ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Nuovo Patto sulla Migrazione e l’asilo: un cambio di passo per la mobilità delle persone in Europa?
Forum a cura di Vincenzo Militello, Mario Savino, Elisa Cavasino e Alessandro Spena
I contributi di seguito pubblicati rielaborano gli interventi al seminario “La mobilità delle persone al bivio tra “fortezza” Europa e Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo”, organizzato il 12 marzo 2021 dal Centro di eccellenza J. Monnet "Europe between Mobility and Security: the challenges of illicit trades in the Mediterranean Area" (EUMoSIT).
Il Centro, cofinanziato per il triennio 2019-2022 dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo e dal programma Erasmus+ UE, coordina i contributi di un team di esperti italiani e stranieri che si collegano ad Università, istituzioni pubbliche e della società civile, fra cui la Città di Palermo, la Fondazione Giovanni Falcone, le Università di Oxford (con il connesso network Border criminologies), di Londra (Queen Mary), di Barcellona, di Madrid, di Coimbra.
Oggetto precipuo di EUMoSIT è l'interazione tra le complesse dinamiche delle migrazioni moderne e degli scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo, con le connesse ricadute sui traffici illeciti nelle loro molteplici declinazioni, specie quelli di esseri umani, di beni culturali e di stupefacenti.
Il centro opera una stretta interrelazione fra temi di ricerca e percorsi di diffusione e verifica dei principali risultati elaborati, e in questa prospettiva prevede fra l’altro un insegnamento a struttura seminariale, con contenuti didattici innovativi e specialmente attenti all’interazione con gli studenti iscritti. Ad apertura del corso del 2021 non poteva mancare un approfondimento sul “Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo”, adottato dalla Commissione il 23 settembre 2020.
Non occorre sottolineare le aspettative e le speranze suscitate da questo nuovo impegno dell’Unione Europea su un tema cruciale nella sua agenda politica quantomeno nell’ultimo decennio. Terreno invero rivelatosi ripieno di sabbie mobili, dove presto o tardi si arenava ogni sforzo per costruire iniziative di condivisione fra gli Stati membri della massa di problemi connessi alla mobilità delle persone che arrivano in Europa senza passare dalla cruna dell’ago degli ingressi regolari. A fronte di un sacrificio umano dei migranti sempre più intollerabile, la sfida per una maggiore solidarietà è tanto imposta dalla fedeltà ai valori fondanti dell’Unione, quanto fitta di veti reciproci e di gelose chiusure nazionali. In un movimento di stop and go che da anni condanna l’azione ad una concreta inconcludenza, sono rimasti coinvolti temi come la ricollocazione dei migranti secondo quote che ne spalmino l’impatto a Paesi diversi da quelli della frontiera di ingresso, o anche la rivisitazione del meccanismo dei regolamenti di Dublino, e non ultima la stessa rivisitazione del Facilitation Package adottato dall’Unione ormai da quasi 20 anni per armonizzare le risposte degli Stati membri di contrasto all’immigrazione clandestina.
La questione centrale è dunque se il fascio di documenti riuniti dalla Commissione sotto l’impegnativo nome di Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo riesca davvero nel suo intento fondativo di un atteggiamento eurounitario non più rivolto a innalzare muri per contenere gli ingressi esterni, ma attento a favorire forme condivise di apertura di canali di gestione del problema anche all’interno dei confini nazionali
Ad affrontare questa domanda rispetto ad alcuni dei principali terreni di ricaduta sono stati Mario Savino, ordinario di diritto amministrativo nell’Università della Tuscia, Elisa Cavasino, associata di diritto costituzionale nell’Università di Palermo, e Alessandro Spena, ordinario di diritto penale nella stessa Università e coordinatore della ricerca del Centro di Eccellenza EUMoSIT. Quale responsabile scientifico dello stesso Centro ho ritenuto che l’interesse che il Seminario ha suscitato meritasse una più ampia circolazione, e per questo ringrazio sia i relativi autori, che hanno provveduto a definirli in tempi rapidi, sia l’ospitalità di Giustizia Insieme, con la sua sempre vigile attenzione ai temi dell’attualità.
Vincenzo Militello
L’ingenuità amministrativa del Patto UE sulla migrazione e l’asilo: una solidarietà costruita sull’acqua
di Mario Savino [1]
Sommario: 1. Un Patto pragmatico? – 2. I meccanismi di solidarietà: una promessa ambiziosa… - 3. …ma difficile da mantenere: i problemi di “tenuta” – 3.1. Il rischio di “paralisi” decisionale – 3.2. Il rischio di “fuga” dalla solidarietà – 3.3. Il rischio di non compliance – 3.4. I costi della “coercizione” – 4. Conclusioni.
1. Un Patto pragmatico?
Lo scorso 23 settembre la Commissione europea ha varato, dopo una lunga attesa, un ampio progetto di riforma del sistema di gestione dei flussi migratori in arrivo in Europa. Il documento di presentazione del progetto – ambiziosamente intitolato Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo (COM(2020) 609 final) – muove dal riconoscimento che lo status quo è ampiamente insoddisfacente («the current system no longer works») e che occorre bilanciare in modo più equo i principi di responsabilità e solidarietà tra gli Stati membri dell’Unione[2]. A nove mesi dalla presentazione del Patto, però, un primo dato pare ormai acquisito: non ci sarà nessun parto a breve termine.
Nei primi mesi di gestazione del Patto, infatti, è emersa una dura opposizione non solo dei Paesi di Visegrád, ostili a qualsiasi forma di redistribuzione dei migranti, ma anche e soprattutto dei “MED-5” (Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta), molto diffidenti rispetto ai meccanismi di solidarietà proposti e poco convinti della complessiva equità distributiva del Patto. Così, nonostante l’impegno profuso prima dalla Presidenza tedesca (nell’ultimo scorcio del 2020) e poi dalla Presidenza portoghese (nel primo semestre 2021), non si sono fin qui registrati progressi sui dossier più importanti: il lavoro tecnico svolto in seno ai gruppi di lavoro del Consiglio si è arenato su tutti i punti di maggiore rilevanza, nell’attesa di una soluzione a livello politico[3]. L’attesa è però destinata a protrarsi, dato che la Presidenza entrante spetta a un governo, quello sloveno, d’ispirazione nazional-populista, che potrebbe non includere il Patto tra le sue priorità. Nella migliore delle ipotesi, dunque, la negoziazione del Patto e dei suoi dossiers più delicati occuperà gran parte della legislatura in corso.
Questo primo dato getta qualche ombra sull’effettivo pragmatismo dell’approccio seguito dalla Commissione: un pragmatismo che, ad avviso di attenti osservatori, giustificherebbe la scarsa innovatività di molte proposte, dettate più dai bisogni e dagli interessi degli attori rilevanti (gli Stati membri) che da una visione etica o politica di ampio respiro[4]. Proprio i primi mesi di negoziazione suggeriscono, invece, una lettura diversa: almeno per ciò che riguarda la sua parte più innovativa, cioè i meccanismi di solidarietà qui esaminati, il Patto non sembra ispirarsi a un approccio pragmatico, bensì a una visione razionalizzante molto astratta e, a tratti, ingenua.
Per un verso, infatti, il Patto ignora i vistosi “fallimenti” emersi nell’attuazione della politica europea di asilo, fallimenti che, nel quadro delineato dal Patto stesso, sarebbero fatalmente destinati ad accentuarsi proprio per effetto delle misure di solidarietà prospettate. Per altro verso, il Patto rischia di accentuare lo squilibrio distributivo tra gli Stati mediterranei e gli altri Stati membri e, in prospettiva, di approfondire la divaricazione tra Nord e Sud dell’Europa rispetto ai dossiers principali della politica migratoria, che sono anche dossiers centrali per il futuro dell’Unione.
Per dar conto di queste affermazioni, si procederà, prima, a ricostruire il disegno solidaristico avanzato dalla Commissione (§ 2); poi, ad analizzare i problemi di attuazione di quel disegno (§ 3); quindi, a trarne alcune conclusioni in merito al Patto e alle difficili negoziazioni che lo accompagnano (§ 4).
2. I meccanismi di solidarietà: una promessa ambiziosa…
L’unica misura di solidarietà finora adottata dall’Unione in materia di asilo è il meccanismo di ricollocazioni (relocation), approvato a settembre 2015, nel pieno della crisi dei rifugiati (Decisioni 2015/1523 e 1601 del Consiglio, del 14 e 22 settembre 2015). Una misura temporanea, che, nei due anni di attuazione, ha incontrato molteplici ostacoli, di natura politica e amministrativa[5]. Il limitato successo del programma – con appena 35 mila ricollocazioni dalla Grecia e dall’Italia a fronte delle 160 mila inizialmente previste – conferma due dati. Il primo è che la condivisione degli oneri legati all’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati è un tema politicamente molto divisivo: è nota, in particolare, l’avversione dei Paesi di Visegrád per qualsiasi forma di ricollocazione obbligatoria, fondata su quote nazionali. Il secondo – meno considerato ma non meno decisivo – è che misure di questo tipo richiedono uno sforzo considerevole agli Stati membri coinvolti, sia in termini di risorse umane e finanziarie, sia in termini di capacità di cooperazione amministrativa.
Nel contesto del Nuovo Patto, il sistema di solidarietà delineato dalla Commissione nella proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione (RGAM) e nella proposta di regolamento sulle situazioni di crisi e forza maggiore (RSCFM), prevede tre forme di burden sharing – la ricollocazione, la sponsorizzazione dei rimpatri e il sostegno operativo – con combinazioni che variano in base a tre scenari: quello di base, caratterizzato da “sbarchi ricorrenti”: quello più critico, corrispondente a una situazione di “pressione migratoria”; e quello estremo, emergenziale, delle “situazioni di crisi”.
Lo scenario di base riguarda l’attivazione di misure di solidarietà per gli sbarchi di migranti a seguito di operazioni di ricerca e soccorso (artt. 47-49 RGAM). Sulla base di previsioni annuali, elaborate nella relazione annuale sulla gestione della migrazione, la Commissione determina il complessivo fabbisogno di solidarietà e calcola le corrispondenti quote di solidarietà statali sulla base di una chiave di distribuzione proporzionale alla popolazione e al PIL di ciascuno Stato membro (art. 54 RGAM). Nei rispettivi Piani per la risposta di solidarietà, gli Stati membri indicano in quale forma intendono contribuire. Nel caso in cui i contributi offerti in forma di ricollocazioni non siano «proporzionali» o comunque sufficienti a coprire il 50 per cento di ciascuna quota statale, la Commissione attiva un meccanismo di correzione (c.d. critical mass correction): tramite un atto di esecuzione adottato ai sensi dell’art. 291 TFUE, stabilisce l’importo e la tipologia dei contributi degli Stati non solidali, assicurando così che tutti gli Stati adempiano almeno al 50 per cento dei rispettivi obblighi con misure di redistribuzione dei migranti (art. 48 RGAM).
Ai fini del computo di questi adempimenti, la Commissione propone di cumulare la disponibilità alle ricollocazioni con una opzione alternativa: la sponsorizzazione dei rimpatri. In base a questa nuova idea, lo Stato membro “sponsor” si impegna, nei primi 8 mesi (dall’adozione della decisione di rimpatrio o dal rigetto della domanda di protezione), a fornire allo Stato frontaliero supporto operativo o diplomatico per facilitare il rimpatrio dei migranti irregolari sbarcati e, nel caso di mancato allontanamento entro gli 8 mesi, a ricollocare il migrante irregolare nel proprio territorio, per proseguire da lì i tentativi di rimpatrio (art. 55 RGAM).
Questo meccanismo di solidarietà “semi-obbligatoria”, previsto nello scenario di base, viene ampliato negli altri due scenari ipotizzati dalla Commissione.
In situazioni di “pressione migratoria”, rilevata dalla Commissione sulla base di un’ampia serie di parametri, sono eleggibili, ai fini della ricollocazione, oltre ai richiedenti asilo non sottoposti a procedura di frontiera (come nello scenario di base), anche coloro ai quali sia stata riconosciuta la protezione internazionale nei tre anni precedenti (artt. 50 e 51 RGAM).
Nello scenario estremo di “crisi” – «situazione eccezionale di afflusso massiccio» di migranti, che «rende inefficace il sistema di asilo, accoglienza o rimpatrio dello Stato membro in questione e può avere gravi conseguenze sul funzionamento del sistema europeo comune di asilo» (art. 1 RSCFM) – la ricollocazione è estesa ai richiedenti asilo sottoposti alla procedura di frontiera e ai migranti irregolari ed è prevista in termini più brevi. Soprattutto, la ricollocazione e la sponsorizzazione dei rimpatri diventano gli unici contributi di solidarietà ammissibili, senza possibilità per gli altri Stati membri di optare per forme alternative di sostegno (art. 2, par. 1, RSCFM).
Sembrano, così, effettivamente delinearsi i contorni di una solidarietà flessibile, data la possibilità di alternare diverse forme di contribuzione, e, al contempo, obbligatoria, oscillando le quote statali tra la parziale vincolatività dello scenario di base e la obbligatorietà totale nello scenario emergenziale.
