ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno-dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi
di Mario Serio
Sommario: 1. Premessa espositiva - 2. La nozione di ordine giuridico pluralistico nel suo nesso con la giurisprudenza - 3. Il filo conduttore del volume e la sua diretta riconducibilità alla Costituzione - 4. Il pensiero dei maggiori civilisti italiani tra XIX e XXI secolo - 5. Una breve nota finale.
1. Premessa espositiva
La coerenza scientifica e la passione intellettuale nel difenderla e propugnarla in costanza di occasioni culturalmente stimolanti nonché il vigore argomentativo, mai trasmodante nella polemica o nella ruvidezza di accenti, contraddistinguono, anche dal punto di vista esteriore, il volume di Paolo Grossi di cui qui si scrive.
La recentissima opera, pur circoscritta nell'intitolazione alla riflessione sulla vicenda intellettuale e storica della civilistica italiana degli ultimi due secoli fino alle odierne propaggini, ben dà vita ad una rappresentazione colta, sapiente e persuasiva dell'itinerario del pensiero del suo Autore attorno al fenomeno giuridico in genere, stabilmente colto nella sua dimensione esperienziale, quella verso la quale sono sempre rivolte con fiducia e speranza le sue pagine. Ben può dirsi che l'ennesimo dispiegamento del vasto sapere dell'Autore ed il connesso desiderio di utilizzarlo ad un fine fondativo dell'intera concezione del diritto attende al compito di innervare un alto messaggio sociale dagli ampi riflessi solidaristici nel corpo, nella carne viva (per dirla con le Sue parole), nel terreno delle relazioni umane interindividuali.
In fondo, la scelta del campo civilistico quale momento probante della Sua visione del diritto nella sua globalità ne rende spendibili gli importanti risultati in termini ed in prospettiva globali.
L'ariosa concezione applicata in questo libro al diritto civile, e forse in misura maggiore ai suoi cultori, esibisce l'ampiezza del proprio respiro nella esatta misura nella quale essa mostra di sapere creare un ponte incrollabile tra la vita e le azioni dell'essere umano e la sua traduzione in termini di valutazione e disciplina giuridica, rendendo così servente la seconda alle esigenze, alle aspirazioni, alle concrete declinazioni dell'altra.
Questa presentazione deve preliminarmente misurarsi con una scelta espositiva di fondo: la rassegna analitica di ciascuno dei ragionati passaggi di cui si compone il lavoro del giurista fiorentino che ha presieduto con saggezza e lungimiranza nel recente passato la Corte Costituzionale, seppur mezzo necessario per consegnare ai lettori il prezioso messaggio donatoci da Paolo Grossi, potrebbe lasciar correre il rischio della frammentazione del solido filo conduttore dell'indagine, che, nella sua esemplare unitarietà, va viceversa ricostruito con quanta più fedeltà possibile.
Per siffatta ragione la presente occasione è destinata ad essere utilizzata per fornire un'immagine di insieme di uno studio tanto ricco e fertile, dovendosi rinviare ad altre sedi l'approfondimento di ciascuno dei capitoli di cui si compone, a loro volta dedicati ad aspetti e figure accademiche determinati.
2. La nozione di ordine giuridico pluralistico nel suo nesso con la giurisprudenza
Prima di far ingresso nella scena concettuale del volume, affascinante per rigore e fecondità di orizzonti, può valer la pena far precedere questa operazione dalla testuale citazione di alcuni passi sparsi nei quali rapsodicamente si riassume la grandezza del disegno culturale e la sua calibrata inerenza al mondo del diritto nella duplice accezione di ente regolatore e disciplinatore di condotte e fatti umani e di ospitante la correlata scienza. Tra pagina 145 e la seguente si legge la appropriata sintesi del concorso della doppia dimensione, normativa ed epistemologica, del fenomeno qui considerato. Si reputa, infatti, in esito ad un lungo percorso illustrativo compiuto nelle parti precedenti, che la scienza giuridica sia l'unica tra le fonti “capace di ricomporre ad unità (spirituale e culturale) l'attuale pluralismo”. Di talchè “si impone anche un risveglio delle prassi giudiziali e notarili e del loro ruolo attivo nella dinamica dell'ordine giuridico”. In questo senso “la giurisprudenza si impone attualmente come presenza di straordinario rilievo” e con essa si esalta la profonda e colta descrizione del “mestiere del giudice”, alludendosi al promettentissimo progetto culturale racchiuso nell'omonima raccolta curata da Roberto Giovanni Conti per la collana “Dialoghi” di Giustizia Insieme, egregiamente diretta con Paola Filippi.
La base teorica su cui poggia questa saldatura tra pluralismo quale epifania dei molteplici moti interni che conformano il fenomeno giuridico e pluralismo dedotto dal riconoscimento scientifico della loro costituente vitalità è individuata nelle pagine immediatamente precedenti (in particolare pag.143) laddove, al fine di fugare i timori (con grande autorevolezza espressi, nella nota 10 della medesima pagina dalla Giudice costituzionale di recente nomina Emanuela Navarretta) circa la “società che si autoregola”, il Presidente emerito della Corte Costituzionale replica elogiando una struttura sociale, fondata secondo criteri giuridici non puramente legalistici, la quale sappia organizzarsi auto-ordinarsi, perché ciò “ significa che la società opera una filtrazione isolando tra la folla dei fatti ed interessi solo quelli meritevoli di essere tutelati e promossi, ossia solo quelli che si propongono come valori della Comunità”.
Un primo esito ricostruttivo sul filo della concatenazione tra i concetti appena riportati, tutti centrali nell'architettura dell'opera, può dirsi guadagnato, rovesciando l'ordine espositivo seguìto, ossia muovendo dalla premessa descrittiva in senso storico dell'ordine giuridico percettibile in date circostanze spaziali e temporali.
Esso vive di una molteplicità di segni ed accadimenti esteriori, di realizzazioni ed aspirazioni individuali, di organizzazioni collettive fondate su tradizioni e consuetudini mai rinnegate o abbandonate, di criteri di disciplina della vita sociale entrati a far parte del patrimonio interiore per la loro rispondenza ad un sentire comune elevato a valore diffuso, non meno che di atti formali di origine istituzionale.
Vengono così, almeno parzialmente, espunte dal discorso giuridico del civilista “posmoderno” (almeno da quello, discorso e civilista, idealmente tratteggiato da Grossi ) le secche e le morte gore del formalismo, del positivismo, del normativismo, del legalismo codicistico. O meglio, e più precisamente, vengono combinate, così perdendo o attenuando l'originario carattere antistorico loro addebitato dalla larga visione dell'Autore, con le manifestazioni pulsanti dell'ordine giuridico, condensabili e confluenti nell'esperienza quale elevata da Capograssi ad oggetto e scopo della scienza giuridica.
Ma l'idea di Grossi è tutt'altro che proiettata verso il caos, né lo incoraggia; al contrario essa ha il pregio della selettività razionale e di intrinseco merito. È il metodo della meritevolezza, lo stesso rinvenibile nel capoverso dell'art.1322 c.c. per conferire liceità all'atipicità contrattuale ed al correlato esercizio dell'autonomia privata, che determina l'ammissione nell'universo del giuridicamente rilevante di quei soli dati esperienziali capaci di consonanza con il sistema valoriale di una comunità. Fatti ed interessi umani riversati nel crogiolo dei valori sociali: il passo è rapido in direzione della configurazione di un ordine giuridico declinato al plurale in cui anche essi partecipano, insieme al livello normativo. Un ordine giuridico che deliberatamente o per insensibilità culturale dei suoi “conditores”, studiosi ed esegeti trascurasse l'apporto pluralistico così formato verrebbe amputato della sua componente umana, fattuale, storica, unica ed irripetibile perchè sgorgante dalla “carne viva” della società, inammissibile privazione che subirebbe l'apparato normativo senza vedersi riconosciuta l'ambizione di concorrere alla sua etero-integrazione. La mancanza di questa intima, basilare percezione antidommatica in parte della civilistica italiana condanna per Grossi studi e riflessioni ad una sorte di inidoneità alla incisione e rappresentazione dello stesso ordine giuridico e, peggio ancora, allo stigma della contrarietà all'andamento necessariamente storico della ricerca giuridica. Ma il libro sa individuare gli antidoti a questo non isolato male ed assegna a ciascuno di essi un ruolo effettuale preciso. In primo luogo, ed a completamento della rivisitazione dei passaggi testuali prima menzionati, in questo itinerario si colloca la giurisprudenza, la cui produzione viene introiettata nel “mestiere del giudice” e la cui somma rilevanza viene celebrata. In questa articolazione si rende manifesta la geometrica chiarezza del disegno ideale che anima il testo e l'assenza di qualsiasi tentazione di arbitrarietà concettuale, combattuta, al contrario, dallo schema sillogistico che vi fa corona. Ed infatti, una volta edificata nella sua poliedricità la nozione e la concreta raffigurazione dell'ordine giuridico, anche auto-prodottosi, ed accordato al suo interno il debito posto alla viva esperienzialità, è nella disciplina di essa che si sublima l'attività giurisprudenziale, che, così, ben viene remunerata attraverso la ricognizione della sua presenza come di “straordinario rilievo”.
La sequenza logica che assiste l'operazione culturale cui ci si accosta con grande rispetto non sembra esibire scalfiture nel proprio ordito, tanto stringente è la correlazione tra il ritratto di un ordine giuridico pluralistico e la notevole influenza che al suo interno inevitabilmente è chiamato ad esercitare l'organo giurisdizionale, il quale, pertanto, proprio per la sua naturale attitudine ad intervenire sui “fatti ed interessi “ meritevoli di attrazione nell'orbita dell'ordine giuridico per la loro corrispondenza al sistema di “valori “ comunitari, finisce per innervarsi concorrenzialmente nel circuito ordinamentale, e non certo in funzione marginale o sottomessa.
3. Il filo conduttore del volume e la sua diretta riconducibilità alla Costituzione
Il diretto e preliminare esame di uno dei nuclei formativi del volume non può certo valere ad esimere dal compito di illustrarne la complessa struttura seguendo lo stesso filo del discorso del Maestro fiorentino anche nella sua successione grafica: il compito è notevolmente agevolato dall'unità dello sviluppo e dal costante richiamo ai principii attraverso i quali il discorso stesso prende corpo e si svolge. Già la Prefazione (pag.IX) lascia intendere senza esitazioni quale indirizzo venga dato al lavoro ed in quale corso vada incanalato. Il tema binario vede contrapposti, come traspare anche dal sottotitolo (“Dal monismo legalistico al pluralismo giuridico”), i due poli del globo del diritto: monismo e pluralismo. E qui l'Autore non si sottrae al benefico impegno di analitica descrizione di ciascuno di essi, che fungerà da stella che rischiara l'intero orizzonte della ricerca. Il primo vien fatto consistere “nella pretesa dell'assoluta monopolizzazione da parte dello Stato dell'intera dimensione giuridica”; del secondo si predica la “riscoperta del nesso inscindibile tra il diritto e la società, con la conseguenza che il piano per rispecchiare fedelmente la seconda deve articolarsi in una pluralità di assetti ordinativi”. È facile osservare la circolarità dell'impianto argomentativo del lavoro, solo considerando la totale simmetria del ragionamento prefato rispetto a quello ,già esposto, condotto nei brevi capitoli seguenti. Ancor più significativa la professata tendenza ad avvolgere attorno a questa radicale bipolarità il racconto ed i giudizi di valore sugli appartenenti alla civilistica italiana di circa 150 anni. Essi vengono, infatti, sistematicamente inquadrati secondo la logica dell'alternativa, senza, tuttavia e per fortuna, cedere mai e per nessuna ragione alla tentazione del manicheismo classificatorio: rischio sapientemente evitato grazie alla basilare onestà intellettuale dell'Autore che sa dar atto di ibridazioni di pensiero nello stesso studioso ed evoluzioni dottrinarie di ampio significato. Alla radice della competizione bipolare va posto il crescente abbandono, culminato nell'esperimento codicistico degli albori del XIX secolo, della struttura extrastatuale dell'ordinamento giuridico quale il periodo medievale ha saputo trasmettere, sin da organizzazioni proprietarie a base collettiva.
Fu proprio l'avvento sulla scena di una prospettiva normativo-positivistica, con l'egemonia del legislatore, ad indebolire l'assetto naturalistico del fenomeno giuridico, in special modo nell'area del diritto civile, sempre più sfaldato nella sua essenza di “ratio scripta”.
L'analisi di Grossi circa connotazioni ed effetti della rivoluzione ottocentesca generata dal Code Civil indirizza ad una prospettiva astrattizzante, quella che vede il diritto civile come osservatorio dei rapporti umani considerati nella loro cifra assoluta, avulsa sia dal mondo della quotidianità interrelazionale sia dal riferimento al singolo soggetto umano nel suo concreto agire.
E la consustanziazione tra diritto civile, inteso come disciplina teorica rientrante con funzione dominante nel vasto universo della scienza giuridica, e codice civile, visto nel suo ruolo disciplinante il rapporto giuridico interpersonale astratto, lo stesso studiato dalla corrispondente branca, diviene completa lungo l'intero corso del secolo in cui si tenne a battesimo l'idea napoleonica di codice.
Ciò comportò ad avviso di Grossi il pesante costo di un generale appiattimento manifestatosi nella cancellazione, da parte del neonato monismo giuridico, delle visibili tracce dell'opposto pluralismo e nella formazione di un ordine giuridico interamente affidato alle mani dello Stato.
Questa riscrittura dell'ordine giuridico in chiave concettuale e con riflessi di normativismo sospinto dalla soffocante visione statalista non poté che conquistare alla propria corte anche la dottrina civilistica europea, con rare eccezioni ,tutte appieno valorizzate dall’Autore.
4. Il pensiero dei maggiori civilisti italiani tra XIX e XXI secolo
Inizia così la vibrante parabola ideal-descrittiva che attraversa, in un pregevole connubio che conquista il lettore, con passione e rigore il volume nella sua interezza.
La parabola viene esposta dall'Autore, in perfetto accostamento allo spirito animatore delle Sue riflessioni, attraverso una corsia preferenziale: quella diretta a far risaltare le produzioni scientifiche e le espressioni didattiche meglio votate ad anticonformistiche prese di posizione, ai Suoi occhi qualificate in termini di dovuta attenzione alla concretezza dell'esperienza giuridica, alla sua necessitata lontananza dai modelli relazionali ed esistenziali astratti, all' immancabile accostamento ai fenomeni sociali, economici, industriali, politici che lo spirito del tempo dona agli studiosi.
Come già introduttivamente premesso la presente sede previene la possibilità di gettare lo scandaglio su ognuno degli apporti individuali, su cui cade l'attenta illustrazione di Grossi, più meritevoli di menzione in questo contesto: di certo seguiranno altre, più pertinenti circostanze.
Può riuscire utile ad esemplificare la congerie di un risorgente tentativo di concepire in senso pluralistico l'ordine giuridico venuto ad esistenza per effetto dell'opzione codicistica il richiamo all'esempio intellettuale costituito dalla cosiddetta civilistica “neoterica” italiana di fin di secolo diciannovesimo, improntata alla concentrazione su concezioni materialistiche ed evoluzionistiche.
Scorrono, quindi, in una rapidità espositiva mai disgiunta da tocchi sapienti di pennello sul cuore del loro pensiero, i nomi di Cimbali, Venezian, Gianturco, tutti intenti, per ragioni diverse ma effettualmente coincidenti, alla reviviscenza della complessità dell'universo giuridico, alla difesa dell'idea del compito sociale dello Stato. Altri grandi giuristi, versati anche nella sfera del diritto processuale (Redenti, Carnelutti) ed affiancati a grandi civilisti-sostanzialisti, (Ferrara senior,Vassalli) vengono portati a dimostrazione dell'insopprimibile esigenza di arricchire il compendio dei fatti costitutivi del diritto e dell'ordinamento giuridico, a partire dalla promozione al rango di fonte in senso formale della “natura dei fatti”, come fece Vivante nel suo Trattato di diritto commerciale.
Proprio di Filippo Vassalli vien fatta risaltare l'anima extrastatalista, resa vivida nella prolusione romana del 1930 che richiama quella genovese di un dodicennio anteriore nel corso della quale fu reso chiaro il suo pensiero mediante la dirimente affermazione che “il diritto privato, quale ereditammo dai romani, è indipendente dall'organizzazione statuale”.
Non può non suscitare persuasa ammirazione per il modernissimo calibro culturale teso al raffronto tra ordinamenti diversi per tradizione e formazione la rievocazione che l'Autore compie a pag.33 dell'apprezzamento mostrato da Vassalli per l'ideal-tipo del giurista di common law, cui assegna la lungimirante missione di accrescere tra i giuristi la consapevolezza della propria opera in mezzo ad ostilità ed indifferenza: parole presaghe delle sciagure, frutto di rozzezza intellettuale e di sprezzante e violenta chiusura mentale, che la fine degli anni ’30 del secolo scorso addussero.
Quel secolo appena trascorso vide, tuttavia, nel suo tormentato e drammatico svolgimento, mutamenti ed innovazioni di mentalità tra i civilisti italiani, nessuno dei quali è sfuggito al minuzioso ed acutissimo microscopio del nostro Autore.
Beninteso, osservazione ed analisi incanalate lungo i rami del collegamento tra realtà, collettiva ed individuale, e configurazione normativa, che si vuole largamente influenzata e modellata con la creta dell'esperienza, meglio capace di plasmare l'ordinamento di quanto sarebbe in grado di fare l'astratta, teorica considerazione delle relazioni umane giuridicamente rilevanti.
È così che l'impresa, rappresentativa, vivace e fedele della “fattualità economica che irruppe nella dimensione collettiva già nel cavaliere tra primo e secondo decennio del XX secolo, diviene centrale negli studi civilistici, in quanto, come si legge a pag.39, capace di determinare il “superamento di individualità e rapporti individuali”.
Di essa, con maestria e profondità di pensiero, si occuparono Santoro Passarelli e Nicolò, rispettivamente nella prolusione napoletana del 1942 ed in quella romana del 1956, sebbene, secondo Grossi, le loro alte riflessioni (in particolare quella di Nicolò, che, pur volendo sottrarre la figura e la funzione dell'impresa alle schematizzazioni pandettistiche, la racchiude nella categoria del diritto soggettivo: sulla prolusione romana di Nicolò intitolata “Riflessioni sul tema dell'impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile”, restano indimenticabili le memori e grate parole rivolte al Maestro da Stefano Rodotà in Diritto civile del novecento. Scuole, luoghi, giuristi, a cura di Alpa e Macario, Milano 2019, pag.12) non riescono a liberare la loro potente energia (soprattutto quella palesata da Santoro Passarelli che aveva individuato nell'impresa e nel suo studio il criterio facilitatore del “distacco dagli schemi concettuali, dalle categorie giuridiche astratte”: L'impresa nel diritto civile del 1961) nell'auspicata direzione pluralistica ordinamentale.
Direzione che, piuttosto, Grossi accredita, a pag.43 ss., a Tullio Ascarelli per aver saputo percorrere grazie alla sua percezione dell'unità e complessità dell'universo giuridico ed alla dialettica che seppe instaurare tra diritto legale e diritto effettivo, quest'ultimo raffigurato, in uno scritto del 1953, come “frutto di uno sforzo collettivo”.
Un sintomo rivelatore della strenua sopravvivenza delle dottrine “monistiche” Grossi trae, con riguardo anche all'opera di Santoro Passarelli, dalle parole di Irti del 1989 dedicate alla dottrina civilistica italiana nel periodo immediatamente post-costituzionale secondo cui essa “esprimeva il rifiuto della Costituzione.
L'unità del sistema era garantita dal codice civile. In questa gravissima, prolungata frattura tra codice e Costituzione così platealmente ostentata negli anni 1950 da parte non esigua della civilistica italiana Grossi ravvisa nell'intero itinerario del libro motivo di rammarico e di allarme per una certa ipotrofia che connotò la produzione scientifica e l'apparato ideologico di quegli anni ed il corrispondente difetto di slancio.
Ma altre autorevolissime figure si stagliarono, a fianco di quelle eminenti appena ricordate, agli occhi di Grossi come rasserenanti esempi di capacità assertiva del nesso infrazionabile tra fenomeno/dimensione sociale e fenomeno giuridico: particolare conto viene, a tal proposito, dato al pensiero ed agli scritti di Finzi, Betti e Gorla.
Del primo viene ricordata a pag.52 la felice dote di essere stato un fautore delle “pluralità collegate”, particolarmente fertili nel settore del diritto di proprietà, per il cui studio viene reputato importante un'analisi che proceda non dalla persona del titolare ma dalla cosa che ne è oggetto, in quanto fenomenicamente e concretamente individuabile. Di Emilio Betti, nelle pagine 54 ss., Grossi tiene a sottolineare ,smentendo diffusi luoghi comuni, come la sua non fosse una posizione ispirata al dommatismo.
A fondamento di questa netta definizione il Presidente Emerito cita la forte inclinazione a non tollerare che venga cancellato il nesso tra società e diritto e la altrettanto decisa propugnazione che respinge ogni tentativo di ridurre la scienza giuridica a scienza pura, con disconoscimento del suo ruolo ordinativo perseguito in virtù di un'attività speculativa.
In questo senso si dice a pag.55 al riguardo della vasta opera del giurista marchigiano che i suoi concetti, le sue categorie non galleggiano mai sopra o contro i fatti, ricordando la teoria Bettiana, riesumatrice del conflitto tra “voluntas” e “verba”, secondo cui “il negozio giuridico è fenomeno sociale e non proiezione esterna di un atteggiamento psicologico”.
In inoppugnabile sintonia con questa attrazione verso un magistero civilistico epistemologicamente orientato verso il dominio dell'esperienza vengono riportate a pag.56 le parole della prolusione romana del 1948 allorché così si espresse: “la conoscenza non consiste in una recezione meramente passiva dell'oggetto da parte del soggetto”, occorrendo riconoscere la “storicità del soggetto”. Richiamando l'alto magistero scientifico di Gino Gorla, a pag.57 ss., l'Autore compie una duplice, salutare operazione culturale.
Da un canto, rinverdisce la prolusione pavese del 1946, nella quale, da civilista, si sente chiamato al compito di insegnare che vi sono altri modi di intendere e praticare la legge e di sentire e praticare il diritto soggettivo: e questa sottolineatura giova ad allineare l'allora giovane studioso alla schiera di altri desiderosi di rompere le barriere erette a protezione di posizioni soggettive esclusivamente concepite in relazione alla loro statica previsione codicistica senza rideterminarne la portata alla luce dell'esperienza sociale. D'altro canto, la figura che di Gorla affiora in queste pagine è di un civilista che, per affrancarsi dai rigidi vincoli di un positivismo ad elevato rischio di insterilimento applicativo, vira verso le accoglienti e promettenti rive della comparazione giuridica, di cui divenne indimenticato caposcuola per essere seguito dopo circa un decennio da Sacco (pag.59), nella quale riscontra quell'afflato storico che dovette sembrargli esile o latitante nel diritto interno e che ne rafforza le fondazioni culturali (nel testo viene giustamente riportato un fondamentale passo della prefazione al Contratto gorliano del 1954 in cui si insegna la lezione tramandata alle generazioni future che “la comparazione come metodo non è che storia”). Particolarmente felice e generoso è l'apprezzamento che uno Studioso come Grossi, poliedrico e naturalmente attratto dalla febbrile espansione dei propri orizzonti di ricerca, tributa al diritto comparato, in special modo nell'implicita attestazione che le novità offerte da questa scienza sono anche intervenute in funzione suppletiva o alternativa a radicate visioni della scienza civilistica.
A tal proposito, appare congruente estendere il discorso interattivo tra le due branche della scienza giuridica per ricordare l'opera di un finissimo giurista scozzese, Alan Watson (1933-2018), che da romanista e privatista, saggiò proficuamente le acque comparatistiche con l'intramontabile Legal Transplants e, nel successivo volume del 1977 Society and Legal Change (tradotto in italiano da Smorto e Riccardi in Evoluzione sociale e mutamenti del diritto, con la mia presentazione, Milano 2006), fissò alcune conclusioni proprio appuntate sul corpo del diritto privato (universalmente inteso). Tra queste vanno segnalate quella che nega la riferibilità all'ordinamento giuridico in senso formal-positivistico della capacità di rappresentare lo spirito di un popolo o le sembianze dell'etica o del sentimento sociale: al contrario, Watson addebita alla lentezza con cui il diritto privato nella sua accezione puramente normativa risponde alle novità costituite dalla modernizzazione la sua incapacità a tenervi il passo, concludendo che sarebbe illusorio immaginare che i codici civili in genere possano servire a riavvicinare l'ordinamento giuridico alla società (si veda la mia presentazione, pagg. XXI-XXIV).
Questa breve digressione offre convincente prova di quanto largo e condiviso sia il raggio di pensiero di Paolo Grossi attinente all'esigenza di ridefinire i confini ideali e pratici del diritto civile.
La trattazione che segue si manterrà nel tracciato descrittivo di molte (sarebbe sommamente difficile allungare lo sguardo verso tutte ed abbracciare nello studio anche prestigiosi studiosi di altre discipline quali Gino Giugni) delle figure dei civilisti italiano del XX secolo che più fedelmente hanno saputo interpretare la linea concettuale del pluralismo giuridico imbevuto della linfa vitale dell'esperienza sociale ed individuale. Si inizia questa fugace rassegna, del tutto inidonea a rappresentare altro che un semplice rinvio alla valutazione dell'opera dei giuristi di seguito menzionati che Grossi ne effettua nella cornice propria del volume, ricordando la grandezza del pensiero di Salvatore Pugliatti di cui viene lapidariamente riassunta, a pag.61, la concezione alla cui stregua la nozione di ordinamento giuridico è radicata nel sociale e si estende oltre il normativismo, proprio per recuperare complessità e pluralismo.
È, pertanto, del tutto naturale la citazione de “La giurisprudenza come scienza pratica “ del 1950 nella quale il Maestro messinese qualifica “l'esperienza giuridica come vita e storia degli uomini”, qualificando l'ordinamento giuridico “più che come un complesso sciolto di prescrizioni” “alla stregua di un sistema di istituzioni” in cui confluiscono logica e storia. Insistendo sulla rilevanza fondamentale dell'esperienza giuridica Pugliatti ne parla come insieme inscindibile di fatto e diritto, pervenendo alla conclusione che appaia difficile sostenere che “l'ordinamento giuridico si risolva senza residui nel sistema normativo”, in quanto esso “costituisce una realtà assai complessa, e concreta, quindi originaria: quella realtà oggettiva nella quale si danno inscindibilmente fatto e valore” (il nostro Autore, per contrappunto, a nota 20 di pag.67, inscrive l'altrettanto valente allievo di Pugliatti, Angelo Falzea che definisce “Il civilista più contraddistinto da una forte, quasi esasperata, dimensione teoretica”.
