020 l’attivazione di un Laboratorio innovativo di pratica del diritto “Abilità retoriche per giuristi” affidato allo scrittore Gianrico Carofiglio, ma l’avvio è stato rinviato a causa della pandemia. Questo laboratorio nasce quasi come uno spin-off di un ciclo di incontri attivato nel dottorato di ricerca “Principi giuridici tra mercati globali e diritti fondamentali” (coordinato dal prof. Vito Sandro Leccese), avviato nel 2019/2020 e oggi al secondo anno di attività. Il corso ha potuto contare sulla partecipazione, tra gli altri, degli scrittori Gianrico Carofiglio e Francesco Caringella, del Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini e di altri relatori[5].
Le iniziative post-laurea sono in effetti più diffuse. Così il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Firenze ha un Corso di perfezionamento in “Professioni legali e scrittura del diritto. Tecniche di redazione per atti chiari e sintetici” (direttori i docenti Federigo Bambi, Paolo Cappellini, Ilaria Pagni e Marco Biffi) giunto ormai alla VII edizione, ma riservato a laureati e, in particolare, a professionisti del diritto e dell’amministrazione pubblica[6]. L’Università di Pavia ha attivato da diversi anni un Master di II livello sulla lingua del diritto, coordinato dalla professoressa Giulia Rossolillo, proprio partendo dal presupposto che il “diritto ha bisogno di un linguaggio appropriato e dei professionisti della scrittura”[7].
Incontri, iniziative, corsi master sono destinati ad aumentare perché la richiesta è in aumento. Ma quello che serve è iniziare a confrontarsi con la scrittura giuridica e il linguaggio chiaro sin dalle aule universitarie. E oggi più che nel passato tenendo conto che i due anni di didattica a distanza nelle scuole a causa della pandemia ha in molti casi impedito lo svolgimento di prove scritte, con un possibile peggioramento nella preparazione.
È necessario rimediare perché non è più ammissibile che, proprio in un settore in cui le parole sono così importanti lo studente di giurisprudenza riprenda a scrivere solo per la tesi di laurea. In quel momento l’apporto del docente non può che essere limitato e, quindi, è indispensabile intervenire per fare sì che il futuro avvocato, giurista, magistrato o altro professionista conosca e applichi le regole del linguaggio chiaro (che certo richiede più tempo rispetto a quello complesso), sintetico e preciso, evitando stereotipi a vantaggio della qualità. Il progressivo peggioramento del linguaggio e della scrittura giuridica ha una manifestazione concreta proprio nella produzione legislativa: basta leggere il testo della Costituzione del 1948 mettendo a confronto le norme scritte all’inizio e quelle modificate nel corso degli anni (si veda per tutti l’articolo 117 che ha creato e continua a creare un contenzioso proprio per la difficile interpretazione della norma, scritta in modo sciatto). Per non parlare di testi legislativi che, frutto del determinante contributo degli uffici legislativi, dimenticano che le leggi devono essere chiare a tutti, a ogni individuo che solo così può partecipare concretamente alla vita democratica[8].
C’è da chiedersi se l’accademia sia finalmente pronta a un cambiamento come quello che ha portato alla lenta ma progressiva diffusione delle cliniche legali nei corsi di studio in giurisprudenza. Anche in questo caso i ritardi sono stati imperdonabili. Basti pensare che Francesco Carnelutti sin nel 1935 aveva pubblicato un saggio in cui invocava l’ingresso tra gli insegnamenti delle cliniche legali. L’illustre giurista scriveva: “Eppure noi continuiamo a vivere in questo assurdo, quanto alla giurisprudenza. Se non ci hanno provveduto da sé, i nostri discenti diventano dottori, senza aver mai veduto un caso vivo del diritto”[9]. Analogo discorso per la scrittura: non si può arrivare alla tesi di laurea senza aver scritto nulla.
È così arrivato il momento, soprattutto in questa fase in cui si sta procedendo alla modifica del corso di studio per acquisire la laurea magistrale in giurisprudenza, di rendere obbligatorio l’insegnamento sul linguaggio e sulla scrittura, anche per salvaguardare la lingua italiana e non cedere a una diffusione di anglicismi che non ha riscontri in Francia o in Spagna. Se non si cambia e se non si iniziano a formare laureati con un consolidato bagaglio anche linguistico si dovrà ricorrere a un sistema di intelligenza artificiale per tradurre i testi legislativi e le sentenze da italiano a italiano.
Marina Castellaneta
[1] Cfr. D. Cerri, La scrittura degli atti processuali e il Protocollo d’intesa C.N.F., in Questione Giustizia, 2016, nel sito https://questionegiustizia.it; D. Borri, Il Programma di gestione della Cassazione per il 2021: chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti), 9 giugno 2021, in Giustizia e insieme, 2021.
[2] Cfr. anche B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Torino, 2001.
[3] I. Calvino, Lezioni americane, Milano, 1993; M. Ainis La legge oscura. Come e perché non funziona, Bari, 2010; G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Milano, 2010; B. Pozzo e F. Bambi (a cura di), L’italiano giuridico che cambia, Accademia della Crusca, Firenze, 2012; A. Mariani Marini e F. Bambi, Lingua e diritto, Accademia della Crusca, 2013.
[4]Si veda il programma nel sito https://www.esse3.unitn.it/Guide/PaginaADErogata.do?ad_er_id=2020*N0*N0*S2*49440*87608&ANNO_ACCADEMICO=2020&mostra_percorsi=S
[5] Ci permettiamo di segnalare che il corso è coordinato da Marina Castellaneta. Per dettagli sul corso si veda la pagina web https://www.uniba.it/ricerca/dipartimenti/lex/post-laurea/dottorati-di-ricerca/dottorati-di-ricerca-1/attivita-formativa-didattica/attivita-formative.
[6] Si veda il sito https://www.dsg.unifi.it/vp-613-professioni-legali-e-scrittura-del-diritto-tecniche-di-redazione-per-atti-chiari-e-sintetici-vii.html.
[7] Ulteriori informazioni nel sito http://lalinguadeldiritto.unipv.it.
[8] P. Caretti, Discutere del linguaggio dei giuristi per riflettere sul loro ruolo oggi: qualche considerazione a conclusione del convegno “La lingua dei giuristi”, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2015 nel sito https://www.osservatoriosullefonti.it/mobile-saggi/speciali/speciale-convegno-la-lingua-dei-giuristi/842-osf-3-2015-caretti/file.
[9] Così F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Rivista di diritto processuale, 1935, I, 169 ss.
La settima sezione penale nel programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021
di Pierluigi Di Stefano
Sommario: 1. Esame preliminare dei ricorsi e settima sezione penale - 2. Conclusioni - 3. La durata dei procedimenti in settima sezione penale - 4. Ridurre i tempi.
1. Esame preliminare dei ricorsi e settima sezione penale
Il programma di gestione della Corte per la prima volta comprende il settore penale e, quindi, consente una valutazione dinamica dell’esistente e della previsione di gestione futura.
Qui si considera tale programma per la parte che riguarda la gestione dei fascicoli di manifesta inammissibilità, da decidere secondo le specifiche, e più snelle, procedure dell’art. 610, commi 1 e 5 bis, cod. proc. pen., con assegnazione alla settima sezione penale.
Si tratta di profili organizzativi della massima rilevanza perché, pur se si tratta del materiale “da scartare” a prima vista, senza alcun serio impegno delle professionalità della Corte, si discute di numeri che arrivano alla metà delle sopravvenienze e, per ciò solo, drenano rilevanti risorse; al di là della più facile gestione dei “contenuti” (è pacifico che la stragrande maggioranza di tali fascicoli occupi ben poco tempo per valutazione, decisione e successiva redazione della motivazione), comunque i singoli consiglieri del settore penale arrivano a svolgere una udienza su quattro udienze mensili medie per tali procedimenti[1]. Inoltre, la gestione burocratica differisce da quella dei fascicoli ordinari solo per le minori attività connesse alla differenziazione di rito, avendo per il resto un simile impatto sulle attività delle cancellerie.
Il complesso di tali fascicoli, quindi, incide in modo rilevante e non in termini positivi, sottraendo (costose) risorse che dovrebbero essere, invece, impegnate nei compiti propri del giudice di legittimità.
Interessano, quindi, le valutazioni programmatiche che riguardano gli uffici (“spoglio”) istituiti presso le singole sezioni per l’esame preliminare dei ricorsi su delega del Primo Presidente la cui prima attività è quella di individuare i fascicoli da assegnare alla “apposita sezione” istituita per la rapida definizione dei procedimenti inammissibili.
Come noto, la settima sezione penale costituisce la “apposita sezione” individuata dall’art. 610 cod. proc. pen., come modificato nel 2001, quale destinataria dei ricorsi per i quali sia evidente la inammissibilità, da dichiarare con ordinanza in udienza camerale non partecipata previa comunicazione alle parti di un avviso che enuncia la causa di inammissibilità rilevata in sede di primo esame.
La organizzazione, ormai stabile, della Corte di Cassazione è nel senso che alla settima sezione sono coassegnati magistrati delle sezioni ordinarie (attualmente tutti i consiglieri); ogni sezione ordinaria ha a disposizione delle udienze che verranno tenute in sede di settima sezione da propri magistrati con un ruolo di cause predisposto dal proprio ufficio “spoglio”.
Su tale organizzazione ha inciso la legge n.103/2017 che ha previsto (art. 610 comma 5-bis cod. proc. pen.) una procedura senza alcuna formalità (de plano) per la declaratoria di inammissibilità quando ricorrano cause sostanzialmente “automatiche” (ricorso non proposto da soggetto legittimato, ricorso tardivo, provvedimenti non impugnabili, ricorso avverso patteggiamento per motivi di motivazione, patteggiamento in appello). Per questi casi la norma non prevede l’assegnazione alla sezione del primo comma, ma la regola “tabellare” al riguardo ha previsto che anche tali fascicoli siano trattati dalla settima sezione che, quindi, utilizza due diverse discipline processuali.
Per valutare i contenuti del programma di gestione, si considera innanzitutto la organizzazione tabellare per quanto di interesse sia con riferimento alla tabella triennale 2017/2019 che alla tabella 2020/2022, ancora in itinere:
§ 50. — Esame preliminare dei ricorsi. 50.1. Presso ciascuna sezione è costituito l'ufficio esame preliminare dei ricorsi del quale fanno parte, di regola, non meno di quattro e non più di sei consiglieri delegati dal Primo Presidente ….
| § 57. — Esame preliminare dei ricorsi 57.1. come 50.1
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50.3. I consiglieri provvedono all'esame preliminare dei ricorsi trasmessi dalla cancelleria centrale penale alle rispettive sezioni e inoltrano alla Settima sezione i ricorsi per i quali rilevano una causa di inammissibilità.
| 57.4. I consiglieri provvedono, secondo le direttive emanate dal Primo Presidente a norma dell’art. 610, comma 1, cod. proc. pen., all'esame preliminare dei ricorsi trasmessi dalla cancelleria centrale penale alla sezione e inoltrano alla Settima sezione i ricorsi per i quali rilevano una causa di inammissibilità, attribuendo loro un valore ponderale di difficoltà da 1 a 3
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§ 52. — Coordinamento dell'attività dei magistrati dell'ufficio esame preliminare dei ricorsi. 52.1. Il Primo Presidente nomina con decreto motivato, tra i presidenti non titolari, il coordinatore dell'ufficio esame preliminare dei ricorsi il quale riveste anche la qualità di presidente coordinatore della Settima sezione e svolge altresì l'incarico di referente della cancelleria centrale penale.
| § 52. — Coordinamento dell'attività dei magistrati dell'ufficio esame preliminare dei ricorsi. Come 52.1
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Sezione settima § 56. — Competenza della Settima sezione. 56.1. La Settima sezione è competente per la definizione dei ricorsi per i quali il magistrato delegato all'esame preliminare dal Primo Presidente abbia rilevato una causa di inammissibilità. | § 63. — Competenza della Settima sezione. 63.1. La Settima sezione è competente per la definizione dei ricorsi per i quali il magistrato delegato dal Primo Presidente all'esame preliminare abbia rilevato una causa di inammissibilità, anche a norma dell’art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., salvo che ricorrano ragioni di urgenza che impongono l’immediata trattazione de plano nella sezione ordinaria. |
56.2. La Sezione, oltre ad ordinanze di inammissibilità, può emettere sentenze di annullamento senza rinvio esclusivamente nei seguenti casi: improcedibilità o improseguibilità dell’azione penale; estinzione del reato per morte dell’imputato, per remissione di querela, per prescrizione quando manchi la costituzione di parte civile; fatto non previsto dalla legge come reato, anche per abolitio criminis o per dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; possibilità di procedere alla determinazione della pena a norma dell’art. 620, comma 1 lett. l), c.p.p. | 63.2 Come 56.2
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56.3. Nei casi di mutamenti normativi o di pronunce della Corte costituzionale che incidono sulla pena, intervenuti dopo l’assegnazione alla Settima sezione, quest’ultima può emettere sentenze di annullamento con rinvio. Ove si tratti di ricorsi avverso sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la Sezione può pronunciare sentenze di annullamento senza rinvio, con trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria di provenienza. | 63.3. Nei casi di mutamenti normativi o di pronunce della Corte costituzionale che incidono sulla pena, intervenuti dopo l’assegnazione alla Settima sezione, quest’ultima può emettere sentenze di annullamento con rinvio. Ove si tratti di ricorsi avverso sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 e 599-bis cod. proc. pen., la sezione può pronunciare sentenze di annullamento senza rinvio, con trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria di provenienza. |
56.4. La Sezione può adottare i provvedimenti correttivi previsti dall’art. 619 c.p.p. | 63.4 Come 56.4. |
56.5. Qualora il ricorso del pubblico ministero, pur in presenza di altri motivi inammissibili, contenga censure attinenti all’omessa statuizione sulla confisca obbligatoria o alla mancata applicazione di pene accessorie non discrezionali o di sanzioni amministrative obbligatorie, la Sezione può emettere pronunce definitorie di annullamento senza rinvio, limitatamente ai detti punti, adottando le conseguenti statuizioni.
| 63.5 Come 56.5. |
57.3. I componenti dei singoli collegi sono individuati sulla base di un assetto organizzativo che preveda: a) la coassegnazione alla Settima sezione dei magistrati delegati all'esame preliminare dei ricorsi delle singole sezioni e di un numero di ulteriori magistrati non inferiore a sei; b) la tendenziale partecipazione dei magistrati coassegnati che svolgano l’attività di spoglio ad almeno una udienza mensile, con corrispondente riduzione del numero delle udienze sezionali.