3. …ma difficile da mantenere: i problemi di “tenuta”
Per valutare la adeguatezza e la solidità dell’impianto solidaristico appena descritto, è utile analizzare le norme che ne disciplinano l’attuazione e il prevedibile impatto dei meccanismi di burden sharing proposti dalla Commissione. L’osservazione di questa dimensione consente di evidenziare quattro problemi di “tenuta” del disegno, che spiegano anche la forte resistenza degli Stati mediterranei a un cambiamento di cui, in teoria, sarebbero i beneficiari.
3.1. Il rischio di “paralisi” decisionale
Uno degli aspetti della riforma segnalati come problematici riguarda il rischio di un eccessivo ampliamento dei poteri della Commissione[6], cui farebbe da contraltare la mancata previsione di un aggiornamento dei poteri e delle risorse delle agenzie europee[7]. Le norme proposte assegnano alla Commissione un ruolo indubbiamente centrale sia nello stabilire quale dei tre scenari descritti (sbarchi ricorrenti, pressione migratoria o situazioni di crisi) debba applicarsi, sia nel definire le modalità di contribuzione degli Stati membri. Ci si può chiedere se ne derivi l’attribuzione alla Commissione di una discrezionalità molto ampia, tale da minacciare la prevedibilità dei meccanismi di solidarietà.
A mio avviso, non è così e, anzi, il vero problema è, per certi versi, opposto ed è rappresentato dal condizionamento che gli Stati membri possono esercitare sulle decisioni più importanti della Commissione. Le possibilità di influenzare le scelte della Commissione sembrano minori per ciò che attiene alla individuazione dei tre scenari alternativi di volta in volta applicabili. Le norme affidano alla Commissione, nella sua veste di esecutivo dell’Unione, il compito di valutare le situazioni mediante atti di soft law – la relazione annuale sulla gestione della migrazione (Artt. 6 e 47 RGAM), la relazione sulla pressione migratoria (Art. 51 RGAM) e la valutazione della richiesta avanzata dallo Stato membro interessato (Art. 3, par. 2 e 8, RSCFM) – adottati al termine di procedure partecipate. Secondo i casi, la Commissione valuta gli indicatori individuati dalle norme, consulta gli Stati interessati e acquisisce informazioni dalle agenzie europee competenti. Quindi, in base alla caratura più tecnico-amministrativa o, viceversa, politica della valutazione, ne sottopone gli esiti al vaglio degli Stati membri (in seno al Forum per la solidarietà) oppure direttamente del Consiglio e del Parlamento europeo. Ma tale vaglio non implica poteri di veto, né pareri vincolanti e, quindi, non attenta alla prevedibilità del processo.
Diverso è, invece, il discorso relativo alla determinazione dei contributi di solidarietà che vincolano gli Stati membri. È vero che le norme, nel definire le soglie di copertura obbligatoria delle quote nazionali, lasciano agli Stati un margine di scelta circa la tipologia di contributi da offrire, ma rimettono alla Commissione il potere di decisione finale. Tuttavia, tale potere è esercitato mediante formali atti di esecuzione[8], che sono sottoposti al giudizio degli esecutivi nazionali attraverso la comitologia, in base all’art. 291 TFUE. In particolare, la Commissione potrà approvare gli atti di determinazione dei contributi statali soltanto ottenendo il parere favorevole della maggioranza qualificata degli Stati membri, rappresentati a livello amministrativo nel comitato (procedura d’esame)[9]. Anche nello scenario di crisi, la possibilità di ricorrere ad atti di esecuzione immediatamente applicabili non esclude il parere del comitato, che, acquisito ex post (entro 14 giorni), se sfavorevole, caduca l’atto[10]. Più che di decisioni autonome della Commissione, dunque, si tratta di decisioni condivise con le amministrazioni statali di settore[11].
Il rischio che si intravede in questi casi non è tanto di “bureaucratic drift” della Commissione, anche perché le previsioni richiamate riproducono il modello generale di attuazione del diritto dell’Unione[12], quanto piuttosto lo “stallo” che potrebbe derivare dalla negoziazione permanente, fuori e dentro i comitati, circa l’ammontare e la tipologia dei contributi di solidarietà degli Stati membri. Ai governi nazionali basterà costruire, di volta in volta, minoranze di blocco, esattamente come in Consiglio, per ostacolare le decisioni esecutive della Commissione e inceppare i meccanismi di solidarietà.
3.2. Il rischio di “fuga” dalla solidarietà
Non meno serio, ma risolvibile attraverso una modifica della proposta in discussione a Bruxelles, è il problema che deriva dalla espressa previsione di una via di fuga dalla solidarietà nelle «situazioni di forza maggiore».
Secondo la proposta della Commissione, sono tali le «circostanze anormali e imprevedibili che sfuggono al loro controllo, le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate nonostante il ricorso a tutta la dovuta diligenza» (considerando 7 RSCFM). Nel tentativo di circoscrivere l’ambito della nozione, la relazione di accompagnamento della proposta esemplifica i casi di forza maggiore richiamando in più punti la pandemia da Covid-19. Quando tali circostanze si verificano, le conseguenze, per la tenuta dei meccanismi di solidarietà sopra descritti, sono serie. Gli Stati membri, infatti, possono non solo prorogare il termine di adozione delle misure di solidarietà fino a un massimo di 6 mesi (Art. 9 RSCFM), ma addirittura liberarsi dell’obbligo di accettare il trasferimento dei migranti di cui sarebbero responsabili (art. 8, par. 3, RSCFM).
Il punto decisivo riguarda non tanto la genericità della definizione di “forza maggiore”, quanto le modalità di attivazione del meccanismo di sospensione o esenzione. La possibilità di utilizzo di questo “jolly” sembra, infatti, essere rimessa a una valutazione di opportunità dei singoli governi, ai quali basta una semplice comunicazione alla Commissione, senza alcun vaglio da parte di quest’ultima. La mancata previsione di un atto autorizzatorio o di verifica dei presupposti da parte della Commissione è una scelta rispettosa della sovranità statale, che inevitabilmente è esaltata dalle condizioni di crisi. Tuttavia, si tratta di una scelta contraddittoria, sia rispetto al ruolo della Commissione, che, come “guardiana dei Trattati”, dovrebbe vigilare sul rispetto delle norme in materia di solidarietà; sia rispetto al complessivo impianto della riforma, giacché uno Stato membro potrebbe invocare «circostanze anormali e imprevedibili» ogni qual volta voglia disattendere obblighi di solidarietà non graditi, che la Commissione sia riuscita a imporre nella negoziazione sopra descritta (§ 3.1).
3.3. Il rischio di non compliance
La posizione degli Stati membri frontalieri – in particolare di quelli mediterranei, esposti agli sbarchi – è, nel Patto, poco garantita, a dispetto di quanto la (semi) obbligatorietà delle misure di redistribuzione e condivisione delle responsabilità lascerebbe supporre.
Una volta conclusa la negoziazione degli obblighi di solidarietà statali, oltre ad azionare il freno di emergenza della “forza maggiore”, ai governi riluttanti resta sempre l’opzione, di più basso profilo, della non compliance. Come l’esperienza del programma di relocation del 2015 dimostra, è sufficiente non indicare la disponibilità di posti nel proprio sistema di accoglienza o procrastinare l’autorizzazione al trasferimento o semplicemente non rispondere alle richieste di contatto delle amministrazioni dello Stato membro beneficiario per ostacolare i trasferimenti o rallentarne il ritmo. La Commissione può avviare procedure di infrazione, ma, in una materia ad altro tasso di fallimento amministrativo come questa, tende a farlo solo nei casi più macroscopici e con esiti modesti[13]. Nella sostanza, perciò, sono gli Stati beneficiari a sopportare tutti i rischi che derivano dalle molteplici forme di inosservanza ed elusione degli obblighi di solidarietà, fondate su comportamenti non cooperativi e di routinaria resistenza amministrativa.
Peraltro, anche laddove siano puntualmente osservati, i meccanismi di solidarietà esaminati implicano, per gli Stati frontalieri, costi nascosti. Tali costi si collegano al loro ruolo di “guardiani” delle frontiere esterne, che il Patto rende più oneroso. Non solo, infatti, la Commissione propone di rafforzare e rendere più celeri i controlli di identificazione e sicurezza alle frontiere esterne (v. proposta di regolamento sugli accertamenti alle frontiere esterne), ma ripropone altresì l’idea – già avanzata nel 2016 – di una procedura di esame alla frontiera per la trattazione accelerata delle domande di protezione internazionale con minori probabilità di essere accolte (art. 41 della proposta integrativa di regolamento sulle procedure del 2020 (RPA 2020) in combinazione con l’art. 40 della proposta di regolamento sulle procedure di asilo del 2016 (RPA 2016)). I richiedenti asilo che vengono instradati in questa procedura – in quanto provenienti da un Paese di origine sicuro, o ritenuti pericolosi, o responsabili di condotte ostative, o ancora autori di dichiarazioni non pertinenti, contraddittorie o false – non sono formalmente ammessi nel territorio dell’Unione, bensì «tenuti» alla frontiera esterna o in zona di transito (art. 41, par. 13, RPA 2020); e sono altresì esclusi dalla ricollocazione nei due scenari non emergenziali, sempre al fine di evitare trasferimenti che possano ritardare il rimpatrio.
Sugli Stati membri frontalieri vengono, così, a gravare oneri amministrativi imponenti, derivanti: i) dallo svolgimento delle attività di identificazione e dei controlli di sicurezza alla frontiera esterna; ii) dalla conduzione, con tempistiche serrate, di procedure di esame alla frontiera delle richieste di protezione più “deboli”; iii) dalla organizzazione e gestione di zone di frontiera o di transito destinate al trattenimento di migranti su larga scala (con potenziale riproduzione di situazioni di degrado, tristemente esemplificate dal campo di Moria a Lesbo); e, in aggiunta, iv) dalla necessità – per poter dichiarare un richiedente eleggibile alla ricollocazione – di svolgere comunque (fatte salve le situazioni di crisi) uno screening preliminare, volto a escludere l’applicabilità della procedura di frontiera (oltre che dei criteri Dublino che portano all’immediato trasferimento nello Stato membro responsabile dell’esame della domanda di protezione). Anche nel caso di migranti destinati alla ricollocazione, dunque, graverebbero sugli Stati membri beneficiari rilevanti oneri procedurali e di accoglienza connessi alla macchinosa verifica delle condizioni di eleggibilità, oneri che la Commissione propone di compensare con il simbolico contributo di 500 euro per migrante (art. 72 RGAM)[14].
3.4. I costi della “coercizione”
Il problema di fondo riguarda l’impostazione che accomuna le misure di burden sharing del Patto. Inserita nel quadro di una politica europea ormai da anni orientata al contenimento dei flussi, la proposta relativa ai meccanismi di solidarietà è intrisa di una logica fortemente coercitiva, probabilmente condizionata dall’intenzione – a Bruxelles, compulsivamente ripetuta e, perciò, fatalmente sopravvalutata – di evitare qualsiasi “fattore di attrazione”.
I margini di flessibilità previsti dalle norme in esame sono tutti a beneficio degli Stati membri, ma non dei destinatari ultimi di quei meccanismi. La solidarietà prefigurata nel Patto è imperniata su varie forme di ricollocazione (inclusa quella “differita”, legata alla sponsorizzazione dei rimpatri), che si fondano tutte su un tratto comune: la preclusione ai migranti della possibilità di scegliere lo Stato membro di destinazione. A parte il consenso eccezionalmente richiesto ai titolari di protezione (art. 57, par. 3, proposta RGAM), in tutte le altre ipotesi, riguardanti i richiedenti asilo e gli irregolari, il trasferimento dovrebbe effettuarsi a prescindere dall’adesione degli interessati.
L’astrattezza di questa impostazione sorprende. Sul piano giuridico, non prevedere la consultazione del migrante per acquisirne il consenso (“no choice/no voice”) appare di dubbia compatibilità con i principi di proporzionalità e di giusto procedimento dell’azione amministrativa. Ma, soprattutto, il sacrificio di queste garanzie non sembra essere compensato da benefici in termini di efficienza. Sul piano operativo, infatti, quell’approccio coercitivo implica un aumento esponenziale dei costi amministrativi e del tasso di insuccesso delle operazioni di trasferimento. Il fatto che questo aspetto così decisivo venga ignorato e che manchi, nella ricca documentazione allegata al Patto, una valutazione di impatto, che tenti di misurare i costi e i benefici di questa e delle possibili alternative è, appunto, sorprendente. Tanto più che – come dimostra l’esperienza recente del programma di relocation – il consenso della persona interessata è di fatto indispensabile per attuare la misura, a meno che non si voglia portare l’impostazione coercitiva alle sue estreme conseguenze, prefigurando una sistematica detenzione di tutti i migranti eleggibili per evitare che si sottraggano al trasferimento.