Ma, come si vedrà in seguito, all'Allievo di Falzea cui è dedicato il volume oggetto delle presenti riflessioni, Vincenzo Scalisi, viene accreditato il pregio di essere stato assertore convinto di un pluralismo giuridico dalle robuste basi ermeneutiche).
A Pietro Rescigno viene corrisposto il doveroso tributo rivolto a riconoscergli la capacità di inviare, nella sua lunga militanza accademica, robusti messaggi pluralisti e di riscoperta della dimensione, anche collettiva, del diritto civile. Testimone di quest'ultimo atteggiamento culturale viene giudicata, sin dal titolo, la prolusione maceratese del 1954 dedicata a “Sindacati e partiti nel diritto privato” e precorritrice della costante ricerca in tema di formazioni sociali. Ed ancora, in Rescigno viene identificato il lungimirante interprete delle vaste potenzialità applicative possedute dall'art.2 della Costituzione, di cui viene scolpito il contenuto garantistico per la persona, giacché il complesso delle formazioni sociali è impostato in rapporto frontale alla persona: teoria ben condensata nella proposizione secondo cui “la materia dei corpi sociali...appartiene per tradizione e per vocazione alla ricerca ed all'insegnamento dei civilisti”.
Nell'opera di Rescigno l'insegnamento istituzionistico di Santi Romano, giustamente e ripetutamente celebrato da Grossi in più occasioni, viene additato non già come una suggestiva architettura teorica inerente alla pluralità degli ordinamenti giuridici quanto, piuttosto, uno schema attuabile e da attuare perché è la nervatura stessa della Costituzione.
In questa continuità metodologica scandita lungo i decenni centrali del secolo scorso Grossi rivendica la conferma della solidità dell'impianto pluralistico dell'ordinamento giuridico. Alberto Trabucchi, giurista dai poliedrici interessi, è ricondotto nell'orbita dei civilisti più disponibili ad ascoltare il linguaggio pluralistico: il suo itinerario scientifico viene a pag.77 ss. ripercorso come dominato dal disagio per un diritto civile limitato entro le anguste muraglie dello Stato e delle sue leggi. Molto impressivo è il richiamo ad uno scritto del 1963 in cui Trabucchi si pronunciò nel senso di ritenere ormai tramontato il dogma della statualità come caratteristica essenziale del diritto, così come quattro anni prima aveva rilevato quanto avessero pesato, con la proprio ingombrante presenza, per oltre un secolo le aride dogmatiche costruite sul codice civile. Nello speciale tempio dei civilisti italiani partecipi dei due secoli che Grossi ha edificato all'insegna della molteplicità dei fattori, legali, sociali ed esperienziali, costitutivi del corpo vivo di quella branca della scienza giuridica non era pensabile, per più ragioni, che mancasse Stefano Rodotà. Egli, nel suo generoso, vibrante, incessante impegno culturale, accademico in senso stretto, socio-politico indirizzato a fare del fenomeno giuridico strumento di umanizzazione, eguaglianza e progresso delle vite delle donne e degli uomini che popolano la nostra collettività, ha sempre avvertito come tra le missioni del civilista andasse annoverata quella, nobilissima, della tensione al raggiungimento di nuove frontiere, non potendoglisi addire l'appagamento statico. Ed il più potente e formidabile alleato dello studioso teorico nel perseguimento di questa (“salvante” la chiama Grossi) missione va, come già annunciato in uno scritto del 1964,visto nella Costituzione e nelle sue norme “le quali hanno anche un significato positivo, quello cioè di riconoscere, nel quadro della nostra organizzazione sociale e politica, e di assumere a elementi fondamentali di questa, i principii e gli istituti essenziali che attengono ai rapporti interprivati e più in generale alla dignità e alla personalità umana”. E ciò perché, secondo il profondo studioso della responsabilità civile sussunta nella clausola generale della “ingiustizia del danno”, il diritto civile, nella sua efficienza vitale, non si esaurisce nei codici e nelle leggi che lo integrano”. Idea con fermezza ribadita nella prolusione maceratese del 1966 che si risolse nella reiezione della “chiusura formalistica pressocché totale” e nella riaffermazione del nucleo della sua ispirata visione che vuole che le norme costituzionali siano “direttive interne del sistema privatistico” che rivelano l'attitudine, come ad esempio nel caso di quelle racchiuse negli artt.2 e 42, a dar vita a clausole generali direttamente operative nelle relazioni interpersonali.
Due giuristi cattolici viventi, Nicolò Lipari e Pietro Perlingieri, si ascrivono da sé, in virtù delle loro lineari e saldissime posizioni, al gruppo scelto da Grossi di civilisti con chiare ed evolute propensioni pluralistiche nel senso più volte illustrato.
Del primo viene dato risalto alla prolusione barese del 1968 “Il diritto civile tra sociologia e dogmatica (riflessioni sul metodo)” nella quale traspare la sollecitazione al giurista posmoderno alla ricerca ed individuazione dei valori che si sviluppano nella società, implicitamente ma inequivocamente attraendo in tale cerchia quelli di derivazione costituzionale, destinati ad integrare in misura elevata il tessuto ordinamentale. La prolusione camerte del 1969 tenuta da Perlingieri (studioso che non ha mai dismesso la ricerca sulla conversione in senso costituzionale del diritto civile) su “Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare” ne fa emergere l'idea ruotante attorno alla percezione del diritto come esperienza e l'aspirazione ad evitarne l'allontanamento dal diritto vivente. Cospira a questa tendenza la ricchezza che possono offrire la comparazione e la storia.
Luigi Mengoni è un altro civilista (con precedenti esperienze didattiche anche in altre discipline in senso lato affluenti nell'universo privatistico) dalla coriacea caratterizzazione in termini di ancoraggio a principii fondativi fondamentali, poi felicemente fatti risaltare nel suo fruttuoso novennio di Giudice costituzionale, alla cui figura il testo che qui si presenta dedica accurata riflessione. È in Diritto e valori del 1985 che il giurista trentino riassume la propria consapevole ripulsa per l'unilateralità del metodo dogmatico tramandato dalla scuola pandettistica e denuncia l'inadeguatezza delle sintesi valutative cristallizzate nella struttura concettuale del sistema classico del diritto privato (come si dice a pag.100).
Ed invero, secondo questo pensiero, l'elaborazione del metodo, in quanto legata da un nesso stabile all'attività applicativa riferita al proprio oggetto, non è più soltanto delegabile al filosofo del diritto ma va riportata alla sfera di competenze del giuscivilista. Riflette l'dea appena riportata il dichiarato primato del problema sul sistema, in piena fedeltà alla nozione di metodo, e dei suoi riverberi attuativi, di cui si dice. Da tale complessa visione Grossi deduce lucidamente e persuasivamente la conseguenza che l'impostazione storicistica di Mengoni (su cui è indubbia l'impronta del pensiero di Giuseppe Capograssi rivolto al valore dell'esperienza giuridica) ha portato come esito un “vistoso pluralismo”, che a propria volta ha permesso di riscoprire la complessità del diritto e di affermare “l'esigenza di una legittimazione metalegislativa dell'ordine giuridico “ (pag.103) .
Scolpiscono l'intera vita scientifica ed il suo empito morale le parole scritte nel 1996 da Mengoni (e riportate a pag.105), al termine del suo novennio al Palazzo della Consulta calibrato sulla necessità di organizzare la ricerca civilistica in senso costituzional-centripeto: “La Costituzione rifiuta la riduzione positivistica della legittimità (ossia della giustizia) alla legalità, ma converte il problema della fondazione etica della legittimità in un problema giuridico”. Fulminata come una fiammata effimera, prodotto di fermenti ed inquietudini di fine secolo, la stagione del diritto alternativo, “cioè diritto politicizzato al servizio di interessi di classe” (pag.107 nota 3 ), l'Autore si dedica a più riprese, assecondando una illustrazione dalle scansioni ambivalenti (oscillante, cioè tra l'ammirazione per la lucentezza delle idee e la loro dislocazione remota rispetto ai fermi capisaldi pluralistico-esperienziali rischiarati dal tripode costituzionale) ai riferimenti alla dottrina, ed alle sue sequenze nel tempo, di Natalino Irti.
Squillo sonoro e fecondo viene, infatti, qualificato il messaggio della fine degli anni 1970 inerente all'età della decodificazione, intesa come “breccia aperta dalle leggi speciali nel sistema delle fonti “nonché quale “quotidiana e penetrante conquista di territori da parte delle leggi speciali”.
Per quanto promettente, il messaggio non intendeva decretare, ad avviso di Grossi, alcuna variazione nel paesaggio monistico, ossia statalistico e legalistico. Né l'approccio “neoesegetico” del 1982 viene interpretato come apertura verso un futuro pluralistico di riflessione tra i civilisti, scovandosi ancora nelle pieghe del discorso Irtiano l'esautorazione di ogni approccio autenticamente interpretativo del giurisperito e la lode da lui tributata, in occasione della nascita de Le nuove leggi civili commentate, dell'”esercizio del commentare” (pag.111).
L'irruzione nel bacino della tradizione civilistica delle figure nuove del mercato e del consumatore concorre alla configurazione di un mercato sempre più europeo e globale che si propone come un microcosmo di cui la comunità scientifica non tarda ad occuparsi.
Nel 2009 viene tenuta a battesimo, ad opera di Giuseppe Vettori, la rivista Persona e mercato, con il dichiarato intento di non legittimare il predominio del secondo sulla dignità del primo. Non è casuale questa insistita dichiarazione di principio. Ed infatti, nel 1998 Irti proponeva di “elaborare...un concetto giuridico del mercato e porlo al centro del nuovo diritto privato”, nel presupposto che “il dovere di solidarietà come enunciato nell’art.2 è insuscettibile di adempimento in quanto “la Costituzione ha bisogno della legge ordinaria”. Presupposto, fieramente contestato da altre correnti dottrinarie cui Grossi non fa mancare l'implicita adesione: vengono citate ancora una volta le posizioni di Mengoni e Perlingieri. Di quest'ultimo viene ricordata la eloquente e simbolica locuzione secondo cui va registrata la prevalenza delle situazioni esistenziali su quelle patrimoniali”, mentre al secondo va accreditata la nobile frase “lo stato sociale è un principio costituzionale” (democrazia pluralistica e stato sociale formano un binomio inseparabile: v. pag. 123 nota 11 del volume di Grossi). Grande è l'importanza annessa al convegno messinese del 2002 organizzato in onore di Angelo Falzea che segnò un risveglio culturale di fronte alle nuove sfide di inizio millennio poste, in particolare, dal progresso tecnologico. Lo stesso onorato, come viene ricordato a pag.125, mostrando la duttile capacità del proprio pensiero di adattarsi ai tempi nuovi ed alle relative esigenze, fu spinto a chiedersi “se l'ingresso delle nuove tecnologie e della nuova economia....nella realtà sociale e giuridica consente di utilizzare ancora le categorie dogmatiche del pensiero giuridico e gli istituti che si sono andati formando nel tempo”, constatando la “complessità del diritto”.
Paolo Grossi – nel segnalare l'effetto ricostitutivo sui modelli culturali dei giuristi esercitato dall”eurodiritto “ celebrato anche da Lipari – si addentra poi, a pag.135 ss., nel sentiero della globalizzazione giuridica, rilevandone l'essenza in un “ insieme di regole ed istituti che il capitalismo maturo ha inventato per disciplinare aspetti della prassi economica ignoti a codici, leggi, etc: disciplina osservata spontaneamente nel mercato globale sulla base di consuetudini, lodi arbitrali, etc.”
Nel soffermarsi sull'importante volume del 2017 della Giudice costituzionale di scuola pisana Emanuela Navarretta e sul tema (o forse dello “spettro”) di una società che “si autoregola”, lo Studioso fiorentino vede, come già testualmente riportato all'inizio, nel fenomeno l'aspetto fondamentalmente positivo consistente nella circostanza che l'auto-ordinarsi implica che la società operi una meditata cernita dei fatti e degli interessi solo meritevoli di essere tutelati e promossi, tenuto conto del fatto che si candidano e si presentano come valori della comunità. L'attualità perdurante della lezione di Capograssi (che, come notato inizialmente, giudica la scienza giuridica l'unica tra le fonti capace di ricomporre ad unità – spirituale e culturale – l'attuale pluralismo) viene da Grossi ritratta come espressione anticipatrice dell'analisi che affida alla Costituzione il ruolo di testo recante il sostrato valoriale che ha permesso di ritrovare più estesi confini dell'universo giuridico. Essa ben serve la causa di sterilizzare, o almeno mitigare, la portata del nichilismo giuridico che l'Autore vede come carattere distintivo del pensiero, manifestato in questo primo ventennio del XXI secolo, di Irti, laddove ritiene che tutto il diritto si risolva nella correttezza dei meccanismi procedurali, mentre le leggi sarebbero vasi vuoti suscettibili di ogni contenuto (pag. 151).
Grossi contrasta anche la teoria di Castronovo, espressa nello stimolantissimo volume intitolato Eclissi del diritto civile del 2015, che attraverso un meditato ed analitico passo, trascritto a pag. 156, avente ad oggetto il tema dell'introiezione nel “corpus iuris civilis” contemporaneo delle norme costituzionali, si limita ad assegnare ad esse la funzione di essere “regolative di poteri, non conformative di atti e rapporti come invece quelle di diritto privato”.
Lavori relativamente recenti di Lipari e dei compianti Vincenzo Scalisi e Giuseppe Benedetti, recentemente scomparsi, e del brillante allievo di quest'ultimo, Giuseppe Vettori (di cui Grossi riporta, nelle due ultime pagine finali, questa esplicativa frase: del volume del 2020 “non è dubbio che il diritto ha oggi una flessibilità sconosciuta in passato. In questo contesto occorre prestare molta attenzione al valore della certezza e della prevedibilità....ma questi fondamenti essenziali vanno storicizzati e non sono più assicurati solo dalla legge”) continuano a svilupparsi lungo itinerari pluralistici nei quali, tra l'altro, viene ancora una volta ad affiorare la rassicurante immagine dello “Stato sociale di diritto”.
5. Una breve nota finale
Il libro di Grossi si chiude mediante il sigillo circolare della continuità ideale che lo ha percorso dal prologo all'epilogo. Il diritto civile inteso sia come disciplina speculativa sia come ordine normativo non può concepirsi né vivere separato dal suo collegamento con i plurimi fattori che ne influenzano lo sviluppo che, per questo, vanno tenuti costantemente presenti in qualsiasi elaborazione dottrinaria al pari delle decisioni giudiziarie. Queste, in particolare, non possono non recepire gli influssi, i complementi, gli stimoli che hanno origine nella composita realtà sociale, nelle sue forme organizzative, nel sistema di valori e principii che sgorgano dalla Costituzione e sono ormai entrati a far parte del tessuto costitutivo della nostra comunità. La loro esclusione preconcetta o il loro relegamento nella sfera dell'irrilevanza giuridica si risolverebbe, traendo le conclusioni, nel prolungamento di quella stagione asfittica che, secondo Grossi, ha attraversato la civilistica italiana e che, oggi sempre più sovente, trova riscatto nella sublimazione giurisprudenziale delle norme costituzionali e nell'irrobustimento dell'attività ermeneutica svolta beneficamente ad ogni livello, ed in special modo onorando “il mestiere del Giudice”.
In conclusione, il lettore sarà rinfrancato dal contatto con un libro denso, corposo, vivace che rinvigorisce il senso dell'immersione del fenomeno giuridico “in the books” negli sconfinati ed affascinanti abissi dell'esperienza sociale “in action”.
Ed allora, sembra voler dire l'Autore, una nuova civilistica dalla espansa cornice di riferimento, dal rinnovato apparato storicistico, dall'elevamento della persona umana al ruolo primario nel teatro degli accadimenti giuridicamente rilevanti e dal più ampio numero di suoi cultori con inclinazioni pluralistiche, è possibile e benvenuta.
La Corte edu interviene sull’assetto del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nell’ordinamento turco. Alcune riflessioni a margine per un confronto con l’attuale panorama italiano. Nota a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Eminağaoğlu c. Turchia, 9 marzo 2021, ric. n. 76521/12
di Viviana Di Nuzzo*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda all’esame della Corte e l’assetto del potere giudiziario in Turchia. – 2. La riconosciuta violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Turchia: il diritto ad avere accesso ad un tribunale. – 3. L’utilizzabilità in sede disciplinare di intercettazioni disposte in altro procedimento. 3.1. La violazione dell’art. 8 Cedu da parte della Turchia. – 3.2. La soluzione delle Sezioni Unite della Cassazione civile italiana sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite aliunde nel procedimento disciplinare davanti al CSM. – 4. La mancanza di effettive e adeguate garanzie nella limitazione della libertà di espressione. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda all’esame della Corte e l’assetto del potere giudiziario in Turchia
Nella sentenza in esame la Corte europea dei diritti dell’uomo affronta il delicato tema del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nel contesto dell’ordinamento turco, fornendo un’utile occasione per riflettere sul livello di tutela delle garanzie di indipendenza e imparzialità dei rappresentanti del potere giudiziario negli Stati contraenti. La Corte, difatti, riconosce la violazione di tre norme convenzionali da parte della Turchia: in particolare, l’art. 6, § 1, in riferimento al mancato riconoscimento della possibilità di accedere ad un tribunale a seguito di sanzione disciplinare; l’art. 8 per l’illegittima utilizzazione ai fini del procedimento disciplinare di intercettazioni disposte invece nell’ambito di un procedimento giurisdizionale di natura penale; infine, l’art. 10 in relazione alla carenza di adeguate garanzie processuali nella limitazione delle libertà di espressione a tutela del ricorrente. Invero quest’ultimo, in qualità di giudice ad Istanbul e di chair di un’associazione di magistrati, Yarsav, era stato sottoposto alla sanzione del trasferimento, una delle più gravi tra quelle previste dall’ordinamento giudiziario interno in queste ipotesi, al termine di un procedimento disciplinare instaurato dal Consiglio Superiore dei Giudici e dei Procuratori (High Council of Judges and Prosecutors, ossia HSYK, dalle iniziali del nome dell’organo in lingua turca) a seguito di alcune dichiarazioni che lo stesso aveva rilasciato sia alla stampa sia nell’ambito di conversazioni telefoniche private soggette ad intercettazione.
La pronuncia appare di grande rilevanza non solo perché consente di analizzare diversi e interessanti profili in merito alle violazioni riscontrate dai giudici di Strasburgo ma anche perché costituisce una proficua occasione per una riflessione da una diversa prospettiva sull’attuale configurazione del potere giudiziario italiano, scosso di recente da alcune vicende di particolare interesse giuridico, che hanno ricevuto un considerevole impatto mediatico, nate proprio dalla captazione di conversazioni tra esponenti della magistratura e parzialmente riconducibili agli argomenti affrontati nel caso in esame.
Peraltro, a distanza di un mese dalla decisione della Corte edu contro la Turchia, le Sezioni Unite Civili hanno depositato le motivazioni di una rilevante pronuncia, in cui veniva riconosciuta nei confronti dei magistrati la piena utilizzabilità per finalità disciplinari delle risultanze di intercettazioni legittimamente disposte ed effettuate nell’ambito di un procedimento penale[1].
Già da ora pare indispensabile sottolineare un significativo punto di divergenza tra l’impostazione della Corte di Cassazione e quella approntata dai giudici europei: mentre la prima ha riconosciuto piena natura giurisdizionale al procedimento disciplinare a carico dei rappresentanti della magistratura[2], la Corte di Strasburgo nel caso Eminağaoğlu ha escluso la giurisdizionalità dell’organo che ha emesso la sanzione disciplinare, rilevando al contempo la mancata previsione della facoltà di ricorrere ad un organo giurisdizionale per ottenere la revisione della decisione di trasferire l’interessato, qualificata dal diritto nazionale come di natura amministrativa.
Per meglio comprendere tanto quest’ultima considerazione relativa alla natura dell’HYSK quanto il ragionamento della Corte e le soluzioni decisorie cui essa perviene, pare comunque indispensabile ripercorrere rapidamente la vicenda da cui è scaturito il ricorso a Strasburgo, con qualche riferimento all’ordinamento giudiziario turco.
Nell’ambito di un procedimento penale vòlto ad accertare l’identità degli associati di una presunta organizzazione criminale, conosciuta con il nome di “Ergenekon”, la Corte d’Assise di Istanbul autorizzava la captazione telefonica del giudice Eminağaoğlu per un periodo limitato di tre mesi, ai sensi della Legge n. 2802 sui magistrati[3]. A seguito di tale attività investigativa, che non comportava alcuna conseguenza penale per il ricorrente, il 30 ottobre 2009 il Ministro della Giustizia dava avvio al procedimento disciplinare nei suoi confronti per il fatto di aver compromesso con alcune sue dichiarazioni il decoro e l’onore della professione e di aver dismesso la propria dignità e il rispetto. Gli veniva contestato, in particolare, di aver esercitato una certa influenza, attraverso asserzioni di natura politica e avvalendosi della propria posizione, sullo svolgimento del processo in corso relativo al caso “Ergenekon”. Poiché veniva irrogata la sanzione disciplinare del trasferimento, il giudice si rivolgeva in sede d’appello all’Assemblea Plenaria, che però non modificava la misura sanzionatoria, pur ammettendo che alcune delle intercettazioni su cui si basava la decisione della Seconda Sezione dell’HYSK non erano caratterizzate da una serietà tale da determinare una pronuncia sfavorevole all’interessato.
A questo punto, la decisione impositiva del trasferimento divenne definitiva; tuttavia, nel 2015 l’Assemblea Plenaria procedette ad una revisione della sanzione imposta, sulla scorta di una novella legislativa che era intervenuta l’anno precedente e che consentiva la possibilità di richiedere una rivalutazione delle sanzioni emesse in un arco di tempo comprendente anche il periodo in cui si era svolto il procedimento a carico di Eminağaoğlu, il quale riuscì quindi a beneficiare di una modifica della sanzione, ricevendo un richiamo formale.
La Corte europea peraltro non ha escluso la lesione dei diritti facenti capo al ricorrente per il solo fatto che fosse intervenuta una sostituzione della misura sanzionatoria, dal momento che il trasferimento prescritto inizialmente aveva certamente leso rilevanti interessi del soggetto coinvolto.
Il ragionamento della Corte ha messo in evidenza la sostanziale carenza di garanzie di indipendenza e imparzialità dei giudici e dei procuratori in Turchia: difatti, non è prevista nei loro confronti alcuna possibilità di ricorrere ad un tribunale, tanto in senso formale quanto sostanziale, in caso di sanzioni disciplinari imposte a seguito di esternazioni che, seppur ricadenti sotto la copertura del diritto ad esprimere liberamente il proprio pensiero, certamente potevano avere delle ripercussioni sull’intero sistema giudiziario, data la posizione rivestita dal ricorrente. Quest’ultimo, invero, aveva manifestato opinioni forti e dal contenuto compromettente nei confronti di alcuni colleghi che, nell’ambito dell’indagine “Ergenekon”, avevano, a suo dire, esercitato i propri poteri in maniera non del tutto conforme al diritto interno, insinuando il dubbio che si fossero verificate violazioni dei diritti fondamentali di chi aveva subíto misure cautelari o atti investigativi[4].
L’apparato motivazionale della sentenza richiama frequentemente il ruolo preminente che la magistratura riveste in una società democratica e il legame speciale di fiducia e lealtà (“special bond of trust and loyalty”) che sussiste tra i funzionari pubblici e lo Stato; proprio per tale ragione e anche in virtù dell’esigenza di garantire l’indipendenza del sistema giudiziario, la Corte ricorda che rientra tra le sue prerogative il dovere di prestare particolare attenzione alla protezione dei magistrati quando si trova ad esaminare l’adeguatezza convenzionale dei procedimenti disciplinari che li riguardano (par. 76). E tale protezione non può non tener conto dell’incidenza che l’uso sempre più diffuso di strumenti captativi comporta anche a detrimento della libertà di comunicazioni di soggetti che ricoprono tale ruolo istituzionale. Proprio questo profilo merita una scrupolosa analisi e soprattutto fornisce l’occasione per una comparazione con l’ordinamento italiano, nel quale la citata sentenza delle Sezioni Unite Civili ha considerato utilizzabili a fini disciplinari le risultanze dell’attività captativa disposta in sede penale, non operando in tale ipotesi il divieto di cui all’art. 270 c.p.p. I rinvii della Cassazione alla sentenza Eminağaoğlu, d’altronde, consentono di apprezzare un chiaro esempio di dialogo transgiudiziale, offrendo all’interprete la possibilità di verificare se esso costituisca un avanzamento della tutela dei diritti e delle garanzie fondamentali[5].
Queste considerazioni introduttive tracciano dunque la direzione del presente commento, il quale mira ad analizzare le ragioni sottese alle violazioni riscontrate, sollecitando una riflessione sull’importanza rivestita dalle garanzie di indipendenza e imparzialità della giurisdizione anche nel nostro ordinamento, seppur tenendo conto delle peculiarità proprie di due sistemi di giustizia penale profondamente diversi tra loro.
2. La riconosciuta violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Turchia: il diritto ad avere accesso ad un tribunale
Un proficuo punto di partenza per procedere ad una siffatta analisi si rinviene nella violazione della disposizione di cui all’art. 6, § 1, Cedu, nella parte concernente il diritto di accesso ad un tribunale, anche alla luce del fatto che è a tale profilo che la sentenza in esame ha dedicato maggior spazio.
La Corte sin da subito riconosce di aver sviluppato nel corso degli anni una giurisprudenza caratterizzata da un ampio approccio a questa fondamentale garanzia, così da far rientrare sotto la copertura di tale previsione convenzionale tutti quei casi nei quali, sebbene all’apparenza non siano in gioco diritti civili, sussista comunque una significativa ripercussione su un diritto privato di natura pecuniaria o meno. Questa impostazione ha permesso ai giudici di Strasburgo di estendere l’applicazione del diritto ad un equo processo dall’ambito delle sole controversie civili a questioni che gli Stati contraenti possono inquadrare come controversie pubbliche (par. 60)[6].
Applicando il test elaborato nella sentenza Vilho Eskelinen, necessario per determinare se una questione sorta tra lo Stato e i suoi dipendenti pubblici ricada sotto la lente dell’art. 6, la Corte esamina il ricorso alla luce dei principi espressi in tale previsione[7]. Essa prende così in considerazione il fatto che la Turchia ha categoricamente escluso l’accesso ad un tribunale per tutte le tipologie di misure disciplinari contro giudici e procuratori; in particolare, il Governo turco non ha dimostrato che l’esclusione fosse giustificata da un rilevante interesse nazionale, non essendo peraltro sufficiente a legittimare tale mancanza il rapporto tra Stato e funzionari giudiziarî (par. 80).