| 64.2. I componenti dei singoli collegi sono individuati sulla base di un assetto organizzativo che prevede la tendenziale co-assegnazione di tutti i magistrati di ciascuna sezione, per favorire il più ampio scambio di esperienze e di orientamenti e l’equa distribuzione dei carichi di lavoro. I magistrati che svolgono l’attività di spoglio tengono, di regola, una udienza mensile alla Settima sezione. In ogni caso, i magistrati che tengono udienza alla Settima sezione fruiscono della corrispondente riduzione del numero delle udienze sezionali |
57.4. Salvo deroghe specificamente motivate la composizione dei collegi deve prevedere la designazione di componenti provenienti da una medesima Sezione, due dei quali, di regola, addetti all'esame preliminare dei ricorsi. | 64.3. Salvo deroghe specificamente motivate, la composizione dei collegi deve prevedere la designazione di componenti provenienti da una medesima sezione, almeno uno dei quali, di regola, addetto all'esame preliminare dei ricorsi |
57.6. Nella Settima sezione i procedimenti vengono assegnati secondo l'anzianità di iscrizione nel ruolo, in numero di regola non inferiore a centottanta per udienza, egualmente distribuiti tra i componenti del collegio, escluso il presidente. Per ogni trimestre di riferimento il presidente coordinatore può variare il numero dei ricorsi da trattare in funzione della definizione delle pendenze.
| 64.5. I procedimenti vengono assegnati secondo l'anzianità di iscrizione nel ruolo, in numero di regola non inferiore a centosessanta per udienza, oltre ai procedimenti ex art. 610, comma 5-bis, cod. proc. pen., egualmente distribuiti tra i componenti del collegio, escluso il presidente, secondo l’ordine crescente di anzianità di ruolo. Per ogni trimestre, il presidente coordinatore può variare il numero dei ricorsi da trattare in funzione del numero delle pendenze di ogni singola sezione. |
57.7. Dei provvedimenti selezionati per l'udienza, vengono preliminarmente individuati quelli pertinenti a materie che secondo le disposizioni tabellari avrebbero dovuto essere trattate dalle sezioni di provenienza dei componenti del collegio, a ciascuno dei quali gli stessi vengono assegnati. 57.8. I ricorsi in materia cautelare personale vanno comunque trattati prioritariamente. | 64.6 e 64.7 come 57.7 e 57.8
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Si notano le modifiche principali apportata con il nuovo progetto tabellare, in corso di approvazione:
- si prevede che il Primo Presidente emani specifiche direttive riguardanti l’attività dei magistrati addetti agli uffici “spoglio” quanto alla selezione dei fascicoli da destinare alla settima sezione penale. È una previsione programmatica, evidentemente mirata a uniformare i criteri tra le varie sezioni, esigenza di cui si dirà dopo.
- Anche ai procedimenti destinati alla settima sezione penale deve essere attribuito un “valore ponderale di difficoltà”, da 1 a 3. Tale attribuzione è finalizzata a rendere possibili ulteriori disposizioni organizzative.
- Alla settima sezione penale è attribuita la competenza anche per la trattazione dei procedimenti de plano salvo “ragioni di urgenza”. Tale competenza, si ripete, è una scelta esclusivamente “tabellare” in quanto non è prevista dall’art. 610 cod. proc. pen.
- Di norma, va disposta la coassegnazione di tutti i magistrati delle sezioni penali ordinarie anche alla settima sezione. La previsione variabile lascia spazio ad una organizzazione più elastica, secondo le necessità del periodo. In conseguenza di tale partecipazione più ampia, si prevede che ogni collegio della settima sezione debba essere formato con almeno un magistrato “spogliatore” (non più due come da precedente tabella).
- il numero minimo di fascicoli da trattare in ogni udienza della settima sezione viene rimodulato (da 180 a 160), considerato vi è una quota aggiuntiva di procedimenti con trattazione de plano.
Come risulta dal programma di gestione e dal documento organizzativo generale per il triennio 2020-2022 che riportano i dati statistici degli ultimi anni, la funzione di filtro degli uffici spoglio con attribuzione alla settima sezione della numerosa massa dei ricorsi di evidente inammissibilità, ha sostanzialmente funzionato bene: il numero complessivo di ricorsi alla settima, difatti, è giunto al 43% del totale delle sopravvenienze del settore penale.
Tale dato percentuale è ancor più rilevante perché dal numero globale vanno esclusi i numerosi procedimenti in materia cautelare, personale e reale. Questi procedimenti, pur essendo possibile la loro assegnazione alla settima sezione ricorrendo le condizioni di evidente inammissibilità, sono trattati per prassi presso le sezioni ordinarie con l’ordinaria procedura camerale partecipata ex art. 127 cod. proc. pen. La ragione è che, in considerazione della materia che richiede una decisione immediata, risulta preferibile ricorrere alla procedura ordinaria che consente la trattazione in termini più rapidi: l’avviso alla parti, secondo il procedimento ordinario (artt. 311 e 324 cod. proc. pen.) deve essere dato 10 giorni prima dell’udienza e non 30 giorni prima come è previsto per il procedimento speciale ex art. 610, comma 1, cod. proc. pen.
Il programma di gestione, sulla scorta di tali risultati che offrono un quadro chiaro e sostanzialmente positivo della gestione dei fascicoli di manifesta inammissibilità, non segnala particolari obiettivi per la settima sezione.
I dati utilizzati, che possono essere valutati unitariamente perché i trend sono alquanto costanti negli ultimi anni, evidenziano come la sezione riceva, come detto, una rilevante parte dei procedimenti totali con percentuali che variano abbastanza da sezione a sezione. La ragione di tale diversità è individuata in un diverso approccio da parte degli uffici spoglio delle singole sezioni ma è presumibilmente conseguente anche alla tipologia di procedimenti trattati. È indubbio che in determinati settori la percentuale di ricorsi di immediata inammissibilità, proposti in via meramente strumentale, è certamente più elevata (es. stupefacenti, evasioni etc). Sul punto, invero, non risultano comunicati dati statistici.
Anche il risultato qualitativo della selezione fatta in sede di spoglio, sul piano numerico, è decisamente apprezzabile in quanto la quasi totalità dei procedimenti trasmessi alla settima sezione vengono definiti con la decisione di inammissibilità mentre solo una percentuale che non supera il 4% viene restituita alle sezioni per approfondimenti (da valutare, poi, quanti di questi non vengano comunque dichiarati inammissibili o rigettati).
Allo stesso tempo, tale quota di fascicoli trasmessi alle sezioni ordinarie è segno di come funzioni anche la garanzia che in sede di settima sezione vi sia una seria valutazione dei procedimenti e non un esame superficiale fidando solo sulla delibazione della fase di spoglio (si rammenta come una direttiva ormai risalente preveda che il magistrato spogliatore non assegni i fascicoli destinati alla settima sezione a sé stesso proprio per garantire una più ampia valutazione).
I risultati positivi hanno quindi giustificato il mantenimento della stessa organizzazione con minimi adattamenti. Ciò anche per le modalità di composizione dei collegi della settima sezione per i quali si è voluto garantire la partecipazione di almeno uno dei magistrati addetti all’esame preliminare dei fascicoli, scelta sicuramente opportuna per il dovuto confronto e approvazione delle scelte fatte dai magistrati spogliatori nella attività di selezione fascicoli da trasmettere per la declaratoria di inammissibilità.
Tali risultati, ovviamente, riguardano l’accuratezza della selezione in ingresso, ma non consente di valutare se l’attività di filtro degli uffici spoglio abbia raggiunto sempre una soglia adeguata.
Non sembra, difatti, impossibile incrementare ulteriormente la trasmissione dei fascicoli in alcuni casi poiché ad una prima approssimazione la forte diversità di percentuale tra le varie sezioni sembra non dovuta solo a diversità di materie, come già si è detto, ma anche ad filtraggio più accurato[2]. D’altro canto, va considerato che si discute di un ambito di valutazioni per cui non si può ragionare in termini semplicemente meccanicisti ed è comprensibile che non sia un settore sul quale si possa facilmente intervenire.
Certamente, appare opportuno che, per ragioni di omogeneità, vi sia un indirizzo da parte del coordinatore della settima sezione. Il programma di gestione , difatti, negli obiettivi qualitativi quanto all’esame preliminare dei ricorsi prevede che il coordinatore verifichi il rispetto dei parametri di esercizio dell’attività di “filtraggio”, attività che presumibilmente sarà ancora più accurata in ragione delle direttive che saranno adottate secondo la previsione del nuovo progetto tabellare, come sopra si è riportato.
Vi è comunque anche un limite al “filtro” dell’ufficio spoglio: al magistrato addetto all’esame preliminari dei fascicoli si affida una valutazione che, a parte profili sostanzialmente automatici di non impugnabilità (tardività, provvedimento non impugnabile etc.), prevede da parte sua una “constatazione” della presenza di motivi mirati alla rivalutazione del merito o generici etc. ma non una vera e propria delibazione sulla presumibile infondatezza. Questa è la ragione per la quale non va richiesto all’ufficio spoglio una selezione sulla scorta di un approfondimento dei contenuti; contrariamente a quanto è stato anche oggetto di qualche critica negli anni recenti, il “superamento” della selezione settima/sezione ordinaria e la fissazione del procedimento in udienza ordinaria non può essere ritenuto una sorta di garanzia della non manifesta infondatezza che giustifichi l’aspettativa di un risultato in termini quantomeno di “rigetto” del ricorso.
In ragione degli obiettivi generali di benessere organizzativo, nel programma di gestione anche in riferimento alla attività della settima sezione è stato determinato un concetto di “carico esigibile” individuale, computato in collegamento al dato analogo sviluppato per ciascuna sezione ordinaria, essendo tutti i magistrati coassegnati al 25%.
In realtà, pur a fronte dell’elaborazione di tale dato del carico esigibile nel programma (al punto “8.5 Carico esigibile”), vi è una previsione rigida nelle tabelle di un numero minimo di procedimenti da fissare per ciascuna udienza: il vecchio progetto prevedeva 180 fascicoli per udienza (quindi 45 per consigliere), il nuovo riduce i fascicoli ordinari a 160 cui vanno aggiunti i procedimenti de plano.
Quindi, allo stato, il carico di lavoro per la settima sezione penale risulta predeterminato nel minimo ad un livello abbastanza elevato senza l’elasticità del carico esigibile.
In concreto, per fare ad esempio il caso della sesta sezione penale, per le proprie udienze di settima sezione prevede 50 procedimenti per relatore, di cui tendenzialmente 10 de plano, con eventuali procedimenti urgenti (scadenze misura cautelare, richieste di remissione ex art. 45 cod. proc. pen.) in sovrannumero assegnati al presidente.
Quindi, in realtà, sulla scorta di un dato tendenziale di assegnazione di ciascun consigliere per il 25% del numero di udienze alla settima sezione, le tabelle, considerando una sostanziale equivalenza di difficoltà (o, in questo caso, semplicità) di ciascun affare trattato, hanno già predeterminato nel minimo il carico esigibile.
Si noti come il progetto tabellare in approvazione introduca per la prima volta la assegnazione di un valore ponderale (nella più limitata scala da 1 a 3 rispetto a quella in uso per gli altri fascicoli “ordinari”) anche per i procedimenti destinati alla settima sezione. A tale previsione, per ora, non sembra accompagnarsi alcuna conseguenza, il numero di fascicoli per udienza nel medesimo progetto tabellare non è determinato in base al relativo peso, né vi è altra differenza. Potrà essere utilizzato il dato nella futura organizzazione concreta per le direttive sulla gestione o, eventualmente, anche come base per introdurre modalità differenziate quanto alle motivazioni preconfezionate[3].
Nella individuazione degli obiettivi qualitativi invero la settima penale non è considerata in via diretta bensì risente degli obiettivi riferiti alle attività di esame preliminare dei ricorsi presso le sezioni ordinarie. Questa è la fase in cui si “filtrano” le sopravvenienze e si alimenta la settima sezione, con la già citata inevitabile parziale difformità di situazioni a seconda delle singole sezioni che trasmettono i procedimenti (e che poi li gestiscono con i propri magistrati).
Il programma segnala anche le prove, per ora limitate ad alcune sezioni, di “informatizzare possibili schermi logici di decisione in relazione alla diversa tipologia di questioni“, in parole povere di predisporre dei modelli preformati per i procedimenti di maggior semplicità. È questo un tema sul quale si tornerà.
Nell’ambito degli obiettivi qualitativi, si individuano i compiti propri del coordinatore la settima sezione penale il quale deve assicurare il “rispetto dei parametri generali ed omogenei fissati in tabella alla cui stregua gli Uffici spoglio possano improntare il giudizio circa rispetto del requisito normativo della specificità dei motivi”. E’ un ruolo importante che, si ripete, potrà essere incrementato in collegamento con la nuova previsione tabellare delle direttive del Primo Presidente.
Infine, pur non essendovi indicazioni specifiche nel programma, la settima sezione, svolgendo attività “massiva”, è ovviamente particolarmente interessata alla informatica giudiziaria intesa quale modalità di velocizzazione delle operazioni. Tanto già è stato fatto con le comunicazioni e notificazioni telematiche, con il ruolo di udienza informatizzato che, per il lavoro su grandi numeri, ha ben semplificato il lavoro complessivo dei vari utenti interessati (pur se anche la sola arretratezza sull’uso della firma digitale costringe ancora i presidenti, in esito alle udienze, ad attività quali la firma manoscritta di oltre 180 dispositivi per volta.). I prossimi passaggi potranno riguardare la automazione della redazione delle decisioni, in un settore che ben si presta per il carattere ripetitivo e privo di contenuti giuridici rilevanti dei casi da trattare.
2. Conclusioni
In definitiva, il programma organizzativo giustamente rileva un andamento sostanzialmente virtuoso della gestione della assegnazione alla settima sezione penale e della successiva lavorazione dei procedimenti. La attività di “filtro” a monte funziona, con percentuali maggiori o minori che certamente rientrano in un ambito sostanzialmente fisiologico considerato che in tale contesto gioca molto il tipo di materia, l’esperienza, la sensibilità individuale che rendono difficile una misurazione meccanica.
La capacità di definizione è buona e il rapporto tra fascicoli in ingresso e in uscita è nel senso della piena capacità di smaltimento.
L’obiettivo di differenziare i procedimenti per i quali seguire il ponderoso procedimento ordinario, con l’intento di non appesantirlo, non sprecare risorse e nel contempo non pesare sulla qualità e quantità delle definizioni appare raggiunto.