A ciò deve aggiungersi la kafkiana complessità procedurale che deriva dalla sovrapposizione tra le norme sulla solidarietà e le norme di Dublino. Per effetto di questa combinazione, un richiedente asilo potrebbe essere trasferito una prima volta nello Stato membro di ricollocazione e, poi, sulla base della più completa valutazione dei criteri di Dublino ivi effettuata, essere trasferito una seconda volta nello Stato membro responsabile dell’esame della domanda di protezione. La realizzazione di ben due trasferimenti preliminari, oltre ad essere di per sé disfunzionale, avrebbe l’ulteriore effetto di ritardare di molti mesi l’avvio della procedura di asilo, lasciando i richiedenti a lungo “in orbita”, in palese contrasto con un degli obiettivi prioritari del regolamento Dublino e del sistema comune di asilo dell’Unione nel suo complesso.
Un discorso non dissimile vale, infine, anche per il meccanismo di sponsorizzazione dei rimpatri proposto della Commissione come contributo statale alternativo alla ricollocazione. Sulla base di questo innovativo schema, un migrante irregolare dovrebbe essere trasferito nello Stato membro “sponsor” qualora l’allontanamento non riesca nei primi 8 mesi (4 mesi nello scenario di crisi) – eventualità non remota, se si considera l’elevato tasso di insuccesso dei rimpatri dall’Unione, soprattutto quando riguardino migranti dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Avvenuto il trasferimento, lo Stato “sponsor” dovrebbe continuare a esperire i tentativi di rimpatrio. Tuttavia, è difficile immaginare che tali tentativi possano avere molto successo, sia perché lo Stato “sponsor” potrebbe avere investito già nei primi mesi le proprie risorse diplomatiche per favorire il rimpatrio dallo Stato beneficiario; sia perché più del 70 per cento degli accordi di riammissione con Paesi africani fa capo a Italia, Spagna e Francia, mentre gli Stati dell’Europa del Nord destinati ad agire come “sponsor” hanno una rete di accordi e relazioni diplomatiche con i Paesi di origine molto meno sviluppata degli Stati mediterranei[15]. Perciò, l’idea della sponsorizzazione – avanzata per finalità strategiche, cioè per promuovere, agli occhi dei Paesi di Visegrád e degli altri governi riluttanti, l’immagine di una solidarietà “flessibile” – rischia di rivelarsi, alla prova dei fatti, una novità deludente, in termini di rilancio della politica europea dei rimpatri, e, al contempo, molto costosa, considerate le risorse amministrative e finanziarie richieste da questa nuova tipologia di trasferimenti non volontari all’interno dell’Unione.
4. Conclusioni
Per la prima volta nella sua storia, l’Unione potrebbe avere un sistema di gestione delle migrazioni “corretto” da meccanismi di solidarietà, cioè da norme che prevedono una condivisione degli oneri di accoglienza dei richiedenti asilo e di rimpatrio dei migranti irregolari. L’esangue Sistema comune europeo di asilo acquisirebbe una maggiore stabilità, grazie a un pilastro della solidarietà che si affiancherebbe a quello della responsabilità, eretto sull’insoddisfacente ma insuperabile criterio del primo Paese di ingresso. La Commissione ha compiuto uno sforzo di creatività ed equilibrio apprezzabile: come nelle promesse, la solidarietà del Patto è davvero obbligatoria, almeno per metà delle quote di contribuzione statali parametrate su popolazione e PIL, e al contempo flessibile, quanto alle modalità di contribuzione.
I primi mesi di negoziazione, però, hanno rivelato i limiti di quella promessa e rafforzato l’opposizione proprio di quegli Stati membri che dovrebbe esserne i principali beneficiari. Al di là dei rischi, sopra evidenziati, di “paralisi” della solidarietà sul piano decisionale o di “fuga” dalla solidarietà tramite la vaga formula della “forza maggiore” (§§ 3.1 e 3.2), il problema principale deriva dalla impostazione “coercitiva” del disegno solidaristico: una impostazione che inevitabilmente porta con sé un tasso di inefficienza amministrativa elevato e che, in modo altrettanto inevitabile, si ripercuote a danno degli Stati membri beneficiari (§§ 3.3 e 3.4). Muovendo dall’assunto che non vada concessa nessuna libertà di scelta né ai richiedenti asilo, né tantomeno ai migranti irregolari, la Commissione sembra ignorare che la coercizione complica le procedure di trasferimento, laddove il consenso degli interessati le renderebbe molto più semplici ed efficaci.
Il paradosso della opposizione alla solidarietà da parte degli Stati mediterranei che dovrebbero esserne i principali beneficiari si spiega allora così: con la inaffidabilità dei meccanismi di solidarietà loro promessi. La diffidenza di quei governi appare giustificata, perché, in assenza di strumenti efficaci di redistribuzione, gli oneri derivanti dalla protezione delle frontiere esterne e dalle responsabilità di Paesi di primo ingresso rischiano, per quegli Stati membri, di diventare insostenibili.
Emerge, così, dall’analisi del Patto e delle sue reticenze, l’immagine di una solidarietà costruita sull’acqua. Nel riproporre ed espandere il modello coercitivo, con il suo carico di costi e di inefficienze amministrative, la Commissione intenzionalmente ignora i macroscopici fallimenti sperimentati sul versante dei c.d. trasferimenti Dublino e nell’attuazione del programma di relocation del 2015. Fare i conti con quei fallimenti costringerebbe a mettere in discussione il taboo delle “non scelta” dei migranti e a valutare quali benefici, per la semplificazione e l’efficacia delle procedure, deriverebbero da un modello alternativo, fondato, almeno in parte, sul consenso delle persone “oggetto” delle misure di solidarietà[16]. Quella noncuranza, perciò, appare sospetta: nella migliore delle ipotesi, è miope e, nella peggiore, ideologica. In ogni caso, non pragmatica.
La solidarietà fra Stati e UE e la carenza di una visione costituzionale del governo dei flussi e delle crisi migratorie nel nuovo patto sulla migrazione e l’asilo
di Elisa Cavasino [17]
Sommario: 1. I tratti caratteristici del Nuovo patto per le migrazioni e l’asilo - 2. Un patto “per la solidarietà fra Stati”, condizionato dal contesto - 3. La carenza di una visione costituzionale del problema delle crisi e dei flussi migratori: alcuni nodi problematici.
1. I tratti caratteristici del Nuovo patto per le migrazioni e l’asilo
Il New EU Migration Pact è un articolata serie di proposte di riforma in materia di frontiere, asilo, immigrazione provenienti dalla Commissione europea il cui obiettivo di fondo è di migliorare il livello di cooperazione fra Stati, organi ed agenzie dell’Unione europea in materia di immigrazione ed asilo[18].
La Commissione si propone di assicurare migliore funzionalità al sistema europeo comune d’asilo. Tuttavia, quest’ambizioso obiettivo andrebbe realizzato senza intervenire direttamente su uno dei tratti più controversi e mal-funzionanti del Sistema europeo comune d’asilo (CEAS) – il regolamento Dublino III[19]; sottostimando peraltro il costo amministrativo e finanziario derivante dall’attuazione del pact, dato che esso determinerebbe imponenti interventi di tipo organizzativo e finanziario per assicurare che le previsioni relative alla “gestione” organizzativa dei controlli e delle procedure di rimpatrio alla frontiera oltreché dei meccanismi di redistribuzione e rimpatrio dei migranti[20] siano effettuate nel pieno rispetto dei principi costituzionali e delle norme internazionali sul diritto di difesa, sul diritto d’asilo, sulla garanzia della libertà personale e dei diritti inviolabili della persona migrante e sul giusto procedimento amministrativo.
Rispetto a quanto accaduto negli anni successivi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le strategie dell’UE proposte dalla Commissione il 23 settembre 2020 – sia quanto agli oggetti da disciplinare, sia quanto alla scelta degli atti di diritto derivato prescelti – sono decisamente orientate su aspetti di governo dei flussi e su meccanismi di raccordo fra gli interventi di “gestione” degli stessi da parte degli Stati e dell’Unione, piuttosto che sullo status del richiedente asilo o del migrante che entra e si muove all’interno dello spazio giuridico europeo.
Non a caso, gli interventi di riforma dell’impianto del CEAS già esistente si concentrano su eurodac, ricollocamento e regole di procedura applicabili in materia di richieste di asilo alle frontiere esterne dell’Unione. Gli interventi più innovativi riguardano invece l’istituzione di meccanismi di governo dei flussi migratori e di prevenzione e gestione delle crisi migratorie.
L’assenza di efficacia dell’intervento dell’Unione e l’azione dell’UE in materia d’immigrazione e d’asilo, nel pact sembra essere imputata ad una carenza di “uniformità” nelle regole applicabili e nelle prassi amministrative: è per questo che l’intervento prospettato dalla Commissione insiste sulla necessità di una maggiore armonizzazione delle regole applicabili. Per tale ragione, la fonte “privilegiata” diviene così il regolamento, rispetto alla direttiva.
2. Un patto “per la solidarietà fra Stati”, condizionato dal contesto
Il nuovo patto per l’immigrazione e l’asilo viene costruito in un contesto in cui la chiave di volta per il futuro del sistema europeo comune d’asilo – secondo quanto emerge dall’impostazione complessiva della sua proposta politica della Commissione – è individuata nel principio di solidarietà fra Stati membri dell’Unione e fra Unione e Stati membri, che diventa di fatto l’unica direttrice lungo la quale si svolgono le politiche europee su asilo e immigrazione. Da qui gli interventi “innovativi” sul supporto finanziario e organizzativo dell’UE attraverso le sue agenzie agli Stati per il management delle frontiere, secondo le nuove regole proposte e la riforma dei meccanismi di solidarietà fra Stati nella ri-collocazione dei migranti.
Certamente, interventi come quelli proposti dal Pact potrebbero incrementare la fiducia reciproca fra Stati membri perché esso introduce meccanismi volti – potenzialmente – a consentire una più effettiva garanzia del principio di solidarietà fra Stati e di condivisione delle “responsabilità” derivanti dalla gestione dei flussi migratori e delle crisi migratorie[21].
Da questo punto di vista il Pact potrebbe contribuire ad arginare le derive sovraniste in questa materia[22], derive capaci di scardinare il progetto d’integrazione europea in materia di gestione comune delle frontiere esterne[23], di costruzione di uno spazio europeo senza frontiere interne e di governo comune dei flussi migratori da Paesi terzi verso gli Stai membri dell’Unione[24].
Va considerato a tal proposito che il nuovo patto europeo sull’immigrazione è stato pensato in relazione ad un contesto ben preciso: ricorrenti crisi migratorie; crescenti flussi misti di migranti; vulnerabilità estrema delle frontiere esterne dell’Unione, in particolare di quelle marittime e che dato l’attuale clima politico – che ha impedito sinora di riformare Dublino – comprensibilmente, il progetto politico-normativo della Commissione mira a non destrutturare l’impianto del Sistema europeo comune d’asilo (CEAS).
È probabilmente questa la ragione per cui questo progetto non è affatto ambizioso nella parte in cui conserva i principi del CEAS, ma lo è, invece, sul versante della solidarietà fra Stati e sul versante dell’idea di frontiera che ci prospetta. In particolare, gli elementi di novità in esso contenuti sono i nuovi istituti ed i nuovi strumenti d’azione comune fra UE e Stati volti a prevedere e a gestire “casi di forza maggiore”[25]; le procedure di riconoscimento dei migranti e di screening sanitario alla frontiera[26]; maggiore forza all’azione UE in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare mediante l’irrobustimento delle regole sul controllo delle frontiere[27] e la riforma della direttiva “procedure”[28] che attenuano la distinzione di trattamento fra migranti e richiedenti asilo[29].
3. La carenza di una visione costituzionale del problema delle crisi e dei flussi migratori: alcuni nodi problematici
Purtroppo però quest’impostazione oblitera ciò che – in generale – è mancato nelle politiche UE sull’asilo e l’immigrazione: la mancanza di una visione politica che rispetti il costituzionalismo dei diritti in materia di asilo ed immigrazione, che implicherebbe la individuazione di un punto di equilibrio fra esigenze di governo dei flussi misti (sicurezza e solidarietà fra stati) e tutela dei diritti della persona migrante (diritti e responsabilità)[30].
L’immagine della frontiera esterna dell’Unione che il Patto ci restituisce è quella di una realtà “solida”, il luogo fisico in cui si deve esprimere la massima capacità organizzativa dello Stato nel controllo efficace ed effettivo dell’immigrazione irregolare e nella gestione amministrativa delle richieste di protezione internazionale.
Ritorna l’immagine della frontiera-fortezza anche perché è tale capacità organizzativa che può condurre alla fiducia reciproca ed alla solidarietà fra Stati nella gestione di un fenomeno, quello dei flussi migratori, che ha effetti sistemici sullo spazio giuridico europeo, nel senso che carenze sistemiche sul versante del rispetto delle regole UE su contrasto dell’immigrazione irregolare e procedure d’asilo mettono in crisi il CEAS, dunque hanno conseguenze imprevedibili sulla tenuta del processo d’integrazione europea[31].