A tal proposito, i giudici europei evidenziano che la sanzione disciplinare emessa nei confronti del giudice turco non è stata sottoposta al vaglio di alcun organo giurisdizionale, il che ha causato dunque una evidente lesione del suo diritto a ricorrere ad un tribunale. Infatti, l’HSYK nel sistema giuridico domestico non è considerato un “tribunale”, bensì un organo costituzionale che esercita i propri poteri nel rispetto del principio di indipendenza (par. 94). Ma anche volendo provare a superare la qualificazione formale e privilegiando invece una prospettiva che guardi alla sostanza delle sue funzioni, la Corte esclude la giurisdizionalità sia della Seconda Sezione dell’HSYK sia dell’Assemblea Plenaria, dal momento che i procedimenti disciplinari davanti a tali organi non godono delle garanzie che la Convenzione europea richiede per qualsiasi procedimento di fronte ad una corte ordinaria.
A differenza di quelle ipotesi in cui segue ad una sanzione amministrativa il controllo giurisdizionale assistito dalle garanzie previste dall’art. 6 Cedu, nella fattispecie i giudici di Strasburgo non hanno dunque riscontrato alcuna verifica da parte di un organo con funzione di giudice[8].
A ben diversa conclusione sarebbe probabilmente giunta la Corte con riferimento all’ordinamento italiano, dove, come già notato, è stato ampiamente riconosciuto che il procedimento disciplinare dei magistrati ha natura giurisdizionale ed è connotato da un carattere di specialità derivante dalla particolare funzione cui esso assolve, che consiste nel dovere di vigilare sulla corretta condotta dei magistrati per alimentare nei consociati la massima fiducia nell’ordinamento giudiziario[9]. Da qui discende anche la necessità di rispettare durante l’intero procedimento il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, egualmente tutelati dalla Carta Costituzionale e dalla Convenzione europea.
Sulla configurazione del giudizio disciplinare italiano, d’altronde, la Corte di Strasburgo si era pronunciata, tra l’altro, nel caso Di Giovanni, in occasione del quale, applicando il citato “Vilho Eskelinen test”, aveva affermato che il ricorso rilevava sotto il profilo civilistico dell’art. 6[10]; essa, inoltre, aveva confermato la piena giurisdizionalità dell’organo decidente, la cui pronuncia era stata oggetto di censure anche dinanzi alla Corte di Cassazione.
Emerge subito la differenza di approccio ad un simile tema dei due ordinamenti nazionali considerati, profondamente dissimili tra loro, soprattutto quando vi sia in gioco l’operazione di bilanciamento tra rilevanti interessi statali e diritti fondamentali dei cittadini. Se infatti il sistema turco, valorizzando quello special bond che intercorre tra lo Stato e i funzionari pubblici, consente l’irrogazione di una sanzione disciplinare anche in assenza di un controllo giurisdizionale, l’ordinamento giudiziario italiano riesce ad assicurare la piena indipendenza e imparzialità dell’organo deputato al procedimento disciplinare dei magistrati. Si spiega così perché la stessa Corte europea - nel giudicare il ricorso Di Giovanni in merito all’indipendenza e imparzialità, quest’ultima esaminata sia sotto un profilo soggettivo sia sotto un profilo oggettivo, dei giudici del Consiglio Superiore della Magistratura - non avesse riscontrato la possibilità di sollevare alcun dubbio in merito[11].
Del resto, proprio la rilevanza del potere giudiziario per la tenuta di uno Stato democratico e improntato al principio di separazione dei poteri richiede che la disciplina del procedimento a carico dei magistrati costituisca il risultato del bilanciamento effettuato tra l’esigenza, per un verso, di accertare e sanzionare la responsabilità disciplinare e, per altro verso, il rispetto del diritto di difesa del magistrato e di parità delle armi anche in tale contesto. L’impossibilità, in Turchia, di richiedere e ottenere che a pronunciarsi su provvedimenti disciplinari sia un organo giurisdizionale solleva seri dubbi in merito all’effettività della tutela spettante al soggetto interessato e, soprattutto, circa il pieno rispetto di tutte le garanzie proprie di un processo equo.
3. L’utilizzabilità in sede disciplinare di intercettazioni disposte in altro procedimento
La Corte ha poi esaminato un ulteriore profilo di non minore impatto sistematico, concernente la legittimità dell’uso ai fini del procedimento disciplinare di intercettazioni che erano state disposte nell’ambito di un procedimento penale. Nel caso di specie, l’indagine penale relativa all’organizzazione criminale “Ergenekon”, durante la quale erano state intercettate le conversazioni telefoniche del giudice Eminağaoğlu, si era conclusa con un’archiviazione in favore del ricorrente, al quale poi venne solamente notificata, al termine delle operazioni, una nota informativa con riguardo alla distruzione dei risultati ottenuti attraverso l’attività captativa disposta sull’utenza telefonica a lui intestata.
Tuttavia, una copia dei files era stata inviata all’organo disciplinare e aveva permesso l’avvio del procedimento sfociato nella sanzione del trasferimento.
La rilevanza di tale questione sollecita un’attenta riflessione anche in ragione all’attualità del tema nel panorama italiano, dove la giurisprudenza ha più volte affrontato il problema relativo all’utilizzabilità delle intercettazioni in procedimento diverso da quello in cui venivano autorizzate, imponendo da ultimo l’intervento delle Sezioni Unite Civili proprio rispetto al loro impiego a fini disciplinari avverso giudici e pubblici ministeri.
3.1. La violazione dell’art. 8 Cedu da parte della Turchia
Nell’affrontare la lesione dell’art. 8 Cedu, la Corte europea richiama la giurisprudenza del caso Karabeyoğlu, in occasione del quale i giudici di Strasburgo avevano rilevato un’illegittima ingerenza da parte dell’autorità pubblica turca nei confronti del ricorrente. Quest’ultimo, analogamente alla vicenda in esame, aveva subíto un procedimento disciplinare dove erano state prese in considerazioni alcune intercettazioni, originariamente autorizzate in sede penale[12].
Riprendendo le considerazioni svolte nel 2016, la pronuncia in esame sottolinea che l’inosservanza della norma convenzionale discende dall’uso delle intercettazioni in maniera non conforme al diritto interno, in quanto le risultanze dell’attività di captazione erano state utilizzate al di fuori dello scopo per cui erano state acquisite (par. 161). Il ricorrente, peraltro, aveva ricevuto una lettera in cui veniva informato della distruzione dei files, ma, come evidenzia la Corte, indubbiamente una copia era rimasta a disposizione delle autorità inquirenti che la trasmettevano all’organo disciplinare.
In un’epoca in cui il progresso tecnologico comporta un utilizzo esponenziale di mezzi investigativi sempre più sofisticati, i quali hanno assunto un’estensione tale da sollevare non poche preoccupazioni, la decisione della Corte si pone nel solco della giurisprudenza europea che mira ad un progressivo rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali degli individui, consentendone restrizioni, in una società democratica, solo in presenza di rilevanti interessi generali e in linea con i principi di proporzionalità e legalità[13].
È evidente che la circolazione del materiale probatorio accentua i rischi connessi all’uso di informazioni ottenute mediante tale mezzo di ricerca della prova nei confronti delle persone indagate e, ancor più di soggetti terzi, quand’anche questi non siano destinatari in via diretta della captazione; difatti, individui formalmente estranei all’indagine penale rischiano di dover subire forti restrizioni nell’esercizio dei propri diritti fondamentali, primo tra tutti la libertà e la segretezza delle comunicazioni, i quali risulterebbero fortemente compromessi da un simile potenziale invasivo per la sola circostanza che i terzi abbiano intrattenuto conversazioni con la persona sottoposta all’atto acquisitivo[14].
Si consideri inoltre che, qualora l’intercettazione si rivolga nei confronti di esponenti della magistratura, verosimilmente la diffusione di comunicazioni private rischia di diventare ingestibile e incontrollata, dato il rilievo mediatico che assumono le vicende riguardanti i rappresentanti del potere giudiziario.
Dal ragionamento adottato dalla Corte emerge dunque la pericolosità dell’attività intercettativa nei confronti di soggetti che ricoprono un ruolo di rilevanza preminente all’interno di uno Stato democratico e che svolgono una funzione statale imprescindibile, la quale dovrebbe essere sorretta da garanzie tali da salvaguardare l’imparzialità e l’indipendenza del magistrato sottoposto al procedimento disciplinare.
Potremmo dunque ipotizzare che la sanzione disciplinare nel procedimento turco non sia stata emessa, come dichiarato dal Governo domestico, perché il ricorrente aveva causato un pregiudizio alla dignità della categoria professionale cui apparteneva, bensì per il contenuto effettivo delle sue dichiarazioni, che denunciavano alcune irregolarità nella conduzione del procedimento penale “Ergenekon”, avente ad oggetto un’organizzazione criminale accusata di aver ordito un piano per compiere un colpo di Stato.
Peraltro, l’ordinamento giuridico interno non ammette, in linea di principio, la trasmigrazione dei brogliacci dal procedimento penale a quello disciplinare, il quale risulta sfornito delle garanze tipiche della funzione giurisdizionale. Alla lue di ciò, la declaratoria dell’avvenuta violazione dell’art. 8 risulta perfettamente coerente, se si pensa che il giudice turco, oltre ad aver subíto inconsapevolmente l’acquisizione dei dati relativi al suo traffico telefonico, non aveva avuto modo di ricorrere ad un tribunale ordinario o comunque ad un organo giurisdizionale per poter censurare l’uso illegittimo di tali prove, che non erano state effettivamente distrutte, come invece gli era stato comunicato.
3.2. La soluzione delle Sezioni Unite della Cassazione civile italiana e sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite aliunde nel procedimento disciplinare davanti al CSM
Questioni analoghe a quelle poste all’attenzione della Corte europea hanno affrontato anche le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione italiana nell’analizzare il problema dell’utilizzo nel procedimento disciplinare di risultati di attività captative eseguite in sede penale. Per tale ragione, giudicando il ricorso di un magistrato che aveva subíto la sospensione cautelare dalla funzione e dallo stipendio sulla base di risultati captativi provenienti da altra sede, la sentenza non poteva esimersi dal citare la decisione resa in merito al caso Eminağaoğlu, unitamente ad altri rilevanti precedenti giurisprudenziali provenienti da Strasburgo[15]. I giudici della Cassazione si avvalgono delle argomentazioni formulate a Strasburgo per avvalorare la tesi dell’utilizzabilità nel procedimento disciplinare delle intercettazioni disposte in sede penale, escludendo che in tali ipotesi sussista un contrasto degli artt. 16 e 18 del d.lgs. 109 del 2006 con l’art. 8 Cedu e contestualmente affermando la manifesta infondatezza della questione di legittimità rispetto all’art. 117 Cost. (par. 38); alla stessa conclusione giungono anche rispetto alla valutazione concernente il supposto contrasto tra le stesse norme e gli artt. 15 e 24 Cost.
In effetti tali previsioni contengono una clausola di compatibilità, in quanto operano un richiamo alle norme del codice di procedura penale concernenti sia le attività di indagine sia lo svolgimento del dibattimento. La ratio di tali previsioni risiede nella necessità di salvaguardare le specificità del giudizio disciplinare che, sempre nel rispetto del diritto di difesa della persona incolpata, deve garantire «l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari dei magistrati demandata dall’art. 105 Cost. al Consiglio Superiore della Magistratura»[16].
Proprio tali disposizioni costituiscono, secondo l’impostazione della sentenza, la via d’ingresso nel procedimento disciplinare dei risultati di intercettazioni effettuate in sede penale, compatibilmente con quanto disposto dall’art. 270 c.p.p. e in virtù di un bilanciamento tra la necessità di preservare l’inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni e la specialità del giudizio sulla responsabilità dei magistrati.
Ed è proprio tale ultimo punto che fa sorgere alcune perplessità. Le attività intercettative devono essere eseguite nel rispetto dei diritti fondamentali, i quali potrebbero essere limitati solo compatibilmente con la riserva di legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ci si chiede dunque se e in che misura le disposizioni contenute negli artt. 16 e 18 possano comportare in modo costituzionalmente orientato l’utilizzo delle intercettazioni in sede disciplinare.
Autorevole dottrina dubita della possibilità che la compressione di diritti fondamentali possa discendere da clausole di compatibilità, lasciando intendere che il rinvio alle norme del codice di rito potrebbe non pienamente soddisfare la riserva di legge, trattandosi di una estensione in malam partem del dettato codicistico che richiederebbe invece l’intervento del legislatore[17].
Si potrebbe obiettare che nell’ambito del procedimento penale la limitazione del diritto alla libertà e riservatezza delle comunicazioni della persona intercettata, in linea di principio, può avvenire solo nel rispetto delle garanzie costituzionali, visto che le previsioni codicistiche in materia richiedono comunque un intervento (di regola previo o, eccezionalmente, successivo) del giudice. Dunque, in quella sede l’interessato - e anche qui potrebbe aprirsi un amplissimo dibattito sul soggetto titolare della legittimazione attiva e sui diritti a lui spettanti - avrebbe la possibilità di eccepire eventuali invalidità nell’attività di ricerca della prova, dal momento che egli è assistito dalle tutele approntate dal legislatore in riferimento alla disciplina in questione.
Sennonché una simile impostazione appare eccessivamente restrittiva perché l’utilizzazione nell’ambito di un diverso procedimento, avente carattere extrapenale, dei risultati investigativi amplifica i rischi di restrizione di libertà costituzionalmente garantite, anche e soprattutto laddove l’uso sia diretto nei confronti di soggetti estranei al procedimento penale che non abbiano avuto alcuna possibilità di contestare vizi dell’attività di captazione.
In altre parole, vero è che la limitazione si verificherebbe in presenza dei presupposti richiesti dal dettato costituzionale, ma è altrettanto vero che i dati così acquisiti avrebbero delle ripercussioni all’interno di un procedimento sfornito delle stesse garanzie, quale quello concernente la responsabilità dei magistrati.
Al fine di rendere compatibili tali disposizioni con l’assetto costituzionale, le Sezioni Unite, richiamando la propria giurisprudenza[18] e raffrontandola con le indicazioni provenienti in materia dalla Corte europea, hanno ribadito la non operatività del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati, facendola derivare dal carattere di specialità proprio di questa tipologia di accertamento. La Corte nel suo massimo consesso ha, nell’ultimo decennio, radicalmente escluso l’esistenza di preclusioni vòlte all’uso nel procedimento disciplinare delle risultanze di intercettazioni svolte aliunde, sulla scorta della considerazione che il pubblico ministero gode di un ampio potere di indagine finalizzato a svolgere un controllo penetrante sulla correttezza dei comportamenti tenuti dai rappresentanti del potere giudiziario.
Un così consistente potere investigativo non può tuttavia sfociare in lesioni ingiustificate di diritti fondamentali, dovendo sempre garantirsi quel bilanciamento tra l’interesse generale ad accertare e reprimere gli illeciti disciplinari dei magistrati e l’interesse del singolo a veder rispettati i propri diritti e a poter ricorrere ad un giudice per censurare profili di illegittimità.
Su quest’ultimo punto, la Cassazione ha sancito la facoltà in capo all’interessato di eccepire nel procedimento ad quem la mancanza o l’illegalità del provvedimento autorizzativo disposto nel procedimento a quo, «in ragione dei richiami al codice di procedura penale contenuti negli articoli 16 e 18 del decreto legislativo n. 109/2006» (par. 26)[19].
È chiaro che la soluzione delle Sezioni Unite fosse finalizzata a recuperare un controllo di legalità del dato probatorio così acquisito e dal cui utilizzo potrebbero discendere sanzioni disciplinari, anche abbastanza gravi, per l’incolpato. La supervisione del giudice disciplinare in questo modo funge da garanzia per assicurare che tale procedimento si svolga in modo giusto ed equo e sia improntato al rispetto del diritto di difesa del soggetto interessato.
In merito a questo profilo si coglie la differenza di soluzioni tra le Sezioni Unite Civili italiane e la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Eminağaoğlu: i giudici di Strasburgo, invero, hanno riconosciuto la violazione dell’art. 8 Cedu perché innanzitutto la legislazione turca non prevede la possibilità di far circolare le prove acquisite tramite intercettazione dal procedimento penale a quello disciplinare. Si consideri, inoltre, che l’accertamento relativo alla responsabilità disciplinare dei magistrati, in quell’ordinamento, non ha natura giurisdizionale, come sopra chiarito, per cui le garanzie poste a tutela della persona risulterebbero limitate in misura eccessiva. D’altra parte, neppure l’asserita distruzione dei files era stata sufficiente a tutelare la posizione del giudice interessato, dal momento che comunque una copia era giunta all’attenzione dell’organo disciplinare.
Al di là delle differenze sostanziali tra le due decisioni, dovute non solo alle peculiarità degli ordinamenti giuridici considerati ma anche alle tipologie di giudizio che le due Corti sono chiamate a rendere, il profilo maggiormente problematico attiene alla circolazione al di fuori dell’ambito penale dei risultati dell’attività intercettativa che, seppur disposta nel rispetto delle garanzie costituzionali e nei limiti previsti dalla legge, finisce comunque col produrre una non trascurabile ingerenza dell’autorità pubblica nella sfera privata dei cittadini, determinata dall’utilizzazione in diversa sede processuale delle informazioni captate nell’ambito del procedimento penale.
L’art. 270 c.p.p., per la delicatezza della questione che disciplina, necessiterebbe forse di un intervento del legislatore che dovrebbe specificare con maggior precisione sia in quali procedimenti possano confluire le risultanze investigative derivanti dalla captazione sia i limiti soggettivi e oggettivi di acquisizione ed utilizzabilità ultra fines degli esiti della circolazione probatoria[20].
Il tema in esame, comportando un indebolimento del diritto alla riservatezza delle comunicazioni, costituzionalmente tutelato, impone che il provvedimento autorizzativo dell’intercettazioni venga emesso solo qualora sia strettamente necessario e comunque nel rispetto del canone di proporzionalità[21]. E, forse, un risultato positivo nella direzione di una tutela maggiormente effettiva si potrebbe ottenere introducendo un obbligo in capo alle autorità procedenti di rispettare analoghi requisiti anche ai fini dell’acquisizione dei dati così ottenuti in procedimenti diversi da quello a quo, affinché ne risultino rafforzati i presidi di salvaguardia dei diritti fondamentali coinvolti da tali strumenti probatori.
4. La mancanza di effettive e adeguate garanzie nella limitazione della libertà di espressione
Rimane da accennare al punto della decisione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo relativo alla dedotta violazione dell’art. 10 Cedu. La pronuncia riconosce infatti che la Turchia non ha garantito al magistrato Eminağaoğlu adeguati ed effettivi strumenti di salvaguardia da abusi connessi alle restrizioni del diritto a manifestare le proprie opinioni, imponendo a suo carico la sanzione del trasferimento per delle dichiarazioni pubbliche che egli aveva rilasciato in diverse sedi in merito alla conduzione dell’indagine “Ergekenon” da parte di altri giudici.
La Corte ricorda che i rappresentanti del potere giudiziario incontrano dei limiti nell’esercizio del diritto ad esprimere liberamente la propria opinione in tutti quei casi in cui entrino in gioco l’autorità e l’imparzialità dell’ordinamento giudiziario (par. 121).
Nella fattispecie - notano i giudici - la sanzione disciplinare imposta al ricorrente derivava dal fatto che lui avesse rilasciato dichiarazioni pubbliche, non essendo connessa all’esercizio della funzione; quindi è sicuramente configurabile un’interferenza con il godimento dei diritti discendenti dall’art. 10 della Convenzione. Resta dunque da verificare se tale interferenza sia giustificabile ai sensi della previsione di cui al § 2 dello stesso articolo. A tal proposito, la valutazione che emerge dalla pronuncia accerta che la restrizione del diritto fondamentale coinvolto era disciplinata dalla legge (la n. 2802) e perseguiva l’obiettivo di mantenere l’autorità e l’imparzialità dei giudici.
Bisogna però considerare che le dichiarazioni del ricorrente riguardavano questioni oggetto di un dibattito di interesse generale, legato alle modalità con cui si stava svolgendo un procedimento penale e ad un asserito collegamento tra i magistrati procedenti e il Governo. Tuttavia, agli occhi della Corte la decisione dell’organo disciplinare risultava carente di un’adeguata motivazione in ordine al profilo relativo al pregiudizio causato dalle dichiarazioni del magistrato alla dignità e all’onore della professione. Non solo; perché unitamente a tale omissione i giudici di Strasburgo hanno tenuto conto della non giurisdizionalità dell’HSYK, per cui il ricorrente non ha avuto modo di essere sentito da un giudice con le garanzie del contraddittorio. Dunque, non è stata correttamente compiuta la necessaria operazione di bilanciamento richiesta dalla Convenzione per compensare la limitazione del diritto ad esprimere il proprio pensiero nella vicenda de qua.
La Corte ha colto l’occasione fornita dalla fattispecie in esame per reiterare la necessità che ogni ordinamento democratico trovi quel punto di equilibrio imprescindibile tra le garanzie di terzietà e imparzialità dei magistrati e il diritto di questi ad esprimere le loro opinioni, senza in alcun modo pregiudicare la categoria professionale di cui fanno parte. Un esempio in tal senso è proprio il noto caso Palamara, che nell’ultimo anno ha interessato l’ordinamento giudiziario italiano a seguito delle intercettazioni di comunicazioni del dottore Luca Palamara, membro del CSM, e delle dichiarazioni che lo stesso aveva reso in merito all’esistenza di un presunto “sistema” che gestiva le nomine dei magistrati a incarichi direttivi.
5. Considerazioni conclusive
La disamina delle complesse questioni affrontate dalla Corte europea consente di formulare alcune osservazioni conclusive.
La dedotta violazione dell’art. 6, §1, Cedu sul mancato riconoscimento del carattere giurisdizionale in capo all’organo di autogoverno della magistratura turca ha avuto un effetto dirimente sulle declaratorie relative alle violazioni delle altre due disposizioni convenzionali, l’art. 8 e l’art. 10. Difatti, la limitazione dei diritti fondamentali tutelati da tali ultime previsioni può avvenire solamente nel rispetto dei requisiti richiesti dal sistema convenzionale e assicurando al singolo la possibilità di poter partecipare effettivamente ad un processo dotati di carattere giurisdizionale.
Nel caso in esame, quindi, proprio l’assenza di un giudizio dinanzi ad un tribunale con tutte le garanzie tipiche di un procedimento giurisdizionale ha condotto la Corte a riconoscere le violazioni delle disposizioni convenzionali.
Nella particolare ipotesi della trasmigrazione, da un procedimento ad altro di diversa natura, dei dati probatori intercettati è impensabile che non sia riconosciuta al magistrato, nella sedes ad quem, la possibilità di realizzare una difesa piena e completa davanti ad un giudice, come richiesto dalla Corte europea. La rilevanza dei diritti in gioco non ammette deroghe in violazione del dettato convenzionale, perché anche il giudizio disciplinare deve rispettare i canoni del fair trial.
Ancora, come sostenuto dalla Corte di Cassazione italiana, è di preminente rilevanza che l’incolpato abbia la facoltà di eccepire eventuali vizi nel procedimento acquisitivo e di richiedere la distruzione dei brani e dei brogliacci non rilevanti. Rimane peraltro insoluto il problema relativo ai limiti d’ingresso nel procedimento disciplinare di intercettazioni che coinvolgano anche soggetti estranei all’accertamento penale ma che, inconsapevoli, abbiano intrattenuto conversazioni telefoniche con il destinatario della captazione. Non è da escludere l’ipotesi di prevedere anche per tali soggetti la costruzione di uno strumento giuridico che permetta loro di ottenere l’esclusione di informazioni che li riguardino, captate mediante un’attività intercettativa, e che non appaiano necessarie ai fini del giudizio disciplinare.
Chiaramente la delicatezza della materia impone che sia il legislatore a disciplinare in modo dettagliato e specifico requisiti e limiti di ammissibilità del trasferimento e dell’uso delle risultanze di intercettazioni in altre sedi procedimentali, quale il giudizio disciplinare. Solo così le autorità procedenti potranno pienamente assolvere ai propri obblighi di controllo. Ma non basta; occorre che esse compiano un accurato scrutinio di necessità e proporzionalità dell’acquisizione dei risultati dell’attività intercettativa realizzata in sede penale, affinché anche la circolazione delle prove ottenute mediante tale attività, dato il suo elevatissimo potenziale intrusivo nei confronti di libertà costituzionalmente e convenzionalmente garantite, si realizzi in linea con la configurazione legislativa di questo peculiare mezzo di ricerca, che si staglia quale extrema ratio all’interno degli strumenti investigativi nell’odierno assetto del diritto probatorio penale.
*Dottoranda di ricerca in Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Messina
[1] Cass., sez. un., n. 9390, 8 aprile 2021, in Ced. Cass., rv. 660918, che richiama anche la sentenza della Corte europea in esame. Per un primo autorevole commento alla decisione della Cassazione, v. G. Spangher, Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale. A proposito delle recenti Sezioni Unite Civili n. 9390/2021, in Giustizia Insieme, 26 aprile 2021.
[2] Per un’analisi sull’impianto del procedimento disciplinare a carico dei rappresentanti del potere giudiziario nell’ordinamento italiano, cfr. S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, Milano, 2013; M. Fantacchiotti – M. Fresa – V. Tenore – S. Vitello, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, in Id., La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali. Magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, onorari, Avvocati dello Stato, Milano, 2010, pp. 347 ss; L. Caso, I. Magistrati e Avvocati dello Stato, in F. Carinci – V. Tenore, Il pubblico impiego non privatizzato, Milano, 2007.
[3] Per approfondire brevemente la vicenda che fa da sfondo al ricorso in esame, v. Le condanne per Ergenekon in Turchia, su www.ilpost.it, 5 agosto 2013; Che cos’è Ergenekon?, ibid., 22 febbraio 2011.
[4] La sentenza in commento dà atto di alcune di queste dichiarazioni e delle circostanze in cui esse sono state espresse sia nella parte relativa al fatto (parr. 13 ss.) sia in quella dove affronta la violazione dell’art. 10 Cedu (parr. 136 ss.).