3. La durata dei procedimenti in settima sezione penale
Invero, dalla lettura del programma di gestione e del progetto organizzativo, considerati i dati forniti, risultano situazioni rispetto alle quali si possono prospettare delle modifiche. In particolare, rilevano la tempistica di definizione dei procedimenti destinati alla settima sezione, sulla scorta dei dati utilizzati nel progetto tabellare e nel documento organizzativo, di quelli riportati nel programma di gestione e dei dati comunicati periodicamente.
I numeri globali dei fascicoli, come detto, sono sostanzialmente stabili, al netto delle variazioni riscontrate nel 2020 che trovano motivo nella fase del rallentamento delle attività per la pandemia. La ragionevole aspettativa è che tali numeri tornino ai precedenti livelli rispettandosi i medesimi trend degli ultimi anni.
Meritevole di valutazione sono, però, i giorni di durata dei procedimenti per quanto poi si dirà.
Ragioni ovvie rendono particolarmente importante il ridurre i tempi di gestione dei fascicoli di manifesta inammissibilità.
Il carico gestito dalla settima sezione penale è sostanzialmente tutto ciò che in Corte di cassazione non avrebbe neanche dovuto arrivare, e che invece arriva nella piena consapevolezza degli istanti che si tratta di materiale spurio: ricorsi di soggetti non legittimati, contro provvedimenti non impugnabili, motivi non proponibili o proposti in forma solo generica. La stragrande parte dei fascicoli trattati nella settima sezione rientra in quest’ambito, considerato che è in questione la selezione dei soli procedimenti per i quali la inammissibilità è evidente e sostanzialmente non opinabile.
Anche l’auspicio di una prassi di “filtro” a maglie più strette riguarda, comunque, solo i ricorsi che rientrano nell’ambito della evidenza della inammissibilità e non quelli per i quali possa esservi un ambito di valutabilità, sia in punto di diritto che di vizi della motivazione.
La principale ragione di tali numeri di ricorsi inconsistenti è ovvia e trova riscontro nel fatto che anche dopo la introduzione della procedura de pano non sono venute meno neanche i ricorsi contro le sentenze di patteggiamento per il vizio di motivazione (non più ammesso):
se la sentenza di condanna non è eseguita nel caso in cui si proponga ricorso, ancorchè inammissibile, vi sarà comunque un interesse fattuale al ricorso.
Si potrà discutere se riteniamo o meno accettabile una tale impostazione secondo i “nostri” parametri, ma i difensori semplicemente perseguono l’interesse dell’imputato ormai condannato.
Si rammenta, poi, che la decisione di inammissibilità preclude il pagamento delle relative prestazioni in caso di gratuito patrocinio e, quindi, non vi è neanche il sospetto che l’eccesso di contenzioso nasca dalla possibilità di ottenere la retribuzione anche per tali attività inutili.
È evidente che pressoché tutti coloro che presentano i ricorsi destinati naturalmente alla settima sezione penale sono consapevoli che non vi sia alcuna possibilità non tanto di accoglimento ma di effettiva trattazione in udienza partecipata nelle sezioni ordinarie. Del resto, una scelta come l’introduzione della procedura de plano dell’art. 610 comma 5-bis cod. proc. pen. è stata utile per semplificare la gestione da parte della Corte, ma, si ripete, non sembra avere indotto le parti a ridurre il numero di ricorsi presentati. L’importante, dal punto di vista del ricorrente, è posticipare l’eseguibilità della sentenza.
La conclusione evidente è che se si vuole seriamente privare di interesse la proposizione di ricorsi inutili, contro cui poco può una sanzione pecuniaria di fatto irrecuperabile nella maggior parte dei casi o una rigida interpretazione dei criteri di specificità dei motivi di ricorso (cosa importa a chi non ha alcun interesse a “vincere” perché sa già che è impossibile?), risulta della massima importanza ridurre al massimo i tempi di trattazione dei procedimenti in settima sezione penale.
Solo una decisione quantomai rapida (auspicando anche un miglioramento dei tempi nella fase di trasmissione della impugnazione) può essere un serio deterrente al ricorso strumentale. Non è certamente un deterrente la crescita esponenziale negli ultimi anni degli importi delle nostre condanne a sanzione pecuniaria per la inammissibilità in quanto, a fronte del dato formale dei 200 milioni di euro cumulati nell’ultimo anno (in sé superiore al complesso degli stipendi dei magistrati e del personale della Corte), andrebbe valutato quale sia stata la percentuale di incasso effettivo negli anni precedenti (detratti i costi di recupero).
Invece, proprio la settima sezione penale sembra avere qualche sofferenza in più sul piano della durata dei procedimenti che non aiuta a deflazionare il contenzioso inutile.
Colpisce guardando i dati presenti nel programma di gestione, che peraltro confermano anche quelli ulteriori e più analitici che risultano dalla trasmissione delle elaborazioni statistiche periodiche, il fatto che la sezione con il più consistente arretrato di procedimenti antecedenti al 2020 è proprio la settima sezione penale.
Si tratta di un dato grezzo (non è offerto un dato comparabile per gli anni precedenti e vi è la variabile “covid”), ma discretamente significativo che chi propone ricorso per ritardare il giudicato ha più chances se il suo procedimento inammissibile venga trasmesso alla settima sezione piuttosto che se resti in sezione ordinaria.
Il dato della maggiore permanenza del procedimento prima del suo esaurimento trova riscontro anche nella sintetica tabella sulla durata media in giorni dei processi:
Presso la settima sezione penale
Per tutto il settore penale
Facendo riferimento al dato luglio 2018/luglio 2019 (così evitando il condizionamento del periodo pandemia che ha pesato diversamente sui vari settori), a fronte della durata di 183 giorni presso la settima sezione penale, abbiamo numeri di durata dei processi presso le singole sezioni pari a 224, 191, 164, 133, 127e 119 giorni[4].
In tali numeri si annida il rischio della incentivazione del “ricorso inutile”: più lunghi sono i tempi di trattazione, più le parti avranno interesse a proporne.
Questa constatazione suggerisce una fase di accelerazione per portare a tempi più brevi le decisioni (una volta raggiunto l’obiettivo, non dovrebbe essere particolarmente impegnativo mantenerlo).
4. Ridurre i tempi
Al di là di una parziale spinta in aumento delle decisioni che, ovviamente, sconterebbe l’incidenza sulle altre attività a parità di risorse, possono cercarsi soluzioni utili ad una gestione più rapida.
Una prima soluzione riguarda i procedimenti de plano.
Potrebbe ragionevolmente ripensarsi sulla gestione di tali procedimenti per i quali attualmente è previsto che, salvo urgenza, debbano essere trasmessi alla settima sezione. Del resto è la stessa legge che, pur inserendo la nuova procedura ultrasemplificata nello stesso art. 610 cod. proc. pen., non ha previsto l’assegnazione alla apposita sezione, preferendo lasciare ogni scelta all’autonomia organizzativa della Corte.
La scelta normativa di azzerare la gestione burocratica di procedimenti per i quali non vi è alcun ambito di opinabilità sulla inammissibilità in teoria potrebbe portare, quanto meno per la parte di decisione del giudice, ad una decisione in tempo sostanzialmente reale, come consente il carattere del tutto informale della procedura.
Se, invece, i procedimenti de plano vengono fissati innanzi alla settima sezione insieme ai procedimenti di settima “ordinari”, i tempi sono ben più lunghi e sono sostanzialmente equiparabili a quelli degli altri procedimenti.
Eppure, non appare difficile ipotizzare una soluzione “sbrigativa” che, con l’esperienza dell’ufficio spoglio, può così immaginarsi:
il magistrato addetto allo spoglio, anche con l’aiuto della cancelleria, separa pacchi di 5-10 procedimenti de plano che, di solito, sono immediatamente individuati senza alcun “apprezzamento” (larga parte sono patteggiamenti, provenienti dal giudice di primo grado, per i quali basta un mero riscontro di copertina, o patteggiamenti in appello, dato immediatamente evidente dal dispositivo, o atti firmati dalla parte personalmente) e li consegna secondo un ordine ai colleghi di sezione che curano personalmente la redazione di un modulo di decisione il cui contenuto per quasi tutti i casi può essere ridotto all’osso (tipo “l’articolo 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. non consente il ricorso per ragioni di motivazione” o “l’articolo 613 cod. proc. pen. non consente il ricorso personale”, bastando fare uso di normale modulistica informatizzata, come quella standard di MS Word) e chiedono alla cancelleria la registrazione per la propria prima o seconda udienza utile; in tale udienza, attesa la materia, il confronto con presidente e colleghi per la decisione richiederebbe una manciata di secondi senza alcuna reale incidenza sulla restante attività.
Tra la consegna del fascicolo alla sezione e la adozione della decisione sarebbero sufficienti pochissimi giorni.
Ad una tale attività semplicissima si aggiunge, però, la gestione di cancelleria, considerando che i numeri non sono bassi e le attività post udienza non dissimili da quelle dei fascicoli ordinari. Ma, in questo caso, potrebbe certamente curarsi una successiva gestione materiale dei fascicoli da parte della medesima cancelleria della settima penale, in quanto organizzata per personale e modalità di lavoro alla gestione di grandi numeri.
In questo modo, si potrebbe ottenere, spostando un lavoro che a ben vedere è di minimo impegno, utilizzando ritagli di tempo nel corso di altre attività, una decisione quasi in tempo reale di quelle che sono arrivate ad una discreta percentuale sul totale dei fascicoli (particolarmente elevata per la “piccola” droga e i furti), sino al 12,5% come segnalato[5].
Ciò lascerebbe anche la possibilità di gestire più rapidamente i fascicoli ordinari della settima sezione. L’eliminazione dei fascicoli de plano, recuperati con una migliore organizzazione dei tempi, è in grado di portare a una riduzione dei tempi di fissazione delle udienze di settima sezione da parte delle sezioni ordinarie allo stato in sofferenza.
Anche per la settima sezione “ordinaria” va considerato che, se si vuole raggiungere un obiettivo di riduzione (anche se non nel breve periodo) delle sopravvenienze, si deve disincentivare il vantaggio pratico.
Qualsiasi soluzione che renda più complesso predisporre un ricorso ammissibile è di scarsa efficacia (come essere più rigidi sul requisito della specificità dei motivi, sulla autosufficienza etc): le impugnazioni vengono proposte nella piena consapevolezza che la destinazione “naturale” del procedimento è la settima sezione penale e ciò che può disincentivare è solo il rendere quanto più celere la decisione.
L’intervento possibile è tentare di allineare le sezioni con tempi più lunghi alle altre, redistribuendo temporaneamente i carichi. La organizzazione tabellare non limita la formazione dei collegi e l’assegnazione dei fascicoli e, ad es., potrebbe assegnarsi una quota di fascicoli delle sezioni più gravate ad altra con tempi inferiori o consentire in via provvisoria collegi “misti” in modo da offrire temporaneamente più possibilità di trattazione alle sezioni che devono ridurre i propri tempi di trattazione.
Il ragionevole obiettivo deve essere quantomeno di non avere tempi di trattazione per la settima sezione penale superiore a quelli per il procedimento ordinario.
Nell’ambito degli obiettivi individuati al programma si fa anche un accenno alla creazione di un sistema informatico di schemi di motivazione per velocizzare la redazione delle ordinanze (e il loro deposito)[6]. Questo è un obiettivo rilevante per ridurre al minimo anche la fase di redazione dei provvedimenti, evitando nel contempo che vengano redatte ordinanze dal contenuto eccessivo rispetto alle finalità dell’atto, contribuendo a quella che è la effettiva finalità della settima sezione penale (e della gestione dei procedimenti de plano), ovvero la rapida eliminazione dei procedimenti di manifesta inammissibilità per dedicare il tempo all’attività propria del giudice di legittimità.
[1] Il programma, al punto 8.5, dà atto che per tutti i consiglieri la coassegnazione alla settima sezione penale è stata disposta per il 25% della loro attività.
[2] Da dati statistici generali nel 2019, la percentuale tra le varie sezioni era tra il 31,2% e il 53%
[3] Es., disporsi che per i fascicoli di valore 1 il relatore possa limitarsi a dare atto della assenza ictu oculi di uno sviluppo di motivi che giustifichi un riferimento concreto al contenuto del ricorso.
[4] Si tenga però conto che la base da cui sono tratti i dati non è del tutto comparabile; per le sezioni ordinarie vi sono i procedimenti cautelari che hanno tempi più brevi.
[5] Ciò, ovviamente, non risolve il tema del tempo tra la adozione del provvedimento impugnato e il pervenimento degli atti alla Corte ma per gli uffici più grandi, che producono la gran parte dei patteggiamenti, i tempi sono abbastanza brevi.
[6] “Con specifico riguardo all’attività di esame preliminare dei ricorsi, merita di essere condivisa, nel prossimo triennio, l’esperienza, avviata presso la Settima sezione penale dai collegi di alcune sezioni penali, di concerto con il C.E.D., di informatizzare possibili schemi logici di decisione in relazione alla diversa tipologia di questioni poste dai ricorsi in modo da razionalizzare il lavoro dei consiglieri, facilitare la lettura dei provvedimenti, rendere più incisivo il messaggio nomofilattico in ordine a principi ormai consolidati non confutati criticamente e in maniera specifica dalla parte ricorrente”.
Corte di Cassazione, prima sezione penale, 16 febbraio 2021 nr. 6089 e il divieto di partecipare a pubbliche riunioni nella sorveglianza speciale di pubblica sicurezza: la regula iuris della pronuncia a Sezioni Unite nr. 46595 del 28 marzo 2019
di Giuseppe La Corte
Sommario: 1. Ordinanza di rimessione, sezione prima penale, nr. 2124 del 2019, Presidente Bonito, relatore Magi: profili problematici - 2. Le Sezioni Unite sulla nozione di “pubbliche riunioni”: una lettura “tassativizzante” della prescrizione di cui all’articolo 8, comma 4, in rapporto all’articolo 75 comma 2 del Codice Antimafia - 3. Possibili soluzioni interpretative: de jure condendo - 4. E dopo…Corte di Cassazione, prima sezione penale, 16 febbraio 2021 nr. 6089 presidente Casa, relatore Renoldi - 5. Breve conclusione rebus sic stantibus.
1. Ordinanza di rimessione, sezione prima penale, nr. 2124 del 2019, Presidente Bonito, relatore Magi: profili problematici
Con sentenza emessa il 7 febbraio 2017, la Corte di Appello confermava la penale responsabilità degli imputati in relazione al reato di cui all’art. 75, co. 2, D.lgs. 159/2011(Codice Antimafia). In particolare, gli stessi avrebbero frequentato soggetti pregiudicati e partecipato ad un torneo internazionale di tennis, così violando la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. La principale doglianza contenuta nel gravame presentato dalla difesa ha ad oggetto la ritenuta punibilità della partecipazione del sorvegliato speciale alla suddetta manifestazione sportiva. Secondo il ricorrente, infatti, il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche riguardava celebrazioni di particolare rilievo in occasione delle quali l’animosità del pubblico fa sorgere liti e risse. Ciò che era impossibile si verificasse in un incontro di tennis ove il silenzio del pubblico è, invece, una prerogativa essenziale del gioco.