Per assicurare che un efficace governo europeo dell’immigrazione e dell’asilo, gli oggetti principali su cui si concentra l’intervento dell’Unione sono, pertanto, le frontiere esterne e le procedure amministrative che in quell’area dello spazio giuridico europeo devono essere svolte mediante regole comuni, anzi, direi meglio, armonizzate, volte ad accelerare le decisioni sullo status giuridico del migrante.
Esemplificativo di quest’approccio è l’impianto della proposta di riforma della direttiva “procedure” (dir. 2013/32/UE) con cui la Commissione si propone di abrogare la direttiva e di sostituire la disciplina sulle procedure con norme di fonte regolamentare[32]. Alla base della proposta vi è l’esigenza di porre rimedio alle inefficienze amministrative ed ai movimenti (cosiddetti secondari) dei migranti richiedenti asilo che dalle frontiere esterne si spostano negli altri Stati membri alla ricerca delle condizioni e prospettive migliori per il loro soggiorno[33]. La soluzione a tali problemi vede la frontiera esterna come il luogo in cui lo si effettuano l’accertamento dell’identità e lo screening (a tutela della sanità e sicurezza) dei migranti; si raccolgono i dati biometrici e li si inseriscono nei database informativi UE (Eurodac in primis, per l’asilo) e si procede dunque ad acquisire elementi utili ad una pre-valutazione relativi tipo di procedura da utilizzare per gestire la richiesta di protezione del migrante.
La proposta di riforma immagina diversi esiti a valle di questa prima fase di cui uno in particolare pone seri problemi di compatibilità con un aspetto del nucleo costituzionale del diritto d’asilo, ossia il diritto all’ingresso sul territorio dello Stato per chiedere il riconoscimento della protezione dello Stato[34]: si tratta della procedura valutazione delle domande di asilo senza autorizzare l’ingresso nel territorio dello Stato con rimpatrio (procedure di asilo alla frontiera e rimpatrio alla frontiera) e, per certi aspetti, della procedura combinata di asilo e rimpatrio alla frontiera (per migranti provenienti da paesi con basso tasso di riconoscimento delle domande). Si tratta in entrambi i casi di procedure accelerate e di frontiera che sicuramente aumentano, come dice la Commissione, le probabilità che il rimpatrio vada a buon fine[35], ma che, a prescindere da quanto ritenuto dalla Commissione, altrettanto sicuramente possono entrare in diretto contrasto con l’art. 10 c. 3° Cost. per il profilo descritto.
È indicativo, ancora, di una carenza di attenzione verso i profili di diritto costituzionale, e di una maggiore cautela, invece, rispetto ai profili di diritto internazionale dei diritti umani, che diversi altri aspetti problematici del patto, in particolare quelli relativi alla compatibilità dell’azione UE e degli Stati con riferimento agli obblighi internazionali di soccorso in mare e con la CEDU che le proposte della Commissione in relazione a tali “oggetti”, non mirano all’adozione di regolamenti, ma sono strumenti di soft law (raccomandazioni)[36].
L’UE in lotta contro il traffico di migranti: dal facilitators package al nuovo patto sulla migrazione e l’asilo
di Alessandro Spena [37]
Sommario: 1. Un altro nuovo inizio? – 2. Il Facilitators package: ancora tu? – 3. Un modello più armonioso: il Protocollo Onu contro lo smuggling of migrants – 4. L’illusione di un nuovo inizio: il Piano d’azione (2015-2020) – 5. Così è (se vi pare): la REFIT evaluation del 2017 – 6. Si può criminalizzare la solidarietà? No, ma anche.
1. Un altro nuovo inizio?
Il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, adottato dalla Commissione europea il 23 settembre 2020, si pone dichiaratamente come “un nuovo inizio” di fronte alle sfide di grande impegno poste dai fenomeni migratori all’Europa. Questo nuovo inizio si articola su una serie di linee-guida fondamentali, che il patto si limita per lo più ad enunciare in termini generali e programmatici. Tra queste linee-guida, ritroviamo anche l’esigenza di rafforzare la lotta contro il traffico di migranti (migrant smuggling), il quale, comportando «lo sfruttamento organizzato dei migranti» e ruotando su «una ricerca del profitto che ha scarso rispetto per la vita umana», pregiudica sia gli obiettivi umanitari, della protezione delle vite e dei diritti delle persone trafficate, sia lo scopo dell’Ue di provvedere ad una gestione ordinata e controllata delle migrazioni in territorio europeo.
L’obiettivo di combattere il traffico di migranti, per la verità, non è affatto una novità tra le strategie Ue in materia di immigrazione; il problema è, semmai, che il quadro normativo europeo in quest’ambito – essenzialmente cristallizzato nel cosiddetto Facilitators package del 2002[38] – presenta, sin dal suo sorgere, non pochi problemi e risulta oggi affetto da numerosi profili di anacronismo.
2. Il Facilitators package: ancora tu?
Per rendersene conto, basta darvi una scorsa veloce. Delle due esigenze oggi indicate dalla Commissione come stelle polari della lotta al migrant smuggling – ossia, nell’ordine, protezione del migrante smuggled e controllo dei flussi migratori – la prima non vi riceve alcuna significativa considerazione: la lotta al traffico dei migranti vi è condotta in un’ottica squisitamente stato-centrica, che considera il fenomeno dalla sola prospettiva degli stati, come violazione del loro interesse a regolare i flussi di stranieri in entrata e in uscita sui loro territori, in un quadro, peraltro, nel quale – in forza degli accordi di Schengen e della libera circolazione dei cittadini comunitari tra i paesi che ne fanno parte – l’interesse al controllo delle frontiere di ciascuno stato viene concepito come oggetto di un corrispondente interesse anche degli altri stati[39].
Nella logica del package, insomma, il traffico di migranti è solo un tassello di un problema più generale, quello dell’immigrazione irregolare. Ed infatti, nel primo e nel secondo Considerando della Direttiva, si legge rispettivamente che “(1) Uno degli obiettivi che l'Unione europea si prefigge è l'istituzione progressiva di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia che implica, in particolare, la lotta all'immigrazione clandestina” e che “(2) Occorre pertanto adottare misure volte a combattere l'attività di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, tanto se correlata all'attraversamento illegale della frontiera in senso stretto quanto se perpetrata allo scopo di alimentare le reti di sfruttamento di esseri umani”. Nessun riferimento è fatto – né qui né nella Decisione quadro – alla necessità di tutelare i diritti dei soggetti trafficati e di considerare dunque il fenomeno del traffico di migranti anche dal punto di vista delle sue implicazioni umanitarie[40]. Il fuoco dello strumento è tutto puntato sull’esigenza di combattere l’immigrazione irregolare.
Il traffico, di conseguenza, vi è essenzialmente dipinto e preso in considerazione come attività ancillare rispetto all’ingresso o al soggiorno irregolare dello straniero sul territorio degli stati Ue; la condotta del trafficante, di per sé, non vi è vista come portatrice di un autonomo contenuto di illecito: essa vi riceve il proprio contenuto di illecito di riflesso, in via accessoria, dal fatto di costituire aiuto, favoreggiamento, di una condotta di immigrazione irregolare. Come tale, del resto, la condotta è descritta all’art. 1: il fatto di chi intenzionalmente assista, aiuti, uno straniero ad entrare irregolarmente nel, o ad attraversare irregolarmente il, o a soggiornare nel, territorio di uno stato membro, dove è chiaro che il vero nucleo di disvalore è fatto risiedere nella condotta di chi irregolarmente entra nel territorio o lo attraversa[41].
Ma la considerazione del tutto secondaria che nel Facilitators package ricevono gli obiettivi umanitari emerge soprattutto da due altre circostanze. In primo luogo, la Direttiva costruisce, nell’art. 1.1.a, l’incriminazione del favoreggiamento all’ingresso irregolare (a differenza di quanto l’art. 1.1.b fa per il favoreggiamento della permanenza irregolare) senza richiedere che il favoreggiatore agisca per finalità di profitto[42]; ciò comporta che la fattispecie risulti integrata non soltanto da condotte votate allo sfruttamento economico del migrante, ma anche da condotte realizzate per puro spirito di solidarietà, incluse, in linea di principio, quelle orientate a scopi di carattere umanitario. In secondo luogo, una siffatta espansione dell’ambito applicativo dell’incriminazione non risulta efficacemente contrastata da quanto previsto nell’art. 1.2: il fine di assistenza umanitaria vi è bensì previsto, ma quale mera opzione, lasciata alla libera discrezionalità degli stati; la Direttiva non impone affatto agli stati di non punire le condotte di aiuto all’ingresso commesse per quella finalità; si limita a riconoscere che essi ne hanno facoltà[43].
3. Un modello più armonioso: il Protocollo Onu contro lo smuggling of migrants
Questa impostazione, così ferreamente stato-centrica, risulta tanto più evidente se la si pone a confronto con l’impostazione dell’altro grande strumento internazionale in materia, ossia il Protocollo contro il traffico dei migranti (smuggling of migrants) aggiunto alla Convenzione Onu contro il crimine organizzato transnazionale, siglata a Palermo nel dicembre del 2000. Anche questo strumento, per vero, individua la ragione fondamentale della criminalizzazione della condotta nell’interesse degli stati al controllo dei flussi migratori. Tuttavia, sin dalle prime battute, vi si stabilisce esplicitamente che “The purpose of this Protocol is to prevent and combat the smuggling of migrants, as well as to promote cooperation among states Parties to that end, while protecting the rights of smuggled migrants” (art. 2), e in tal modo l’approccio stato-centrico risulta decisamente temperato dalla centrale considerazione in cui vengono esplicitamente tenuti i diritti dello straniero smuggled[44].
Non è un caso, allora, che la fattispecie dell’illecito sia impostata in termini di smuggling (traffico) e non di mera agevolazione/facilitazione dell’immigrazione irregolare; il che contribuisce a dotare il reato di un autonomo disvalore, che non si risolve in un mero riflesso dell’ingresso o del soggiorno irregolare dello straniero: se non si può dire, insomma, che lo straniero vi sia strutturalmente dipinto alla stregua di una vittima degli smuggler, di certo non vi è neanche dipinto come l’autore di un illecito principale (di immigrazione irregolare), rispetto al quale la condotta del trafficante si ponga quale mero supporto. Nell’impostazione del Protocollo ONU, il migrante smuggled figura piuttosto come un mero “oggetto” dell’altrui condotta, con la conseguenza che è in radice esclusa ogni possibilità di considerarlo responsabile del fatto di smuggling, come viene espressamente sancito dall’art. 5 (“Migrants shall not become liable to criminal prosecution under this Protocol for the fact of having been the object of” smuggling).
Ad avvalorare questa lettura vi è la circostanza che la condotta di smuggling viene qui criminalizzata solo a condizione che sia posta in essere “in order to obtain, directly or indirectly, a financial or other material benefit” (artt. 3 e 6): che lo smuggler agisca per fine di profitto è un elemento attorno al quale è costruita la fattispecie incriminatrice e dal quale, dunque, dipende il disvalore del fatto, che in tal modo si connota di una dimensione lucrativa che sembra colorare la condotta di un significato di sfruttamento: lo smuggler sfrutta, al fine di ricavarne un profitto, la situazione che viene a crearsi per il convergere, da un lato, dei limiti posti dalla legge alla possibilità per lo straniero di entrare regolarmente nel territorio dello stato e, dall’altro lato, del bisogno, o comunque del desiderio, dello straniero di aggirarli[45].
Proprio perché il fatto deve essere commesso per fine di lucro, nel Protocollo non è prevista alcuna scriminante umanitaria: non perché il fine umanitario non rilevi in rapporto alla condotta illecita, ma semplicemente perché fine di profitto e fine umanitario sono mutuamente esclusivi, così che il ricorrere del secondo esclude automaticamente il primo, e dunque anche la configurabilità della condotta illecita. Come è precisato nelle Interpretative notes for the official records (travaux préparatoires) of the negotiation of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the Protocols thereto,[46]
[T]he reference to “a financial or other material benefit” as an element of the definition in subparagraph (a) [of art. 3] was included in order to emphasize that the intention was to include the activities of organized criminal groups acting for profit, but to exclude the activities of those who provided support to migrants for humanitarian reasons or on the basis of close family ties. It was not the intention of the protocol to criminalize the activities of family members or support groups such as religious or non-governmental organizations.
4. L’illusione di un nuovo inizio: il Piano d’azione (2015-2020)
Il Protocollo è dunque uno strumento capace di rappresentare una visione comprensiva del fenomeno del traffico di migranti, che si faccia carico non solo dell’interesse dello stato, ma anche dei diritti dello straniero. Il Facilitators package no. Di ciò, si rende conto la stessa Commissione europea, allorché, lanciando il Piano d’azione Ue contro il traffico di migranti (2015 – 2020)[47], si ripromette esplicitamente di formulare “proposte per migliorare l'attuale quadro giuridico dell'Ue di lotta contro il traffico di migranti, che definisce il reato di favoreggiamento dell'ingresso e del soggiorno illegali”.