[5] Sul dialogo tra Corti, che coinvolge anche le Corti costituzionali, v., ex multis, P. Gaeta, La scala di Wittgenstein: dialogo tra Corti, giudice comune e primauté della Corte Costituzionale, in Giustizia Insieme, 17 ottobre 2019; A. Ridolfi, Giurisdizione costituzionale, Corti sovranazionali e giudici comuni: considerazioni a proposito del dialogo tra Corti, in Rivista AIC, 2016, n. 3, p. 61 ss.; M.P. Iadicicco, La diagnosi genetica preimpianto nella giurisprudenza italiana ed europea. L’insufficienza del dialogo tra le Corti, in Quaderni costituzionali, 2015, n. 2, p. 325 ss.; M. Carducci, “Imitazioni” e “dialoghi” come «amministrazione» del linguaggio?, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe de Vergottini, in L. Melica - L. Mezzetti - V. Piergigli, Padova, 2015, I, p. 381 ss.; A. Ruggeri, “L’intensità” del vincolo espresso dai precedenti giurisprudenziali, con specifico riguardo al piano dei rapporti tra CEDU e diritto interno e in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”, in https://www.giurcost.org/studi/ruggeri24.pdf, 5 febbraio 2013, p. 1 ss.; R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2014; G. Tesauro, Ancora sul dialogo tra giudice italiano e corti europee, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, Napoli, 2013, IV, p. 2397 ss.; P. Ridola, Il “dialogo tra le Corti”: comunicazione o interazione?, in Percorsi costituzionali, 2012, n. 3, p. 273 ss.; G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010; G. Zagrebelsky, Corti costituzionali e diritti universali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2006, n. 2, p. 297 ss; A.M. Slaughter, A Global Community of Courts, in Harv. Int’l L.J., 2003, 44, p. 191 ss.
[6] Cfr. ex plurimis, Corte eur. dir. uomo Savitskyy c. Ucraina, 26 luglio 2012, ric. n. 38773/05; Enea c. Italia, GC, 17 settembre 2009, ric. n. 74912/01; Taşkın e altri c. Turchia, 10 novembre 2004, ric. n. 46117/99; Ganci c. Italia, 30 ottobre 2003, ric. n. 41576/98; Philis c. Grecia (n. 2), 27 giugno 1997, Reports 1997-IV; Le Compte, Van Leuven e De Meyere c. Belgium, 23 giugno 1981, ric. n. 6878/75 e 7238/75. La Corte europea in materia di procedimenti disciplinari riguardanti il diritto a proseguire l’esercizio di una professione aveva già invocato la copertura del § 1 dell’art. 6 Cedu in una sentenza che aveva visto protagonista l’ordinamento italiano: Corte eur. dir. uomo, Di Giovanni c. Italia, 9 luglio 2013, ric. n. 51160/06.
[7] Corte eur. dir. uomo, Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia, GC, 19 aprile 2007, ric. n. 63235/00. Il test elaborato dai giudici di Strasburgo in questa pronuncia prevede che le controversie tra Stato e dipendenti pubblici siano di natura civile ai sensi dell’art. 6, a meno che non vengano soddisfatti congiuntamente due requisiti: primo, lo Stato deve aver espressamente escluso l’accesso ad un tribunale per determinate categorie di professioni pubbliche; secondo, tale esclusione deve essere giustificata sulla base concreta di un interesse generale dello Stato (par. 62).
[8] Cfr. ad esempio Corte eur. dir. uomo, Ramos Nunes de Carvalho e Sá v. Portogallo, GC, 6 novembre 2018, ric. n. 55391/13 e altri; Tsfayo c. Regno Unito, 14 novembre 2006, ric. n. 60860/00.
[9] V, fra tutte, Cass., sez. un., 25 gennaio 2013, n. 1771, in Foro it., Rep. 2013, voce Ordinamento giudiziario, n. 134. Anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla rilevanza dell’interesse pubblico sotteso all’esigenza di accertare l’eventuale responsabilità disciplinare dei rappresentanti della magistratura, dovendo il relativo procedimento assicurare il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, la quale gode di speciali garanzie di indipendenza e imparzialità, tutelate dal dettato costituzionale. V. Corte cost., 13 aprile 1995, n. 119, in Foro it, 1995, I, 1401; id., 22 giugno 1992, n. 289, in Foro it, 1994, I, 3276.
[10] Corte eur. dir. uomo, Di Giovanni c. Italia, 9 luglio 2013, ric. n. 51160/06, parr. 37 – 38.
[11] Sul profilo funzionale dell’indipendenza dei giudici assicurati dall’organo di autogoverno della magistratura, v., per tutti, S. Bartole, Il potere giudiziario, II ed., Bologna, 2012, p. 63 ss.
[12] Corte eur. dir. uomo, Karabeyoğlu c. Turchia, 7 giugno 2016, ric. n. 30083/10.
[13] Sull’incidenza del canone di proporzionalità con riferimento all’uso delle nuove tecniche di sorveglianza occulta, v., ad es., F. Nicolicchia, Il principio di proporzionalità nell’era del controllo tecnologico e le sue implicazioni processuali rispetto ai nuovi mezzi di ricerca della prova, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org., 8 gennaio 2018; M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Dir. pen. cont., 2014, 3-4, p. 143 ss. Cfr. Corte eur. dir. uomo, GC, S. e Marper c. Regno Unito, 4 dicembre 2008, ric. n. 30562/04 e n. 30566/04, § 112, ove si afferma che la tutela discendente dall’art. 8 Cedu risulterebbe eccessivamente indebolita qualora l’autorità procedente non si preoccupasse di effettuare un’accurata valutazione sia dei vantaggi derivanti dalla forza estensiva che connota tali strumenti sia degli interessi fondamentali in gioco. V. ancora Corte eur. dir. uomo, GC, Roman Zakharov c. Russia, 4 dicembre 2015, ric. n. 47143/06, che precisa quali garanzie minime debba rispettare il provvedimento limitativo del diritto al rispetto della vita privata e familiare (ad es., durata e modalità di svolgimento delle operazioni, conservazione dei dati soggetti destinatari della captazione); ancora, Corte eur. dir. uomo, Kennedy c. Regno Unito, 18 maggio 2010, ric. n. 26839/05; Marchiani c. Franci, 27 maggio 2008, ric. n. 30392/03; Vetter c. Francia, 31 maggio 2005, ric. n. 59842/00; Lambert c. Francia, 24 agosto 1998, ric. n. 23618/94; Malone c. Regno Unito, 2 agosto 1984, ric. n. 8691/79.
[14] Cfr. F. Resta, La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi, in Giustizia Insieme, 15 dicembre 2020; G. Santalucia, Il diritto alla riservatezza nella nuova disciplina delle intercettazioni. Note a margine del decreto legge n. 161 del 2009, in Sistema Penale, 2020, 1, p. 47 ss.; sull’assenza di una specifica tutela per soggetti terzi v. C. Conti, La riserva delle intercettazioni nella “delega Orlando”. Una tutela paternalistica della privacy che può andare a discapito del diritto alla prova, in Diritto penale contemporaneo, 2017. n. 3, pp. 92 – 93.
[15] Si noti tuttavia che la Cassazione si preoccupa di specificare che la sentenza dei giudici europei è successiva alla camera di consiglio in cui è stata decisa la sentenza (v. par. 37.2).
[16] Cass., sez. un., n. 9390, cit., par. 20.
[17] V. G. Spangher, Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale, cit., p. 3, il quale spiega che «il riferimento alla “compatibilità” servirebbe a modulare l’operatività delle norme processuali in relazione alla ricordata specialità dell’oggetto della procedura disciplinare nei confronti dei magistrati».
[18] V. Cass., sez. un., n. 741, 15 gennaio 2020, in Ced. Cass., rv. 656792, che ammette addirittura la trasmissione dalla sede penale a quella disciplinare delle sole trascrizioni in forme riassuntiva; allo stesso modo, Cass., sez. un., n. 14552, 12 giugno 2017, in Ced. Cass., rv. 644570-02; Cass., sez. un., n. 3020, 16 febbraio 2015; Cass., sez. un., n. 3271, 12 febbraio 2013, in Ced. Cass., rv. 625433; Cass., sez. un., n. 15314 del 24 giugno 2010, in Ced. Cass., rv. 613973; Cass., sez. un., n. 27292, 23 dicembre 2009, in Ced. Cass., rv. 616804; Cass., sez. un., 12717 del 29 maggio 2009, in cui la Corte afferma che «l’art. 270 c.p.p., comma 1, - non trovando in particolare applicazione al giudizio di prevenzione che pure ha una connotazione “penalistica” a differenza del procedimento disciplinare di magistrati - riguarda specificamente il processo penale deputato all'accertamento di responsabilità penali che pongono in gioco la libertà personale dell'indagato o dell'imputato sicché possono giustificarsi limitazioni più stringenti all'acquisizione della prova».
[19] Cfr. Cass., sez. un., n. 13426, 25 marzo 2010, in Ced. Cass., rv. 246271, in cui viene affermato il principio di diritto per cui «l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti in qualsiasi tipo di giudizio». Sempre sul presupposto del rinvio alle norme codicistiche, la Corte ha anche affermato che il sottoposto al giudizio cautelare ha il diritto di chiedere al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione copia dei supporti materiali delle intercettazioni su cui si fonda la richiesta cautelare di sospensione dalla funzione e dallo stipendio (par. 32).
[20] Sulla problematicità delle disposizioni di cui all’art. 270 c.p.p. e dell’interpretazione che ne dà la giurisprudenza, v. J. Della Torre, La nuova disciplina della circolazione del captato: un nodo arduo da sciogliere, in M. Gialuz, Le nuove intercettazioni. Legge 28 febbraio 2020, n. 7, in Diritto di Internet, 2020, suppl. al n. 3, p. 90 ss.
[21] F. Nicolicchia, op. loc. cit.; M. Caianiello, op. loc. cit.
Concorrenza e giurisdizione: il caso R.A.I. Pubblicità (nota a T.A.R. Liguria, sez. II, 9 aprile 2021, n. 307)
di Fabiola Cimbali
Sommario: 1. Premessa - 2. La “vicenda” R.A.I. Pubblicità s.p.a. - 3. L'organismo di diritto pubblico: tratti distintivi ed elementi qualificanti - 4. L’impresa pubblica: connotati identificativi e fattori sintomatici - 5. Mercato e giurisdizione.
1. Premessa
I profili affrontati nella sentenza n. 307 emessa il 9 aprile 2021 dalla seconda sezione del T.A.R. Liguria confermano la complessità del quadro giuridico concernente gli strumenti mediante i quali si esplica l’intervento pubblico nell’economia, costituendo parimenti uno stimolante pretesto per soffermarsi sulle nozioni di “impresa pubblica” e di “organismo di diritto pubblico”[1].
L’utilità di una riflessione a riguardo non è riconducibile a ragioni di carattere teorico, ma è legata all’esigenza di valutare le implicazioni che siffatta distinzione presenta sul piano applicativo, soprattutto per quanto concerne il rinvio alla disciplina sugli appalti pubblici ed al regime dell’evidenza pubblica.
La delimitazione dei confini definitori è fortemente condizionata dall’evoluzione che ha interessato la normativa nazionale e comunitaria di riferimento e da essa ne dipende la relativa imposizione ad “organismi” che, pur dotati di una “fisionomia” privatistica, mantengono una “impronta pubblicistica” sul piano dell’attività svolta.
Essa, inoltre, ha rilevanti conseguenze sulla tutela, specialmente sul radicamento della giurisdizione in capo al giudice amministrativo e sulla individuazione delle “regole processuali” cui dare attuazione nella singola fattispecie.
Per tale ragione, in un’ottica di ricostruzione della cornice ordinamentale, è indispensabile che la definizione dei profili contenutistici di “impresa pubblica” e di “organismo di diritto pubblico” avvenga alla luce della regolamentazione di settore culminata nell’ordinamento interno con l’adozione del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (c.d. Codice dei contratti pubblici).
D’altra parte, la ricomposizione dello scenario giuridico non può prescindere dal fare riferimento alla normativa comunitaria sugli appalti la cui ratio si rinviene nell’esigenza di assicurare il coordinamento e l’armonizzazione delle procedure di aggiudicazione, così da porre le basi per una concorrenza effettiva, idonea a garantire le libertà fondamentali per l’integrazione europea[2].
In questo quadro la scelta metodologica di “filtrare” siffatta indagine attraverso il prisma della giurisprudenza (nazionale e comunitaria) appare appropriata nella misura in cui sia funzionale a metterne in evidenza gli sviluppi per effetto delle intervenute modificazioni normative od anche di una rinnovata esegesi della vigente disciplina.
Le difficoltà incontrate dalla giurisprudenza amministrativa nell’applicazione dei criteri comunitari ai “soggetti” che operano nel settore degli appalti pubblici si palesano in tutte le loro sfaccettature nella recente sentenza esaminata principalmente a proposito della possibilità di ricondurre R.A.I. Pubblicità s.p.a. nel novero degli organismi di diritto pubblico.
Il T.A.R. Liguria, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un provvedimento adottato ad esito di una gara di appalto indetta da tale società (interamente partecipata dalla RAI – Radiotelevisione italiana s.p.a. con oggetto sociale la raccolta di pubblicità destinata ai programmi radio televisivi) l’ha qualificata come organismo di diritto pubblico con quanto ne consegue sulla disciplina sostanziale e processuale da applicare, nonché sulla scelta dell’autorità giurisdizionale innanzi alla quale incardinare la controversia per ottenere adeguata ed effettiva tutela.
2. La “vicenda” R.A.I. Pubblicità s.p.a.
Nel caso sottoposto al sindacato del T.A.R. Liguria - che ha sollecitato le riflessioni che seguono – il giudice amministrativo ha assunto la sua decisione ad esito di un processo promosso dalla Publi Level s.r.l. allo scopo di ottenere l’annullamento del provvedimento adottato da R.A.I. Pubblicità s.p.a. riguardante l’affidamento ad altra società del servizio d’appalto per l’allestimento e la gestione in occasione del Festival di Sanremo 2019 di eventi collaterali e connessi alla manifestazione musicale organizzati da RAI – Radiotelevizione italiana s.p.a. e/o di cui quest’ultima era partner, nonché l’utilizzo della location di svolgimento di alcuni dei predetti eventi[3].
A detta richiesta si accompagnava quella di condannare RAI Pubblicità s.p.a. al risarcimento dei danni subiti e subendi dalla ricorrente derivanti dal guadagno non realizzato, dal mancato arricchimento del curriculum professionale e dalla perdita di chance[4].
Dal punto di vista giuridico, le spiegate richieste venivano supportate adducendo distinti motivi di censura del provvedimento impugnato fondati sulla violazione di talune disposizioni del d.lgs. n. 50/2016 e dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Segnatamente, dalla prima angolazione, veniva asserita l’inosservanza degli articoli 71,72 e 73 per non avere la resistente, in spregio ai principi di trasparenza e di pubblicità vigenti in materia di contratti pubblici, provveduto alla pubblicazione di alcun bando; nonché la violazione degli articoli 61 e 64, essendo stata negata a Publi Level s.r.l. l’assegnazione del prescritto termine minimo di trenta giorni di tempo per potere presentare l’offerta.
Dalla seconda prospettiva, veniva rilevata la “trasgressione” dei principi di correttezza, di non discriminazione e di parità di trattamento in quanto l’originaria mancanza di coinvolgimento nella procedura di affidamento era sprovvista di corredo motivazionale e basata su informazioni non verificate.
RAI Pubblicità s.p.a., costituitasi in giudizio, contestava l’applicazione delle regole sull’affidamento dei contratti pubblici sostenendo che la vicenda sulla quale si era innestata la controversia concernesse un contratto di diritto privato concluso da una società di capitali dedita al perseguimento di scopi tipicamente imprenditoriali. Sulla base di tale assunto negava la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo ed eccepiva, altresì, l’irricevibilità del ricorso in quanto proposto una volta scaduto il termine di trenta giorni decorrenti dal ricevimento della lettera di invito alla procedura. Contestava, infine, l’ammissibilità della richiesta risarcitoria ritenendola indeterminata e priva di adeguato supporto probatorio.
Il Tribunale amministrativo ligure si pronunciava sul ricorso dichiarandolo irricevibile in quanto proposto oltre i termini prescritti a tal uopo e rigettava la domanda risarcitoria considerandola indeterminata e non dimostrata in ordine non solo alla probabilità di ottenere l’affidamento dell’appalto, ma anche relativamente all’entità del pregiudizio sofferto.
Il percorso logico giuridico seguito dalla sentenza muoveva dall’inquadramento dell’attività posta in essere da un soggetto imprenditoriale che opera nel mercato delle comunicazioni commerciali. Ciò al fine di metterne in risalto le possibili implicazioni sulla natura giuridica della società ricorrente, sull’applicabilità della disciplina del Codice dei contratti pubblici e, quindi, sulla riconducibilità della controversia insorta nell’alveo della giurisdizione del giudice amministrativo.
Preso atto della tesi affermata dalla giurisprudenza amministrativa e dalla Corte di cassazione sull’ascrivibilità della “società madre” (RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a.) alla categoria degli organismi di diritto pubblico, il T.A.R. adito si mostrava consapevole delle incertezze cui può dar luogo l’applicazione della c.d. “teoria del contagio”[5]. Per tali ragioni peraltro, attesa l’assenza di pronunce che facessero luce sulla qualificazione giuridica della società resistente in termini di amministrazione aggiudicatrice e sul consequenziale obbligo di “impiegare” le regole dell’evidenza pubblica nella scelta dei contraenti, evidenziava l’importanza di verificare la sussistenza delle condizioni essenziali richieste per ricondurla nella predetta categoria[6].
Richiamato l’articolo 3, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 50/2016 e formulate alcune considerazioni alla luce del dato normativo invocato, perveniva alla conclusione che RAI Pubblicità s.p.a. fosse un organismo di diritto pubblico e che, in quanto amministrazione aggiudicatrice, dovesse osservare le disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici.
Secondo siffatto ragionamento il rinvio alla citata normativa implicava, a norma dell’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1), c.p.a., l’attrazione della controversia nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo e l’impiego delle norme del Codice del processo amministrativo.
Nel pervenire alle spiegate conclusioni, il T.A.R. ligure non condivideva il rilievo articolato dalla ricorrente secondo cui la decisione di non presentare alcuna offerta non era dipesa da riserve o perplessità sui meccanismi di scelta del contraente, quanto dal ritardo con il quale era stato effettuato l’invito alla gara che le aveva precluso di formalizzare «un’offerta corretta e consapevole». Da tale premessa fattuale, ricostruita anche sulla base degli elementi forniti da Publi Level s.r.l., l’autorità giurisdizionale decidente traeva, comunque, la conclusione di far ricadere sulla predetta società l’onere di contestare la lesività dell’atto nel termine accelerato di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a. pena - come in effetti verificatosi - la tardività del ricorso e, dunque, la sua inammissibilità.
Sul fronte risarcitorio, inoltre, non riteneva meritoria di accoglimento la correlata richiesta di un ristoro per equivalente attesa l’omessa partecipazione alla procedura di gara e l’assenza di una impugnazione tempestiva. L’estraneità alla procedura, infatti, aveva precluso a Publi Level s.r.l. di dimostrare che sarebbe stata in condizione di aggiudicarsi l’appalto e, pertanto, la richiesta risarcitoria veniva considerata indeterminata e generica.
L’autorità giurisdizionale decidente, infine, nell’ottica della mitigazione e/o dell’esclusione del danno, nell’assumere la sua determinazione conclusiva valutava il comportamento delle parti secondo il canone di buona fede ed il principio di solidarietà. Non sottovalutava, perciò, la mancata attivazione degli strumenti di tutela accordati dall’ordinamento e, nello specifico, la scelta processuale di Publi Level s.r.l. di non aver presentato alcuna istanza cautelare per preservare la «propria posizione di aspirante all’esecuzione del relativo servizio».
3. L'organismo di diritto pubblico: tratti distintivi ed elementi qualificanti
La decisione in commento conferma come l’esigenza di fissare criteri idonei a qualificare la natura giuridica dei soggetti cui applicare il regime dell’evidenza pubblica sia particolarmente avvertita nel settore degli appalti pubblici.
Per tale ragione può rivelarsi utile una (seppure sintetica) analisi del dato normativo (comunitario e nazionale) allo scopo di appurare se possano trarsi elementi significativi nella definizione dei contorni concettuali di “impresa pubblica” e di “organismo di diritto pubblico”[7].
Fermo restando “l’intento normativo” di garantire una concorrenza tra gli operatori economici improntata a lealtà e trasparenza, per l’individuazione di coloro sui quali fare ricadere gli obblighi derivanti dall’evidenza pubblica, la normativa comunitaria, piuttosto che utilizzare la tecnica della elencazione tassativa, opta per una nozione “elastica” di amministrazioni aggiudicatrici tenute ad attivare le procedure di affidamento degli appalti[8].
Oltre lo Stato e gli Enti locali, infatti, sono considerati tali, gli “organismi di diritto pubblico”, in quanto “istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale” (requisito teleologico)[9], “dotati di personalità giuridica” (requisito personalistico), “la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta a controllo da questi ultimi, oppure i cui organi di amministrazione, o di direzione o di vigilanza, sono costituiti da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli Enti locali o da altri organismi di diritto pubblico” (requisito dell’influenza dominante).
Tuttavia, mentre la riconduzione dello Stato e degli Enti locali nell’alveo delle amministrazioni aggiudicatrici avviene agevolmente, secondo tradizionali parametri formali, quella dell’organismo di diritto pubblico, in quanto “categoria aperta”, richiede una articolata operazione esegetica che implica l’accertamento di tre differenti parametri, la cui sussistenza deve essere valutata caso per caso.
I requisiti personalistico e dell’influenza dominante, presentando tratti distintivi facilmente identificabili, non pongono complicate questioni interpretative[10]. Diversamente deve concludersi per l’indicatore teleologico che permea intrinsecamente la nozione di organismo di diritto pubblico a tal punto da segnare il fondante discrimen rispetto ad “entità” (almeno in apparenza) analoghe, ma non tenute ad osservare la normativa sugli appalti pubblici[11]. In ragione degli effetti sulla qualificazione giuridica l’accertamento di tale parametro, oltre ad essere effettuato caso per caso, deve riguardare non solo il carattere generale (non industriale o commerciale) dell’interesse perseguito, ma la natura dell’attività svolta[12].
L’organismo di diritto pubblico integra, dunque, gli estremi di una nozione della quale la norma si serve per qualificare varie figure giuridiche tenute all’utilizzo trasparente di idonee procedure di gara laddove gli operatori attingano dal mercato i beni, le opere o i servizi necessari alla propria attività volta alla concretizzazione di bisogni pubblici da realizzare nel “campo” in cui operano.
La predilezione mostrata per “modelli” dai tratti “flessibili” nasce dalla circostanza che la relativa nozione è destinata a transitare, adattandosi di volta in volta, in eterogenei ordinamenti giuridici, rappresentando in tal modo una sorta di fondamentale collegamento tra il “contesto” di creazione e quello di approdo.
È inevitabile, però, che in sede normativa la decisione di non avvalersi di specifiche schematizzazioni per la qualifica di organismo di diritto pubblico optando per una valutazione di tipo pragmatico, non agevoli lo Stato membro nell’attuazione dei meccanismi di recepimento, chiamato ad avvalersi di un concetto non solo ad esso estraneo, ma anche di problematico approccio ermeneutico[13].
4. L’impresa pubblica: connotati identificativi e fattori sintomatici
Nella direttiva 2014/23/UE – con una struttura che nelle grandi linee ripropone quella della direttiva 04/17 - nel novero degli enti aggiudicatori è inclusa anche l’impresa pubblica (art. 7, comma 1) sulla quale le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare direttamente o indirettamente un’influenza determinante per ragioni legate alla proprietà, alla partecipazione finanziaria o alla normativa (art. 7, comma 4). Con una formulazione analoga, la categoria delle imprese pubbliche è definita prima nell’art. 3, comma 28, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e, poi, in termini simili nell’art. 3, comma 1, lett. t), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50[14]. In base alle richiamate disposizioni fattori sintomatici dell’esistenza del collegamento fra impresa ed amministrazioni possono rinvenirsi nella proprietà pubblica dell’assetto societario, nell’attribuzione ai poteri pubblici della maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni o le quote della società, nonché il diritto da parte degli stessi di designare più della metà dei componenti gli organi di amministrazione, vigilanza e controllo.
Non riveste, dunque, rilevanza alcuna il connotato finalistico che impone il soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale[15]. In quanto proiettata al perseguimento di uno scopo di lucro o connotata dal criterio di autonomia finanziaria nella relativa gestione, inoltre, essa sopporta su sé il rischio derivante dall’attività espletata e, dunque, soggiace alle comuni regole della concorrenza[16].
Detto tratto qualificante, non essendo destinato ad ostacolare una concorrenza piena e libera, non obbliga il rinvio ai “percorsi” dell’evidenza pubblica, il cui rispetto, invece, si impone per i settori speciali ove è elevato e concreto il pericolo di alterare i meccanismi ed i principi che assicurano l’equilibrio e la parità di trattamento fra gli operatori del mercato[17].
Il regime dell’evidenza pubblica, pertanto, trova attuazione in modo pieno per le amministrazioni aggiudicatrici nei c.d. settori ordinari ed in maniera “temperata” per le imprese pubbliche dal momento che queste ultime vi soggiacciono limitatamente ai c.d. settori speciali.[18]
D’altro canto, una estensione in via analogica alle imprese pubbliche della disciplina sull’evidenza pubblica anche con riferimento ai settori ordinari non è praticabile. A ciò osta una lettura della richiamata impostazione normativa (comunitaria e codicistica) rigorosa e coerente rispetto all’esigenza di garantire l’effettivo esercizio della libertà di impresa che, peraltro, gode di apposita copertura costituzionale (art. 41 Cost.)[19]. Ciò, comunque, non esclude che l’impresa pubblica – al fine di assumere condotte più trasparenti in ragione della sua natura pubblica o per seguire procedure consolidate - ricorra alle procedure di evidenza pubblica in tutto od in parte ogniqualvolta scelga di intraprendere strade proiettate al perseguimento di bisogni di interessi generali privi del carattere industriale o commerciale, permeate da una logica differente da quella mirante alla remunerazione del capitale[20].
Specificamente per quanto riguarda il requisito teleologico, da un lato, ne è stata presuntivamente riscontrata la sussistenza in caso di mancanza di un contesto concorrenziale in cui si trova ad operare un determinato soggetto[21]; dall’altro, è stato evidenziato come l’accertamento di tale parametro passi da una accurata indagine delle relazioni finanziarie intercorrenti con l’ente pubblico[22].
Alla luce di tali indicazioni la diversificazione tra le imprese pubbliche e gli organismi di diritto pubblico prescinde dal modello organizzativo adottato, essendo piuttosto ancorata, tanto al diverso atteggiarsi delle prime, che, inserite in un ambito concorrenziale, sono esposte al rischio di impresa non potendo, conseguentemente, invocare l’intervento dell’ente di riferimento al fine di un ripianamento delle eventuali perdite; quanto alla possibilità di gestire servizi rinunciabili da parte dell’ente di riferimento.