Con ordinanza del 19 dicembre 2018, la prima sezione penale della Corte di Cassazione rimetteva la trattazione del ricorso innanzi alle Sezioni Unite. Il divieto di partecipare a pubbliche riunioni rientra tra le prescrizioni che il Tribunale della prevenzione deve applicare “in ogni caso” ovvero senza alcun margine di discrezionalità sull’an, in ossequio a quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 8[1], la cui violazione è sanzionata penalmente dall’art. 75. Disposizione che, al comma 1, qualifica come contravvenzione l’infrazione posta in essere da un soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale semplice e, al comma 2, come delitto, punito con la reclusione da 1 a 5 anni, la trasgressione realizzata da un soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.
Il collegio remittente, riprendendo le argomentazioni della sentenza De Tommaso, critica la formulazione della norma in esame non solo perché la stessa violerebbe il principio di legalità - in quanto il precetto sarebbe formulato in maniera ampia e vaga - ma anche alcuni suoi corollari quali sono il principio di offensività e proporzionalità.[2] Da una parte, infatti, affinché sia meritevole la sanzione irrogata, deve trattarsi di condotte che esprimano una effettiva volontà di ribellione nonché manifestino una totale vanificazione della misura irrogata. Dall’altra, invece, si evidenzia che l’applicazione di una imposizione estesa a tutti “in ogni caso” non sia in grado di rappresentare un valido canone di controllo sulle limitazioni dei diritti fondamentali.[3] Punctum dolens: la definizione del concetto di pubbliche riunioni. Secondo un orientamento minoritario, il divieto in questione va inteso nel senso di non prendere parte a qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico al quale abbiano accesso un numero non determinato di persone indipendentemente dal tipo di riunione. Un ulteriore indirizzo, invece, sostiene che il rinvio espresso dall’art. 75, co. 2, alle prescrizioni afferenti alla sorveglianza speciale non possa ricomprendere il divieto di partecipare a pubbliche riunioni, in virtù di una formulazione ampia e non univoca della suddetta nozione.
Il Collegio, sulla base delle suddette argomentazioni, ritiene di formulare il seguente quesito “se, ed in quali limiti la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli articoli 8 e 75 del codice Antimafia”.
2. Le Sezioni Unite sulla nozione di “pubbliche riunioni”: una lettura “tassativizzante” della prescrizione di cui all’ articolo 8, comma 4, in rapporto all’articolo 75 comma 2 del Codice Antimafia
Con informazione provvisoria pubblicata l’1 aprile 2019, il servizio novità della Suprema Corte comunica che, in esito alla pubblica udienza celebrata il 28 marzo 2019, le Sezioni Unite hanno risolto la questione in esame nei seguenti termini: “Negativa, in quanto l’articolo 8 Decreto Legislativo n. 159 del 2011 si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico”. La Corte di Cassazione, dopo aver, preliminarmente, richiamato le perplessità emerse in sede di rimessione, si interroga sulle tematiche affrontate dalla diverse pronunce che hanno trattato la materia de qua.
La prima afferisce al rispetto del principio di offensività e proporzionalità. Il richiamo è alla sentenza “Sinigaglia” che ha evidenziato come “possano essere punite soltanto quei comportamenti che costituiscano indice di una persistente pericolosità e non qualsiasi défaillance comportamentale”.[4]
Altra problematica riguarda la legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelate diritti costituzionalmente garantiti. Questione già affrontata dai Giudici di Strasburgo, nella nota sentenza De Tommaso, che hanno espresso preoccupazione per il fatto che “misure previste dalla legge comprendano l’assoluto divieto di partecipare a pubbliche riunioni”.[5] Dapprima viene richiamata la sentenza “Pellegrini” che ha ritenuto che il rinvio espresso nella disposizione di cui all’art. 75, co. 2, non potesse ricomprendere il divieto di partecipare a pubbliche riunioni, stante l’indeterminatezza della suddetta formulazione e la conseguente mancanza di tassatività della fattispecie.[6]
Un ulteriore orientamento, espresso nella sentenza “Lo Giudice”, ha, invece, ribadito che il divieto, di cui all’art. 8, co. 2, riguardasse qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico.[7]
Altro indirizzo ancora, invece, contenuto nella sentenza “Sassano”, ha affermato che il Giudice avesse l’obbligo di indicare le ragioni per cui la prescrizione de qua si renda necessaria in funzione di controllo della pericolosità sociale del prevenuto al fine di evitare compressioni generalizzate di una libertà costituzionale.[8]
Nessuna delle tre soluzioni viene integralmente accolta dalle Sezioni Unite. La Suprema Corte non ritiene convincenti le motivazioni espresse dalla pronuncia “Pellegrini”. La sentenza, infatti, non verifica la possibilità di individuare una nozione di pubblica riunione valida per tutte le norme che la contengano. La pronuncia suddetta disapplica un norma interna in contrasto con la CEDU. In questi casi, invece, avrebbe dovuto rivolgersi alla Consulta, organo giurisdizionale deputato alla dichiarazione di illegittimità della disposizione interna in contrasto con l’art. 117 della Costituzione di cui la CEDU costituisce parametro interposto. In altre parole, punto debole della soluzione “Pellegrini” è quello di aver adottato la medesima operazione tassativizzante sperimentata dalle Sezioni Unite Paternò in relazione ad una prescrizione del tutto diversa e fatta oggetto di una differente censura da parte della Corte Europea.[9] Mentre, infatti, gli obblighi di “vivere onestamente” e “di rispettare le leggi” non possono considerarsi vere e proprie prescrizioni aventi contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici ma ammonimenti morali, valevoli per qualsiasi consociato; il divieto de quo rappresenta un comando specifico, rivolto solo a particolare tipi di individui, che è connesso alle finalità di prevenzione, in quanto la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficile il controllo del prevenuto. Neppure convincente appare la soluzione espressa nella sentenza “Lo Giudice”. Il risultato di tale linea interpretativa, infatti, è una nozione ampia e non delimitata della prescrizione che lascia spazio alla discrezionalità del Giudice e, si legge, “si disinteressa del tema della conoscibilità della norma penale da parte del destinatario e della conseguente prevedibilità delle conseguenze della sua azione”.[10] Quanto all’orientamento formulato dalla sentenza “Sassano”, la Suprema Corte ritiene si tratti di una “soluzione forzata, non necessaria e superflua”.[11] Appare ragionevole, infatti, l’impiego della sanzione penale, in caso di violazione di quelle prescrizioni che, in quanto significative, siano applicate in ragione della pericolosità del Sorvegliato. Altresì, l’individuazione di una nozione condivisa di pubbliche riunioni permette di colpire, in ossequio al principio di offensività, solamente quelle condotte che possano elidere la sorveglianza del prevenuto.
Le Sezioni Unite accolgono una soluzione interpretativa che precisa gli spazi applicativi della prescrizione esaminanda. La norma cui fare riferimento è contenuta nell’art. 17 della Costituzione, come interpretato dalla Corte Costituzionale nella sentenza numero 27 del 5 maggio del 1959. In quell’occasione, la Consulta aveva affermato che l’art.17 Cost. consente il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica, in questo modo riconducendo la nozione di pubbliche riunioni all’ipotesi prevista dal terzo comma che fa riferimento alle riunioni in luogo pubblico.[12] L’assolutezza di questa affermazione, tuttavia, viene mitigata da quelle ipotesi “estreme”[13] in cui il precetto penale non possa ritenersi integrato, nonostante la partecipazione del prevenuto ad una pubblica riunione.[14]
Il sorvegliato, infatti, ben potrà chiedere al Tribunale l’autorizzazione a partecipare ad una riunione pubblica e, se chiamato a rispondere della sua violazione, avrà l’onere di dimostrare che la sua condotta sia stata inoffensiva. Non si tratta, si badi, di una probatio diabolica perché il tribunale potrà valutare i motivi giustificativi con gli accertamenti effettuati dalla Polizia giudiziaria all’uopo delegata. In mancanza di allegazioni e prove concrete, non sembra vi sia spazio per il Giudice della prevenzione di ritenere la relativa condotta inoffensiva. La valutazione di quel comportamento, infatti, è stata già effettuata, ex ante, dal legislatore che ha ritenuto necessaria quella prescrizione al fine di limitare la pericolosità sociale del prevenuto. Tuttavia, l’Autorità Giudiziaria potrà ritenere giustificata quella stessa partecipazione se dall’analisi del caso concreto emerga la non offensività della violazione e la non meritevolezza della sanzione penale. Tale interpretazione, pur riducendo l’ambito applicativo della prescrizione esaminanda, escludendo, infatti, le riunioni in luogo aperto al pubblico, non indebolisce la misura di prevenzione irrogata. Sulla base di quanto previsto dall’articolo 8, comma 5, del Codice Antimafia, infatti, il Tribunale potrà imporre tutte “le prescrizioni che riterrà necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale, sulla base di una motivazione adeguata che tenga conto delle esigenze del caso concreto”. Ben potrebbe, ad esempio, il Giudice vietare al prevenuto la partecipazione a qualsiasi riunioni o manifestazioni. In questo si sarebbe fatto entrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.
Tale supposizione è, tuttavia, erronea.[15] Per prima cosa, non tiene in considerazione il fatto che, in ossequio al principio di tassatività e precisione, il Giudice non potrà utilizzare formule vaghe e indeterminate che riproporrebbero tutte le problematiche che la giurisprudenza ha, di volta in volta, risolto.[16] L’Autorità Giudiziaria, altresì, dovrà individuare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che impongono al soggetto controllato ulteriori obblighi o divieti al fine di contenere le pulsioni antisociali del prevenuto. Tali prescrizioni, infatti, dovendo essere adottate in contraddittorio tra le parti, dovranno garantire non solo una scelta equilibrata del Tribunale chiamato a pronunciarsi ma anche l’imposizione di obblighi o divieti “personalizzati” e “individualizzati” alla pericolosità del proposto.
In definitiva, il principio di diritto che deve essere affermato è il seguente “la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della Sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 8, comma 4, Decreto Legislativo nr. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico”.
3. Possibili soluzioni interpretative: de jure condendo
Dalla pronuncia in commento possono farsi alcune considerazioni che avrebbero suggerito ai Giudici una soluzione diversa sul piano metodologico.[17] Per un verso, se la disposizione controversa fosse stata rispondente ai canoni di precisione e determinatezza ma foriera di interpretazioni tra loro contrastanti, sarebbe stato più corretto rivolgersi ai Giudici della nomofilachia per dipanare il contrasto. Dall’altra, invece, nel caso in cui gli Ermellini avessero dubitato del rispetto della norma ai parametri di precisione, offensività e proporzionalità sarebbe stato utile rivolgersi alla Corte Costituzionale affinché ne dichiarasse la illegittimità per contrasto al principio di legalità.[18]
L’ordinanza di rimessione, pur evidenziando delle criticità sulla formulazione della disposizione esaminanda, sceglie di adire il Supremo Consesso della Cassazione piuttosto che la Consulta. La via della questione di legittimità costituzionale, invece, sarebbe stata preferibile in ragione della vicenda, del tutto sovrapponibile, che ha riguardato le prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare la legge”. In quel caso, le Sezioni Unite[19] avevano optato per una interpretazione convenzionalmente conforme alla CEDU attraverso l’eliminazione, in via ermeneutica, dall’area del penalmente rilevante, delle due ipotesi che, nonostante fossero ricomprese nel tenore letterale della disposizione di cui all’art. 75, co. 2, risultavano estranee ai principi immanenti al diritto penale. Il precetto penale, ex art. 75 co. 2, risultava, pertanto, essere stato abrogato parzialmente, seppur in via interpretativa, nella parte in cui prevedeva potesse costituire reato la violazione delle prescrizioni suddette.[20] Il 26 ottobre 2017, tuttavia, la seconda sezione penale ha sollevato questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la normativa che era stata già esaminata, pochi mesi addietro, dalle Sezioni Unite.[21] La scelta della rimessione della eadem quaestio alla Consulta risulta giustificata dal fatto che solo una pronuncia di illegittimità potesse assicurare una adeguata garanzia sia nei confronti di coloro che sono stati già condannati in ragione della violazione dei suddetti obblighi sia per orientare, in funzione generalpreventiva, le condotte dei consociati senza timore di doversi difendere da un ulteriore revirement giurisprudenziale.
L’orientamento espresso dalla Suprema Corte rappresenta pur sempre una interpretazione giurisprudenziale che è estranea ai meccanismi che regolano la successione delle leggi penali del tempo, di cui all’articolo 2 cod. pen.[22] Una pronuncia di illegittimità, invece, non solo avrebbe effetti erga omnes ma anche eliminerebbe una disposizione che, in contrasto con i principi della nostra Carta fondamentale, non potrebbe essere più applicata. In altre parole, un conto è una sentenza che riforma quella impugnata per un sopravvenuto ius supervenies suscettibile però di mutare nel corso del tempo con effetti inter partes; altro è una pronuncia del Giudice delle leggi che, in virtù di quanto specificato dall’articolo 136 della Costituzione, cancella dal nostro ordinamento una disposizione affetta da invalidità genetica.
Nel caso di specie, le Sezioni Unite, ma ancora prima i giudici remittenti, avrebbero potuto sollevare questione di illegittimità costituzionale dell’art. 75, co. 2, in combinato disposto con l’art. 8 comma 4, per violazione degli artt. 25 e 117 alla luce dell’art. 2 del relativo Protocollo numero 4.[23]
Sulla scia della pronuncia Paternò, in alternativa, il Collegio avrebbe potuto formulare una interpretazione “abrogante” (la cosiddetta interpretatio abrogans) il comma 2 dell’art. 75 nella parte in cui punisce il sorvegliato speciale che violi la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. Il precetto de quo, infatti, viziato da eccessiva genericità, non potrebbe essere preso in considerazione dall’Autorità Giudiziaria per una eventuale condanna.[24] La strada intrapresa, invece, è stata quella di formulare una interpretazione “tassativizzante”, id est, mantenere salva l’applicazione del divieto ma precisarlo al fine di renderlo compatibile con il principio di conoscibilità del precetto penale.