Da diversi punti di vista, in effetti, il Piano prelude a un cambio di passo rispetto al Facilitators package; i toni sono assai diversi; vi si abbandona, infatti, il paradigma del trafficante come favoreggiatore dell’immigrato irregolare: la svolta è linguistica (smuggler e non più facilitator), ma anche concettuale: si dà esplicito risalto alla circostanza che la relazione fra trafficante e trafficato è improntata ad uno sfruttamento del secondo da parte del primo: “I trafficanti trattano i migranti come merci, al pari della droga e delle armi da fuoco che contrabbandano lungo le stesse rotte”; più che come complici dell’immigrato irregolare, i trafficanti vengono adesso dipinti come soggetti senza scrupoli, che “ricavano profitti considerevoli” mettendo a rischio la vita dei migranti: “Per aumentare al massimo questi profitti, i trafficanti ammassano spesso centinaia di migranti su camion o su imbarcazioni insicure (come piccoli gommoni o navi da carico da rottamare). Innumerevoli migranti annegano in mare, soffocano nei container o periscono nei deserti. [...]. I diritti umani dei migranti sono spesso gravemente violati con azioni di abuso e sfruttamento”.
5. Così è (se vi pare): la REFIT evaluation del 2017
Sennonché, le annunciate proposte per migliorare il quadro giuridico sono sin qui rimaste confinate nel quaderno dei buoni propositi. È infatti accaduto che, nel frattempo, su iniziativa della stessa Commissione, si sia dato avvio ad una valutazione del Facilitators package[48], sotto i profili della effectiveness[49], dell’efficiency[50], della relevance[51], della coherence[52] e dell’Eu added-value[53], ad esito della quale si è giunti alla conclusione che il package “achieves its objectives and is still fit-for-purpose” e che pertanto “at this point in time [it] should be maintained in its present form”[54].
Un esito, per vero, piuttosto sorprendente.
5.1. Già il modo in cui il documento di valutazione ricostruisce gli obiettivi del package suscita qualche perplessità, essendo affetto da (ciò che potremmo chiamare) un palese anacronismo interpretativo; vi si lascia intendere che esso sia animato dal bisogno di proteggere innanzitutto i diritti umani dei soggetti trafficati e secondariamente l’interesse degli stati alla gestione dei flussi migratori[55]: ma ciò, come si è visto, non è vero; si tratta, in realtà, una proiezione retroattiva di un modo di impostare il tema della lotta al traffico di migranti che, almeno in ambito Ue, è venuto maturando solo successivamente, e che non era affatto sotteso alla normativa 2002, connotata invece da una vocazione spiccatamente stato-centrica.
5.2. Quanto poi alle valutazioni sui singoli punti, meritano di essere segnalate quelle che attengono al piano della effectiveness e al piano della coherence.
Sotto il primo profilo, il Commission staff riconosce che “reliable, complete, updated and comparable statistics in terms of investigations, prosecutions and convictions related to migrant smuggling are lacking”; che, ciò nondimeno, “available annual figures show that irregular crossings at EU external borders reported in 2015 were six times as high as in 2014, while detections of suspected facilitators increased from 10 234 in 2014 to 12 023 in 2015. The latter rise reflects mostly increases reported in Spain, France and Italy”; e che pertanto “From such figures it could be deducted that the Facilitators Package has not significantly contributed to reducing irregular migration, particularly in the context of increasing migratory inflows”, sebbene, “in the absence of full data and an incomplete baseline, these conclusions remain partial”[56].
Il pacchetto si sarebbe invece rivelato effective sul piano dell’armonizzazione tra le normative europee in materia di traffico di migranti, essendo “considered sufficiently broad and clear to allow prosecution of different forms of migrant smuggling”[57]: ma è difficile capire quanto questo sia propriamente un effetto del package; nel caso italiano, ad es., si può dire che la disciplina penale in tema di favoreggiamento non abbia subito alcun significativo influsso da parte della normativa europea: lo schema generale delle incriminazioni attualmente previste nell’art. 12 Tuimm era già presente nella versione originaria del d.lgs. 286/1998. A ciò si aggiunga il problema – segnalato da alcuni stati membri e dalla assoluta maggioranza degli altri soggetti consultati – della mancanza di chiarezza e certezza giuridica nella distinzione tra favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e assistenza umanitaria, quale risulta dall’attuale formulazione dell’art. 1.2 della Direttiva, che, come visto, non impone agli stati di prevedere una humanitarian exemption, riconoscendo loro soltanto la facoltà di farlo[58].
Questo rende, forse, un po’ troppo caritatevole la pur cauta conclusione cui giunge il Commission staff, secondo cui, “limited availability of reliable and comparable data hinders the capacity to draw a clear-cut, conclusive picture”: in realtà, il quadro sembra abbastanza chiaro nel senso di suggerire che il package si sia rivelato tutto sommato scarsamente effective nel perseguimento dei suoi scopi.
5.3. Ma le maggiori perplessità sorgono sotto il profilo della coherence. La valutazione del Commission staff si muove, a questo proposito, su due piani diversi: un piano di coerenza interna, concernente tanto il rapporto fra i due strumenti del Facilitators package (Direttiva e Decisione quadro) quanto il rapporto fra questi e gli altri strumenti Ue in materia di traffico di migranti e immigrazione irregolare; e un piano di coerenza esterna, concernente invece il rapporto tra Facilitators package e Protocollo Onu contro lo smuggling of migrants.
5.3.1. Secondo il Commission staff, vi è coerenza su entrambi i piani; ma ciò appare discutibile già sul piano della coerenza interna. È vero che il Facilitators package è coerente sia nei due atti che lo compongono (Direttiva e Decisione quadro), sia nel rapporto con alcuni strumenti normativi emanati, successivamente al 2002, nell’ambito dell’acquis dell’Ue, in materia di immigrazione irregolare e fenomeni connessi (in particolare, la cosiddetta Employers Sanctions Directive del 2009 e la Direttiva 2011/36/UE on preventing and combating trafficking in human beings). Più complesso appare tuttavia il rapporto con il Piano d’azione contro il traffico di migranti (2015-2020): abbiamo visto come, in realtà, quest’ultimo fosse caratterizzato da un approccio significativamente diverso, almeno sotto certi punti di vista (primo fra i quali, la sottolineatura della dimensione umanitaria e dei diritti dei migranti trafficati implicati nel fenomeno del traffico), rispetto a quello del package, e come anzi, proprio a partire da una presa di coscienza di tali diversità, il Piano d’azione si proponesse di formulare “proposte per migliorare l'attuale quadro giuridico dell'Ue di lotta contro il traffico di migranti”, e dunque per superare, o comunque emendare, la disciplina del package.
Ciò nonostante, e nonostante si prenda atto del fatto che il Piano d’azione prevedesse una revisione del Facilitators package finalizzata “to ensure that appropriate sanctions are in place while avoiding risks of criminalisation of those who provide humanitarian assistance to migrants in distress”, il documento conclude nel senso che “There is therefore a strong coherence between the objectives of the Action Plan and Facilitators Package”; le divergenze tra i due strumenti sarebbero dovute esclusivamente al fatto che “The Action Plan responded to a crisis context requiring operational and prompt action to prevent loss of lives at sea, disrupt smuggling activities and better prevent this form of crime, whereas the Facilitators Package does not aim for any immediate operational effect and rather contributes to better preventing and countering the phenomenon in the long term”.
5.3.2. Ancor più sorprendere appare, poi, il giudizio riguardante la coerenza tra Facilitators package e Protocollo Onu contro lo smuggling: “Despite some differences […], the Protocol and the Facilitators Package remain coherent with each other”. Ora, è vero che il Protocollo ha una proiezione diversa dal package, poiché, a differenza di quest’ultimo, è specificamente orientato a considerare lo smuggling come oggetto dell’azione di gruppi criminali organizzati, e che ciò potrebbe giustificare qualche differenza nei contenuti specifici dei due strumenti. Il fatto è, però, che tra di essi corrono differenze tutt’altro che specifiche o di dettaglio, davvero difficili da spiegare esaustivamente con l’argomento addotto: si tratta di differenze radicali e sul piano dell’impostazione generale (esclusivamente stato-centrica quella Ue, stato-centrica moderata da umanitarismo quella Onu) e sul piano della definizione della condotta (imperniata sul fine di lucro quella Onu e costruita come smuggling e non quale mero favoreggiamento, a differenza di quanto avviene nel package) e sul piano della considerazione dei diritti dei migranti trafficati (centrale nel Protocollo, ma del tutto carente nel package).
6. Si può criminalizzare la solidarietà? No, ma anche
La conclusione cui giunge il Commission staff, ad ogni modo, suona perentoria: il Facilitators package va mantenuto nella sua forma attuale; la necessità di una sua revisione “could be re-evaluated, once the implementation of the Action Plan has reached greater maturity”.
Da qui muove il Nuovo patto del 23 settembre 2020, allorché proclama recisamente che “Le norme vigenti per contrastare il traffico di migranti si sono rivelate un quadro giuridico efficace per combattere coloro che facilitano l'ingresso, il transito e il soggiorno illegali”.
L’unico profilo sul quale la Commissione ritiene di dover intervenire, e con immediatezza, è “la questione della criminalizzazione di soggetti privati” che compiano atti di assistenza umanitaria. Lo fa presentando, l’1 ottobre 2020, una Comunicazione[59], che aspira a fornire una sorta di interpretazione autentica dell’art. 1.2 della Direttiva 90/2002, che ne guidi l’implementazione, sin qui per vero piuttosto deludente, da parte degli stati membri. La Commissione, in tal modo, dà corso ad una precisa richiesta del Parlamento europeo, che, nel luglio 2018, la aveva appunto esortata “ad adottare orientamenti destinati agli Stati membri al fine di chiarire quali forme di favoreggiamento non dovrebbero essere configurate come reato, in modo da assicurare chiarezza e uniformità nell'attuazione dell'acquis attuale, tra cui l'articolo 1, paragrafo 1, lettera b), e l'articolo 1, paragrafo 2, della direttiva sul favoreggiamento”, sul presupposto “che la chiarezza dei parametri [avrebbe garantito] una maggiore coerenza nella normativa penale relativa al favoreggiamento in tutti gli Stati membri, riducendo la criminalizzazione indebita”[60].
In realtà, solo tre anni prima, nella già citata REFIT evaluation del 2017, il Commission working staff affermava che “as of today there appears to be rather limited evidence that social workers, family members or citizens acting out of compassion have been prosecuted and convicted for facilitation of unauthorised entry, transit or residence”; al punto che “the findings show that only one-fifth of the interviewees actually fear sanctions for their humanitarian assistance-related work with irregular migrants in situation of transit or staying on the national territory, and that only some, among those who actually reported fearing such sanctions, would associate the fear with a possible deterrent effect on providing assistance”.
Oggi, invece, agli occhi della stessa Commissione la situazione appare mutata: “Le ultime ricerche discusse dalla Commissione con le ONG suggeriscono che, dal 2015, gli atti compiuti per scopi umanitari sono sempre più oggetto di sanzioni. I dati raccolti hanno confermato che le azioni giudiziarie e le indagini nei confronti di singoli individui per motivi connessi al reato di favoreggiamento sono aumentate nell’UE dal 2015. La ricerca ha registrato 60 indagini e azioni giudiziarie in dieci Stati membri tra il 2015 e il 2019, per lo più relative al favoreggiamento dell’ingresso, con un picco di casi nel 2018”.
In Italia, senza considerare la risalente vicenda Cap Anamur, è dal 2017 (sequestro della Juventa, per iniziativa della procura di Trapani) che si segnala un certo attivismo giudiziario avente ad oggetto l’opera delle Ong impegnate nel salvataggio di vite nel Mediterraneo[61].
Ciò rende urgente chiarire la portata della normativa europea su questo punto, onde prevenire – per usare l’efficace espressione impiegata dal Parlamento Ue nella sua Risoluzione – la configurazione come reato dell'assistenza umanitaria. Sennonché, se lo scopo era questo (chiarire l’ambito di applicazione degli obblighi derivanti dal Facilitators package, in modo da evitare la configurazione dell’assistenza umanitaria come reato), la soluzione fornita non sembra del tutto soddisfacente. Scrive la Commissione: “La criminalizzazione delle organizzazioni non governative o di altri attori non statali che svolgono operazioni di ricerca e soccorso nel rispetto del quadro normativo applicabile costituisce [...] una violazione del diritto internazionale e di conseguenza non è permessa dal diritto dell’UE”; pertanto, “l’articolo 1 della direttiva sul favoreggiamento, quando qualifica come reato il favoreggiamento dell’ingresso e del transito illegali, lasciando agli Stati membri la facoltà di non adottare sanzioni nei casi in cui i comportamenti in questione abbiano lo scopo di prestare assistenza umanitaria, non si riferisce all’assistenza umanitaria obbligatoria per legge, in quanto essa non può essere qualificata come reato”.