L’intrinseca differenza fra la categoria dell’impresa pubblica e quella dell’organismo di diritto pubblico delineata a livello normativo pone, però, la questione dell’esistenza di possibili margini di sovrapponibilità in merito alla quale sono state offerte letture non proprio convergenti[23]. A fronte di una posizione più rigida, che ha escluso forme di commistione, ve n’è un’altra che propone formule organizzatorie atipiche, in cui sono contestualmente presenti elementi caratteristici dell’una e dell’altra categoria. Nella prima direzione muove il filone che, adottando la formula esegetica più restrittiva, pone su piani antitetici i concetti di “potere pubblico” e di “impresa pubblica”; nella seconda, la teoria che, pur dinanzi a modelli dalle differenti venature organizzatorie, invoca il regime dell’evidenza pubblica[24].
L’adesione all’una impostazione teorica o all’altra deve in ogni caso prendere atto dell’esistenza di un connotato comune ad entrambe le fattispecie ravvisabile nell’impiego dello strumento societario; nonché di un netto tratto differenziale - il metodo non economico - costituito dall’espletamento di una attività generale priva del carattere industriale o commerciale che, ontologicamente inconciliabile con il concetto di impresa, permea esclusivamente la figura dell’organismo di diritto pubblico[25].
5. Mercato e giurisdizione
Dalla sintetica ricostruzione dello scenario normativo ed ermeneutico di riferimento emerge come le regole dell’evidenza pubblica applicabili agli organismi di diritto pubblico siano rivolte alle imprese pubbliche relativamente ai settori speciali, con la fisiologica conseguenza che nelle controversie sorte in tali “campi” le azioni processuali devono essere incardinate dinanzi al giudice amministrativo.
Preliminarmente è utile osservare che “l’area” delle telecomunicazioni non rientra più fra i settori esclusi dalla disciplina generale; pertanto i contratti di appalto funzionali a detto ambito soggiacciono alla relativa regolamentazione codicistica soltanto allorché siano affidati da amministrazioni aggiudicatrici.
I soggetti diversi da queste ultime - fra i quali vanno contemplate le imprese pubbliche – sono chiamati ad osservare le regole pubblicistiche poste a tutela della concorrenza limitatamente agli appalti riguardanti le attività riconducibili ai settori speciali (gas, energia, elettricità acqua trasporti, porti, aeroporti, servizi postali). Diversamente, per i contratti “estranei” a tali ambiti, esse, agendo alla stregua di un “comune” soggetto privato, sono esonerate dal dare attuazione alla disciplina vigente con riguardo all’affidamento di “pubbliche commesse” giacché in tali ipotesi non vi è l’esigenza di garantire la concorrenza ricorrendo a formule procedimentali tipiche dell’evidenza pubblica ed a meccanismi volti ad assicurare trasparenza e pubblicità delle procedure[26].
Nel caso di specie, tuttavia, l’inquadramento della società resistente in termini di organismo di diritto pubblico avviene ad esito di un percorso argomentativo non perfettamente allineato rispetto alla descritta cornice normativa e giurisprudenziale.
Il T.A.R. Liguria, dichiarata infondata l’eccezione della società resistente, ha ritenuto sussistente la giurisdizione amministrativa sostenendo che Rai Pubblicità fosse assoggettata all’evidenza pubblica proprio in quanto organismo di diritto pubblico.
Il decidente è pervenuto a tale conclusione sul presupposto che Rai Pubblicità fosse «istituita per soddisfare esigenze di interesse generale della “Società madre” alla quale garantisce, attraverso la raccolta pubblicitaria una parte essenziale delle risorse necessarie per l’esercizio del servizio pubblico radiotelevisivo non avente carattere esclusivamente commerciale».
Tale assunto poggia su due diversi, ma connessi, pilastri concettuali riguardanti sia il “legame” di RAI Pubblicità con RAI-Radiotelevisione italiana, sia lo scopo sociale sotteso all’attività svolta dalla prima.
Dalla prima visione prospettica, il convincimento secondo cui RAI Pubblicità, (già SIPRA) sia stata istituita «per soddisfare esigenze di interesse della “Società madre” (…)» induce il T.A.R. ligure ad affermare che essa persegua interessi di rilevanza pubblicistica, considerando «indifferente che, oltre alle attività volte a soddisfare esigenze di interesse generale, essa svolga anche attività a scopo di lucro sul mercato concorrenziale».
A questo proposito la Corte di Giustizia - con una pronuncia richiamata proprio nella decisione esaminata - ha chiarito come per essere considerata amministrazione aggiudicatrice non è «sufficiente che un’impresa sia stata istituita da un’amministrazione aggiudicatrice o che le sue attività siano finanziate con mezzi finanziari derivanti dalle attività esercitate da un’amministrazione aggiudicatrice». È, invece, indispensabile che si tratti di un organismo istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale e «la cui attività risponde a siffatte esigenze». In questa impostazione è, dunque, rimarcata la volontà del legislatore dell’Unione di escludere un generalizzato rinvio al regime dell’evidenza pubblica ed alle norme vincolanti sugli appalti pubblici[27].
D’altro canto, l’accertamento volto a verificare che l’attività espletata soddisfi esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale deve essere condotto in modo concreto, ossia «tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita le attività volte a soddisfare esigenze di interesse generale, ivi compresa, in particolare la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonché il finanziamento pubblico eventuale delle attività di cui trattasi»[28].
È improbabile che allorquando l’organismo operi in condizioni normali di mercato, persegua uno scopo di lucro e subisca le perdite collegate all’esercizio di dette attività, le esigenze che esso mira a soddisfare abbiano indole diversa da quella industriale o commerciale[29].
È fondamentale, perciò, fare chiarezza - circoscrivendone i contorni - sullo scopo sociale della società resistente nell’attuale articolazione organizzatoria ed in quella originaria precisando che secondo quanto stabilito nell’art. 2 dell’atto costitutivo e statuto di SIPRA, lo scopo sociale andava ravvisato nell’acquisizione e nello «sfruttamento di qualsiasi genere di pubblicità ed in particolar modo quella da farsi a mezzo di stazioni radiotrasmittenti (…)».
In base all’art. 4 del vigente atto costitutivo e statuto di RAI Pubblicità, invece, esso concerne «la raccolta, sui mercati nazionale ed internazionale, di pubblicità, di sponsorizzazioni, di comunicazioni commerciali e sociali, e di tutte le altre forme ed espressioni della pubblicità, destinate ai programmi radiofonici e televisivi qualunque sia il mezzo utilizzato nel presente e nel futuro per la loro diffusione (via etere, per mezzo di satelliti, via cavo, via filo, in chiaro e/o criptati, ecc.); la raccolta di pubblicità nelle forme indicate al punto precedente, destinata a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, presente e futuro, quali la carta stampata, audio e video cassette, affissioni, cinema, tabelloni, internet, ecc. …».
Non vi è, dunque, alcuna “riserva” di attività a favore di RAI- Radiotelevisione italiana.
Dal dato statutario riportato non si evince, in realtà, che SIPRA, che nel 2013 ha cambiato (solo) la propria denominazione in quella di RAI Pubblicità, sia stata specificamente istituita per soddisfare esigenze della società controllante atteso che i “bisogni” del cui “appagamento” essa è stata investita non costituiscono una condizione essenziale per l’esercizio delle attività di interesse generale di RAI–Radiotelevisione italiana.
Tali precisazioni appaiono fondamentali, in quanto l’impressione tratta dall’analisi della sentenza del T.A.R. Liguria è che l’apporto delle risorse indispensabili per l’espletamento del servizio pubblico radiotelevisivo non avente carattere esclusivamente commerciale sia stato inquadrato quale scopo o come oggetto sociale di RAI Pubblicità. Invero, la circostanza secondo la quale attraverso la raccolta pubblicitaria venga garantita una parte essenziale delle risorse necessarie per l’esercizio del servizio pubblico radiotelevisivo potrebbe essere letta in una versione che la presenti verosimilmente alla stregua di una mera “operazione contabile”.
La considerazione dello scopo sociale nei termini proposti dal decidente, peraltro, non è in linea con l’art. 45, comma 5 del d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici). In forza di tale disposizione Rai–Radiotelevisione italiana può svolgere direttamente o attraverso società collegate, attività commerciali ed editoriali, connesse alla diffusione di immagini, suoni e dati, nonché altre attività correlate, purché esse non risultino di pregiudizio al migliore svolgimento dei pubblici servizi concessi e concorrano alla equilibrata gestione aziendale.
Per come si desume anche dalla convenzione conclusa fra la Rai –Radiotelevisione italiana e Rai Pubblicità la prima espleta in proprio l’attività di pubblico servizio e, attraverso la controllata (la seconda), quella di raccolta pubblicitaria in forza di una apposita concessione.
L’esistenza di una precisa linea divisoria tra il modus operandi di carattere “amministrativo” e quello ispirato al metodo concorrenziale trova conferma pure, in sede regolatoria, da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni nella delibera n. 41/17/CONS e relativo Allegato A “Individuazione dei mercati rilevanti nel settore dei servizi di media audiovisivi”.
In tale documento, nell’ambito del mercato dei media audiovisivi in chiaro, sono indicate una attività legata al servizio pubblico ed una di tipo squisitamente commerciale/imprenditoriale e ad esse sono collegati distinti modelli di finanziamento volti a sostenerle.
In particolare, l’una è finanziata da fondi pubblici, e quindi mediante risorse economiche non contendibili, l’altra “si fonda economicamente sugli investimenti delle aziende clienti” attraverso i ricavi della raccolta pubblicitaria ed è connotata dalla competizione instaurata con gli altri soggetti presenti nel mercato[30].
A questa logica sembra ispirarsi, altresì, il Contratto di Servizio 2018-2022 tra il Ministero dello sviluppo economico e RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a., ove sono diversamente concepiti i ricavi derivanti dal gettito del canone rispetto a quelli prodotti da attività svolte in regime di concorrenza[31].
Lo scenario descritto sembra, dunque, suggerire un inquadramento di RAI Pubblicità quale impresa pubblica per effetto del suo inserimento in un contesto concorrenziale che ne prospetta una – fisiologica - esposizione ai rischi derivanti dalla sua collocazione in un mercato nel quale intervengono altri operatori.
È evidente allora come la ricerca e la comprensione degli elementi strutturali che compongono, diversificandole, le figure dell’impresa pubblica e dell’organismo di diritto pubblico proprio perché condizionano l’individuazione sia della disciplina applicabile con riferimento alle procedure di affidamento, sia dell’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale incardinare eventuali azioni processuali preludano ad una operazione particolarmente delicata.
Ciò soprattutto laddove si consideri come il generalizzato ricorso all’evidenza pubblica potrebbe alimentare il rischio di falsare le regole della concorrenza disattendendo lo spirito dei principi europei cui si ispirano le direttive in materia di affidamento di contratti pubblici e di quelli costituzionali posti a garanzia della libertà di iniziativa economica.
Il pericolo, tutt’altro che remoto, di avallare forme di disparità di trattamento tra coloro i quali operano nel mercato esige di scoraggiare pratiche che attribuiscano diritti o riconoscano posizioni destinate ad alterare l’equilibrato assetto concorrenziale, o che siano idonei a legittimare generalizzate limitazioni dell’esercizio dell’attività di impresa svolta nel mercato da soggetti partecipati dall’ente pubblico.
Il risvolto processuale di tale impostazione consiste nel ritenere quella ordinaria l’autorità giurisdizionale competente a sindacare l’operato di imprese pubbliche o private titolari di diritti speciali o esclusivi operanti per finalità diverse dal soddisfacimento di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, analogamente a quanto si verifica allorché essa debba esprimere il suo giudizio in campi diversi da quello dell’affidamento delle pubbliche commesse e su una attività priva di sfumature pubblicistiche[32].
La ricerca di elementi certi ed univoci alla luce dei quali individuare il giudice chiamato a “somministrare” giustizia è fondamentale nell’intendere correttamente la giurisdizione quale modo «storico con cui la giustizia di un ordinamento giuridico prende forma» in quanto «la legittima prioritaria preoccupazione è quella di assicurare una sede, quella giurisdizionale, dove la giustizia possa univocamente realizzarsi; nella convinzione che proprio nel modo di renderla la giustizia consiste al massimo grado»[33].
[1] La lettura della pronuncia in commento pone sullo sfondo l’affascinante tema del rapporto tra diritto ed economia che per l’ampiezza e per la peculiarità delle dinamiche prodotte non è possibile affrontare in questa sede. Per tali ragioni si ritiene utile il rinvio, sebbene senza pretesa di esaustività, a A. Barone, Cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, Bari, 2018, ove tali aspetti vengono indagati da molteplici angoli prospettici.
[2] In questi termini M.A. Sandulli, Impresa pubblica e regole di affidamento dei contratti, in www.federalismi.it, 2008, 2, che proprio con specifico riferimento all’impresa pubblica afferma come «Il fatto che l’ordinamento comunitario si fosse preoccupato di non creare un diverso regime tra appalti gestiti da soggetti pubblici (unitariamente definiti come “amministrazioni aggiudicatrici”) e soggetti privati operanti in tali settori dimostra quindi proprio - in termini opposti alla tesi favorevole all’equiparazione impresa pubblica/pubblica amministrazione -che detta categoria è, invece, connotata da una finalità (quella economica) tipicamente privatistica ed è quindi di norma (e salvo eccezioni eventualmente stabilite in modo espresso e tassativo dalla legge) estranea al regime pubblicistico (si è già detto del resto che lo stesso regime degli appalti non può essere correttamente definito come pubblicistico)».
[3] Rai Pubblicità s.p.a. è la nuova denominazione assunta da SIPRA costituita nel 1926.
[4] La società ricorrente si era occupata per due anni consecutivi di allestire e di gestire una manifestazione collaterale al Festival di Sanremo avendone ricevuto l’affidamento direttamente sin dalla prima edizione nell’ambito della quale – a suo dire – aveva proposto il relativo format, ed a seguito di specifica procedura selettiva alla quale avevano preso parte altri cinque operatori. Relativamente alla terza edizione chiedeva di essere coinvolta nella procedura di affidamento del relativo servizio di gestione e di allestimento dell’evento. Originariamente la RAI Pubblicità s.p.a. si era determinata a non invitare la ricorrente invocando l’operatività del principio di rotazione dei fornitori ed adducendo l’esistenza di informazioni negative sul conto della Publi Level s.r.l. in ordine a danni dalla stessa provocati alla struttura che ospitava le due edizioni della manifestazione. Successivamente, mutando la propria decisione, la invitava formalmente a presentare l’offerta.
Tuttavia la società in un primo momento esclusa contestava l’esiguità del tempo concessole e comunicava a Rai Pubblicità di non essere in condizioni di potere presentare la propria offerta. Chiusasi la procedura alla quale avevano partecipato sei operatori, l’organizzazione della terza edizione della manifestazione veniva affidata alla Free Event s.r.l., controinteressata nel giudizio sfociato nella sentenza in esame.
[5] Nelle pronunce espressamente richiamate (T.A.R. Lazio- Roma, sez. III, 4 gennaio 2020, n. 54; T.A.R. Lazio- Roma, sez. III, 9 giugno 2004, n. 5460, Cass. civ., SS.UU., 22 dicembre 2011, n. 28330 e Cass. civ., SS.UU., 23 aprile 2008, n. 10443) viene puntualmente chiarito che la RAI – Radiotelevisione italiana è una società per azioni, concessionaria di un importante servizio di informazione reso ai cittadini ed è qualificabile, per le caratteristiche possedute, come organismo di diritto pubblico.
Per quanto concerne, invece, la tipologia di attività svolta - per quanto qui di interesse - è possibile trarre elementi utili per poterla circoscrivere e definire dal d.P.R. 28 marzo 1994, dallo Statuto della società e dalla convenzione con RAI Pubblicità. A norma degli artt. 1 e 5 del d.P.R. 28 marzo 1994 emerge – rispettivamente - che essa è concessionaria esclusiva sull’intero territorio nazionale del servizio pubblico di diffusione di programmi radiofonici e televisivi e che può «svolgere direttamente o attraverso società collegate attività commerciali e editoriali connesse in genere alla diffusione di suoni, immagini e dati, nonché altre attività comunque connesse all’oggetto sociale, purché esse non risultino di pregiudizio al migliore svolgimento dei pubblici servizi concessi e concorrano alla equilibrata gestione aziendale». L’oggetto sociale – ex art. 4.1 dello Statuto - concerne «la raccolta, sui mercati nazionale ed internazionale, di pubblicità, di sponsorizzazioni, di comunicazioni commerciali e sociali, e di tutte le altre forme ed espressioni della pubblicità, destinate ai programmi radiofonici e televisivi qualunque sia il mezzo utilizzato nel presente e nel futuro per la loro diffusione (via etere, per mezzo di satelliti, via cavo, via filo, in chiaro e/o criptati, ecc.)»; nonché «la raccolta di pubblicità nelle forme indicate al punto precedente, destinata a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, presente e futuro, quali la carta stampata, audio e video cassette, affissioni, cinema, tabelloni, Internet, ecc.» Ed, in base all’art. 5.2 dello Statuto, è nella possibilità della società «acquisire finanziamenti, con obbligo di rimborso delle somme versate, da parte dei soci iscritti nel libro dei soci da almeno tre mesi che detengano almeno il due per cento del capitale sociale nominale, così come risultante dall’ultimo bilancio approvato, nel rispetto delle condizioni stabilite dalle norme di legge e di regolamento che individuano le operazioni non costituenti raccolta di risparmio tra il pubblico. Tali finanziamenti potranno essere eseguiti anche singolarmente da ogni socio senza alcuna formalità e, salvo patto contrario tra la Società e il socio, non saranno produttivi di interessi». Gli articoli 6, 7, 9 della Convenzione con Rai Pubblicità disciplinano la ripartizione del fatturato (il primo), la fatturazione e la rendicontazione (il secondo), le perdite per insolvenze (il terzo).
Alla luce della c.d. teoria del contagio il regime pubblicistico prescritto per l’organismo di diritto pubblico deve “estendersi” a tutti i suoi appalti. In tal senso Corte Giust. C.E., 15 gennaio 1998, C-44/96. Si esprimono criticamente nei confronti di questa elaborazione teorica M.P. Chiti, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico: nuove frontiere di soggettività giuridica o nozioni funzionali, in M.A. Sandulli (a cura di), Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, in Quaderni della Riv. serv. pubbl. e app., 2004, 71; M.A. Sandulli, Impresa pubblica e regole di affidamento dei contratti, cit.; M.G. Roversi Monaco, Le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica nell’evoluzione dell’ordinamento, in Dir. proc. amm., 2007, 401.
[6] Nel corpo della pronuncia viene dato atto dell’esistenza dell’ordinanza n. 6124 del 12 dicembre 2014 con la quale la quinta sezione del Consiglio di Stato, sia pure in sede di regolamento di competenza ed in materia di accesso documentale, qualificava, sotto il profilo soggettivo, la RAI pubblicità s.p.a come pubblica amministrazione.
[7] Com’è noto, l’introduzione nel nostro ordinamento di tale ultima categoria è avvenuta per effetto dell’articolo 3, comma 26, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in seguito al recepimento delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE. L’attuale previsione, invece, è affidata all’articolo 3, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 50 del 2016 in recepimento dell’articolo 2, par. 1, n. 4 della direttiva 2014/24/UE, dell’articolo 3, par. 4 della direttiva 2014/25/UE e dell’articolo 6, par. 4 della direttiva 2014/23/UE.
[8] Tale “metodo qualificatorio” è stato gradualmente importato in tutte le tipologie di appalti comunitari, estendendone la portata applicativa a quelli di servizi ad opera della direttiva 92/50/CEE, di forniture con la direttiva 93/36/CEE, di lavori mediante la direttiva 93/37/CEE, e poi ripetute nella direttiva quadro 2004/18/CEE destinata a sostituire tutte le pregresse normative a decorrere dal 31 gennaio 2006.
[9] Con puntuale riguardo all’elemento teleologico in Corte Giust. U.E., 22 maggio 2003 C-18/2001 e Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2017, n. 108 viene escluso che l’esistenza di un mercato concorrenziale precluda all’organismo di diritto pubblico di agire secondo logiche diverse da quelle industriali e commerciali.
[10] Nella visione di Cons. Stato, sez. V, 12 ottobre 2010, n. 7393, il requisito della soggettività giuridica prescinde dalla natura (pubblicistica o privatistica) del soggetto.
In Corte Giust. C.E., 3 ottobre 2000, C-380/98, The Queen c. The University of Cambridge, viene evidenziato il rapporto di alternatività fra gli indici della dominanza pubblica.
[11] Riguardo l’elemento teleologico F. Cintioli, Di interesse generale e non avente carattere industriale o commerciale: il bisogno o l’attività? (Brevi note sull’organismo di diritto pubblico), in M.A. Sandulli (a cura di), Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 79 ss.
[12] In questa direzione Corte Giust. C.E., sent. 10 aprile 2008, C-393/06, Ing. Aigner Wasser Warme Umwelt Gmbh c. Fernwarme Wien Gmbh.
[13] G. Greco, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, cit., 844, evidenzia come i confini della nozione di organismo di diritto pubblico dipendano dal significato da attribuire all’elemento teleologico dal momento che «si tratta, del resto, dell’unico passo ambiguo della definizione (…), che oltre ad essere di non felice concezione, presenta le difficoltà tipiche della norma che rinvia a concetti indeterminati».
[14] In dottrina per la ricostruzione della figura dell’impresa pubblica M.S. Giannini, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, 931; V. Ottaviano, L’impresa pubblica, in Enc dir., Milano, XX, 1970, 669; S. Cassese, L’impresa pubblica: storia di un concetto, in AA.VV., L’impresa, Milano, 1985; E. Ferrari, L’impresa pubblica tra il Trattato e le direttive comunitarie, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 124; M.A. Sandulli, Imprese pubbliche e attività estranee ai settori esclusi: problemi e spunti di riflessione, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 5 ss.; Id., L’ambito soggettivo: gli enti aggiudicatori, in Trattato sui contratti pubblici, cit. vol. V, 3154; C. Lacava, L’impresa pubblica, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, IV, Milano, 2003, 3901.
[15] Corte Giust. C.E., 10 maggio 2001, n. 223, cause riunite C-223/99 e C-260/99 ha chiarito come « (…) un ente avente ad oggetto lo svolgimento di attività volte all’organizzazione di fiere, di esposizioni e di altre iniziative analoghe, che non persegue scopi lucrativi, ma la cui gestione si fonda su criteri di rendimento, di efficacia e di redditività e che opera in ambiente concorrenziale, non costituisce un organismo di diritto pubblico ai sensi dell’articolo 1, lettera b) comma 2, della direttiva».
Corte Giust. C.E., 27 febbraio 2003 n. 373, causa C-373/00 ha precisato che quella relativa ai «bisogni di carattere generale figurante nella predetta disposizione è una nozione autonoma del diritto comunitario, che deve essere interpretata tenendo conto del contesto in cui si inserisce tale articolo e degli scopi perseguiti dalla direttiva 93/96; che spetta al giudice a quo valutare l’esistenza o meno di un bisogno avente carattere non industriale o commerciale, tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali i fatti che hanno presieduto alla creazione dell’organismo interessato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività».
Cass., SS.UU., 7 aprile 2010, n. 8225, definisce «come bisogni generali aventi carattere non industriale o commerciale, ai sensi dell'articolo 1, lettera b), delle direttive comunitarie relative al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, quei bisogni che, da un lato, sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato e al cui soddisfacimento, d’altro lato, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un’influenza determinante. Risulta del pari dalla giurisprudenza che l’esistenza o la mancanza di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale deve essere valutata tenendo conto dell’insieme degli elementi giuridici e fattuali pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività, ivi compresa, in particolare, la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro a titolo principale, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonchè il finanziamento pubblico eventuale dell’attività in questione. Infatti ... se l’organismo opera in condizioni normali di mercato, persegue uno scopo di lucro e subisce le perdite collegate all’esercizio della sua attività, è poco probabile che i bisogni che esso mira a soddisfare siano di natura diversa da quella industriale o commerciale».
[16] A riguardo L.R. Perfetti, Organismo di diritto pubblico e rischio d’impresa, cit.; D. Palazzo, La rilevanza del rischio economico nella definizione dell’ambito soggettivo di applicazione della disciplina sui contratti pubblici e del diritto della concorrenza, in Dir. amm., 2019, 155.
Si occupano di delineare le caratteristiche e le differenze fra le due figure M.P. Chiti, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, nuove forme di soggettività giuridica o nozioni funzionali, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 70; D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico, l’impresa pubblica e la delimitazione soggettiva della disciplina sugli appalti pubblici, in Foro amm. CdS, 2003, 3827; R. Caranta, Organismo di diritto pubblico e impresa pubblica, in Giur. it., 2004, 2415; M.G. Roversi Monaco, Le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica nell’evoluzione dell’ordinamento, cit., 384; A. Nicodemo, Imprese pubbliche e organismi di diritto pubblico: analogie e differenze, in www.giustamm.it, 2012; F. Aperio Bella, Studio sull'attuale consistenza delle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, in Dir. e soc., 2015, 160.
[17] Relativamente al regime normativo previgente può essere proficuo rinnovare la lettura degli articoli 207 e 217 del Codice del 2006, nonché dell’art. 30 e del 40° considerando della direttiva 2004/17. Ciò in quanto nel solco segnato da siffatta disciplina si colloca Cons. Stato, Ad. pl., 1 agosto 2011, n. 16 che, nel puntualizzare la diversità tra appalti “esclusi” ed “estranei” all’applicazione del Codice dei contratti pubblici – riscontrandola nella strumentalità dell’oggetto dell’appalto rispetto all’espletamento dell’attività speciale- chiarisce come l’impresa pubblica sia tenuta a rispettare la disciplina codicistica soltanto in relazione alle attività riconducibili ai settori speciali di cui agli artt. 208-213. Ad avviso dell’Adunanza plenaria, «La ricordata esigenza di tutela della concorrenza che dichiaratamente presiede alla direttiva 2004/17/CE sugli appalti nei settori speciali per la frequente condizione di monopolio in cui versano quei servizi pubblici, non si ripete per queste altre attività delle imprese pubbliche. Queste altre attività anzi, proprio per lo svolgersi in un mercato competitivo, paiono – salvo singole patologie comportamentali - naturalmente portate verso la compressione dei costi dei contratti, e perciò spontaneamente orientate all’apertura al mercato dei fornitori di beni e servizi: cioè verso il prezzo più basso o l’offerta economicamente più vantaggiosa, e senza che sia imposto da regole esterne».
T.A.R. Lazio, sez. III, 19 aprile 2021, n. 4561 ha evidenziato come l’utilizzo delle procedura ad evidenza pubblica sia obbligatorio anche quando l’oggetto dell’affidamento riguardi attività strumentali a quella espletata nei settori speciali.