È compito ineludibile del giudice, infatti, quello di interpretare le locuzioni ampie e polisenso alla luce del contesto normativo in cui sono inserite. L’utilizzo di tali espressioni generali, infatti, “non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante l’ordinario compito a lui affidato”[25]. La norma così applicata dal giudice, infatti, non è destinata, semplicemente, a fornire il criterio di giudizio per il caso concreto sottoposto alla sua attenzione ma si candida ad operare come possibile parametro di decisione per analoghi casi futuri. Molto efficacemente, “ogni giudice (…) non ricerca soltanto la soluzione avvertita come “giusta” nel caso concreto, ma è ben cosciente della necessità di fondare la decisione su un criterio –una regola– pensata già in origine come generalizzabile a tutti i casi futuri che presenteranno analoghe caratteristiche.[26]
Secondo diversa dottrina invece, l’opzione preferibile sarebbe stata quella di interrogare la Consulta e ciò per due ragioni.[27] In primo luogo perché il legislatore costituente, nel collegare la disciplina della libertà delle riunioni al luogo del loro svolgimento, avrebbe esplicitamente scartato la dicotomia “riunioni pubbliche-riunioni private”, in quanto non sufficientemente univoca (sulla base di tale distinzione, infatti, potrebbe considerarsi pubblica, ad es., anche una riunione in luogo privato composta da un gran numero di partecipanti, ovvero una riunione avente per oggetto tematiche di interesse pubblico); dall’altro, la stessa Corte di Strasburgo sembra aver posto l’accento, nel passo della sentenza De Tommaso poco sopra riportato, sul difetto di determinatezza e, dunque, sulla scarsa prevedibilità della prescrizione e della norma incriminatrice, più che sull’ampiezza dell’orizzonte semantico della locuzione in discorso: il che comporta una problematica compatibilità della prescrizione in parola con il principio di legalità convenzionale.
4. E dopo…Corte di Cassazione, sezione prima penale, 16 febbraio 2021 nr. 6089, Presidente Casa, relatore Renoldi
L’indirizzo ermeneutico scelto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, come fino ad ora esposto, è stato seguito da una più recente pronuncia. Il ricorrente era stato tratto a giudizio davanti al Tribunale di Bergamo, per rispondere del reato di cui al D. lgs. 159/11, art. 75, co. 1, per avere partecipato ad una presentazione della sua squadra di calcio, violando il divieto di presenziare a pubbliche riunioni impostogli con il provvedimento applicativo della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, emesso dallo stesso Tribunale in data 11/2/2016, per la durata di un anno e sei mesi. Con sentenza del Tribunale di Bergamo in data 11/1/2019, fu però assolto da tale imputazione, con la formula “perché’ il fatto non sussiste”.
Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo, al contrario che he la nozione di partecipazione a pubbliche riunioni risultasse chiara tanto nel riferimento al contesto (“pubbliche”) quanto nell’oggetto (“riunioni”), facendo essa rinvio a qualsiasi situazione in cui possa intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, tale da rendere più difficile il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati. La Corte di Cassazione ritiene il ricorso infondato e richiama le argomentazioni contenute dal supremo consesso della corte di legittimità. “Le Sezioni unite hanno precisato che la suddetta prescrizione si riferisce esclusivamente alle riunioni “in luogo pubblico”, con la conseguente esclusione delle riunioni in luoghi “aperti al pubblico”, come, ad esempio, le manifestazioni sportive in luoghi come gli stadi o i palasport, rispetto alle quali, come è stato nel frangente osservato, vige la autonoma normativa dettata dalla L. 13 dicembre 1989, n. 401, che contempla anche la misura di prevenzione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive”.[28] Nel caso qui in rilievo lo stadio nel quale si svolgeva l’incontro di presentazione della squadra di calcio doveva essere qualificato come “luogo aperto al pubblico” e, pertanto, non si realizzavano gli elementi oggettivi della violazione di cui all’art.75 del Codice Antimafia.
5. Breve conclusione rebus sic stantibus
In conclusione, si può affermare che le Sezioni Unite abbiano dipanato un contrasto giurisprudenziale tra le corti e che tale impostazione sia stata, al momento, seguita dalle pronunce successive.
È indubbio che la soluzione accolta dalle Sezioni Unite garantisca maggiormente la posizione del sorvegliato speciale in ordine a eventuali ingiustificate limitazioni della sua libertà di movimento poco chiare e prevedibili. In questo senso, il proposto non potrà mai prendere parte a riunioni in luogo pubblico, salvo in quelle ipotesi estreme già viste, mentre potrà partecipare a quelle aperte al pubblico, a meno che il giudice lo vieti espressamente in ragione della pericolosità e delle caratteristiche personologiche del proposto.
[1] Cfr. “In ogni caso, (il Tribunale) prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all'autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all'autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non partecipare a pubbliche riunioni”.
[2] Cfr. La sentenza De Tommaso vs Italia emessa dalla Corte EDU il 23 febbraio 2017 ha duramente criticato la formulazione delle disposizioni contenute nel Codice Antimafia I Giudici di Strasburgo affermano che “la loi n. 1423/1956 -la cui disciplina è stata trasposta nel D. lgs 159/2011- ètait libellèe des termes vagues et excessivement gènèraux (…) ni le contenu de certaines de ces mesures n’ètaient dèfinis avec une prècision et une clartè suffisantes, §104-105.
[3] La prescrizione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni è stata più volte oggetto di attenzione della Corte Costituzionale. In particolare, con sentenza 27 del 18 febbraio 1959, la Consulta ne ha affermato la compatibilità con gli artt.2 e 17 della Costituzione dalla quale sarebbe ricavabile un principio di prevenzione e sicurezza sociale. Con sentenza 126 del 21 aprile 1983, ancora, si è ritenuto insussistente il contrasto tra l’imposizione de qua e gli articoli 21 e 49 della Costituzione in quanto, seppur vero che il divieto suddetto possa comportare un’ ingiustificata ingerenza su diritti costituzionalmente garantiti al prevenuto, tale limitazione sarebbe addebitale non già alla previsione legale nella sua astratta formulazione ma alla sua concreta applicazione. Spetterebbe al Giudice, infatti, determinare i concreti elementi di fatto che concorrono, di volta in volta, a realizzare la fattispecie penale di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale.
[4] Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, numero 32923 del 2014. La vicenda riguardava la violazione della prescrizione di cui all’articolo 8 comma 7 da parte del sorvegliato speciale di portare con sé la carta di permanenza, p. 15. Più approfonditamente, si rinvia a M.C. UBIALI, Le sezioni unite sulla violazione dell’obbligo, per il sorvegliato speciale, di esibire la carta di permanenza, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 18 settembre 2014.
[5] Cfr. § 123 e 124. La Corte EDU, si legge, altresì, “è anche preoccupata (…) che la legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezionalità del Giudice”. Come indicato, tuttavia, dalla sentenza in commento, si tratta di un accenno poco chiaro. Il Tribunale, infatti, né ha la discrezionalità di modulare il divieto di partecipare a pubbliche riunione né sono necessari ulteriori specificazioni per l’applicazione della prescrizioni suddetta da parte del Giudice, p.8.
[6] Cfr. Corte di Cassazione, sezione Prima penale, numero 31322 del 09 aprile 2018.
[7] Cfr. Corte di Cassazione, Sezione Prima penale, numero 28261 del 08 maggio 2018.
[8] Cfr. Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, numero 49731 del 06 giugno 2018.
[9] Così S. FINOCCHIARO, Le Sezioni Unite sul reato di trasgressione al divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto con la misura di prevenzione della Sorveglianza speciale (art. 75 codice antimafia), in www.sistemapenale.it, p.5
[10] §16, p.18.
[11] §17, p.19.
[12] L’articolo 17 della Costituzione prevede che “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Per riunione in luogo privato si deve intendere quella che si svolge in uno spazio fisico delimitato, fra persone determinate che vi accedano in forza della loro ammissione da parte di chi legalmente dispone del luogo; Per riunione in luogo aperto al pubblico deve intendersi quella che si svolge in uno spazio delimitato cui possa accedere chiunque, liberamente o condizionatamente, secondo la volontà del soggetto che legalmente dispone del luogo; riunione in luogo pubblico, ovvero quella che si svolge in uno spazio accessibile da chiunque e destinato, di diritto o di fatto, al pubblico uso.
[13] Cfr. § 17, p. 19
[14] Così S. FINOCCHIARO, Le Sezioni Unite sul reato di trasgressione al divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto con la misura di prevenzione della Sorveglianza speciale (art. 75 codice antimafia), cit., p. 7.
[15] Alcuni autori hanno rilevato un profilo di contraddizione laddove le Sezioni Unite, dopo aver limitato il concetto di pubbliche riunioni alle sole riunioni in luogo pubblico, ammettono che il giudice, attraverso la clausola di cui all’art.8, co. 5, possa vietare al sorvegliato speciale, alla luce delle circostanze del caso concreto, di prendere parte ad assembramenti che si svolgono in luogo aperto al pubblico. Delle due l’una: o l’art.17 Cost. consente di comprimere in via preventiva la libertà di riunione solo qualora essa sia esercitata in luogo pubblico e allora non sembra possibile utilizzare lo strumento delle prescrizioni discrezionali per limitare tale diritto quando le riunioni si tengano in luoghi diversi, oppure dalla suddetta norma costituzionale non è possibile ricavare una tutela così intensa del diritto di riunione, ed allora limitazioni ulteriori rispetto a quelle costituzionalmente previste-ad esempio attraverso l’art.8, co.5, Cod. Ant.- sono ammissibili in E. ZUFFADA, Per le sezioni unite il divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto al sorvegliato speciale è da considerarsi limitato alle sole riunioni “in luogo pubblico”, 05.12.2021, in www.dirittopenaleuomo.it, p.7
[16] Il Giudice non potrebbe vietare al sorvegliato speciale la partecipazione alle riunione in luogo pubblico e ad “altre manifestazioni”. Quest’ultima risulterebbe una espressione vuota che accentuerebbe la discrezionalità del Giudice nel valutare la violazione del divieto nel caso concreto, in barba ai principi di tassatività e legalità.
[17] E. ZUFFADA, Alle Sezioni Unite un nuova questione relativa alla configurabilità del reato di cui all’ art.75 Cod. Antimafia, questa volta in caso di trasgressione del divieto di partecipare a pubbliche riunione, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 6 marzo 2019, pp. 5 ss.
[18] In virtù di quanto previsto dall’articolo 25, infatti, le pene devono essere irrogate sulla base di criteri che devono tenere conto non solo della riserva di legge ma anche della tassatività e determinatezza delle fattispecie criminose. La volontà del legislatore, pertanto, deve esprimersi in maniera chiara e univoca al fine di permettere non solo ai singoli di comprendere quali siano le condotte lecite da quelle non ammesse ma anche di evitare che l’Autorità Giurisdizionale possa utilizzare la sua attività discrezionale nell’interpretare, in modo arbitrario, la legge penale.
[19] Cfr. Cassazione Sezioni Unite 40076 del 27 aprile 2017 “Paternò”
[20] Per un approfondimento della questione si rinvia a G. BIONDI, Le Sezioni Unite Paternò e le ricadute della sentenza Corte EDU De Tommaso c. Italia sul delitto ex art.75, comma 2, D. Lgs n. 159/2011: luci ed ombre di una sentenza attesa, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10/2017, pp.165 ss. e F. VIGANO’, Le Sezioni Unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, settembre 2017, pp. 146 ss.
[21] F. VIGANÒ, Ancora sull’indeterminatezza delle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione: la seconda sezione della Cassazione chiama in causa la Corte Costituzionale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 10/2017, pp. 272 ss.
[22] È bene precisare, per completezza che, negli ordinamenti di civil law, come il nostro, non vige la regola dello stare decisis, in forza del quale l’Autorità Giudicante è obbligata a conformarsi alla decisione adottata in una precedente pronuncia, nel caso in cui la fattispecie portata al suo esame sia identica a quella già trattata nel caso in essa deciso. Ciò comporta che, i Giudici, essendo soggetti solo alla legge ed essendo liberi nella valutazione delle prove e degli argomenti di prova prodotti dalle parti in corso di causa, possano discostarsi da un precedente orientamento interpretativo. Un caso, invero, in cui sarebbero obbligati ad aderire al principio di diritto sotteso è previsto dall’articolo 627 cod. proc. pen., così formulato “Il giudice di rinvio si uniforma alla sentenza della Corte di Cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa.”
[23] Paradossalmente sarebbe questo il suggerimento offerto dal collegio della prima sezione penale in sede di rimessione. Questi, infatti, affermano che “il raggiungimento di un assetto applicativo rispettoso di determinati canoni, più in particolare di correlazione individualizzata tra la prescrizione imposta e la pericolosità manifestata dal soggetto nel rispetto del canone di proporzionalità delle limitazioni delle facoltà costituzionalmente protette, potrebbe essere estraneo ai contenuti di una mera operazione nomofilattica ma ciò non toglie che simile opzione vada rimessa alle valutazioni dell’organo di risoluzione del conflitto interpretativo”, p. 7. In altre parole, Il Collegio rimettente avverte una ipotesi di legittimità costituzionale ma lascia alle Sezioni Unite decidere se sia o meno opportuno interpellare la Corte Costituzionale.
[24] Va precisato che le Sezioni Unite Paternò avevano escluso che la violazione delle prescrizioni sottoposte alla loro attenzione potessero integrare il precetto penale ma le stesse, però, potevano rilevare in sede di aggravamento della misura, ex art. 11 comma 2 Codice Antimafia.
[25] Così Corte Cost., sent. 7-23 luglio 2010, n. 282, in Giur. cost., 2010, pp. 3535 ss., con nota di A. TESAURO, Corte costituzionale e sorveglianza speciale: una breve analisi filosofico-giuridica tra uguaglianza e ragionevolezza.
[26] F. VIGANÒ, Il diritto giurisprudenziale nella prospettiva della Corte costituzionale, in Sistema penale, 19 gennaio 2021, p. 2.
[27] E. ZUFFADA, Per le sezioni unite il divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto al sorvegliato speciale è da considerarsi limitato alle sole riunioni “in luogo pubblico”, cit., p. 7
[28] § 4.
La tutela risarcitoria negata: quando la colpa lievissima supera l’errata motivazione (nota a Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia Sezione Giurisdizionale, 7 aprile 2021, n. 295)
di Emanuela Concilio
Sommario: 1. La vicenda alla base dell’istanza risarcitoria – 2. Tutela risarcitoria da esercizio illegittimo della funzione e da ritardo provvedimentale. – 3. La decisione del C.G.A. – 4. Dalla dequotazione al depotenziamento della motivazione del provvedimento amministrativo. – 5. Considerazioni conclusive.