Schematicamente:
“i) l’assistenza umanitaria obbligatoria per legge non può e non deve essere qualificata come reato;
ii) in particolare, la criminalizzazione delle organizzazioni non governative o di altri attori non statali che svolgono operazioni di ricerca e soccorso nel rispetto del quadro normativo applicabile costituisce una violazione del diritto internazionale e di conseguenza non è permessa dal diritto dell’Ue;
iii) l’eventuale valutazione della questione se un comportamento rientri nella nozione di «assistenza umanitaria» di cui all’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva – nozione che non può essere interpretata nel senso di consentire la criminalizzazione di un comportamento obbligatorio per legge – dev’essere condotta caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze specifiche”.
Bisognerebbe dunque distinguere due forme di assistenza umanitaria: una, consistente nell’adempimento dei doveri di ricerca e soccorso in mare imposti dal diritto internazionale, la quale rimarrebbe fuori dall’ambito applicativo dell’art. 1.2 della Direttiva, poiché ancor più in radice rimarrebbe fuori dall’ambito applicativo di tutto il Facilitators package: non rientrerebbe insomma tra i fatti descritti nell’art. 1; una sua criminalizzazione, essendo in contrasto col diritto internazionale, lo sarebbe anche col diritto Ue, e dunque gli stati membri non hanno facoltà di criminalizzarla come forma di smuggling. Vi è poi una seconda forma di assistenza umanitaria, che la Commissione non definisce se non, appunto, in negativo, come assistenza umanitaria diversa da quella imposta dal diritto internazionale: questa avrebbe un contenuto non determinabile in astratto, ma solo “caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze specifiche”. È la (non) criminalizzazione di queste attività come forme di smuggling che l’art. 1.2 rimette alla discrezionalità degli stati membri.
Ora, l’affermazione, ufficiale ed esplicita, che gli stati membri non hanno facoltà di criminalizzare condotte di search and rescue imposte dal diritto internazionale ha un valore simbolico importante, ma un’utilità pratica assai scarsa[62]; essa vale ad affermare qualcosa che, nella sua dimensione di principio, non viene mai messa in discussione nelle vicende giudiziarie che qui rilevano. Nessun giudice o pubblico ministero sostiene l’argomento che vadano punite come smuggling condotte imposte dal diritto internazionale. Il vero problema sta altrove: la materia del soccorso in mare è bensì oggetto di un complesso molto articolato di fonti internazionali, ma queste sono, tuttavia, carenti di indicazioni univoche nell’individuazione del porto sicuro dove fare sbarcare le persone salvate, e dunque dello stato che debba considerarsi obbligato a consentire tale sbarco sul proprio territorio[63]. È da qui – non certo dall’idea che si possa disapplicare il diritto internazionale – che emergono le situazioni di conflitto che vedono protagonisti, da un lato, quei soggetti privati che, avendo effettuato un soccorso in mare, chiedono l’indicazione di un porto sicuro e, dall’altro, quegli stati che invece rimangono riluttanti a fornirne uno sul proprio territorio. Rispetto a queste situazioni accade appunto che, al soccorritore che in ultimo decida unilateralmente di entrare nel mare territoriale di uno stato riluttante e di procedere allo sbarco, si contesti il reato di smuggling: e sotto questo riguardo, il diritto internazionale si è fin qui rivelato una guida piuttosto malsicura.
La Comunicazione della Commissione non dissipa queste incertezze, si limita a richiamarle: vi si legge ad es. che “Quando intervengono in operazioni di ricerca e soccorso, tutti gli attori coinvolti devono rispettare le istruzioni dell’autorità di coordinamento, conformemente ai principi generali e alle norme applicabili del diritto internazionale marittimo e dei diritti umani”; il che è verissimo, ma in che modo ciò contribuisce a rendere più agevole la soluzione di casi problematici, come ad es. quello del comandante di nave che, nello stallo fra autorità italiane e autorità maltesi, che si rimpallino la responsabilità di fornire un porto sicuro, scelga unilateralmente di entrare nelle acque di uno dei due stati per procedere allo sbarco?
Per casi difficili siffatti, la soluzione non giungerà certo da un mero rinvio al diritto internazionale, né tantomeno dall’attuale formulazione dell’art. 1.2 della Direttiva, che, come appunto chiarisce la Commissione, non impone affatto agli stati membri di non criminalizzare quanto, al di là degli obblighi imposti dal diritto internazionale, essi possono discrezionalmente (“caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze specifiche”) qualificare come assistenza umanitaria. La soluzione sta, semmai, in una profonda revisione del Facilitators package, che rifiuti, in maniera finalmente esplicita e senza infingimenti, di criminalizzare la solidarietà: o uniformandosi alla definizione di smuggling offerta dal Protocollo Onu, e dunque includendo il fine di profitto tra gli elementi essenziali della fattispecie, oppure riformulando il senso dell’art. 1.2 della Direttiva, cosicché gli stati siano obbligati ad escludere il reato di smuggling in caso di condotta realizzata a scopi di assistenza umanitaria.
Il Facilitators package, insomma, è uno strumento tutt’altro che “still fit-for-purpose” e meritevole di essere “maintained in its present form”: esso è, invece, uno strumento ormai anacronistico, bisognoso quanto prima di un profondo ripensamento e nei suoi presupposti di principio e nei suoi dettagli di disciplina.
[1] Professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università della Tuscia (mario.savino@unitus.it)
[2] Commissione europea, A fresh start on migration: Building confidence and striking a new balance between responsibility and solidarity, comunicato stampa, 23 settembre 2020.
[3] Si veda il rapporto relativo alle negoziazioni sul Patto, predisposto dalla Presidenza portoghese e approvato dal Consiglio GAI dell’8 giugno (Pact on Migration and Asylum – Progress Report, 9178/21, 31 maggio 2021, su cui Agence Europe, EU Interior Ministers urged to adopt progress report on ‘Pact on Migration and Asylum’ due to lack of breakthrough, 2 giugno 2021).
[4] D. Thym, European Realpolitik: Legislative Uncertainties and Operational Pitfalls of the ‘New’ Pact on Migration and Asylum, in EU Immigration and Asylum Law and Policy Blog, 29 settembre 2020.
[5] M. Savino, On Failed Relocation and Would-be Leviathans: Towards the New Pact on Migration and Asylum, ADiM Blog, 31 luglio 2020.
[6] F. Maiani, A “Fresh Start” or One More Clunker? Dublin and Solidarity in the New Pact, in EU Immigration and Asylum Law and Policy Blog, 20 ottobre 2020.
[7] L. Tsourdi, The New Pact and EU Agencies: an ambivalent approach towards administrative integration, in EU Immigration and Asylum Law and Policy Blog, 6 novembre 2020.
[8] In tutti e tre gli scenari, gli obblighi di contribuzione solidaristica sono fissati da un atto di esecuzione della Commissione (artt. 48 e 53 RGAM e art. 3, par. 2, RSCFM), sulla base delle indicazioni contenute nei piani per la risposta di solidarietà degli Stati membri, all’occorrenza integrate dalla Commissione, se insufficienti.
[9] Sia l’art. 67 RGMA, sia l’art. 12 RSCFM richiamano la procedura d’esame disciplinata dall’art. 5 del regolamento comitologia n. 182/2011.
[10] Come dispone in via generale l’art. 8, par. 4, del regolamento comitologia n. 182/2011.
[11] M. Savino, La comitologia dopo Lisbona: alla ricerca dell’equilibrio perduto, in Giornale di diritto amministrativo, 2011, n. 10, p. 1041 ss.
[12] M. Savino, L’organizzazione amministrativa dell’Unione europea, in L. De Lucia e B. Marchetti (a cura di), L’amministrazione europea e il suo diritto, Bologna, il Mulino, 2015, p. 39 ss.
[13] Come testimonia la pronuncia conclusiva della saga sulla relocation: Corte di giustizia, sentenza 2 aprile 2020, cause riunite C-715/17, C-718/17 e C-719/17, Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.
[14] Sulle implicazioni finanziarie del Patto, I. Goldner Lang, Financial Implications of the New Pact on Migration and Asylum: Will the Next MFF Cover the Costs?, in EU Immigration and Asylum Law and Policy Blog, 27 gennaio 2021.
[15] J.-P. Cassarino, Readmission, Visa Policy and the “Return Sponsorship” Puzzle in the New Pact on Migration and Asylum, in ADiM Blog, 30 novembre 2020.
[16] Sui modelli alternativi, F. Maiani, Responsibility Allocation and Solidarity, in P. De Bruycker, M. De Somer, J.-L. De Brouwer (eds.), From Tampere 20 to Tampere 2.0: Towards a new European consensus on migration, EPC, December 2019, p. 108 ss.
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[17] Professore associato di diritto costituzionale nell’Università di Palermo (elisa.Cavasino@unipa.it)
[18] La proposta della Commissione è disponibile al seguente indirizzo https://ec.europa.eu/info/publications/migration-and-asylum-package-new-pact-migration-and-asylum-documents-adopted-23-september-2020_en
[19] Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013 , che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.
[20] Sul tema degli oneri finanziari I. Goldner Lang, The Future of Legal Europe: Will We Trust in It?, in corso di pubblicazione in un volume della Springer, 2021, reperibile attraverso il portale Social Science Research Network (SSRN) https://www.ssrn.com/index.cfm/en/
[21] Proposta modificata di Regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE COM(2020) 611 final.
[22] Su cui S. Penasa, G. Romeo, Sovereignty-based Arguments and the European Asylum System: Searching for a European Constitutional Moment?, in European Journal of Migration and Law 22(2020) 11-38.
[23] CGUE Grande Sezione sentenza 17 dicembre 2020 Commissione c. Ungheria C-808/18.
[24] Comunicazione della Commissione Un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo del 23.9.2020 COM (2020) 609 e relativo allegato contenente la Roadmap per la sua attuazione; proposta in materia di gestione (management) dell’asilo e della migrazione (Asylum and Migration Management Regulation – AMR), EU Commission Staff Working Document on Accompanying the document PROPOSAL FOR A REGULATION OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL on asylum and migration management and amending Council Directive (EC)2003/109 and the proposed Regulation (EU)XXX/XXX [Asylum and Migration Fund] SWD/2020/207 final; Proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione e che modifica la direttiva 2003/109/CE del Consiglio e la proposta di regolamento (UE) XXX/XXX [Fondo Asilo e migrazione] COM (2020) 610 final del 23.9.2020 e relativo allegato.
[25] Proposta di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell'asilo (Testo rilevante ai fini del SEE) COM(2020) 613 final; RACCOMANDAZIONE (UE) 2020/1366 DELLA COMMISSIONE del 23 settembre 2020 su un meccanismo dell’UE di preparazione e di gestione delle crisi connesse alla migrazione (programma di preparazione e di risposta alle crisi nel settore della migrazione).
[26] Proposta di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO che introduce accertamenti nei confronti dei cittadini di paesi terzi alle frontiere esterne e modifica i regolamenti (CE) n. 767/2008, (UE) 2017/2226, (UE) 2018/1240 e (UE) 2019/817 COM(2020) 612 final e relativo allegato;
Proposta modificata di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO che istituisce l'«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l'efficace applicazione del regolamento (UE) XXX/XXX [regolamento sulla gestione dell'asilo e della migrazione] e del regolamento (UE) XXX/XXX [regolamento sul reinsediamento], per l'identificazione di cittadini di paesi terzi o apolidi il cui soggiorno è irregolare e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica i regolamenti (UE) 2018/1240 e (UE) 2019/818 COM(2020) 614 final e relativo allegato. RACCOMANDAZIONE (UE) 2020/1364 DELLA COMMISSIONE del 23 settembre 2020 relativa ai percorsi legali di protezione nell’UE: promuovere il reinsediamento, l’ammissione umanitaria e altri percorsi complementari.
[27] COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE Orientamenti della Commissione sull’attuazione delle norme dell’UE concernenti la definizione e la prevenzione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (2020/C 323/01);
[28] Proposta modificata di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell'Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE COM(2020) 611 final (Asylum Procedure Regulation – APR).
[29] Proposta di Regolamento che introduce accertamenti nei confronti dei cittadini di paesi terzi alle frontiere esterne e modifica i regolamenti (CE) n. 767/2008, (UE) 2017/2226, (UE) 2018/1240 e (UE)
2019/817 COM (2020) 612 final; Proposta modificata di REGOLAMENTO DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO che istituisce l'«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l'efficace applicazione del regolamento (UE) XXX/XXX [regolamento sulla gestione dell'asilo e della migrazione] e del regolamento (UE) XXX/XXX [regolamento sul reinsediamento], per l'identificazione di cittadini di paesi terzi o apolidi il cui soggiorno è irregolare e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica i regolamenti (UE) 2018/1240 e (UE) 2019/818 COM(2020) 614 final e relativo allegato.
[30] Sia consentito rinviare a E. Cavasino, Diritti, sicurezza, solidarietà e responsabilità nella protezione della persona migrante, in Federalismi, Focus Human Rights 3/2018 https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=37736.
[31] Sul concetto di carenze sistemiche e violazioni del diritto UE si veda A. von Bogdandy, Principles of a Systemic Deficiencies Doctrine: how to protect checks and balances in the Member States, in Common Market Law Review 57: 705-740.