In relazione al concetto di strumentalità T.A.R. Lazio riprende, facendola propria, la posizione della Corte Giust., 28 ottobre 2020, C-521/18, secondo cui, a proposito di Poste s.p.a., possono considerarsi strumentali solo quelle attività che «servono effettivamente all’esercizio dell’attività rientrante nel settore dei servizi postali consentendo la realizzazione in maniera adeguata di tale attività, tenuto conto delle sue normali condizioni di esercizio, ad esclusione delle attività esercitate per fini diversi, dal perseguimento dell’attività settoriale di cui trattasi».
[18] Così F. Aperio Bella, Studio sull’attuale consistenza delle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, cit., 170-171, ad avviso del quale le imprese pubbliche «già sottratte al diritto dei pubblici appalti, vi sono attratte limitatamente ai “settori speciali”, e non in termini generali in quanto nei settori in questione (…), la sottoposizione di un operatore economico all’influenza dominante dell’apparato amministrativo è stata ritenuta una circostanza già da sola sufficiente a determinare una situazione di pericolo, che impone l’applicazione delle regole comunitarie volte a tutelare la libera concorrenza».
[19] Riguardo questo specifico profilo M.A. Sandulli, L’ambito soggettivo: gli enti aggiudicatori, Imprese pubbliche e attività estranee ai settori esclusi: problemi e spunti di riflessione, in Organismi e imprese pubbliche. Natura delle attività e incidenza sulla scelta del contraente e tutela giurisdizionale, cit., 3154 ss.; Id., Impresa pubblica e regole di affidamenti dei contratti, cit.
[20] Cfr. T.A.R. Lazio, sez. III, 19 aprile 2021, n. 4561, cit., secondo cui, però, tale scelta «non consente di radicare il contenzioso che nasce da tali procedure nella giurisdizione amministrativa».
[21] In questo senso Cass., SS.UU., 9 maggio 2011, n. 10068, in merito al parametro teleologico puntualizza che «(…) le normative europee non indicano i criteri per stabilire quando una specifica esigenza di carattere generale abbia carattere non industriale o commerciale. Il diritto comunitario, omettendo di fornire i criteri per stabilire quando ricorra la condizione in esame, rimette agli organi giurisdizionali dei singoli Stati stabilire quando ricorra tale condizione. La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, cui ai sensi dell’art. 234 CE era stata sottoposta una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione del menzionato art. 1, lett. b) della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, relativa al coordinamento delle procedure degli appalti pubblici di servizi, ha fornito alcuni criteri interpretativi al fine di stabilire quando ricorra una esigenza di carattere generale avente carattere non industriale o commerciale (v. sentenza 10 novembre 1998, causa C360/96, Gemeente Arnhem e Gemeente Rheden contro BFI Holding BV), precisando che la circostanza che l’organismo interessato agisca in situazione di concorrenza sul mercato può costituire un indizio a sostegno del fatto che non si tratti di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale; che questi ultimi bisogni sono, di regola, soddisfatti in modo diverso dall’offerta dei beni o servizi sul mercato; che in linea generale presentano tale carattere quei bisogni al cui soddisfacimento, per motivi connessi all'interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere una influenza determinante». Le Sezioni unite, inoltre, chiariscono che «in altre sentenze la Corte di giustizia ribadisce tali criteri affermando che spetta al giudice nazionale valutare l’esistenza o meno di un bisogno avente carattere non industriale o commerciale tenendo conto degli elementi giuridici e fattuali pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita la sua attività, ivi compresa, in particolare, la mancanza di concorrenza sul mercato, la mancanza del perseguimento di uno scopo di lucro a titolo principale, la mancanza di assunzione di rischi collegati a tale attività nonchè il finanziamento pubblico eventuale dell’attività in questione (v. sentenza n. 373 del 27.2.2003 causa C- 373/00; vedi altresì Cass. sez. un. n. 8225 del 2010)».
[22] In Cons. Stato, sez. V, 30 marzo 2013, n. 570 l’espletamento di attività secondo metodi che escludono l’assunzione del rischio di impresa per effetto di dazione di risorse da parte dell’ente pubblico idonee ad assicurare la permanenza sul mercato dell’organismo viene considerato indice presuntivo della sussistenza del requisito teleologico. In Cons. Stato, sez. VI, 20 marzo 2012, n. 1574 viene evidenziato come l’assenza del metodo economico può desumersi dal contesto in cui l’attività viene esercitata e cioè dall’esistenza o meno di un mercato di beni o servizi oggetto delle prestazioni erogate.
Cass. SS.UU., 7 aprile 2010, n. 8225 esclude che possa parlarsi di requisito teleologico ogniqualvolta l’ente svolga l’attività in un contesto concorrenziale facendosi carico del pericolo di eventuali perdite e sopportando il rischio economico riconducibile al perseguimento dell’oggetto sociale improntato a criteri di economicità.
[23] Per una approfondita e ragionata ricostruzione dei termini del dibattito sorto in merito G. Greco, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, cit., 844 ss. L’A. si schiera, comunque, a favore della tesi più restrittiva invocando proprio il dato normativo comunitario dal quale, a suo avviso, «risulta chiaramente che la figura di organismo di diritto pubblico sia altra cosa e sia distinta da quella di impresa pubblica».
A riguardo F. Aperio Bella, Sulle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, cit., 162-163, osserva come fra le due figure «le differenze tipologiche riguardano pertanto (i) le modalità di svolgimento dell’attività - economica e non economica – e la conseguente possibile compatibilità, esistente soltanto per le imprese pubbliche, tra scopo di interesse pubblico e scopo di lucro, nonché (ii) l’elemento costituito dall’influenza dominante, che, seppure coincidente in linea teorica, si atteggia diversamente a seconda della fattispecie, in quanto, mentre per l’organismo di diritto pubblico è desumibile da un ampio spettro di “indici”, compreso il controllo di gestione, per l’impresa pubblica deriva dal riscontro di elementi di dominanza pubblica riconducibili, in ultima analisi, alla detenzione pubblica maggioritaria del capitale sociale, dal cui riscontro deriva, a cascata, la ricorrenza degli altri elementi “indiziari” di dominanza pubblica individuati dalla normativa».
[24] A titolo meramente esemplificativo nella prima direzione possono vedersi, a livello di giurisprudenza comunitaria, Corte Giust., 16 ottobre 203, C-283/00, Siepsa, Corte Giust., 15 maggio 2003, C-214/00; a livello di giurisprudenza nazionale T.A.R. Lombardia-Milano, sez. III, 15 febbraio 2007, n. 266; in dottrina di questo avviso M.A. Sandulli, Impresa pubblica e regole di affidamento dei contratti, cit.; M.G. Roversi Monaco, Le figure dell’organismo di diritto pubblico e dell’impresa pubblica nell’evoluzione dell’ordinamento, in Dir. proc. amm., 2007, 387; Nella seconda direzione, a livello comunitario, Corte Giust., 10 aprile 2008, C-393/06; a livello interno Cass., SS.UU., 23 aprile 2008, n. 10443, secondo cui la «R.A.I. s.p.a. deve qualificarsi organismo di diritto pubblico, in quanto resta ancora la impresa pubblica cui lo stato ha affidato la gestione del servizio pubblico radio televisivo su cui intende conservare la sua influenza». Da tale premessa le Sezioni Unite fanno discendere la conseguenza che «essa quindi deve osservare le norme comunitarie di evidenza pubblica nella scelta dei propri contraenti per gli appalti dei servizi (ad eccezione di quelli esclusi del settore radiotelevisivo)». In dottrina sembrano propendere una nozione più ampia di organismo di diritto pubblico ricomprendente anche casi di imprese pubbliche D. Sorace, Pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali mediante società per azioni, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1997, 79 ss.; G. Pericu, M. Cafagno, Impresa pubblica, in E. Chiti, G. Greco (diretto da), Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 1997, parte speciale, 795; G. Morbidelli, Società miste, servizi pubblici e opere accessorie, in Riv. trim. app.,1997, 505; F. Gaffuri, Brevi considerazioni sulle riconducibilità delle società miste nella categoria degli organismi di diritto pubblico, cit., 255.
[25] F. Aperio Bella, Studio sull’attuale consistenza delle nozioni di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, cit., 161-162.
[26] A riguardo può vedersi Cons. Stato, Ad. pl., 1 agosto 2011, n. 16, la cui posizione ha trovato conferma nelle direttive del 2014 e nel vigente Codice dei contratti pubblici.
[27] Cfr. Corte Giust. U.E., sez. IV, 5 ottobre 2017 (punti 33-35).
Corte Giust. U.E., 22 maggio 2003, Korhonen e a., C- 18/01, peraltro, osserva come l’indagine volta ad accertare se “l’organismo” sia stato istituito allo specifico fine di soddisfare esigenze di interesse generale e se tali attività soddisfino effettivamente tali esigenze deve precedere quella attraverso la quale verificare se queste ultime abbiano o meno carattere industriale o commerciale (punto 40).
[28] Cfr. Corte Giust. U.E., sez. IV, 5 ottobre 2017 (punto 43).
[29] Cfr. Corte Giust. U.E., 16 ottobre 2003, Commissione/Spagna, C-283/00 (punti 81 e 82).
[30] Cfr. Delibera n. 41/17/CONS https://www.agcom.it/documents/10179/6702854/Delibera+41-17-CONS/1f4bc027-c119-4e5a-8380-da02daf3addb?version=1.1; nonché Allegato A alla Delibera n. 41/17/CONS https://www.agcom.it/documents/10179/6702854/Allegato+8-3-2017/c256909a-0163-42c1-b9c4 b2ed2efec23f?version=1.0Link.
In particolare, nella delibera n. 41/17/CONS viene chiarito come «Tipicamente, sul fronte della tutela della concorrenza, il mercato della televisione in chiaro viene analizzato considerando il solo versante della raccolta pubblicitaria – sul quale le imprese televisive conseguono ricavi dalla vendita degli spazi pubblicitari agli inserzionisti –, escludendo le attività finanziate dai fondi pubblici, che rappresentano una risorsa non contendibile sul mercato».
[31] L’art. 21 del Contratto di Servizio espressamente stabilisce che «In conformità a quanto stabilito dall’art. 47, commi 1 e 2, del TUSMAR, nel rispetto del diritto dell’Unione europea, e coerentemente a quanto previsto dall’art. 14 della Convenzione, la Rai predispone il bilancio di esercizio indicando in una contabilità separata i ricavi derivanti dal gettito del canone e gli oneri sostenuti nell’anno solare precedente per la fornitura del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale rispetto ai ricavi delle attività svolte in regime di concorrenza, imputando o attribuendo i costi sulla base di principi di contabilità applicati in modo coerente e obiettivamente giustificati e definendo con chiarezza i principi di contabilità analitica secondo cui vengono tenuti conti separati».
[32] Sulle implicazioni del rapporto fra concorrenza e giurisdizione I.M. Marino, Autorità garante della concorrenza e del mercato e giustizia amministrativa, in Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, II, 1001.
[33] Cfr. I.M. Marino, Corte di Cassazione e giudici «speciali» (Sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost.), in Scritti in onore di Vittorio Ottaviano, II, Milano, 1993, 1394 e 1407.
In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. Premessa. – 2. La vocazione nomofilattica del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. 3. Il ruolo normativo delle Corti di vertice – 4. La selezione delle questioni di diritto “a rilevanza nomofilattica” (note di diritto comparato). - 5. I criteri di ammissibilità del rinvio pregiudiziale. - 6. L’efficacia e il vincolo del principio di diritto. 7. Riflessioni di chiusura.
[Art. 362 bis c.p.c. “Rinvio pregiudiziale”:
«Fuori dei casi in cui procede in base agli articoli 394 e 400, il giudice di merito può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le condizioni di cui al secondo comma.
Il rinvio può essere disposto dal giudice quando:
1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte;
2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza;
3) presenti particolari difficoltà interpretative;
4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto.
Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte.
Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma.
Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza.
Il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda»]
1. Premessa
Tra le molte novità di grande rilievo contenute nel progetto di riforma del Codice di procedura civile elaborato dalla cd. “commissione Luiso” (dal nome del Presidente, il professor Francesco Paolo Luiso) presentato lo scorso maggio[1], spicca – per importanza sistematica e innovazione ordinamentale – l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione (art. 6-bis, lett. g. del Progetto, che introduce il nuovo art. 362 bis c.p.c.), ricompreso tra gli Emendamenti definitivamente firmati dalla Ministra della giustizia, la professoressa Marta Cartabia (Emendamento-13)[2].
Attraverso questo meccanismo si offre al giudice del merito la possibilità di richiedere alla Corte di Cassazione (che può decidere sia a sezioni semplici sia, in casi di particolare importanza, a sezioni unite) di esprimersi in via preventiva e in maniera vincolante nel caso di specie sull’interpretazione di un punto controverso di diritto. La pronuncia della Corte, che giustamente opera qui in udienza pubblica, servirà poi da guida, da indicazione quasi normativa per i casi vertenti sulla medesima questione. Non basta, infatti, che la questione esegetica sia rilevante, anche solo parzialmente, per la definizione del giudizio concreto; questa dovrà presentare alcune caratteristiche tassativamente previste che la rendano - per così dire - “di interesse pubblico”, a pena di inammissibilità. Essenzialmente: (a) esser nuova, o comunque non esser già stata trattata dalla Corte in precedenza; (b) esser di particolare importanza (l’autonomia di questa condizione è, però, discutibile, v. infra), (c) presentare particolari difficoltà interpretative e (d) essere suscettibile di riproporsi in numerose controversie, presenti e future.
Questi requisiti fanno intendere un punto importante, che merita di essere enfatizzato da subito: la pronuncia della Corte è semplicemente occasionata dal giudizio a cui si riferisce, ma ha una portata ben superiore. I giudici supremi si esprimeranno grazie a la vicenda, ma non solo per quella (anzi, questa è la parte marginale). La causa è un pretesto perché la voce della Corte si faccia sentire da tutti. Certo, i destini del caso concreto saranno inevitabilmente segnati, ma in ogni caso non vuole essere questa la funzione principale dello scioglimento della difficoltà interpretativa. Il senso è quello di fornire una guida (anzi, qualcosa di più) che si estenda e che irradi l’intero ordinamento (irradiare mi sembra la parola più appropriata: di «radiating effect of court decisions» si parla, nel contesto del common law, proprio per indicare questa influenza ordinamentale e normativa delle sentenze[3]).
2. La vocazione nomofilattica del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione
Il rinvio pregiudiziale alla Corte suprema in sé non rappresenta una novità nel panorama del diritto comparato. L’immediato riferimento, come la stessa Nota Illustrativa riconosce, è la saisine pour avis dell’ordinamento francese. Questo strumento, in vigore dal 1992, di cui agli artt. 1031-1 e seg. del Code de procédure civile e L441-1 e seg. del Code l'organisation judiciaire, viene preso a modello quasi letteralmente. La Cour de cassation (o anche il Conseil d’Etat) può essere infatti adita preventivamente «sur une question de droit nouvelle, présentant une difficulté sérieuse et se posant dans de nombreux litiges»[4]. Con l’importante differenza però che, come dice il nome stesso (avis), la pronuncia non è formalmente vincolante nemmeno per il giudice a quo. Mutatis mutandis, anche il ben noto rinvio pregiudiziale alle Corte di Giustizia di cui all’art. 267 TFUE, per quanto riguarda il diritto dell’Unione europea, presenta importanti analogie[5].
Come in queste due ipotesi, l’introduzione va dichiaratamente nella direzione di potenziare la funzione nomofilattica (nel nostro caso, della Corte di Cassazione), in linea con le principali linee di riforma degli ultimi anni che hanno interessato il processo civile italiano e il giudizio di legittimità in particolare[6].
Lo scopo dichiarato è difatti quella di porre un rimedio alla lentezza nella formazione e nella fissazione di orientamenti chiari su punti controversi, considerati evidentemente essenziali nel loro ruolo che definiamo - senza timore - normativo (v. infra. Par. 2). La Cassazione, investita del rinvio, ha l’opportunità di pronunciarsi nell’immediatezza del sorgere dell’incertezza interpretativa nelle corti di merito, senza attendere che un caso giunga alla sua attenzione attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione, mentre nell’attesa si formano letture contrastanti. L’effetto sperato è quello che, grazie alla pronta soluzione del quesito esegetico, si prevenga il contenzioso futuro (o comunque si chiuda quello già sorto sulla medesima questione). La Nota Illustrativa fa riferimento alla ben nota querelle circa il soggetto onerato a promuovere istanza di mediazione obbligatoria nell’opposizione a decreto ingiuntivo (l’opponente o l’opposto?): solo nel 2020 le Sezioni Unite, investite della questione, si sono espresse, mentre per anni sia in dottrina sia in giurisprudenza (non solo di merito) vi erano state vedute discordi[7].
Si potrebbe obiettare che non è sempre bene pronunciarsi subito, rapidamente, su una questione interpretativa difficile. L’obiezione ha fascino. Soprattutto se il dilemma è nuovo, recente, appena nato, occorre che le argomentazioni si sviluppino, si affinino, evolvano, si scontrino, trovino l’appoggio di questa o quella parte della dottrina, la quale a sua volta contribuirà a chiarificare gli aspetti positivi dell’una o dell’altra lettura; col tempo, poi, sorgeranno questioni pratiche che, forse, non erano state intraviste prima (la prassi è sempre imprevedibile) e sulle quali si sedimenteranno altre letture, contribuendo così al formarsi di una consapevolezza matura. Ma – come ha detto, forse sconsolatamente, Jean Buffet, all’epoca presidente della 2ème chambre della Cour de cassation, a proposito della saisie pour avis – «certains luxes ne sont plus possibles»[8].
3. Il ruolo normativo delle Corti di vertice
Facciamo un passo indietro e mi sia consentito partire da una premessa filosofica generale. Tutti gli ordinamenti contemporanei condividono una necessità: e cioè che, all’interno del sistema giuridico, non vi sia il caos interpretativo. Nelle questioni di diritto - forse la sola area tra quelle della conoscenza umana dove sia così sentita questa esigenza - c’è bisogno di qualcuno che parli “con l’autorità del Papa” (with the authority of the Pope: così si esprime il grande processualista statunitense Owen Fiss)[9]; e un altro studioso inglese (Peter Goodrich) discorre della necessità di un “supremo arbitro del significato” (supreme arbiter of meanings) delle parole della legge[10]. Vogliamo che il linguaggio del diritto sia il linguaggio dell’obiettività, e di questo linguaggio non può che esserne custode il giudice. Sappiamo che ogni enunciato normativo esprime sempre più norme (una per ogni interpretazione possibile), ma vogliamo sapere quale sia quella, sola, che debba guidare il comportamento. Nel diritto - potremmo dire - è necessario che vi sia l’ipse dixit[11].
Mi spingo anzi a dire che questa esigenza fa parte del concetto di diritto così come noi lo conosciamo. Si potrebbe, forse, immaginare un ipotetico ordinamento dove le interpretazioni divergano, e anche di molto, pur all’interno del recinto semantico tracciato dalle parole; però, in un siffatto mondo, occorre esser consapevoli che sia il valore (morale) dell’uguaglianza dei consociati davanti alla legge (il “trattare situazioni uguali in maniera uguale”, laddove per “uguale”, s’intende naturalmente “uguale agli occhi del diritto”) sia quello (latamente economico) - al primo strettamente collegato - della prevedibilità (calcolabilità) delle decisioni giudiziarie e quindi delle conseguenze dei propri comportamenti, sarebbero sacrificati[12]. Poiché questi valori sono considerati essenziali per i moderni stati di diritto, bisogna trovare forme per garantirne l’effettività.
Ora, questa funzione è assegnata alle Corti di vertice, le quali hanno (anche) il compito, tutto pubblico, di “ricondurre a unità” la polifonia di interpretazioni che, fisiologicamente e in misura maggiore o minore a seconda del contesto giuridico-culturale, si verificano tra coloro che sono chiamati ad applicare il diritto.
Questa dimensione pubblica dell’attività uniformatrice non può passare in secondo piano. Fa parte della natura stessa delle Corti di vertice la protezione dell’interesse collettivo alla «uniforme interpretazione» della legge e all’«unità del diritto oggettivo» (così si esprime l’art. 65 dell’ord. giud.; tra parentesi, tralascio volutamente qui il riferimento alla «esatta osservanza»: a prescindere dalla questione se possa in astratto darsi, o no, “esattezza” nell’interpretazione giuridica, non coincide forse questa con l’uniformità della stessa? Se ammettiamo il ruolo creativo della giurisprudenza - e mi sembra che rimangano pochi spazi per dubbi - allora l’interpretazione esatta sarebbe null’altro che quella uniforme data dalla Cassazione, e viceversa[13]).
Come è stato recentemente dimostrato in maniera credo definitiva, si usano impropriamente le espressioni ius litigatoris e ius constitutionis per identificare, rispettivamente, la protezione dell’interesse delle parti e quella dell’interesse “del diritto in generale”, nei giudizi di legittimità (dall’analisi storica risulta che esse descrivano, rispettivamente e semplicemente, l’errore di fatto e l’errore di diritto[14]). Ma la duplicità, l’ambivalenza, la tensione anzi tra l’esigenza della protezione dei diritti soggettivi, e quindi la cassazione di tutte le sentenze di merito giuridicamente non corrette, da un lato, e quella di assicurare l’unità, l’armonia del diritto, rimane in tutta la sua radicalità. La dottrina più attenta ha rimarcato a lungo la presenza di questi “due volti” che sempre più difficilmente sono chiamati a convivere[15]. Loïc Cadiet ha parlato a questo proposito di funzione disciplinare e funzione normativa della Corte di Cassazione francese per indicare, rispettivamente, l’attività di supervisione del rispetto della legalità, e quindi di censura delle sentenze non conformi a diritto, e quella di guida orientatrice, dovuta alla sua posizione apicale; l’una retrospettiva, volta a sanzionare l’errore, l’altra prospettiva, proattiva[16]. E la tendenza in atto dimostra chiaramente verso quale dei due estremi oscilli il pendolo, nel caso in cui questi due valori entrino in conflitto – ed è evidente che, pragmaticamente (non concettualmente), questo conflitto accada. L’esperienza insegna che non si possono volere (o meglio, ottenere) entrambe le cose in massimo grado. D’altronde, l’uso dell’espressione rôle normatif, riferita alla Cour de cassation - provocatoria se vogliamo, specialmente nell’ordinamento francese - si è imposta negli studi più recenti Oltralpe (paiono lontani i tempi del giudice bouche de la loi) e indica bene l’inevitabile trasformazione in atto, una delle grandi tendenze del nostro tempo su scala globale[17].
4. La selezione delle questioni di diritto “ad alto valore nomofilattico” (note di diritto comparato)
La naturale funzione pubblico-normativa delle corti di vertice fa sì che queste, sempre più spesso, siano chiamate a selezionare e a pronunciarsi solo su casi - per così dire - “ad alto valore nomofilattico”.
Le corti supreme di common law sono un esempio lampante. Accantoniamo la Corte Suprema Federale Statunitense (modello assai distante per i nostri fini), che pure ha le sue tecniche per scegliere quando esprimersi e quando è meglio star zitti[18], e diamo uno sguardo al sistema inglese. Quando – spessissimo - l’Appeal Panel della Supreme Court del Regno Unito si trova a rifiutare di pronunciarsi su un caso, negando, nella sua immensa discrezionalità, il permission of appeal, la maggior parte delle volte lo fa sulla base del fatto che le parti «do not raise an arguable point of law of general public importance»; cioè, letteralmente, il punto di diritto sollevato dai litiganti non presenta un sufficiente grado di importanza pubblica generale, un livello di proiezione che vada al di là di ciò che può interessare coloro che sono coinvolti nel giudizio[19]. Ma chi decide se il punto di diritto è adeguatamente, sufficientemente, importante? E soprattutto, e prima ancora: sulla base di quali criteri oggettivi è possibile operare un simile giudizio? Difficile dirlo. È la stessa Supreme Court ad auto-selezionare i ricorsi meritevoli sulla base di questa formula stereotipata (e fino a pochi anni fa senza nemmeno richiamarsi a questa). La scelta non è motivata e non può esser censurata. La stessa dottrina inglese sottolinea questa aleatorietà, ma senza che ciò si traduca in una aperta obiezione: «It is not possible to say, for any particular case, what general factors led to permission to appeal being granted. It is, however, possible to test […] which factors are associated with success»[20]. L’interesse privato, e quindi il problema della correttezza o meno della sentenza, è pressoché assente dalla valutazione della Supreme Court.
Questo funzionamento è in linea con la tradizione giudiziaria di quel Paese. Una tale soluzione sarebbe difficilmente percorribile all’interno della nostra cultura giuridica. Lascerebbe al giudice un così ampio margine di apprezzamento su cosa decidere (o non decidere) che sarebbe assai mal tollerato; e questo anche a tacer della presenza, in Italia, dell’art. 111, comma 7, Cost. che garantisce il diritto al ricorso per cassazione contro tutti i provvedimenti definitivi che decidono su diritti (il che, come è stato correttamente denunciato, finisce col porsi paradossalmente in contrasto con le esigenze di nomofilachia e necessiterebbe, pertanto, un serio, ma improbabile, ripensamento[21]).
Il bisogno di formare giurisprudenza con caratteristiche di quasi normatività su ricorsi ad alta valenza nomofilattica, però, è assai sentita anche dai paesi di civil law. La saisine pour avis consultiva francese, a cui s’è già fatto cenno, è un chiaro esempio. Ma ci sono anche altri meccanismi che possono essere apprezzati. In Spagna, ad es., uno dei fattori legittimanti il ricorso per cassazione è la presenza del cd. interés casacional (art. 477, commi 2 e 3, Ley de Enjuiciamiento Civil): tra le altre ipotesi, il Tribunal Supremo può pronunciarsi in quanto sia dimostrato questo interesse, che sussiste, ad es., nel caso in cui (a) la sentenza impugnata sia contraria alla giurisprudenza (doctrina jurisprudencial) del TS, (b) esistano contrasti giurisprudenziali sul punto, e (c) la norma applicata non sia in vigore da più di cinque anni, sempre che non sia già intervenuta una pronuncia sul punto da parte del TS. Quest’ultimo requisito, in particolare, mi pare degno di essere riportato, in quanto in linea sia con quello della question de droit nouvelle, nella saisine pour avis, sia con la “novità della questione di diritto” nel testo provvisorio dell’art. 362 bis c.p.c. Sembra che si vadano delineando, nel panorama comparato, corti supreme chiamate a dare – mi si perdoni l’improprietà – quasi interpretazioni autentiche dei testi normativi nuovi.