1. La vicenda
Con la pronuncia in esame il C.G.A. si è espresso sulla istanza risarcitoria avanzata da una società per i danni subiti come conseguenza di altro giudizio, a seguito del quale era stato annullato il provvedimento con cui la Commissione straordinaria del Comune di Bagheria aveva revocato alcuni Piani di lottizzazione precedentemente adottati.
La vicenda, sfociata nel giudizio di annullamento, principiava dalla approvazione da parte del Comune di Bagheria di alcuni Piani di lottizzazione - e delle relative convenzioni - conformi alle previsioni del PRG all’epoca vigente, ma che sarebbero poi risultate in contrasto con il nuovo piano regolatore adottato dallo stesso Comune due mesi dopo. Tale strumento urbanistico, infatti, prevedeva la inedificabilità dell’area oggetto della lottizzazione convenzionata in quanto destinata ad attrezzatura pubblica “F/2”, Aree sottostanti “parcheggi”.
A poca distanza temporale dalla adozione del nuovo piano regolatore, il Comune di Bagheria veniva sciolto per infiltrazioni mafiose e la Commissione straordinaria insediatasi disponeva la revoca in autotutela della deliberazione del Consiglio Comunale che aveva approvato contestualmente dieci piani di lottizzazione – unitamente ai relativi atti di convenzionamento – tra cui quello della società ricorrente. Il provvedimento di revoca teneva conto delle osservazioni contenute nella relazione del Ministero dell’Interno, pubblicata in G.U. in occasione dello scioglimento del Comune, ove si evidenziava la stretta “convergenza tra gli interessi delle organizzazioni criminali e l’amministrazione comunale di Bagheria”, evincibile peraltro nella circostanza che nonostante il nuovo piano fosse già in itinere fossero state rilasciate molte concessioni edilizie a soggetti risultanti direttamente o indirettamente legati alla malavita organizzata.
Avverso la delibera n. 268/1999, con la quale la Commissione straordinaria disponeva la revoca in autotutela dei piani di lottizzazione approvati, i destinatari di uno dei dieci piani di lottizzazione approvati proponevano ricorso con il quale lamentavano la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, nonché il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione ex art. 3 L. n. 241/1990.
Entrambe le censure venivano respinte dal Tar Palermo, Sez. III, che - con la sentenza n. 3022 del 15 maggio 2006 - precisava, in primo luogo, la non applicabilità agli atti pianificatori dell’art. 7 della L. n. 241/1990, in virtù di quanto disposto dall’art. 13 della medesima legge; e in secondo luogo, l’infondatezza dell’eccezione relativa al difetto di motivazione, sulla base del convincimento che “la repentina adozione di un rilevante numero di lottizzazioni proprio a ridosso del nuovo PRG fosse indice di comportamenti contrari a legge (in termini di eccesso di potere) posti in essere dell’amministrazione comunale”.
Avverso la sentenza del Tar Palermo, gli aventi causa a titolo particolare dai ricorrenti originari (in forza di contratto preliminare di vendita e acquirenti dell’immobile), proponevano appello dinanzi al C.G.A., il quale con pronuncia del 28 settembre 2007, n. 890, accoglieva l’appello e, per effetto ed in riforma della sentenza impugnata, annullava i provvedimenti di revoca delle lottizzazioni.
Alla base della decisione il convincimento (condiviso dagli stessi giudici anche in altra pronuncia avente ad oggetto una fattispecie analoga a quella esaminata) secondo cui il piano di lottizzazione era da considerarsi legittimo al momento della sua approvazione in quanto conforme al P.R.G. vigente all’epoca; infatti, il nuovo piano non era stato ancora nemmeno adottato. In particolare, il Consiglio di Giustizia Amministrativa precisava che fino alla approvazione del nuovo piano regolatore, il Comune non avrebbe potuto agire in autotutela su un PDL già approvato ed originariamente legittimo. Sul punto rilevava che gli “effetti anticipati” del PRG, ossia le misure di salvaguardia, potessero produrre effetti (quali ad esempio il diniego di concessioni difformi) solo dopo l’adozione del nuovo piano regolatore: prima di tale momento nessun effetto prodromico sarebbe stato ammissibile. Sicché solo dopo l’adozione del nuovo PRG il Comune avrebbe potuto applicare le misure di salvaguardia e non rilasciare ulteriori concessioni, sebbene conformi all’originaria pianificazione (al momento ancora vigente). Peraltro, secondo i giudici il decreto comunale di adozione del nuovo PRG risultava illegittimo in quanto sprovvisto di qualsiasi motivazione in ordine alle ragioni del cambio di destinazione dell’area, in spregio al principio di certezza del diritto e all’affidamento medio tempore ingenerato. Di qui, la piena soddisfazione degli interessi della ricorrente.
A distanza di quattro anni dalla suddetta pronuncia, la società ricorrente agiva in giudizio per chiedere la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni provocati dalla illegittima revoca del piano di lottizzazione. Il Tar Palermo, Sez. III, con sentenza 3 giugno 2017, n. 1474, respingeva il ricorso sulla base di due profili: la carenza della prova del danno subito dalla ricorrente dall’adozione del suddetto provvedimento poi ritenuto illegittimo e annullato in sede giurisdizionale; l’assenza dell’elemento soggettivo della colpa in capo all’Amministrazione Straordinaria del Comune di Bagheria al momento dell’adozione del provvedimento di revoca della concessione.
In particolare, quanto alla omessa prova del danno, il Tar precisava che la società ricorrente, acquistando una res controversa – con riguardo alla destinazione ed utilizzabilità ai fini edificatori del terreno acquistato – fosse ben consapevole dell’aleatorietà dell’investimento. Quanto poi alla prova dell’elemento soggettivo, gli stessi giudici ritenevano che, benché l’adozione di un atto illegittimo costituisca fattispecie astrattamente idonea ad integrare l’elemento oggettivo di un illecito aquiliano, ai fini dell’integrazione degli estremi del risarcimento dei danni, fosse necessario individuare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, “che è evidentemente cosa diversa, ed ulteriore, rispetto all’illegittimità dell’atto, giudizialmente accertata”.
Avverso tale sentenza di rigetto, la società soccombente, proponeva appello dinanzi al C.G.A. al fine di chiedere la riforma della sentenza di primo grado adducendo la violazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., nonché dell’art. 2-bis L. n. 241/1990, ritenendo che il giudice di prime cure avesse errato nel ritenere non provato il danno subito dall’adozione di un provvedimento illegittimo e non configurabile la colpa in capo alla Commissione straordinaria.
Il C.G.A.R.S. con la sentenza in commento rigettava le istanze della ricorrente ritenendo il ricorso infondato e non meritevole di accoglimento, per carenza degli elementi costitutivi della responsabilità da fatto illecito della P.A. In particolare, concordando con il giudice di primo grado, riteneva non provato il danno lamentato dalla società ricorrente e non configurabile la colpa dell’Amministrazione commissariale nella adozione degli atti di revoca delle convenzioni di lottizzazione, se non sotto il mero profilo della colpa lievissima - rintracciabile nella erronea motivazione del non giuridicamente rilevante.
2. Tutela risarcitoria da esercizio illegittimo della funzione e da ritardo provvedimentale
Come noto, l’acquisizione della risarcibilità degli interessi legittimi si deve alla sentenza delle SS.UU. della Cassazione 22 luglio 1999, n. 500 [1], ma già in precedenza la tutela risarcitoria veniva ammessa nei confronti del potere pubblico: in un primo momento solo in relazione a normative di carattere settoriale [2], successivamente con disposizioni a carattere generale, contenute nel decreto legislativo n. 80 del 1998 e nella legge n. 205 del 2000 [3].
Con l’avvento del codice del processo amministrativo, è stata definitivamente riconosciuta la possibilità di esperire una pluralità di azioni dinanzi al giudice amministrativo (che si emancipa dall’essere “figlio di un dio minore”) potendo affiancare alla classica azione caducatoria di annullamento, anche l’azione risarcitoria da illegittimo esercizio della azione, così accogliendo quanto già affermato della Corte costituzionale: in una logica eminentemente “rimediale”, l’azione di risarcimento del danno viene a costituire “strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”, in quanto tale attribuito al “giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica”.[4]
La lettura del combinato disposto degli artt. 7 e 30 c.p.a. consente di ritenere attuata quella tutela piena ed effettiva che l’art. 1 del medesimo codice proclama, grazie alla concentrazione presso il giudice amministrativo di “ogni forma di tutela degli interessi legittimi” (art. 7, comma 7), e la devoluzione ad esso delle controversie “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma” (art. 7, comma 4).
Viene quindi riconosciuta la possibilità di domandare “la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria” (art. 30, comma 2, c.p.a.), ammettendo tanto il “risarcimento per lesione di interessi legittimi” o “risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi” (art. 30, commi 3 e 6, c.p.a.), quanto il “risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 30,comma 4, c.p.a.).
Pertanto, dalla formulazione letterale dell’art. 30 c.p.a. emerge in maniera chiara la volontà del legislatore di ammettere l’azione di condanna al risarcimento sia del danno da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa, sia del cd. danno da ritardo, subordinandola tuttavia alla prova degli elementi costitutivi del danno ingiusto.
Benché la norma sia chiara nel configurare l’onere probatorio in capo al soggetto che si dichiara danneggiato, in passato si è ritenuto che la determinazione dell’ampiezza di tale onere dovesse dipendere direttamente dalla esatta qualificazione della responsabilità della p.a. nell’esercizio della funzione, ossia dalla tipologia di responsabilità da assumere come modello paradigmatico.
Per molto tempo, la questione ha visto contrapporsi diversi orientamenti: quello della responsabilità contrattuale, da contatto sociale qualificato, nonché quello della responsabilità extra contrattuale. In base ai prime due, ai fini probatori sarebbe stata sufficiente la dimostrazione dell’inadempimento (contrattuale o alle regole procedurali di correttezza e buona fede) e la prova della esistenza della situazione giuridica soggettiva (credito o interesse legittimo); quanto all’elemento soggettivo, essa avrebbe richiesto la semplice allegazione della illegittimità del provvedimento amministrativo, idoneo ad integrare una presunzione semplice in ordine alla colpa dell’amministrazione ex artt. 2727 e 2729 c.c., o del comportamento procedimentale tenuto dalla P.A., rilevante ai sensi dell’art. 1173 c.c. e degli artt. 1337 e 1338 c.c. [5]
Diversamente, l’orientamento volto ad accedere alla ricostruzione della responsabilità extra contrattuale richiedeva che fossero provati dal danneggiato tutti gli elementi costitutivi dell’art. 2043 c.c., soprattutto il danno e il nesso psicologico quanto meno della colpa. [6]
La tematica è stata recentemente approfondita dalla sentenza del C.G.A., Sez. giur., 15/12/2020, n. 1136, che ha rimesso al vaglio della Adunanza Plenaria proprio la questione della natura giuridica e del regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione. In particolare, il C.G.A., nel qualificare la responsabilità della p.a. come responsabilità contrattuale ha ritenuto che la violazione di una norma procedimentale (regola di condotta) sia di per sé lesiva dell’interesse legittimo e sufficiente a determinare la responsabilità dell’amministrazione (così discostandosi dall’orientamento fornito dalle SS.UU. Cassazione con la sentenza n. 500/1999). Con la conseguenza che, secondo i giudici remittenti, gli effetti dell’inquadramento della responsabilità della p.a. nel paradigma contrattuale debbano apprezzarsi “in relazione al rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita della obbligazione risarcitoria”. [7]
Il contrasto giurisprudenziale può dirsi ormai superato con la sentenza della Adunanza Plenaria 23/4/2021, n. 7, la quale – aderendo all’orientamento maggioritario – ha considerato maturi i tempi per qualificare la responsabilità della p.a. per l’esercizio delle sue funzioni come responsabilità da illecito extracontrattuale secondo il modello dell’art. 2043 c.c.,“sia pure con gli inevitabili adattamenti richiesti dalla sua collocazione ordinamentale nei rapporti intersoggettivi”.
Come evidenziato in quella sede, la responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c., fondandosi sull’inadempimento della prestazione derivante da contratto, mal si attaglia alla P.A. che nell’esercizio delle sue funzioni persegue l’interesse pubblico individuato dalla norma. Norma che costituisce fonte di attribuzione di quel potere, rispetto al quale il contrapposto interesse legittimo del privato non è idoneo a configurare in capo all’amministrazione un obbligo giuridico rapportabile a quello che caratterizza le relazioni giuridiche di diritto privato, trattandosi piuttosto di “un potere attribuito dalla legge, che va esercitato in conformità alla stessa e ai canoni di corretto uso del potere individuati dalla giurisprudenza”.
Parimenti, alla luce del rapporto non esattamente paritario tra p.a. e privato, è da escludersi l’ammissibilità dell’indirizzo volto a configurare la responsabilità della amministrazione come da “contatto sociale” qualificato, in quanto il rapporto amministrativo sarebbe in ogni caso da configurarsi in termini di “supremazia”, caratterizzato “da un’asimmetria che mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano sulla relazione paritaria”.