[32] Proposta modificata di Regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE COM (2020)611 final
[33] Proposta modificata di Regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE COM (2020)611 final, a pagina 3.
[34] Cass. 10686/2012 e in dottrina da C. Esposito, Asilo (diritto di), in Enc. dir., Milano, 1959, III, 222 ss. a, da ultimo, P. Bonetti, Art. 10 cost., in Clementi, Rosa, Vigevani, La Costituzione italiana, Commento articolo per articolo, Bologna, 2021, I, 76 spec. 83
[35] Proposta modificata di Regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e abroga la direttiva 2013/32/UE COM (2020)611 final, a pagina 9
[36] RACCOMANDAZIONE (UE) 2020/1364 DELLA COMMISSIONE del 23 settembre 2020 relativa ai percorsi legali di protezione nell’UE: promuovere il reinsediamento, l’ammissione umanitaria e altri percorsi complementari.
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[37] Professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo (alessandro.spena@unipa.it)
[38] Decisione-quadro 2002/946/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali, e la Direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali.
[39] Su ciò rinvio chi lo volesse, anche per ulteriori riferimenti, a Spena, Human Smuggling and Irregular Immigration in the EU: From complicity to exploitation?, in Carrera, Guild (eds.), Irregular migration, trafficking and smuggling of human beings policy dilemmas in the EU, Brussels: CENTRE FOR EUROPEAN POLICY STUDIES (CEPS), 2016, 33 ss.; Id., in Militello, Spena, Between Criminalization and Protection: The Italian Way of Dealing with Migrant Smuggling and Trafficking within the European and International Context, Leiden: Brill, 2019; Id., L’incriminazione dello smuggling of migrants in Europa: una ricognizione comparatistica, in Militello, Spena, Mangiaracina, Siracusa (cur.), Traffici illeciti nel Mediterraneo. Persone, stupefacenti, tabacco, Torino: Giappichelli, 2019, 144 ss.
[40] Il solo fugace riferimento ai diritti dei soggetti trafficati si ritrova nell’art. 6 della Decisione quadro, a tenore del quale “L'applicazione della presente decisione quadro non pregiudica la protezione concessa ai rifugiati e ai richiedenti asilo conformemente al diritto internazionale relativo ai rifugiati o ad altri strumenti internazionali sui diritti dell'uomo, e in particolare l'osservanza da parte degli Stati membri delle loro obbligazioni internazionali ai sensi degli articoli 31 e 33 della convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati, modificata dal protocollo di New York del 1967”. Questa disposizione si limita, in realtà, a ribadire l’ovvia circostanza che le norme del Facilitators package non possono essere intese come deroghe in violazione di norme di diritto internazionale, che hanno valore vincolante per gli stati membri.
[41] Per approfondimenti, Spena, Human Smuggling and Irregular Immigration in the EU: From complicity to exploitation?, in Carrera, Guild (eds.), Irregular migration, trafficking and smuggling of human beings policy dilemmas in the EU, Brussels: CENTRE FOR EUROPEAN POLICY STUDIES (CEPS), 2016, 33 ss.; Mitsilegas, The normative foundation of the criminalization of human smuggling: Exploring the fault lines between European and international law, in New Journal of European Criminal Law, 1/2019, 78.
[42] Cfr. ad es. Veas, Il fine di profitto nel reato di traffico di migranti: analisi critica della legislazione europea, in Diritto penale contemporaneo – Rivista trimestrale, 1/2018, 116 ss.; Spena, L’incriminazione dello smuggling of migrants in Europa: una ricognizione comparatistica, in Militello, Spena, Mangiaracina, Siracusa (cur.), Traffici illeciti nel Mediterraneo. Persone, stupefacenti, tabacco, cit., p. 145.
[43] Cfr. ad es., oltre ai testi citati nelle due note precedenti, Allsopp, Manieri, The Eu anti-smuggling framework: Direct and indirect effects on the provision of humanitarian assistance to irregular migrants, in Carrera, Guild (eds.), Irregular migration, trafficking and smuggling of human beings policy dilemmas in the EU, Brussels: CENTRE FOR EUROPEAN POLICY STUDIES (CEPS), 2016, 84.
[44] Spena, Smuggled migrants as victims? Reflecting on the Un Protocol against migrant smuggling and on its implementation, §§ 2 e 3.2 (in corso di pubblicazione).
[45] Per approfondimenti, sia consentito rinviare a Spena, Smuggled migrants as victims? Reflecting on the Un Protocol against migrant smuggling and on its implementation, § 3.4 (in corso di pubblicazione)
[46] Un General Assembly, Report of the Ad Hoc Committee on the Elaboration of a Convention against Transnational Organized Crime on the work of its first to eleventh sessions – Addendum: Interpretative notes for the official records (travaux préparatoires) of the negotiation of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the Protocols thereto, A/55/383/Add.1, 3 November 2000, § 88 (https://www.unodc.org/pdf/crime/final_instruments/383a1e.pdf).
[47] Il piano è del 27 maggio 2015 e costituisce parte dell’Agenda europea sulle migrazioni, adottata un paio di settimane prima (13 maggio 2015).
[48] Commission staff working document REFIT evaluation of the EU legal framework against facilitation of unauthorised entry, transit and residence: the Facilitators Package (Directive 2002/90/EC and Framework Decision 2002/946/JHA), pubblicato il 22 marzo 2017.
[49] “To what extent did the Facilitators Package achieve its objectives? To what extent did it achieve approximation as regards the definition of the offence and the associated penal framework, including type and level of sanctions, and jurisdiction rules? Was the Package effective in setting out an appropriate legal framework to tackle the offence of migrant smuggling? What effects did the Package have on prosecution and conviction at national level?”.
[50] “What are the main costs and benefits of the Facilitators Package? To what extent are the costs justified and proportionate to the benefits achieved? Did it create administrative burden?”.
[51] “To what extent have the objectives of the Facilitators Package been appropriate? To what extent is the Facilitators Package still relevant in the current context where migrant smuggling has significantly increased over the last years?”.
[52] “To what extent is the Facilitators Package internally coherent? To what extent is it coherent with wider EU laws in relevant areas such as migration, fundamental rights, fight against organised crime, trafficking in human beings, and with international law?”.
[53] “What is the added value of the Facilitators Package compared to what could be achieved by Member States at national level? To what extent is it still opportune to act at EU level?”.
[54] Sul punto, v. anche Minetti, The Facilitators Package, penal populism and the Rule of Law: Lessons from Italy, in New Journal of European Criminal Law, 2020 (disponibile all’indirizzo: https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/2032284420946837).
[55] “The priority afforded to reducing irregular migration stems from two essential needs. First, the need to tackle human rights abuse and violence, which those who migrate irregularly, in particular by sea, are often subject to. Migrants in an irregular situation are also more vulnerable to labour and other forms of exploitation. Secondly, there is a need to protect the Member States’ territorial integrity, social cohesion and welfare through well-managed migration flows”.
[56] Su questi presupposti, non sarebbe possibile “to assess with accuracy whether prosecution and conviction rates have increased across the EU and to what extent the Facilitators Package may have contributed to it. Moreover, even in the event where statistical data would be complete and comparable, several other factors beyond the legal framework would still be likely to influence any assessment of the effectiveness of the legislation in this regard. These can be for example the degree of political priority afforded to the crime and the consequent level of resources allocated for the investigations, the difficulty to trace the illicit payments and criminal proceeds, and the likelihood of a higher deterrent effect when the activities are not driven by criminal motives or financial gain”. Di conseguenza, “in view of such weaknesses, the assessment is mostly based on the opinion gathered for the evaluation”. Ebbene, “According to most stakeholders across different categories, such as Member States, experts or other respondents to the public consultation, the Facilitators Package has had little deterrent effect. The deterrent effect of the approximation of the definition of the crime and related sanctions was questioned by several Member States and stakeholders. In their view, neither the definitions and sanctions nor their approximation (or the variations in the severity of sanctions) have an impact on the magnitude of the flows of (facilitated) irregular migrants to the EU, nor on the smuggling routes and methods. This is also because the potential gains from migrant smuggling have been reportedly very high compared to the risk of detection, conviction and sanctions”.
[57] “As regards the definition of the offence, nearly all Member States which replied to the dedicated consultation agreed on the effectiveness of the Facilitators Package in approximating the definition of the offence, which is considered sufficiently broad and clear to allow prosecution of different forms of migrant smuggling. Some other experts and practitioners held less positive views about the actual effectiveness of the Package in promoting a harmonised definition and pointed to the variations in the transposition as a potential hindrance to cooperation”.
[58] “The lack of a mandatory humanitarian exemption has been the subject of ongoing criticism from scholars, European and international institutions and NGO coalitions such as the European Social Platform. The conclusions of the first meeting of the European Migration Forum held in January 2015, pointed inter alia to the need to revise the Facilitation Directive to exempt humanitarian assistance from criminalisation. They stressed the need to "explicitly exclude punishment for humanitarian assistance at entry (rescue at sea and assisting refugees to seek safety) as well as the provision of non-profit humanitarian assistance (e.g. food, shelter, medical care, legal advice) to migrants in an irregular situation" and considered that the review "should also make clear that renting accommodation to migrants in an irregular situation without the intention to prevent the migrant’s removal should not be considered facilitation of unauthorised residence, while ensuring that the legal system punishes those persons who rent accommodation under exploitative conditions".
[59] Comunicazione della Commissione – Orientamenti della Commissione sull’attuazione delle norme dell’UE concernenti la definizione e la prevenzione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali 2020/C 323/01. Per una sintesi, v. Licastro, Traffico (smuggling) di migranti: una mirata sintesi delle linee guida della commissione sulla direttiva sul favoreggiamento, in Osservatorio sulle fonti, 1/2021, 173 ss.
[60] Risoluzione del Parlamento europeo del 5 luglio 2018 su orientamenti destinati agli Stati membri per prevenire la configurazione come reato dell'assistenza umanitaria (2018/2769(RSP)).
[61] Per un riepilogo, Masera, L’incriminazione dei soccorsi in mare: dobbiamo rassegnarci al disumano?, in Questione giustizia, 2/2018, 225 ss.; Zirulia, Non c’è smuggling senza ingiusto profitto, in Diritto penale contemporaneo – Rivista trimestrale, 3/2020, 150 ss.
[62] Per una valutazione, invece, tutto sommato positiva, almeno sotto questo punto di vista, del rilievo pratico della Comunicazione, v. Starita, Search and rescue operations under the New pact on asylum and migration, in SIDIBlog, 8 novembre 2020.
[63] V., ad es., Coppens, Somers, Towards New Rules on Disembarkation of Persons Rescued at Sea?, in The International Journal of Marine and Coastal Law, 2010, 379, 387; Papanicolopulu, Le operazioni di search and rescue: problemi e lacune del diritto internazionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2/2019, 518; nonché, volendo, Spena, Smuggling umanitario e scriminanti, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2019, 1893 ss.
Quale riforma per il CSM?
Riflessioni sull’elezione del Vicepresidente e sul rinnovo parziale
di Alberto Maria Benedetti* e Filippo Donati**
1. Nessuno oggi dubita che il CSM debba essere urgentemente riformato. Troppi e troppo gravi sono stati gli scandali emersi negli ultimi anni, che hanno messo di fronte all’opinione pubblica le degenerazioni del correntismo e gli effetti nefasti che hanno prodotto sul funzionamento dell’organo di governo autonomo della magistratura. È vero che di riforme del CSM si parla già da tanto tempo. Soltanto oggi, però, il Governo e le forze politiche hanno davanti un preciso limite temporale. Entro settembre 2022 si dovrà procedere al rinnovo del CSM con nuove regole, soprattutto con riguardo al sistema elettorale dei componenti togati, oggi additato come la causa principale delle distorsioni.
Accanto alla riforma del sistema elettorale, la Ministra Cartabia, nelle Linee programmatiche presentate al Parlamento, ha prospettato la possibilità di introdurre anche un rinnovo parziale del CSM, come già avviene per altri organi costituzionali. Una riforma che, secondo la Ministra, potrebbe “rivelarsi utile sia ad assicurare una maggiore continuità dell’istituzione, sia a non disperdere le competenze acquisite dai consiglieri in carica, sia a scoraggiare logiche spartitorie che poco si addicono alla natura di organo di garanzia che la Costituzione attribuisce al CSM”. Il problema, ha evidenziato la Ministra, è stabilire se, da un punto di vista costituzionale, tale obiettivo possa essere perseguito attraverso una legge ordinaria, “interpretando i quattro anni di cui al penultimo comma dell’art. 104 Cost., come riferiti ai membri singolarmente considerati, e non all’organo nel suo complesso”.