Sempre lungo questa linea, nel 2016, sempre in Spagna, nel nuovo recurso de casación contencioso-administrativo si fa riferimento al (discussissimo) concetto di interés casacional objetivo para la formación de jurisprudencia (art. 88, Ley Orgánica 7/2015). Questo interesse oggettivo potrà essere vautato, tra le varie ipotesi, quando la sentenza impugnata «afecte a un gran número de situaciones, bien en sí misma o por trascender del caso objeto del proceso», cioè sia idonea a influenzare un gran numero di situazioni, o di per sé, o perché trascende il caso oggetto del processo[22]. Non c’è bisogno di sottolineare il parallelismo evidentissimo con il requisito della “suscettibilità, per l’oggetto o per la materia, della questione di diritto di presentarsi in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito”, nel testo provvisorio del futuro art. 362 bis, comma 2, n. 4 c.p.c.
È noto, infine, che anche nell’ordinamento italiano i giudici di legittimità sono chiamati, talvolta, a selezionare discrezionalmente i ricorsi sulla base della loro “importanza” o “rilevanza”. In questi casi, l’azione in qualità di custodi di un interesse che trascende quello delle parti in causa è manifesta. Si potrebbe ribattere – e giustamente – che la Corte di Cassazione agisce sempre a tutela (anche) dell’interesse pubblico. Tutte le sue pronunce sono dotate per natura di una particolare autorevolezza che fa sì che il loro dictum si estenda sempre oltre il caso specifico. Le ultime riforme hanno proprio enfatizzato questo ruolo guida della giurisprudenza tout court della Corte Suprema[23]. Vero. Ma vi sono momenti in cui questo interesse pubblico è assolutamente preponderante o addirittura esclusivo.
Il ricorso e la pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge è l’emblema più tipico. Derivato già dall’antico istituto francese post-rivoluzionario del ricorso da parte di un commissaire du roi dans l'intérêt de la loi, codificato in Italia all’art. 363 c.p.c., potenziato e rinvigorito nel 2006, delinea un meccanismo per il quale la Cassazione, su richiesta del Procuratore Generale rivolta al Primo Presidente (commi 1 e 2), o anche d’ufficio (comma 3), può pronunciarsi sulla corretta interpretazione di un punto di diritto senza che questo abbia effetti sulla fattispecie concreta, qualora le parti non possano (più) impugnare l’originaria sentenza o in caso di dichiarata inammissibilità[24]. Ma questa pronuncia – puntualizza l’art. 363 c.p.c. – può avvenire solo «se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza» (requisito, a voler essere precisi, stabilito testualmente solo per la pronuncia d’ufficio e per l’eventuale assegnazione, da parte del Primo Presidente, alle Sezioni Unite). Del resto, della pronuncia i destinatari non sono le parti coinvolte, ma l’intera classe dei giuristi, anzi, i consociati tutti. La rubrica avrebbe potuto dire “ricorso, o principio, nell’interesse di tutti” o “nell’interesse della collettività”, ma la formula usata è più pregnante, evocativa: “ricorso, o principio, di diritto nell’interesse della legge”. La legge (il diritto) è portatore di un interesse suo proprio. Il diritto, che deve essere custodito, viene personificato. (Ma attenzione; il rinvio pregiudiziale si differenzia profondamente, dal punto di vista concettuale, dall’enunciazione del principio nell’interesse della legge: mentre quest’ultimo, è, per così dire, astratto, il primo è pur sempre funzionale alla decisione della causa, e quindi è espresso in concreto, sebbene con vocazione generale).
Ancora: l’art. 374, comma 2 c.p.c. stabilisce che le Sezioni Unite si pronunciano (oltre che nell’ipotesi di conflitto di giurisprudenza) quando il ricorso presenta «una questione di massima di particolare importanza». La formula è leggermente differente, ma la sostanza non pare cambiare. Importante, anzi particolarmente importante è la parola chiave. Anche in questo caso la valutazione è discrezionale (“Il primo presidente può disporre”) e non c’è un diritto delle parti a vedere la propria causa discussa da questa particolare composizione. La Corte qui agisce al di là dell’interesse delle parti, a beneficio innanzitutto “del diritto in quanto tale”.
È chiaro che, in tutti questi tipi di valutazioni, importanza e rilevanza non hanno, né dovrebbero mai avere, una caratterizzazione soggettiva. Non si intende importante per le parti o importante anche solo nel senso concreto del termine (mi spiego: immaginiamo, ad es., una controversia sulla chiusura di un impianto produttivo cruciale il quale svolge una funzione sociale immensa nel contesto di riferimento; il punto interpretativo di diritto in una tal lite avrebbe una indubbia “importanza” per le sue ampie ricadute fattuali, ma non rientrerebbe, per questa sola ragione, entro l’alveo di applicazione delle norme ricordate). Ne segue pertanto una conclusione non da poco: l’importanza, o rilevanza che dir si voglia, non andrebbe mai misurata dal punto di vista economico, dal valore della controversia, che è qualcosa di contingente. Una causa da un miliardo di euro può anche non presentare nessun aspetto giuridico problematico, discusso, né di centralità sistematica né utile per risolvere casi futuri; e viceversa, una causa di pochi centesimi ben può riferirsi, ad es., a un rompicapo interpretativo di diritto affrontato da tempo in dottrina o in giurisprudenza con pluralità di vedute e idoneo, se non risolto, a generare un contenzioso di massa[25]. Anzi; sarebbero proprio le controversie che, normalmente, hanno minor valore quelle che necessitano maggiormente di interventi nomofilattici, proprio per l’attitudine delle questioni di diritto in esse contenute a presentarsi più frequentemente nel corpo sociale.
5. I criteri di ammissibilità del rinvio pregiudiziale
Riflettere, anche comparativamente, su questi aspetti mi sembra utile in quanto la locuzione «particolare rilevanza», riferita alla questione di diritto, è ripetuta anche nel testo del futuro art. 362 bis, comma 2, lett. 2) c.p.c. qui in esame; locuzione che viene poi ulteriormente ribadita (nella dizione alternativa della “particolare importanza”) al successivo comma 6, che regola l’ipotesi in cui il rinvio pregiudiziale deve essere deciso non dalla sezione semplice, ma dalle Sezioni Unite (cosicché parrebbero esserci, a voler essere meticolosissimi, due distinti giudizi di importanza/rilevanza; uno, il primo, ai fini dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale e decisione da parte della sezione semplice, e l’altro, successivo e qualificato, ai fini dell’assegnazione eventuale alle Sezioni Unite. Tra le questioni particolarmente rilevanti, dovranno essere selezionate quelle… particolarmente importanti; una sorta di “importanza di secondo grado”, come a dire che, nel caso di assegnazione alle S.U., il quesito deve essere, enfaticamente, estremamente, sommamente importante).
Qualche aspetto tecnico.
Il rinvio è richiesto dal giudice a quo, che agisce in totale autonomia; le parti, al più, potranno sollecitare la sua azione. Come negli incidenti di costituzionalità, si è voluto attribuire alla sola autorità giudiziaria la facoltà di aprire questa parentesi che, alla stessa maniera, sospende il processo d’origine (sospensione cd. “impropria”, in quanto il giudizio che si apre non verte sulla dichiarazione di diritti). Avrebbe il legislatore potuto stabilire l’obbligatorietà di questo rinvio? La risposta è risolutivamente negativa; la potestas interpretandi del diritto non è di competenza esclusiva della Corte di cassazione, e pertanto la - per così dire - cessione del diritto-dovere di ius dicere non avrebbe potuto che essere discrezionale[26].
Opportunamente si prevede che, prima di giungere all’attenzione della Corte, il rinvio debba passare un “filtro” a cura del Primo Presidente. Il testo dell’art. 362 bis c.p.c. elenca i requisiti che la questione di diritto deve possedere a pena di inammissibilità. Dalla lettura del testo, si ricava che dovrebbero essere tutti contemporaneamente presenti per superare il vaglio: “Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale […] la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni» (dal che si deduce che l’assenza anche solo di una delle qualità rende il rinvio irricevibile).
I problemi interpretativi che questa lista solleva non sono pochi, ma non sono nemmeno insuperabili. Un adeguato sviluppo giurisprudenziale contribuirà a chiarire le incertezze che saranno via via sollevate (è prevedibile che sarà la “novità” della questione quella che darà luogo alle maggiori incognite: si potrebbe, ad es., utilizzare questo meccanismo per sollevare un nuovo quesito interpretativo, riferito però a una disposizione sulla quale la Corte si sia già pronunciata? Immaginiamo che la Corte, in sede di rinvio pregiudiziale, abbia interpretato la disposizione D nella forma D1, escludendo l’interpretazione D2. Potrebbe, poco dopo, un altro giudice, in altro processo, chiedere alla Corte di pronunciarsi sul medesimo testo, argomentando però D3, per la prima volta? Propenderei, forse, per la risposta negativa, più aderente alla formulazione della legge, che riferisce la novità alla questione, non all’argomentazione spesa: ma mi sembra che il discrimine tra le due non sia poi così preciso[27]. E ancora: come si misura la suscettibilità della questione di presentarsi in numerose altre controversie? Come dovrà motivare il giudice a quo sul punto?).
A questo riguardo, mi preme sottolineare un ultimo aspetto. Alla luce dei criteri, mi pare di poter dire che il requisito dell’importanza di cui al comma 2, lett. 2, non sia tanto una qualità autonoma della questione, ulteriore e separata dalle altre, bensì una forma per ricomprendere, in una sola parola, le caratteristiche enumerate. La lista stessa già dà corpo a questo giudizio di meritevolezza. Mi sembra evidente, infatti, che una questione di diritto che sia al contempo nuova, sia oggettivamente difficile e sia idonea a presentarsi in un vasto contenzioso di serie, sia per ciò stesso importante, senza bisogno di ulteriori argomentazioni.
6. L’efficacia e il vincolo del principio di diritto
La disposizione, infine, specifica che «Il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio».
Il riferimento, testualmente, è al giudice (singolare), non ai giudici. A prima vista, sembrerebbe quindi che il vincolo si produca solo nei confronti dell’autorità postulante. Cosicché, se il rinvio è stato disposto dal Tribunale, la Corte d’Appello potrebbe re-interpretare diversamente la questione, non essendosi l’organo di secondo grado spogliatosi volontariamente del potere di decidere il diritto. Insomma, qualcuno potrebbe esser tentato di sostenere che l’aver abbandonato il proprio potere di ius dicere vincoli solo chi lo ha voluto e non potrebbe estendersi agli altri gradi. Questo ragionamento, però, non convince ed è contrario allo spirito della disposizione[28]. La pronuncia in sede di rinvio pregiudiziale (esattamente come quella sul principio di diritto in sede di rinvio “ordinario” ex art. 384, comma 2 c.p.c.) è un rechtliche Beurteilung, un “giudizio giuridico” definitivo. Con la sua decisione, richiesta, la Cassazione crea - nel senso kelseniano del termine - la norma specifica e individuale che risolve, una volta applicata, una volta per tutte il conflitto[29]. Vi è quindi una scissione temporale e soggettiva tra interpretazione e applicazione (o, se vogliamo, con altra terminologia, tra interpretazione in astratto e interpretazione in concreto): due attività che, però, normalmente, sono realizzate in forma contestuale e che pertanto devono essere considerate in maniera unitaria. Nel testo, quindi, la parola giudice va intesa come generica “autorità giudiziaria” del processo in corso. Si aggiunga che la definitività di questo giudizio è anzi talmente intensa da sopravvivere, esattamente come accade nell’art. 392 c.p.c., persino in un eventuale giudizio futuro (vincolando così un altro giudice), instaurato tra le medesime parti e sul medesimo oggetto di causa (evidentemente, in caso di estinzione del primo; cd. effetto ultrattivo). Tutti i giudici del merito del procedimento sono quindi obbligati ex lege ad uniformarsi a quanto statuito dalla Corte senza poterlo rimettere in discussione; se ciò non avviene, il soccombente potrà dolersene con le impugnazioni (se in sede di legittimità, per errore di diritto).
Per quanto forte, però, tale vincolo sul procedimento in corso non è assoluto. Innanzitutto, così come nel giudizio di rinvio “ordinario”, è da ritenersi che questo cessi davanti allo ius superveniens (o, ovviamente, in caso di intervenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma da applicare o di intervenuta sentenza della Corte di Giustizia). Aggiungerei – ma sono consapevole che l’affermazione è problematica e discutibile – che il vincolo venga meno anche qualora nel frattempo sia mutato l’orientamento della Cassazione su quello stesso punto di diritto[30]. Se prendiamo davvero sul serio l’affermazione per la quale gli orientamenti consolidati sono - secondo una concezione realistica e non formalistica - fonti del diritto (nella misura in cui possiedano certe caratteristiche di autorevolezza e stabilità), allora la loro successione nel tempo dovrebbe essere parificata a quella delle leggi. D’altronde, come può apparire ingiusta l’applicazione di una disposizione che non è più vigente (e che è cambiata, evidentemente perché non considerata più adatta), parimenti appare ingiusta l’applicazione di una interpretazione che nel frattempo è stata apertamente sconfessata e rinnegata (e quindi parimenti considerata non più adatta) dallo stesso organo che l’aveva originariamente pronunciata. A maggior ragione, ritengo che la Corte stessa, se investita nuovamente del ricorso con le impugnazioni, potrà cambiare l’originaria opinione (a meno che quella non fosse stata emessa dalle Sezioni Unite, nel qual caso dovrà operare l’art. 374, comma 3, c.p.c. che impone la rimessione a queste ultime). Ci si aspetta però che questo accada raramente, stante la necessità di una (relativamente intensa) stabilità delle pronunce interpretative.
Il valore del provvedimento interpretativo non è, né avrebbe potuto essere, formalmente vincolante per tutti gli altri giudizi, presenti e futuri. La sua efficacia è identica alla pronuncia del principio a seguito di cassazione con rinvio, ex art. 383 c.p.c. (il nuovo art. 362 bis c.p.c. parla proprio, testualmente, di principio di diritto). È chiaro, però, che la sua forza è concepita, nel disegno complessivo e alla luce della ratio della norma, come particolarmente intensa. A mio avviso, comunque, queste distinzioni analitiche non devono preoccupare troppo. La dicotomia tra efficacia pienamente vincolante ed efficacia solo persuasiva dei precedenti non ha mai convinto appieno; è noto, infatti, che questi possono essere più o meno vincolanti, a seconda di quanto siano effettivamente seguiti e rispettati, oppure no, nella realtà. (Ammesso che di “precedente”, nei sistemi continentali, e specialmente in Italia, possa parlarsi: e la risposta, a stretto rigore, dovrebbe essere negativa, in quanto, nella nostra tradizione, per “precedente” intendiamo una regola compilata sotto forma di “massima”, cioè in termini generali e astratti, laddove invece nell’universo di common law questo è l’applicazione di una regola a un caso concreto[31]). I comparatisti sanno bene che, da un lato, mentre nel common law il precedente può rappresentare un ostacolo più facilmente superabile di quanto si pensi (i giudici possono discostarsene attraverso le note tecniche del distinguishing e dell’overruling; la vincolatività è questione culturale, prima ancora che normativa), d’altro lato tutti i sistemi di civil law vanno verso una maggior stabilità della giurisprudenza, la quale, sotto certe condizioni, ben può considerarsi diritto vivente (e vigente)[32].
7. Riflessioni di chiusura
Come si è cercato di mettere in luce, l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione rappresenta un tassello ulteriore verso una corte sempre più dotata di un ruolo quasi normativo. Aggiungiamo “quasi”, perché la stabilità e la forza dell’interpretazione della Cassazione è (deve essere) pur sempre tendenziale, aperta all’evoluzione e alle buone ragioni, non granitica. La sua forza non va misurata col metro del formalismo, ma con quello della fattualità (cioè la responsività ai fatti) e dell’effettività[33].
L’assunzione di questo ruolo, peraltro, è una delle grandi tendenze in atto a livello comparato. Le ragioni di questa traiettoria sono sicuramente complesse e non è questa la sede per indagarle; a livello generale, bisognerebbe risalire al mutamento che sta avvenendo circa il ruolo del giudice, all’importanza sempre più cruciale del diritto giurisprudenziale e, ancora più a monte, alla crisi del formante legislativo tout court (in breve: alle ragioni della post-modernità giuridica, nel senso tecnico dato a questo vocabolo da Paolo Grossi)[34]. La nostra non è più l’epoca della “vocazione per la legislazione” o per la “scienza giuridica” (come scriveva Savigny[35]), bensì quella per la giurisdizione[36].
Parecchie implicazioni discendono da questa presa d’atto. Una delle molte è che i giudici (e quelli supremi in particolare) devono avere piena consapevolezza della magnitudine di questo compito, e quindi della necessità di svolgerlo con equilibrio e misura. Il rimedio al pericolo di una Corte che si pone «di fronte alle regole come un Titano del diritto sempre più protetto, ma anche sempre più chiuso, nella sua Torre» (il che sarebbe sommamente negativo[37]) sta, probabilmente, nel dialogo. Non intendo solo il dialogo con la legge o il dialogo con la dottrina[38]. Mi riferisco qui al dialogo con le corti di merito, nel più ampio quadro di una nomofilachia discorsiva[39]. D’altro canto, è il giudice del merito che solleva (se lo ritiene) la questione, è dal caso specifico che il quesito origina, ed è ai giudici del merito che la questione ritornerà per essere effettivamente seguita; ed è evidente che la Corte né dovrà, né potrà, essere insensibile alle istanze che dal merito provengono.
[1] V. Proposte normative e note illustrative, disponibile in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1754-le-proposte-di-interventi-in-materia-di-processo-civile-e-di-strumenti-alternativi. Vedi, in generale, E. D’Alessandro, La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo, in Giustizia Insieme, 31 maggio 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1758-la-riforma-della-giustizia-civile-secondo-il-piano-nazionale-di-ripresa-e-resilienza-e-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-riflessioni-sul-metodo-di-elena-d-alessandro, G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in Giustizia Insieme, 24 maggio 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1747-osservazioni-al-maxi-emendamento-1662-s-xviii-di-riforma-del-processo-civile, B. Capponi e A. Panzarola, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII (breve contributo al dibattito), in Giustizia Insieme, 21 maggio 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1744-questioni-e-dubbi-sulle-novita-del-giudizio-di-legittimita-secondo-gli-emendamenti-governativi-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-breve-contributo-al-dibattito.
[2] In senso critico, su questa introduzione, B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in Giustizia Insieme, 19 giugno 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1811-e-opportuno-attribuire-nuovi-compiti-alla-corte-di-cassazione-di-bruno-capponi. Per un primo sguardo d’insieme circa le novità in materia di giudizio di legittimità, R. Frasca, Considerazioni sulle proposte della Commissione Luiso quanto al processo davanti alla Corte di Cassazione, in Giustizia Insieme, 7 giugno 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1779-considerazioni-sulle-proposte-della-commissione-luiso-quanto-al-processo-davanti-alla-corte-di-cassazione.
[3] M. Galanter, The Radiating Effect of Courts, in K. Boyum – L. Mather (a cura di), Empirical Theories About Courts, New York, 1983, 115 e seg.
[4] Da tempo l’istituto ha attirato l’attenzione della dottrina italiana; cfr. già C. Silvestri, La saisine pour avis della Cour de Cassation, in Riv. Dir. Civ., 1998, 495 e seg.
[5] Così come, per certi aspetti, l’art. 420 bis c.p.c. (Accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi) e anche l’incidente di costituzionalità; lo rileva B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, cit.
[6] Nomofilachia è parola senza dubbio bellissima: “custodire i nomoi”, un compito tanto nobile quanto necessario; su questo, penso non si possa non essere d’accordo. I disaccordi intervengono, piuttosto, sull’uso che di questa esigenza ne è stato fatto, ossia per giustificare interventi e prassi giudiziarie, stratificatisi poi nel tempo, non sempre apprezzabili, perché tutte volte alla riduzione o comunque al respingimento massivo dei ricorsi; cfr. B. Sassani, La deriva della cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. Dir. Proc., 2019, 74 e seg. Ma vedi poi le considerazioni di E. Scoditti, La nomofilachia naturale della Corte di cassazione. A proposito di un recente scritto sulla «deriva della Cassazione», in Foro It., 2019, V, 415 e seg. Sulla nomofilachia, tra la sterminata letteratura, si rimanda a F. Di Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in Giustizia Insieme, 3 marzo 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1598-giudice-e-precedente-per-una-nomofilachia-sostenibile
[7] Il riferimento è a Cass. Sez. Un. 18 settembre 2020, n. 19596 (cfr., ex multis, M. Mocci, La Corte di Cassazione chiarisce a chi spetti l’onere di promuovere la mediazione a seguito di un decreto ingiuntivo, in Giustizia Insieme, 20 novembre 2020, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1360-la-corte-di-cassazione-chiarisce-a-chi-spetti-l-onere-di-promuovere-la-mediazione-a-seguito-di-un-decreto-ingiuntivo).
[8] Jean Buffet, Pour aller plus loin : exposé de Jean Buffet, 29 marzo 2000, disponibile in https://www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/avis_15/presentation_saisine_avis_8018/loin_expose_36050.html: «La saisine pour avis «a été conçu comme un instrument mis à la disposition des juges du fond […] destiné à remédier […] à la lenteur de la formation de la jurisprudence, puisqu’il faut attendre plusieurs années avant qu’une difficulté ne remonte jusqu’à la Cour de Cassation. […] Certes certains autres, plus minoritaires, ont trouvé le procédé fâcheux et pervers en soulignant que seule une longue maturation préalable d’une affaire, enrichie d’opinions divergentes des tribunaux et de débats doctrinaux, permet à la Cour de Cassation de dire le droit d’une manière sûre. […] Mais certains luxes ne sont plus possibles».
[9] O. Fiss , Objectivity & Interpretation, in 34, Stanford Law Review, 1982, 755. Va precisato che, nel suo scritto, Fiss ricollegava questa autorità alla funzione giudiziale tout court, in termini puramente descrittivi; ma ritengo che la formula esprima bene, a livello di immagine evocata, l’esigenza normativa propria delle corti di vertice.
[10] P. Goodrich , Reading the Law, Oxford University Press, 1986, 188.
[11] La ragione, fondamentalmente, è che il linguaggio del diritto è un linguaggio amministrato; innanzitutto dal legislatore, certamente, ma anche dalla giurisprudenza. Sul concetto di linguaggio amministrato, fondamentale i contributi di Mario Jori, e spec. Definizioni giuridiche e pragmatica, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1995. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, 1995, 109 e seg.
[12] Trovo che valga la pena insistere su questa dimensione morale ed economica al tempo stesso dei valori di uguaglianza e certezza. Insuperate, sul punto, le riflessioni di P. Calamandrei, Fede nel diritto (1940), a cura di S. Calamandrei (con saggi di G. Alpa, P. Rescigno, G. Zagrebelsky), Roma-Bari, 2008, spec. 83 e seg., e l’introduzione di G. Zagrebelsky, Una travagliata apologia della legge, 3 e seg.
[13] La sottile argomentazione è di S. Chiarloni, Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale dell’accesso in cassazione, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, 2012, 19 e seg.
[14] G. Scarselli, Sulla distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, in Questione Giustizia, 13 gennaio 2017, 13 gennaio 2017, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/sulla-distinzione-tra-ius-constitutionis-e-ius-litigatoris_13-01-2017.php
[15] M. Taruffo, Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991; Id., Le funzioni delle corti supreme tra uniformità e giustizia, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2014, 35 e seg.
[16] L. Cadiet, Problèmes et perspectives de la Cour de cassation française, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, 2012, 55 e seg., ma spec. 58. V. anche Id., Le rôle institutionnel et politique de la Cour de Cassation en France: tradition, transition, mutation?, in Annuario di diritto comparato e studi legislativi, 2011, 191 e seg. Di funzione proattiva, in questo senso, parlava anche M. Taruffo, in quello che è il suo ultimo studio sul tema, Sobre la evolución del Tribunal de Casación italiano (e ivi riferimenti ai lavori precedenti), in J. Nieva Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei, Marcial Pons, 2021, 8 e seg.
[17] V., a questo proposito, l’ampio studio di D. Lanzara, Le pouvoir normatif de la Cour de cassation à l'heure actuelle, Paris, 2017. Anche F. Marchadier (a cura di), Le rôle normatif de la Cour de cassation. Étude annuelle 2018, Paris, 2018.
[18] Su questo argomento, v. la bella analisi di V. Barsotti, L’arte di tacere. Strumenti e tecniche di non decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, Torino, 1999.
[19] Lo si apprende anche solo scorrendo il sito ufficiale della Supreme Court, nella sezione dedicata alle ultime impugnazioni negate, https://www.supremecourt.uk/news/permission-to-appeal-march-april-2021.html. Il riferimento normativo, per chi vuole, è la Practice Direction 3, Applications for Permission to Appeal, §3.3.
[20] C. Hanretty, Who Gets Heard? Permission to Appeal Decisions, in Id., A Court of Specialists: Judicial Behavior on the UK Supreme Court, Oxford UP, 2020, 55.
[21] Con chiarezza, S. Chiarloni, Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale, cit., 20: «Ci troviamo qui di fronte ad uno dei casi più eminenti di eterogenesi dei fini perseguiti da una norma processuale assurta al rango di garanzia costituzionale. Proprio la garanzia del ricorso contro tutte le sentenze ha determinato l’impossibilità per la Corte di cassazione di assicurare l’uniforme interpretazione e applicazione della legge. La ragione è semplice e può venir racchiusa in un detto della saggezza popolare: tot capita tot sententiae». Su questa eterogenesi dei fini, anche Id., Riflessioni minime sui paradossi della giustizia civile, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2019, 131 e seg.; Id., Ragionevolezza costituzionale e garanzie del processo, in Riv. Dir. Proc., 2013, 521 e seg. Da ultimo, Sergio Chiarloni è tornato su questo aspetto nel saggio, in lingua spagnola, Nomofilaxis y reforma del juicio de casación, nel già ricordato libro di J. Nieva Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei, Marcial Pons, 2021,17 e seg.
[22] Anche se, nella giurisprudenza spagnola, questo requisito è stato interpretato piuttosto restrittivamente; per tutti, J. Huelin Martínez de Velasco, El interés objetivo en la nueva casación contencioso-administrativa, in 22, Anuario de la facultad de Derecho de Madrid, 2018, 355 e seg.
[23] Il riferimento è soprattutto agli artt. 360 bis, n. 1, c.p.c. e 118, 1 comma, disp. att. c.p.c.
[24] In senso critico, B. Capponi, La Corte di cassazione e la “nomofilachia” (a proposito dell’art. 363 c.p.c.), in Judicium, 6 aprile 2020, in https://www.judicium.it/la-corte-di-cassazione-e-la-nomofilachia-art-363-c-p-c/
[25] Ritengo quindi che l’accesso alle corti supreme non debba mai essere giustificato sulla base del valore economico in gioco. Lo rilevavo incidentalmente in C. V. Giabardo, Considerazioni sparse in tema di tutela processuale degli small claims, nota a Cass. 27 gennaio 2017, n. 2168, in Giur. It., 2017, 1598 e seg.