Conseguentemente, l’Adunanza Plenaria ha qualificato la responsabilità nascente dall’esercizio illegittimo della funzione come da fatto illecito ex art. 2043 c.c., che si compone di: elemento oggettivo (il fatto illecito e danno ingiusto); elemento soggettivo (il dolo o la colpa); nesso eziologico. Requisiti che, a seguito del superamento della concezione della responsabilità della p.a. come culpa in re ipsa [8], abbisognano di essere adeguatamente provati dal soggetto danneggiato, venendo in rilievo non il mero danno-evento, bensì il danno-conseguenza idoneo ad incidere negativamente sulla sfera giuridica del titolare di un interesse legittimo. Prova che necessita di essere fornita ai fini della stessa determinazione dell’ammontare del risarcimento - nelle due voci di danno di cui si compone l’art. 1223 c.c., ossia il danno emergente ed il lucro cessante – ad opera del giudice, anche attraverso una pronuncia in via equitativa.[9]
Pertanto, elemento centrale nella fattispecie di responsabilità ex art. 2043 c.c. è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio. [10] Applicando tale principio al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, di cui al sopra citato art. 7, comma 4, c.p.a, il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto nelle ipotesi in cui l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita che il privato avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, secondo la dicotomia interessi legittimi oppositivi e pretensivi. “Infatti, il rapporto amministrativo si caratterizza per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale e in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, a ingenerare la responsabilità aquiliana dell’amministrazione”. [11]
Ciò opera non solo in relazione al danno per illegittimo esercizio della funzione, ma anche in relazione al danno da ritardo, rispetto al quale l’ingiustizia del danno esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole, per il quale aveva presentato istanza. [12]
Peraltro, qualificare la responsabilità della p.a. come da illecito extra-contrattuale implica anche la possibilità di valutare, nell’esame della domanda di risarcimento dei danni da illegittimo o mancato esercizio della funzione pubblica, la condotta del privato ai sensi dell’art. 2056 c.c., espressione di un onere di cooperazione riconducibile all’art. 1227 c.c. In particolare, secondo lo schema della causalità giuridica ex art. 1227, co. 2 c.c., il risarcimento “non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”. [13]
Tale possibilità può essere letta alla luce della evoluzione che nel tempo hanno assunto i rapporti tra amministrazione e privato, “in termini di partecipazione per quest’ultimo e di attenuazione della posizione di supremazia dell’amministrazione nell’esercizio della funzione”. [14]
3. La decisione del C.G.A.
La decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa in commento aderisce all’orientamento giurisprudenziale che ricostruisce il risarcimento del danno invocato nei confronti della P.A. sulla base del modello della responsabilità aquiliana, la quale richiede - oltre alla prova della colpevolezza del soggetto che si ritiene abbia prodotto il danno ingiusto - anche la prova del danno e della buona fede e dell’uso dell’ordinaria diligenza da parte del soggetto che ritiene di aver subito un torto.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, i Giudici amministrativi hanno escluso che la società ricorrente avesse agito in buona fede e con l’uso dell’ordinaria diligenza in virtù della consapevolezza della aleatorietà della operazione edificatoria derivante dall’acquisto di una res litigiosa dalle incerte proprietà edificatorie. Invero, il C.G.A. ha evidenziato come la società ricorrente fosse subentrata nei diritti e nelle facoltà concernenti il diritto di proprietà sul fondo destinato a realizzare il progetto edificatorio, in virtù di un contratto preliminare di acquisto stipulato in epoca successiva all’atto di revoca del piano di lottizzazione e della relativa convenzione (e probabilmente tali circostanze - per i Giudici - hanno inciso anche sulla definizione del prezzo pattuito per la compravendita). Sicché, essendo la società ben a conoscenza della assenza di un titolo edificatorio valido e della presenza di una controversia pendente concernente proprio le potenzialità edificatorie del fondo, non poteva seriamente ritenersi che l’acquirente vantasse un incolpevole affidamento in ordine alla possibilità di realizzare il progetto, nonché in relazione ai tempi di realizzazione dello stesso.
In particolare, sotto questo ultimo profilo, il Collegio ha ritenuto infondata l’imputazione del ritardo nell’esercizio delle facoltà edificatorie in capo alla P.A., laddove la sequenza procedimentale – post sentenza del C.G.A.R.S. n. 890/2007, che dichiarava illegittimi i provvedimenti di revoca dei piani e relative convenzioni di lottizzazione – evidenziava la tempestività con la quale il Comune di Bagheria: a) adottava e approvava la variante urbanistica richiesta dalla società ricorrente per consentire il ripristino del diritto edificatorio dell’area secondo il progetto di lottizzazione (con definitiva conversione dell’area da zona F2 a zona B4); b) autorizzava la ditta, in virtù della convenzione di lottizzazione stipulata, ad eseguire le opere di urbanizzazione primaria, alle quali faceva seguito, senza alcun ritardo o inerzia, la stipula dell’atto di cessione al Comune di Bagheria, con conseguente rilascio delle concessione.
Conseguentemente i Giudici hanno rilevato che, superate le individuate criticità, il Comune non fosse stato inerte né avesse accumulato ingiustificabili ritardi, con la relativa inconfigurabilità del danno, la cui prova peraltro avrebbe richiesto di essere puntuale e rigorosa. Infatti, come precisato dallo stesso C.G.A.R.S., Sez. Giur., con sentenza 15/10/2020, n. 914, l’esistenza del danno ingiusto lamentato in giudizio “forma oggetto di un puntuale onere probatorio in capo al soggetto che ne richieda il risarcimento, non costituendo quest’ultimo una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’atto amministrativo illegittimo. In proposito non soccorre, infatti, il metodo acquisitivo; né l’esistenza del danno stesso potrebbe essere presunta quale conseguenza dell’illegittimità provvedimentale in cui l’Amministrazione è incorsa”.
Nel caso in esame, il suddetto onere probatorio non sarebbe stato soddisfatto. Infatti, il C.G.A. ha evidenziato come le due perizie giurate depositate dalla ricorrente (l’una volta a calcolare il danno asseritamente subito per effetto della illegittima revoca del piano di lottizzazione e l’altra volta a calcolare il mancato guadagno da reinvestimento della somma) fossero in realtà prive di una base documentale idonea a supportare le istanze risarcitorie della ricorrente. La prima, mancando finanche dell’indicazione del prezzo di acquisto del terreno, non avrebbe consentito di stabilire se il danno fosse derivato dal maggior costo sostenuto dalla società per la realizzazione del progetto, oppure fosse conseguenza del calo dei prezzi di vendita dovuto alla crisi del mercato immobiliare. La seconda, in quanto strettamente connessa alla prima – essendo destinata a calcolare l’ulteriore perdita commisurata alla mancata percezione degli interessi sulle somme precedentemente indicate – veniva ritenuta inutilizzabile.
Per tali ragioni, il Collegio giudicante ha escluso anche di poter valutare il lamentato danno in via equitativa, mancando dati certi sui quali fondare la valutazione.
Individuati i motivi di fatto e di diritto alla base della pronuncia di rigetto delle istanze risarcitorie avanzate dalla ricorrente – attinenti alla mancata prova del danno e della buona fede e diligenza del “danneggiato” – il Consiglio di Giustizia si è soffermato sull’ulteriore elemento costitutivo della responsabilità, l’elemento soggettivo della colpa.
In particolare, il C.G.A.R.S. ha ritenuto di doversi pronunciare sulla questione della colpa eventualmente attribuibile al Comune per l’illegittima revoca del piano di lottizzazione, sulla base di una considerazione: consapevole della circostanza che la sentenza del C.G.A. n. 890 del 28/9/2007 avesse affermato in via definitiva la illegittimità del provvedimento di revoca richiamato e del fatto che lo stesso Collegio giudicante, in esito ad altre identiche controversie scaturenti dalla medesima delibera commissariale n. 268/1999, avesse riconosciuto il risarcimento dei danni in favore delle parti che lamentavano la illegittima revoca del piano di lottizzazione (cfr. C.G.A. 17 luglio 2015, nn. 557, 558, 559, 560, 561) [15], affermava che né la prima sentenza, né le seconde potessero precludere “una differente pronunzia di merito in ordine alla colpevolezza della Amministrazione”.
In altri termini, quelle pronunce, pur affermando (implicitamente o presuntivamente) la colpa della P.A. per avere questa illegittimamente revocato i piani di lottizzazione, non avrebbero precluso al giudice di analizzare la “questione dell’elemento soggettivo” ed emettere un diverso pronunciamento in quanto, da un lato, le sentenze che avevano definito precedenti analoghi riguardavano parti diverse dalla appellante; dall’altro lato, la sentenza n. 890/2007 non aveva specificamente affrontato la questione delle colpa della Amministrazione trattandosi di un giudizio di annullamento “per violazione di legge” afferente l’illegittimità della delibera commissariale di revoca, in quanto tale non implicante alcun esame della colpa della P.A. (in altri termini, in quel giudizio, i giudici si erano limitati ad accertare un uso errato delle norme regionali e nazionali in tema di “misure di salvaguardia”, laddove l’amministrazione avrebbe preteso di applicarle anche prima della formale adozione dello strumento urbanistico).
Si trattava pertanto di una questione non assorbita nel giudicato, non operando in sede di giurisdizione generale di legittimità la regola secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Ma spingendosi anche oltre, i Giudici hanno affermato che dalla richiamata sentenza n. 890/2017 non sarebbe neanche stato possibile desumere elementi relativi alla legittimità/illegittimità dei piani di lottizzazione oggetto di contestazione, nella misura in cui affermare la illegittimità di un provvedimento di revoca di un atto amministrativo non implicherebbe affatto affermare automaticamente (o implicitamente) la legittimità dell’atto revocato (ossia della delibera di approvazione del piano di lottizzazione), né tantomeno equivarrebbe ad affermare la colpevolezza del Commissario straordinario che abbia proceduto a revocare la suddetta delibera.
Fatte tali precisazioni, il C.G.A. – nel ripercorrere i fatti di causa – ha ritenuto di non poter configurare elementi di colpevolezza in capo al Commissario, il quale – durante le attività di verifica dell’azione amministrativa compiuta dal Comune ante scioglimento – aveva appreso che l’ordine di discussione dell’adozione del nuovo PRG e dell’approvazione dei piani di lottizzazione era stato appositamente invertito al fine di far precedere l’approvazione di questi ultimi. Pertanto, essendo la condotta del Commissario straordinario volta esclusivamente a ripristinare una situazione di legalità violata, i Giudici hanno ritenuto di poter parlare di una colpa per così dire lievissima, in quanto tale giuridicamente irrilevante, consistente nell’avere l’amministrazione erroneamente motivato il provvedimento di revoca: invero, non avrebbe dovuto “giustificare” quel provvedimento sulla base della applicazione delle misure di salvaguardia, quanto piuttosto sulla base del vizio di eccesso di potere, evidente nell’uso deviato del potere pubblico finalizzato alla tutela di interessi persino illeciti.
Pertanto, secondo i Giudici, pur essendo legittima la decisione giurisdizionale del C.G.A. di annullare il provvedimento di revoca perché viziato, il difetto di motivazione non sarebbe stato tale da incidere sulla “correttezza” dell’operato della Commissione straordinaria, mossa dalla necessità di ripristinare una situazione di legalità violata. Ripristino di una situazione di legalità idonea, quindi, a depotenziare il vizio di motivazione e, conseguentemente, a svilire il diritto della ricorrente al risarcimento del danno.
4. Dalla dequotazione al depotenziamento della motivazione del provvedimento amministrativo
Alla luce delle conclusioni appena richiamate, appare utile soffermarsi brevemente sul ruolo assunto dalla motivazione del provvedimento, dato che è dato talvolta assistere ad un processo di svuotamento dell’obbligo generalizzato di motivazione, facendosi strada l’idea che “ciò che conta è la decisione, mentre tutto il resto è sacrificabile sull’altare delle istanze efficientiste”. Si parla in tal caso di un processo di “depotenziamento” della motivazione, che si contrappone alla teoria della “dequotazione” dei vizi formali del provvedimento. [16]
Invero, la teoria della dequotazione della motivazione del provvedimento nasceva in epoca storica anteriore alla l. n. 241/1990, quando, in totale assenza di direttive legislative, dottrina e giurisprudenza, mosse da ragioni garantiste, ponevano la propria attenzione sul provvedimento finale piuttosto che sull’intero iter procedimentale nel corso del quale era stata esercitata la funzione pubblica. Il depotenziamento della motivazione, invece, esprime un fenomeno di svuotamento del dettato normativo dell’art. 3 della l. n. 241/1990, con importanti ripercussioni sul piano delle garanzie e con il rischio di un ritorno ad un passato di scarsa trasparenza decisionale. [17]
Come noto, l’art. 3, l. n. 241/90, oltre a stabilire l’obbligo generalizzato di motivazione dei provvedimenti amministrativi, ne precisa anche il contenuto prevedendo che la motivazione debba contenere i “presupposti di fatto” e le “ragioni giuridiche” [18] fondanti la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria procedimentale (comma 2). La norma, pertanto, richiede che vengano indicate le “ragioni sostanziali” che, nella prospettiva del rapporto tra fatto e diritto, sorreggono la scelta dell'amministrazione. Con la conseguenza che, in caso di omissione di tale elemento, è ipotizzabile una violazione dell'art. 3, l. n. 241/1990 per vizio di eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione o dei presupposti.
Ne consegue che la motivazione non costituisce un adempimento di validità solo formale, dato che attraverso di essa emergono “le diverse facce della giustiziabilità, della trasparenza, della democraticità, della efficienza, della economicità etc. nell'esercizio del potere”. [19] Infatti la motivazione del provvedimento assolve molteplici funzioni: quella di rendere più “trasparente” l'attività amministrativa; quella di facilitare l'interpretazione del provvedimento ed il controllo del medesimo sia in sede amministrativa che giurisdizionale; quella di rendere più efficace la tutela del privato avente titolo ad ottenere un corretto esercizio del potere amministrativo.
Prima dell’entrata in vigore della legge n. 241/1990 [20], l’elaborazione dottrinale nel corso del tempo aveva cercato di sopperire alla lacuna normativa principiando da una concezione formale fino ad approdare ad una sostanziale, con conseguenze del tutto diverse in ordine al requisito di sufficienza della medesima. Mentre per la prima teoria poteva ritenersi sufficiente la motivazione espressa attraverso un’articolata enunciazione idonea ad illustrare compiutamente l'intero iter logico seguito dall'amministrazione, con conseguente inammissibilità di un’integrazione postuma, per la seconda, la sufficienza della motivazione era data dalla presenza di tutto il materiale giustificativo sul quale poggiava la soluzione accolta, con la possibilità anche di integrazione postuma. [21]
Tuttavia, già nella fase originaria di maggiore formalismo [22], dottrina e giurisprudenza avevano ritenuto che la motivazione costituisse un limite alla conoscenza dell'atto da parte del giudice, sostenendosi che “ciò che non fosse in motivazione non fosse nel provvedimento”. Ne derivava che, annullato l'atto per motivazione insufficiente o viziata in una sua parte, l'amministrazione potesse riadottare l'atto con motivazione formalmente sufficiente o corretta, con ciò determinando spesso un sostanziale diniego di giustizia. [23]
Sulla base di queste criticità, prese piede una corrente tesa a ricondurre la tematica della motivazione a caratteri più propriamente sostanziali. Conseguentemente non si richiedeva più che la enunciazione dei motivi corrispondesse alle intenzioni dell'agente, quanto piuttosto che sussistessero effettivamente ragioni sufficienti a legittimare il provvedimento, pervenendosi così ad una dequotazione della motivazione formale. Tuttavia, anche la teoria favorevole alla dequotazione della motivazione formale o enunciativa non mancava di evidenziare le conseguenze negative di tale tendenza nei confronti del privato che, posto in condizione di inferiorità nel rapporto con l'amministrazione, si sarebbe trovato nella difficoltà di accedere ai reali motivi fondanti la decisione. [24]
Del resto, recentemente è stata segnalata un'opera sistematica di “ridimensionamento della motivazione” da parte del giudice amministrativo [25] e tale tendenza sarebbe riscontrabile anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale che se, da un lato, ha affermato che la motivazione del provvedimento amministrativo costituisce “il presupposto, il fondamento, il baricentro e l'essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (…) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile” [26], dall’altro, ha ritenuto necessario coordinare l'art. 3 l. n. 241/1990 con i criteri d'economicità e d'efficacia, sembrando in tal modo ridurre il contenuto dispositivo della norma citata, nella misura in cui ne ammette il bilanciamento. [27]
5. Considerazioni conclusive
La decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa in commento si caratterizza per l’originalità delle conclusioni cui giunge in ordine alla configurabilità della colpa della P.A. in presenza di un provvedimento giuridicamente illegittimo, ma necessario per ripristinare lo stato di legalità violata.
Nel qualificare la responsabilità amministrativa come da fatto illecito, i Giudici si soffermano, in particolare, sull’analisi degli elementi costitutivi la responsabilità extracontrattuale.
Quanto all’elemento del danno, essi evidenziano la sostanziale mancanza di prova fornita a supporto dal danneggiato, stante la inidoneità della documentazione tecnica a provare sia il danno emergente che il lucro cessante, nonché a consentire al giudice di giungere ad una valutazione equitativa. Ed inoltre essi sottolineano la presenza di rilevanti profili di assenza di diligenza nella condotta del danneggiato, resosi consapevolmente protagonista di una vicenda dalle palesi criticità.
Quanto all’elemento della colpevolezza, il ragionamento del Collegio è piuttosto peculiare, nella misura in cui vengono fatti salvi gli effetti del provvedimento e viene ritenuto giuridicamente irrilevante l’accertato “errore” del Commissario straordinario nel motivare l’atto di revoca, considerando i due aspetti del tutto autonomi ed indipendenti tra loro. In altri termini, il C.G.A. sminuisce il vizio dell’erronea motivazione ai fini della configurabilità della responsabilità in capo alla amministrazione, così depotenziando la rilevanza della motivazione.
In particolare, i Giudici individuano la ragione – in punto di diritto – che ha portato la commissione straordinaria ad annullare i piani di lottizzazione già approvati (da parte di un organo che sarebbe stato a breve ritenuto permeato da infiltrazioni mafiose) non nella dichiarata inapplicabilità delle misure di salvaguardia (applicabili solo a seguito dell’adozione di un p.r.g. che al momento dell’approvazione delle lottizzazioni il p.r.g. non era ancora stato adottato), ma nel rilievo della contraddittorietà complessiva del comportamento del consiglio comunale che, poche settimane prima di adottare il nuovo p.r.g., (di cui allora esisteva già uno schema ben definito), aveva approvato una serie di strumenti urbanistici attuativi del precedente p.r.g., che di fatto vanificavano le nuove adottande prescrizioni urbanistiche, dato che la zona di territorio interessata sarebbe diventata inedificabile. Comportamento che, pur astrattamente idoneo ad essere valutato in termini di eccesso di potere, non ha impedito ai Giudici di rinvenire nelle determinazioni adottate un fondamento, “quanto meno logico”, rispetto al contesto ordinamentale nel quale si inserivano, tale da escludere che le stesse siano state adottate con imperizia o superficialità, e quindi che, in ultima analisi, il comportamento di chi le ha adottate integri gli estremi della colpa.
Una colpa giuridicamente rilevante, pertanto, viene esclusa in quanto - pur ritenendo legittimo l’annullamento dell’atto di revoca per i motivi evidenziati - si considera “giustificabile” l’operato della Commissione Straordinaria in quanto volta a ripristinare lo stato di legalità violata.
In tal modo, il difetto di una congrua motivazione perde quota e la razionalità del diritto cede il passo a superiori esigenze di legalità, sembrando accedere quasi ad una “motivazione” basata sui soli presupposti di fatto, ossia sulla realtà fattuale caratterizzata dalla sovversione delle regole giuridiche.
É come se le ragioni pratiche di un particolare modo di intendere il principio di buon andamento e il principio di efficienza (anche della giustizia) avessero la meglio sulle molteplici istanze alla base dell'obbligo di motivazione, prima tra tutte la funzione di garanzia e di trasparenza. [28]
La sentenza in commento impone pertanto, una riflessione, venendosi a delineare la figura di un giudice che si sostituisce alla pubblica amministrazione, che fornisce egli stesso la motivazione del provvedimento, in tal modo sovvertendo il principio di legalità in vista di ragioni di “giustizia sociale”.
Il depotenziamento della motivazione finisce così con il tradursi in un ampliamento dei poteri del giudice di sindacare l'azione amministrativa; un giudice che afferma sempre più la propria intenzione di non dare spazio a censure “che appaiano ininfluenti sia rispetto al risultato sostanziale che si intende raggiungere, sia rispetto alla messa in discussione del risultato che si vuole eliminare”. [28]
Note
[1] La letteratura a commento della sentenza n. 500/1999 è vastissima. Tra i tanti si ricordano gli scritti di: F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. Pubbl., 2000, fasc. 1; F. G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss. secondo il quale la sentenza n. 500 del 1999 finisce in realtà per negare ciò che afferma, ovvero la risarcibilità dell’interesse legittimo, in quanto ammettere il risarcimento del danno solo quando la violazione della regola di condotta comporta il pregiudizio al c.d. bene della vita, significa considerare risarcibile non l’interesse legittimo in sé, bensì il diritto estinto dal provvedimento negativo, ed eventualmente riemerso dopo l’annullamento o la aspettativa del cittadino preesistente al provvedimento di diniego; F. G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 301; G. Soricelli, Appunti su una svolta epocale in merito ad un’interpretazione costituzionalmente orientata sulla pari dignità tra diritto soggettivo ed interesse legittimo: una decisione a futura memoria, in Il Foro Amm., 2000, fasc. 2, I; E. Vincenti, La sentenza n.500/99 fra vecchie e nuove categorie nella materia risarcitoria, pubblicato il 23 dicembre del 2019, rispetto alla relazione svolta al Convegno organizzato dall’Ufficio studi e massimario della Giustizia amministrativa “A 20 anni dalla sentenza n. 500/1999: attività amministrativa e risarcimento del danno”, tenutosi a Roma, 16 dicembre 2019. Da ultimo, sul punto cfr. F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa rivista.
[2] In particolare, nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142) e in materia edilizia, per il danno da ritardato rilascio del titolo a costruire (art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 493, come successivamente modificato).
[3] Cfr. Corte costituzionale, ordinanza n.165 del 1998, e più in generale, l’art. 35, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, con il quale è stata introdotta la regola per cui, nelle materie dell’urbanistica, dell’edilizia e dei servizi pubblici -in cui ha giurisdizione esclusiva- il giudice amministrativo “dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. L’articolo 7, comma 4, della legge n. 205 del 2000 ha poi previsto la risarcibilità del danno in ogni caso di lesione arrecata all’interesse legittimo.
[4] Corte costituzionale, 26 luglio 2004, n. 204; Corte costituzionale, 11 maggio 2006, n. 191.
[5] Cfr. Corte di Cassazione, 12 luglio 2016, n. 14188, secondo la quale la responsabilità precontrattuale della P.A, non avrebbe natura extracontrattuale ma dovrebbe correttamente inquadrarsi nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ai sensi dell'art. 1173 c.c.; Cons. St., Sez. VI, 633/2013, secondo il quale la responsabilità precontrattuale è una responsabilità da comportamento, non da provvedimento, che incide non sull’interesse legittimo pretensivo all’aggiudicazione, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
[6] Già Cassazione, SS.UU. 22 luglio 1999, n. 500.
[7] Sul punto, cfr. M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), in questa rivista.
[8] Già Cass., Sez. Un., 22 maggio 1984, n. 5361: “la colpa della P.A. sussiste in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dell’atto amministrativo, essendo già di per sé ravvisabile con l’adozione (necessariamente volontaria) del provvedimento illegittimo e con la sua esecuzione, indipendentemente dalla natura del vizio che invalida il provvedimento”.
[9] Il danno emergente consiste in un decremento patrimoniale avvenuto; il lucro cessante invece esprime un possibile (rectius: probabile) incremento patrimoniale, assumendo pertanto natura ipotetica richiedente un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità): occorre stabilire se, in assenza del fatto ingiusto altrui, il guadagno futuro e solo ipoteticamente prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità.
[10] Diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui, la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale.
[11] Cfr. Ad Plenaria n. 7/2021.
[12] Secondo la recente giurisprudenza in tema di danno da ritardo, il bene “tempo” è risarcibile solo se e nella misura in cui tale lesione abbia determinato un “danno ingiusto”. Cfr. Cons. Stato, II, 21 dicembre 2020, n. 8199, 25 maggio 2020, n. 3318; III, 2novembre 2020, n. 6755; IV, 8 marzo 2021, nn. 1921 e 1923, 1 dicembre2020, n. 7622, 20 ottobre 2020, n. 6351, 22 luglio 2020, n. 4669; V, 2 aprile2020, n. 2210; VI, 15 febbraio 2021, n. 1354, 26 marzo 2020, n. 2121.
[13] L’art. 1227, comma 2, cod. civ. rileva nella determinazione del danno, in combinato disposto con l’art. 1223 c.c. che costituisce uno dei criteri in base al quale “selezionare” le conseguenze risarcibili, dopo che si sia positivamente accertata la ingiusta lesione di un interesse giuridico meritevole di tutela in termini di conseguenza immediata e diretta della condotta (l’Ad. Pl. n. 7/2021 evidenzia la differenza con la responsabilità contrattuale, nella quale il requisito dell’ingiustizia risulta conseguenza in re ipsa dell’inadempimento, mentre costituisce co-elemento di struttura dell’illecito nella responsabilità aquiliana).
[14] In termini Ad. Pl. n. 7/2021. Peraltro in linea con le recenti acquisizioni legislative e giurisprudenziali in tema di accesso generalizzato ai documenti e alle informazioni detenute dalla p.a. Il riferimento, in particolare, è alla Ad. Pl. n. 10/2020 che, proprio in virtù dell’evoluzione del pensiero sui rapporti tra p.a. e privato e sulla base di una interpretazione estensiva dell’art. 5-bis, d. lgs. 50/2016, ammette l’operatività dell’accesso civico generalizzato anche nella materia degli appalti.
[15] Anche se nelle altre controversie costituenti precedenti analoghi in quanto scaturenti dalla medesima delibera commissariale n. 268/1999, le decisioni del Consiglio di Giustizia Amministrativa si fondavano sulla base della consulenza tecnica di ufficio che convertiva il risarcimento del danno in danno da ritardo.
[16] Sull'importanza della motivazione del provvedimento amministrativo e per una lettura critica delle recenti tendenze nel senso della dequotazione dell'istituto, cfr M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, 2017, 894 ss.
[17] Cfr. F. Cammeo, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, cit. secondo il quale l’obbligo di motivazione “Importerebbe difficoltà, impacci, lentezze insormontabili, le quali sarebbero ben più disastrose per il pubblico, per l'inconveniente di qualche provvedimento non motivato”.
[18] G. Corso, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., Agg., Milano, Giuffrè, 2001, 774 ss. ritiene le ragioni giuridiche sono quelle che “il diritto richiede di, o autorizza a, porre a fondamento della decisione amministrativa”; G. Bergonzini, Difetto di motivazione del provvedimento amministrativo ed eccesso di potere (a dieci anni dalla legge n. 241 del 1990), in Dir. amm., 2000, 187; T. Tessaro, Profili evolutivi (o involutivi?) nella tematica della motivazione degli atti amministrativi, in Riv. amm., 1996, 357, ritiene che esse consistano nella “sintetica enunciazione delle norme che contemplano il potere stesso”; A. Romano Tassone, Legge sul procedimento e motivazione del provvedimento amministrativo. Prime osservazioni, in Scritti in onore di Pietro Virga, II, Milano, 1994, 1600, afferma, invece, che le ragioni giuridiche consistono “nell’indicazione delle norme che la p.a. procedente ritiene applicabili al caso e comprendono anche l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale delle norme applicate di specie, e quindi nella qualificazione giuridica che, per il loro tramite, si dà al fatto, c.d. ragioni giuridiche in senso stretto”.
[19] A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi, in Dir. proc. amm., 1/1993, 19.
[20] Il principio dell'obbligo di motivazione non è mai stato costituzionalizzato con riguardo ai provvedimenti amministrativi (a differenza di quanto sancito dall’ all’art. 111, co. 1 della Costituzione per le sentenze), né - prima della legge n. 241/1990 - è mai esistita nel nostro ordinamento, una prescrizione legislativa di carattere generale che imponesse per questi tale obbligo.
[21] Cfr. M.S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 267; L. Cimellaro, La motivazione del provvedimento amministrativo. Una rassegna della dottrina e della giurisprudenza di ieri e di oggi, inDir. amm., fasc.3, 1995, 441, la quale evidenzia che: “Mentre dunque la tendenza formalistica aveva identificato la motivazione in un discorso, ossia in un complesso organico di segni linguistici dotato di un significato proprio, le dottrine di ispirazione sostanzialista dimostravano l'intento di svalutare l'elemento discorsivo per porre l'accento sul valore di un materiale motivante di carattere eterogeneo, potendo essere costituito da discorsi, fatti, norme e quant'altro potesse dar ragione della decisione assunta, in sede di sindacato giurisdizionale”.
[22] Cfr. F. Cammeo, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, in Giur. it., 1908, III, 253 ss. dove i motivi dell'atto vengono considerati risultato dell'intuito dei buoni funzionari. La concezione formale concepiva la motivazione come tratto discorsivo volto ad enunciare i motivi che determinano l'agente, intesi come le immediate fonti psicologico-subiettive della volontà provvedimentale. In base a tale concezione dell'attività amministrativa, si distingueva – nell’ambito dei fattori determinanti la volontà dell'autorità agente – tra i presupposti e i motivi: gli uni, elementi immanenti alla natura dell'atto e da esso inseparabili «tanto che il tipo giuridico a cui l'atto corrisponde non si potrebbe concepire senza la presupposizione loro»; i secondi, moventi soggettivi del provvedimento.
[23] L. Cimellaro, La motivazione del provvedimento amministrativo. Una rassegna della dottrina e della giurisprudenza di ieri e di oggi, cit.
[24] M.S. Giannini, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano 1977, 265.
[25] M. Del Donno, Riflessioni sulla «motivazione in diritto» del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., fasc.3, 2013, 629.
[26] Corte cost., 26 maggio 2015, n. 92. L'espressione era già stata impiegata da Cons. Stato, Sez. III, 30 aprile 2004, n. 2247.
[27] Corte cost., 8 giugno 2011, n. 175. Cfr. M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, cit.
[28] M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, cit.
[29] L. Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall'interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998, 299 ss.
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