[26] In questo senso, B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, cit.
[27] La Nota Illustrativa, su questo punto, non è d’aiuto. A proposito della novità della questione, così dice: «tale presupposto sarà sussistente tutte quelle volte in cui venga in rilievo l’interpretazione di un testo normativo di recente emanazione. Tuttavia, la “novità” deve essere intesa in modo più ampio, quale assenza di precedenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità: in altre parole, lo strumento in esame potrà essere utilizzato anche con riferimento a normative meno recenti che, tuttavia, non siano state esaminate dal giudice della nomofilachia».
[28] Nella Nota Illustrativa, difatti, il riferimento al giudice è assente. Così è scritto: «Il principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione».
[29] Nella teoria di Kelsen ogni decisione giuridica crea la norma particolare (cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, a cura di S. Cotta e Treves, Milano, 1959 (ed. or., 1945), I, 135).
[30] Cosa che, ad oggi, nel giudizio di rinvio non accade. Cfr., da ultimo, Cass., ord. 19 ottobre 2020, n. 22657 (con mia nota critica, Note critiche sull’irrilevanza del mutamento di giurisprudenza nel corso del giudizio di rinvio, in Giur. It., 2021, in corso di stampa). V. anche A. Briguglio, «Creatività» della giurisprudenza, mutamento giurisprudenziale e giudizio di rinvio, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1984, 1380 e seg.
[31] Con chiarezza, M. Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2007, 709 e seg.; Id., Dimensioni del precedente giudiziario, ivi, 1994, 411 e seg. L. Passanante, Il precedente impossibile. Contributo allo studio del diritto giurisprudenziale nel processo civile, Torino, 2018, 61.
[32] S. Chiarloni, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, in Riv. Dir. Proc., 2001, p. 629.
[33] Per i necessari riferimenti, P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma – Bari, 2016, spec. Cap. II, Sulla odierna fattualità del diritto, 37; G. Benedetti, “Ritorno al diritto” ed ermeneutica dell’effettività, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2017, 3.
[34] P. Grossi, A proposito de 'il diritto giurisprudenziale', in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2020, 1 e seg.; Id., La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, ivi, 2017, 869 e seg. Id., Il giudice civile. Un interprete?, ivi, 2016, 1135 e seg.
[35] F. C. von Savigny, Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg, 1814.
[36] N. Picardi, La vocazione per il nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 2004, 41 e seg. e anche in Studi in onore di G. Tarzia, Milano, 2005, Vol. I, 179 e seg.
[37] L’espressione è di B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, in fine.
[38] Sul fenomeno della “dottrina delle corti”, v. i contributi di G. M. Berruti, C. M. Barone, R. Pardolesi, M. Granieri e E. Scoditti, in La giurisprudenza fra autorità e autorevolezza: la dottrina delle corti, in Foro It., 2013, 181 e seg.
[39] R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I 'volti' delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia Insieme, 4 marzo 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-civile/1599-nomofilachia-integrata-e-diritto-sovranazionale-i-volti-delle-corte-di-cassazione-a-confronto-di-roberto-conti
Siamo lieti di presentare un ulteriore scritto che va ad arricchire la rubrica della Rivista sul tema Giustizia e comunicazione, i cui intenti sono stati enunciati con l’editoriale del 18 maggio 2021 e che, periodicamente, ha ospitato i contributi di magistrati di merito e di legittimità, Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, nonché, in un’ottica di necessaria apertura verso le fonti esterne, le interviste dei professionisti della comunicazione, Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi.
Con lo scritto che segue, l’Autore, appassionato conoscitore del pensiero cattolico-progressista in Italia, analizza l’attualità del pensiero di don Lorenzo Milani, di recente ripreso dalla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, che attribuisce alla parola – ed alla comunicazione – il ruolo di strumento dell’agire.
La comunicazione diviene presupposto necessario per compiere un percorso di liberazione individuale, in una critica costruttiva dell’esistente, percorso funzionale al farsi carico di una trasformazione collettiva e che, quindi, sia in grado di vedere oltre il dato temporale immediato, nei suoi effetti per le generazioni future.
La cultura, veicolata attraverso la comunicazione, è funzionale alla crescita che conduce all’emancipazione dell’individuo, primo presupposto per potersi far carico degli altri in un’ottica demistificante e priva di propaganda. Ed è proprio qui che si manifesta il fondamentale ruolo della comunicazione che non deve essere mero vettore di informazioni ma creazione di un ponte che aiuti l’altro a diventare vero autore della propria esistenza.
Parola e comunicazione. Coscienza critica e sguardo sul mondo
di Francesco Messina
L’esperienza umana di don Lorenzo Milani per una nuova Europa
Sommario: 1. Premessa: una parola che impegna e trasforma - 2. Bisogna “essere” per poter fare - 3. Scrivere e comunicare come espressioni della responsabilità critica.
1. Premessa: una parola che impegna e trasforma
Nel discorso sullo stato dell’Unione del maggio scorso la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha citato don Lorenzo Milani in un motto della Scuola di Barbiana (“I care”), auspicando di dargli una dimensione europea e di poterlo declinare al plurale (“We care”).
È un importante riconoscimento laico dell’insegnamento del Priore che, per l’autorevolezza della fonte, segue solo quello di Papa Francesco del giugno 2017.
L’esperienza umana e di pensiero che si originò sull’appennino toscano, sul monte Giovi, nel microcosmo di una quasi inaccessibile parrocchia, viene indicata oggi, a distanza di oltre 50 anni, per il suo valore simbolico e internazionale.
A Barbiana, don Lorenzo arrivò dopo che la carica innovativa del suo ministero - manifestatasi per sette anni a San Donato di Calenzano con la realizzazione di una scuola serale aperta a tutti i giovani di estrazione popolare e operaia, senza esclusioni ideologiche - aveva reso convergenti, pur di contrastarla, interessi economico-sociali e le scelte politiche della Curia fiorentina.
Nel dicembre del 1954, don Lorenzo viene “trasferito”, o meglio esiliato, su un monte del Mugello, in una piccola chiesa che doveva essere chiusa, a 450 metri di altezza, non completamente raggiungibile da strada percorribile, né servita da energia elettrica e acqua; l’unica destinazione possibile per un sacerdote che, in ambito ecclesiale, era stato definito “una campana stonata”.
Malgrado l’evidente scopo sterilizzante, da quel momento seguirono tredici anni intensissimi per impegno religioso e civile che non solo segneranno la storia della Chiesa (come definitivamente riconosciuto da Papa Francesco qualche anno fa), ma influenzeranno in modo straordinario la cultura italiana sul piano pedagogico, scolastico, linguistico, intellettuale.
La scelta della Presidente von der Leyen può, quindi, aver un rilievo politico serio solo se il suo richiamo alla frase milaniana non replichi lo stile comunicativo del puro slogan, della citazione comoda da comizio o da intervento politico (come, purtroppo, è dato spesso constatare), ma colga il significato profondo, di metodo e di prospettiva che ne è la radice.
Perché per capire la “lezione” di Barbiana non basta semplicemente “andarci”, ma, come è stato detto con acutezza, bisogna “salirci”.
E non tanto fisicamente quanto, soprattutto, compiendo un percorso che impegni ciascuno nell’assoluto rispetto della verità e della “parola”, intesa prima come manifestazione della coscienza e, poi, come arte del comunicare il pensiero sulla realtà e “per” la realtà in cui si vive; la “parola” che don Milani individuò come strumento che dà senso e significato all’azione concreta, alla prassi vissuta in cui sono riconoscibili i principi del Vangelo e della Costituzione.
“Parola” e “comunicazione” come espressioni di “parresia”, e cioè disvelamento critico delle storture sociali, occasione profetica civile, lontana da ansie di proselitismo religioso.
Cogliendo, allora, la sincerità delle parole della Presidente della Commissione Europea, sarà bene anche aver consapevolezza di “chi sia stato don Milani” (per usare una espressione del suo amico Giorgio Pecorini).
Bisogna cercare di capire quanto del suo pensiero, della sua esperienza personale e del suo impatto sulla collettività sia ancora attuale e quanto sia, ormai, storicizzato, espressione, cioè, di un’epoca definitivamente differente da quella attuale.
In questa breve riflessione, non si può valutare pienamente l’esistenza breve ma “bruciante” e intensissima del Priore di Barbiana, tutta protesa nella ricerca dell’assoluto che lui trovò nell’impegno metodico per l’emancipazione culturale di chi viveva ai margini del dialogo sociale e delle decisioni istituzionali.
Un metodo – nell’accezione etimologica di “percorso” di conoscenza - che Milani volle indicare ai giovani a lui affidati e che spesso erano in un rapporto di reciproca chiusura con la realtà, ma che nella parte finale della sua vita divenne una chiave interpretativa del mondo e delle azioni che in esso si compiono.
Qualche considerazione su cosa possano significare, oggi e nel futuro, le parole I care è, però, possibile e necessario quanto meno per impedirne le versioni mistificate o propagandistiche.
2. Bisogna “essere” per poter fare
Don Milani è stata una personalità complessa, non incasellabile negli schemi pragmatici e, soprattutto, mentali a cui oggi siamo abituati.
Potremmo definirlo un “irregolare” che mise in focus, come riferimento via via più radicale della sua vita, l’elevazione civile delle persone che incontrò sul suo cammino ministeriale e divenne tutt’uno con la sua presenza intellettuale attiva sui temi più importanti della società del tempo.
Ritenne che è attraverso un percorso di affrancamento e di liberazione dalle imposture del mondo che l’individuo ri-scopre la propria dimensione più autentica.
Ciò, ed è bene ricordarlo, egli fece senza alcun interesse di parte, della propria “ditta” (come soleva dire riferendosi alla Chiesa) perché era convinto che la fede cristiana sia uno “stato di Grazia”, un dono di cui si può essere o meno destinatari (“…quando ci si affanna a cercare apposta l’occasione d’infilare la fede nei discorsi si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita, e non invece un modo di vivere e di pensare…) .
Ciò che è decisivo in don Lorenzo è che l’uomo sia il più possibile padrone del proprio destino, consapevole, cioè, dei propri “talenti” che deve far fruttare, guardando sempre alla condizione di chi vive ai margini culturali della società per migliorarla.
Già nel 1958, nella sua opera “Esperienze Pastorali”, scriveva: “la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale”, così a significare che il controllo e l’esercizio della “parola”, della comunicazione corretta e critica – da praticare senza edulcorazioni ipocrite o convenienze sociali – siano il presupposto ineludibile per compiere un percorso di liberazione personale e di possibile trasformazione collettiva.
“Scrivere”, “parlare”, “comunicare” per gli altri implica, per don Milani, un preliminare scavo interiore, una forma di giudizio da esplicare prima verso se stessi, un vero e proprio atto di responsabilità che, una volta realizzato, pone le premesse per chiedere altrettanto al mondo, compreso a quegli intellettuali che, con azioni od omissioni, contribuiscono a conservare disparità sociali, se non consentire vere e proprie regressioni culturali.
Ma non si comprenderebbe appieno il valore esistenziale, e quindi anche intrinsecamente politico, che per don Milani ha la “parola comunicata”, se si dimenticasse il luogo e la dimensione umana in cui è avvenuta la sua elaborazione più matura.
Nell’isolamento di Barbiana si realizzò, per una sorta di eterogenesi dei fini, una condizione di distacco dai “rumori” del mondo che favorì l’ascolto del “Logos” archetipico, non contaminato, in cui i princìpi dell’ “essere” uomo si rapportano alla Natura, alla dimensione del tempo che in essa si manifesta, all’insegnamento che da tutto ciò ne hanno tratto le generazioni, alla conseguente necessità di una memoria condivisa che vada oltre l’esistenza del singolo.
Da questo rapporto unico tra pensiero e tempo - così radicalmente in opposizione ai modelli della frenesia mediatica, dalla comunicazione non meditata quale ulteriore bene di “consumo” a cui la società italiana viene sempre più abituata tra gli anni ‘50 e ‘60 - don Lorenzo indica una strada diversa e alternativa nel comunicare: quella del rapporto tra la denuncia dell’ingiustizia e la ricerca faticosa, altrettanto indispensabile, dell’equilibrio nel giudicare gli altri e il momento storico in cui si vive.
La comunicazione diventa, quindi, sintesi tra “polemica frizzante anzi sferzante” ed “equilibrio”, inteso non come compromesso incrostato di convenienza, ma come dovere civile di porre lo sguardo più lontano nel tempo, sforzandosi di intravedere gli effetti della parola e dell’esempio sulle generazioni che verranno (…sulla via maestra del conformismo non si casca mai, mentre sul filo teso dello sporgersi verso i lontani l’equilibrio è un’arte che tutta una vita non ci basterà per apprendere bene… Lettera a don Antonio 20.5.1959)
È in questa prospettiva storico-esistenziale che sta tutta la differenza di visione e di scopo rispetto ad alcune manifestazioni del movimento del ’68 che hanno voluto vedere nell’esperienza milaniana la legittimazione a fare scelte puramente oppositive al “sistema”, quasi a voler trovare in essa la giustificazione a esplicare il desiderio narcisistico (specie dei giovani della borghesia neocapitalista) d’imporre se stessi piuttosto che piegarsi ad ascoltare la voce del “prossimo” che la sorte ci ha messo accanto e di cui si constata l’esclusione dai diritti e dal dibattito sociale. Non, quindi, un “prossimo” ipotetico sul quale verificare, da lontano, le teorie del mondo oppure la funzionalità della comunicazione accattivante e fintamente “rivoluzionaria”, ma il “prossimo” della quotidianità, con le sue debolezze, i suoi istinti respingenti, la sua materialità spesso tragica.
Per don Milani, la classe borghese, a cui lui pure è appartenuto, non può pretendere di “dirigere” gli ultimi, i poveri, di orientarne, come accade da sempre, i destini da una posizione di superiorità, ma deve “restituire” in cultura e di capacità di parola, dando loro la possibilità di essere menti pensanti e coscienze democratiche (“il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri, e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con mente aperta e sveglia come la può aver solo un povero che è stato a scuola;…Bisogna essere schierati. Bisogna ardere dell’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari dell’attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più cristiano, più spirituale, più tutto..” Esperienze Pastorali 1958).
Bastano queste riflessioni per comprendere la grande distanza di sentimento e di ragione tra chi, all’interno dell’esperienza composita di una generazione, preferì teorizzare (anche) la contrapposizione globale, senza porsi il problema delle sue conseguenze nel lungo periodo e sulle relazioni sociali, e la diversa scelta teorica e pratica milaniana di porre il centro della propria azione pensata all’esterno del proprio circolo ristretto, limitato, biologico.
Si tratta, allora, di mutare stato mentale attraverso un dialogo e una parola che allarghi le dimensioni personali, che le metta anche in conflitto, che discuta le certezze, ma che elevi la persona: “…Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione né riguardo né tatto. Mi sono attirato addosso un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti e di conversazione del mio popolo….Esperienze pastorali 1958”.
Si tratta di un’esigenza che don Lorenzo sentì quanto mai urgente perché, prima di molti, vide in quegli anni, sotto la spinta dell’industrializzazione di massa, lo svuotamento delle campagne e delle montagne verso la città, e i segni della mutazione antropologica degli italiani, dei modelli comportamentali di riferimento, sempre più indirizzati dalla comunicazione giornalistica e televisiva a favore della acriticità e del consumo di massa.
Ancor di più egli avvertì, quindi, la necessità di una nuova forma di cittadinanza consapevole, in grado cioè di gestire i complessi fenomeni della comunicazione e, così, di resistere al conformismo che generano, opponendo la scuola, in particolare la “sua” scuola, prima quella popolare a San Donato di Calenzano e poi quella a Barbiana (…Far scuola di idee più sane. Far capire che il vanto di un povero non è di scimmiottare le parate antisociali degli oppressori e poi tornare il giorno dopo nella schiera anonima degli oppressi a brontolare sterilmente contro il mondo ingiusto…1958).
3. Scrivere e comunicare come espressioni della responsabilità critica
Lo stile comunicativo di don Milani – negli anni degli scritti pubblici che derivarono dalla sua presa di posizione contro la “Lettera dei cappellani militari” sull’obiezione di coscienza e, poi, dal processo penale che ne seguì a suo carico – divenne sempre più radicalmente proteso a fornire strumenti di critica costruttiva all’esistente.
Egli seppe, in sostanza, mantenersi in quello spazio politico dove scelta religiosa, tensione sociale in ottica istituzionale, impronta laica e passione emotiva gli permisero di saldare - nel tempo da lui vissuto – individuo e società, diritti inespressi o negati e richiamo alla spinta propulsiva della Costituzione, laicità di pensiero e incursioni negli spazi profondi dell’animo.
Una posizione eclettica e solo in apparenza inafferrabile perché, più semplicemente, essa non fu ristretta negli angusti recinti ideologici.
Insomma, una personalità che, in età matura, pur provenendo da famiglia di origine ebraica ma lontana da osservanze religiose, con ascendenti vicini ai migliori ambienti della cultura europea, preferì a una comoda e garantita vita di “classe” il salto nell’assoluto.
E ciò non attraverso l’ascesi egoistica, ma seguendo una radicale strategia pedagogico-culturale contro l’ingiustizia sistemica.
Viene da chiedersi cosa rimanga di quell’esperienza e se, oggi, essa possa fornire ancora significati di rilievo.
Ciò che si è ormai storicizzato è la possibilità di cogliere con nettezza i confini politici, i luoghi esistenziali e collettivi in cui scegliere e agire.
Le grandi contrapposizioni ideologiche sono venute meno, così come appaiono ormai permeabili e transitabili, quasi sempre in opposizione alla coerenza, gli spazi che furono occupati dalle reciproche “autorità” religiose e laiche.
Il processo di omologazione di massa ha reso molto più magmatiche e incerte le differenze di classe. E i fenomeni di “scristianizzazione” si sono verificati non tanto per il paventato prevalere delle forze dell’ateismo politico quanto, maggiormente, per il neocapitalismo industriale che ha modificato stili di vita, mercificato il tempo, indirizzato, come dirà lucidamente poi Pasolini, ogni prospettiva politico-economica-istituzionale verso la garanzia dello “sviluppo”, con la produzione e consumo ansiogeno di beni superflui, al posto di quella di “progresso”, e la creazione e la tutela di beni necessari.
Non è difficile constatare che il ruolo degli intellettuali e, più in generale, quello della comunicazione prima nel generare e, poi, nel sostenere e amplificare tale sistema di “valori”, siano stati decisivi.
La crisi che oggi viviamo sia livello nazionale che in quello mondiale sul piano economico, ambientale e generazionale, è frutto di quei decenni e, forse, costituisce un’occasione per rimeditare tra le storie importanti del Paese quella di Barbiana, indicata dalla Presidente UE come prospettiva per una nuova Europa.
È bene considerare che la particolarità dell’esperienza milaniana sui concetti di “parola” e “comunicazione” sta nel fatto che essa si concentrò non tanto sull’epocale questione del rapporto tra intellettuale e classi subalterne oppure tra intellettuali e cultura, quanto sullo studio e sulla pratica del concetto di “intellettualità”.
Don Milani ritenne ben chiara - in primo luogo per averlo praticato su stesso e, poi, perché non gli erano ignote alcune riflessioni di Simone Weil, non a caso richiamata in una sua lettera del 29.4.1955 - la “necessità” di un processo di “de-creazione” e di distacco mentale dalla propria classe di origine borghese, quella che egli riteneva all’origine delle diseguaglianze e del tradimento delle speranze e delle aspettative sorte con la Costituzione della Repubblica.
La sua contrapposizione verso gli intellettuali dell’epoca (tranne rare eccezioni) stava nel loro ruolo di proclamazione e mantenimento di un presunto ordine sociale e istituzionale che, in realtà, era all’origine della definitiva sedimentazione delle diversità e delle ingiustizie patite dagli ultimi e dagli oppressi.
Don Lorenzo risolse l’anomalia indicando con i suoi scritti e il suo esempio una “strada” nuova, direi apocalittica nel senso etimologico di “rimozione del velo”, di denuncia dell’ignoranza, della neghittosità, del conformismo che impediva - e impedisce tutt’ora! – l’emancipazione cognitiva del cittadino, la sua “coscientizzazione” critica su tutto ciò che è sociale, politico e culturale.
La cultura, quale elemento storico, radicato nella storia di un popolo, che lo identifica ben oltre ciò che è moderno e transeunte, non deve, per don Milani, essere semplicemente e singolarmente assimilata, né deve essere all’origine di future gabbie ideologiche.
Deve, al contrario, deve essere funzionale alla formazione dell’individuo, del proprio “Sé”, per metterlo nella condizione di porsi con occhio sempre demistificante, attento, riflessivo e critico verso qualsiasi soggetto, qualsiasi materia di studio, qualsiasi Istituzione.
È per questa tensione costante, irreversibile verso i concetti di responsabilità e impegno che a Barbiana il “sapere” non portava al riconoscimento di alcun merito esterno al singolo, ma, diversamente, all’assunzione di un suo “compito”.
Perché dopo l’emancipazione di se stessi si doveva operare per quella degli altri.
L’I care, il “mi faccio carico, mi interessa” reca in sé, quindi, un significato molto più complesso e radicale rispetto a quello che è stato quasi sempre veicolato in modo superficiale, se non per finalità di pura propaganda.
Il motto non indica l’auspicio di un aiuto occasionale a favore di chi si trova in difficoltà perché, se così fosse, costituirebbe l’ennesima forma esornativa e ipocrita di chi vive nel privilegio e, grazie a tale condizione, può consentirsi qualche salutare parentesi finalizzata a garantire un sufficiente equilibrio interiore.
“Farsi carico”, al contrario, è soprattutto ricerca, spirito coraggioso, desiderio di praticare terreni diversi, di volgere lo sguardo più lontano, cercando nell’altro un’occasione di completamento di se stesso.
Se ne ha un riscontro di straordinaria nettezza in un dialogo/lezione che don Milani tenne nell’autunno del 1965, a Barbiana, ad alcuni studenti di una scuola di giornalismo di Firenze che con i loro insegnati erano andati trovarlo.
Infatti, erano ormi ben note le vicende processuali (peraltro ancora in corso) in difesa degli obiettori di coscienza e gli scritti di don Milani che, in sequenza, erano stati pubblicati da diversi quotidiani nazionali (“Lettera ai Cappellani militari” e “Lettera ai giudici”).
Il dialogo tra don Lorenzo e i giornalisti, lungi dall’essere un semplice ripercorrere gli eventi giudiziari, diviene plasticamente l’occasione per un’analisi radicale e senza sconti sui contenuti e sugli scopi della comunicazione che - e non a caso - viene messa in relazione diretta con la scelta di vita di ciascuno.
Il Priore muove il suo ragionamento, affrontando alcune questioni di fondo della società italiana che, ancora oggi, risultano attualissime: scarsa conoscenza lessicale e immaturità del cittadino italiano che fruisce dei mezzi d’informazione (dato statistico ricordato anche da Tullio De Mauro sino agli ultimi suoi interventi pubblici); tipologia e velocità della comunicazione di massa che porta a “intendere” superficialmente e “disabitua a riflettere”; tendenza sempre più spiccata e preoccupante a una comunicazione considerata un ennesimo prodotto di “consumo” del cittadino.
Rispetto a un simile scenario realistico e inquietante, don Milani indica il comunicare, e in particolare lo scrivere, come la manifestazione concreta della qualità dell’impegno, dello sforzo tecnico-linguistico di ognuno nella società a favore della chiarezza e della verità.
La comunicazione, quindi, non è mero trasferimento di informazioni, ma operazione complessa di “pensiero” che, attraverso la scelta dei contenuti, l’analisi filologica, lo scavo semantico, permette di andare in profondità, di realizzare “un ponte tra chi la fa e chi la riceve”.
È dalla realizzazione di quel “ponte” che deriva per ognuno il dischiudersi della sensibilità, il manifestarsi della coscienza, la possibilità di farsi autore consapevole della propria esistenza.
Il primo presupposto razionale ed emotivo di tale metodo è il desiderio di avvicinarsi alla “verità” che, come avviene in ogni opera d’arte, si ottiene per sottrazione di tutto ciò che, sul piano linguistico-comunicativo, la offusca.
La “verità”, quindi, come risultato dell’arte, della tecnica della “chiarezza” espositiva, e non della “prudenza” che, per definizione, contraddice l’arte e, quasi sempre, sconfina nella convenienza.
Ma tutto ciò presuppone anche un’altra decisiva opzione esistenziale, vale a dire
una “assoluta mancanza di volontà di carriera”.
E infatti Milani avverte l’uditorio con parole adamantine, inequivocabili, progettuali: “..questa è una cosa che non vi posso insegnare. Scrivendo (e, quindi, comunicando ndr) come me non farete mai carriera nella vita, in nessun posto…Perché (si tratta di rispettare ndr) un giuramento fatto a se stesso e agli altri di colpire quando c’è da colpire chiunque abbia ad avere, senza rispetto di nessuno, alla ricerca della verità oggettiva la quale non è fatta né di carità, né di educazione, né di tatto, né di pietà..(trascrizione della registrazione audio)”.
Nelle parole di Milani c’è tutta la sua particolarità esperienziale in cui convivono l’insegnamento socratico; la radice familiare ebraica in cui la “Parola” coincide con la “Verità rivelata”; l’incipit del vangelo giovanneo in cui il Verbo aleggia sull’origine del mondo.
Ma, più laicamente, emerge anche l’intento pedagogico di mettere in reciproca mediazione il “sentire” emotivo degli umili, la voce mozzata degli oppressi, e il “sapere” depositato e disponibile a pochi (in particolare, il sapere “linguisticamente” inteso).
Riappropriarsi del dominio della lingua, dei suoi meccanismi sintattici, delle sue significazioni, consente di acquisire la possibilità di far sentire la propria voce in quel luogo metaforico (la lingua, appunto) in cui si sono consumati, e ancora si consumano, gli squilibri sociali e culturali, le narrazioni finalizzate agli interessi dominanti, la banalizzazione e disumanizzazione delle altre esistenze.
In questo sforzo di assunzione di responsabilità, di lavoro e di dono disinteressato, sta la declinazione più profonda e autentica dell’I care, del “farsi carico” degli altri.
E lo si fa accettando il compito sociale o istituzionale, il posto fisico, piccoli o grandi che siano, che la vita ci ha assegnato.
Perché visibilità e grandezza sono pur sempre dimensioni tutte esteriori mentre la qualità di un’esistenza la si misura dall’impegno, della passione e dall’amore che ci si mette nel generare coscienze critiche e democratiche.
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