La Commissione presieduta da Massimo Luciani ha ritenuto che l’introduzione, con legge ordinaria, di un rinnovo parziale del Consiglio trovi un ostacolo anche nella durata del Vicepresidente, che non potrebbe essere inferiore a quattro anni. In questa prospettiva la Commissione propone di avviare il meccanismo di rinnovo parziale attraverso l’aumento di un terzo del numero dei consiglieri, con rinnovo parziale (ora per due terzi, ora per un terzo) ogni due anni, e di affidare al Capo dello Stato la nomina del Vicepresidente. Questa soluzione permetterebbe, tra l’altro, di rafforzare l’indipendenza di quest’ultimo, ponendolo al riparo dalle contrattazioni correntizie e dai tentativi di ingerenza politica che ne hanno sempre accompagnato l’elezione.
L’idea che soltanto una legge di revisione costituzionale consenta di introdurre un meccanismo di rinnovo parziale merita però una riflessione. Così come la merita la proposta di attribuire al Capo dello Stato la nomina del Vicepresidente. Siamo infatti convinti che sia possibile introdurre un meccanismo di rinnovo parziale anche a Costituzione invariata, e che il Vicepresidente debba continuare ad essere eletto dal Consiglio, ma per una durata di due anni.
Proviamo brevemente a spiegare perché.
2. Partiamo dalla scelta del Vicepresidente, figura centrale per la gestione quotidiana del consiglio e per i suoi rapporti con il mondo esterno.
In Assemblea costituente, vennero respinte le proposte volte ad affidare la vicepresidenza al Ministro della Giustizia o al Primo Presidente della Cassazione: la prima per l’inopportunità di sottoporre la magistratura ad una eccessiva ingerenza da parte dell’esecutivo, la seconda, per evitare pericoli di autoreferenzialità dell’ordine giudiziario.
Neppure ebbe successo la proposta di individuare due vicepresidenti: il Primo Presidente della Cassazione e un consigliere laico eletto dal Parlamento. Sebbene l’intento fosse in qualche modo apprezzabile, nella misura in cui voleva portare ai vertici del Consiglio i rappresentanti delle due componenti del nuovo organo (quella laica e quella togata), l’idea della gestione dualistica di un organo unitario presentava limiti evidenti. Tra le varie proposte venne approvata quella dell’On. Lussu, che attribuisce la vicepresidenza a un componente di designazione parlamentare, da eleggersi con il voto del Consiglio stesso.
La soluzione adottata dai Padri costituenti si è rivelata lungimirante, perché ha valorizzato sia la componente laica – all’interno della quale deve essere individuato il Vicepresidente – sia la componente togata che, grazie alla sua preponderanza numerica, svolge un ruolo decisivo nell’elezione del vertice del proprio organo di autogoverno. Una soluzione equilibrata e funzionale alla necessità di garantire l’autonomia e l’indipendenza del CSM e della magistratura, se del caso anche nei confronti dello stesso Capo dello Stato. Ricordiamo tutti la drammatica contrapposizione tra il Presidente Cossiga e il CSM nei primi anni ‘90. Lo scontro fu così aspro che Cossiga minacciò ripetutamente di sciogliere il CSM, finendo col ritirare le deleghe al Vicepresidente che, tuttavia, riuscì a svolgere anche in quella crisi un importante ruolo a garanzia dell’indipendenza dell’organo di autogoverno.
Si è trattato, certamente, di un episodio eccezionale, difficilmente ripetibile in futuro. Ciò nonostante, vi sono seri motivi per dubitare sull’opportunità di rivedere il modello costituzionale e di affidare la nomina del Vicepresidente al Capo dello Stato.
Varie sono le controindicazioni di una scelta del genere. Innanzi tutto, questa soluzione spezzerebbe l’equilibrio costituzionale tra le componenti laica e togata, tagliando fuori la magistratura dalla scelta del vertice del suo organo di autogoverno. Inoltre, il Presidente della Repubblica, nominando il Vicepresidente, finirebbe inevitabilmente con l’assumersi di fatto la responsabilità del suo operato. La designazione da parte del Capo dello Stato, del resto, non necessariamente garantisce quell’iniziale e costante rapporto di fiducia tra i consiglieri ed il Vicepresidente, che occorre per il buon funzionamento del Consiglio. Non si può infine trascurare il rischio, non escluso neppure dall’attuale legge elettorale, che una coalizione possa conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, acquisendo così un potere determinante nella scelta del Capo dello Stato e, conseguentemente, del Vicepresidente dallo stesso designato. In tal modo si finirebbe paradossalmente per contraddire lo scopo che i costituenti hanno perseguito con l’istituzione del CSM, ovvero la garanzia della divisione dei poteri.
Quando alla durata del mandato del Vicepresidente, né la Costituzione né la legge istitutiva del CSM (l. n. 195/1958) stabiliscono che debba necessariamente essere di quattro anni. Una previsione del genere non si trova neppure nel Regolamento interno del CSM. Del resto, non sarebbe possibile impedire a un Vicepresidente, ad esempio per motivi di salute, di dimettersi dalla carica ma di rimanere come Consigliere.
La riduzione del mandato del Vicepresidente a due anni, osserva tuttavia la Commissione, sarebbe inopportuna “perché il vicepresidente, anche per la sua posizione in rapporto al Presidente della Repubblica, a sua volta Presidente del CSM, dovrebbe garantire continuità all’interno del Consiglio”. La continuità del Consiglio, però, è assicurata dal Comitato di Presidenza, che si rinnova fisiologicamente ogni volta che cambia il vertice della magistratura giudicante e di quella requirente. Quanto al rapporto con il Presidente della Repubblica, rileva non la persona, quanto l’istituzione. Per tale motivo, tra l’altro, il rinnovo della carica di Presidente della Repubblica non incide sul ruolo del Vicepresidente.
3. Un rinnovo parziale del Consiglio non potrebbe essere realizzato senza una disciplina transitoria, volta a permettere l’iniziale sfasamento delle elezioni dei suoi componenti.
La Commissione Luciani propone a tal riguardo un meccanismo di rinnovo modulare collegato all’aumento del numero dei consiglieri, che diventerebbero trentaquattro (ventiquattro “togati” e dodici “laici”). Alla scadenza del Consiglio in carica, si procederebbe al suo rinnovo nella misura attualmente prevista (sedici “togati” e otto “laici”); dopo due anni si procederebbe alla sua integrazione nella misura di trentasei consiglieri; a regime, si procederebbe al rinnovo parziale alla scadenza dei rispettivi quadrienni di mandato. In questo modo il Consiglio sarebbe rinnovato per due terzi e per un terzo ogni due anni. Poichè tuttavia la durata del mandato del Vicepresidente non potrebbe essere inferiore a quattro anni, laddove si adottasse questo meccanismo di rinnovo “modulare” la nomina del Vicepresidente verrebbe effettuata o nella componente oggetto del rinnovo maggiore (per due terzi) o in quella oggetto del rinnovo minore (per un terzo), con violazione del principio di eguaglianza dei consiglieri. Anche per tale ragione, la Commissione Luciani propone di rivedere la Costituzione e di affidare la scelta del Vicepresidente al Capo dello Stato.
Sulla insussistenza in Costituzione di una norma che imponga la durata quadriennale del mandato del Vicepresidente, però, si è già detto sopra. Superato il tabù della durata quadriennale del Vicepresidente, non sussistono più ostacoli alla previsione di un rinnovo parziale, come auspicato dalla Ministra della Giustizia e dalla Commissione Luciani, senza sottrarre il potere di nomina del Vicepresidente all’organo di governo autonomo.
4. Si potrebbe quindi prevedere che il CSM proceda alla nomina del Vicepresidente ogni due anni, in contestualità col rinnovo parziale, tra i consiglieri laici che abbiano già svolto due anni di mandato.
Questa soluzione presenta indubbi vantaggi. Eviterebbe innanzi tutto di dover affidare al Capo dello Stato la scelta del Vicepresidente, superando così tutti i problemi sopra evidenziati. Permetterebbe inoltre al Consiglio di eleggere il proprio Vicepresidente tra candidati che hanno svolto per due anni il ruolo di consigliere e, quindi, di esprimere una scelta più ponderata di quella “a scatola chiusa” effettuata fino ad oggi. Il nuovo Vicepresidente, infine, avrebbe fin da subito quella approfondita conoscenza della struttura, indispensabile per guidare la macchina consiliare.
Per permettere un rinnovo parziale del Consiglio occorrerebbe ovviamente una disciplina transitoria. La soluzione più semplice al riguardo sarebbe la proroga di una parte dei consiglieri. Oggi sono sette i membri togati subentrati in corso di mandato, a seguito delle dimissioni collegate alla nota vicenda Palamara. La Commissione Luciani esclude però l’ipotesi di un rinnovo che tenga conto della diversa scansione temporale dell’inizio del mandato degli attuali componenti del CSM, che comporterebbe “un’eccessiva moltiplicazione delle occasioni elettorali”, o quella della proroga parziale del Consiglio in carica, “che appare di dubbia costituzionalità, alla luce dell’art. 104, comma 6, Cost.”.
Non è però così scontato che una proroga di consiglieri in carica sia di per sé in contrasto con l’art. 104, comma 6, Cost. Una parte della dottrina ha sostenuto che una norma transitoria, destinata ad operare una tantum, potrebbe trovare una giustificazione alla luce del bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Un intervento volto a permettere la prima operatività del meccanismo di rinnovo parziale del consiglio, infatti, non potrebbe configurare un attacco all’autonomia e all’indipendenza dei consiglieri, che l’art. 104 Cost mira a proteggere. D’altra parte, tale intervento potrebbe trovare una propria giustificazione nell’esigenza di realizzare quei principi costituzionali alla cui tutela è preposto l’organo di governo autonomo della magistratura dal momento che, come riconosce la stessa Commissione, un meccanismo di rinnovo parziale risponde all’esigenza di migliorare il funzionamento del CSM e di “ostacolare il consolidarsi di aggregazioni di interesse che trascendano il corretto esercizio delle funzioni consiliari”.
In definitiva, quella del rinnovo parziale è una riforma possibile e realizzabile in tempi rapidi, in modo che, a partire dalla prossima consiliatura, possa aprirsi a una nuova fase della storia dell’organo di autogoverno. La conservazione del disegno costituzionale – ancora oggi pienamente convincente e assunto a modello in molte realtà europee - è compatibile con un intervento riformatore di ampio respiro, destinato, nel tempo, a restituire al CSM quella autorevolezza minata dai deprecabili fatti emersi nel corso di questi ultimi anni.
*Ordinario di diritto civile nell’Università di Genova - Consigliere CSM
**Ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Firenze - Consigliere CSM
Forme di tutela dell’interesse alla (tempestiva) conclusione del procedimento (nota a Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 20 aprile 2021, n. 4597)
di Marco Ragusa
Sommario: 1. La fattispecie- 2. Le ragioni della decisione: l’ambigua natura dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990 - 2.1. L’indennizzo (o gli indennizzi?) introdotti dall’art. 28 del «decreto del fare; 2.2. Indennizzo e risarcimento del danno da ritardo nell’art. 2 bis l. n. 241/1990 - 3. Considerazioni sull’impianto motivo della decisione - 4. Osservazioni conclusive.
1. La fattispecie
Gli eredi di un noto artista, le cui spoglie erano state inizialmente seppellite presso il Comune di Ardea, richiedevano a quest’ultimo, il 23 maggio del 2019, l’autorizzazione all’estumulazione della salma e al trasporto della stessa presso il cimitero di San Benedetto del Tronto, per potere lì provvedere alla sua cremazione. Con la stessa istanza veniva richiesta l’autorizzazione al successivo trasferimento delle ceneri presso il Comune di Aprilia, dove l’urna avrebbe dovuto essere custodita per il futuro, insieme a quella contenente le ceneri della moglie dell’artista, in ossequio alla volontà testamentaria espressa dai coniugi[1].
L’amministrazione ardeatina non concludeva il procedimento nel termine allo stesso applicabile: gli eredi agivano così innanzi al Tar del Lazio che, accertato l’obbligo di provvedere in capo al Comune, condannava quest’ultimo all’adempimento, nominava un commissario ad acta per l’ipotesi del protrarsi dell’inerzia e disponeva il mutamento del rito in ordinario al fine dell’esame della domanda di risarcimento del danno da ritardo e di quella volta al pagamento dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990[2].
Con la sentenza qui annotata il Tar ha definito tali azioni consequenziali, respingendole.
Merita alcune brevi riflessioni, in particolare, il capo della pronuncia in cui, negando il diritto dei ricorrenti all’indennizzo, il Tribunale ha dato di tale istituto un inquadramento non conforme alle posizioni più diffuse in giurisprudenza (sebbene, alla stregua di queste, idoneo a limitarne sensibilmente l’ambito di applicazione).
2. Le ragioni della decisione: l’ambigua natura dell’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990
La motivazione della sentenza illustra i fatti successivi alla pubblicazione della prima pronuncia, con la quale il Comune resistente è stato condannato a provvedere: l’adozione, da parte del sindaco, di un atto elusivo della decisione emessa ex art. 117, c. 2, c.p.a.; il conseguente insediamento del commissario ad acta e l’accoglimento, da parte di quest’ultimo, dell’istanza dei ricorrenti (26 novembre 2020); la reiterazione della medesima autorizzazione a fronte della perdurante inottemperanza degli uffici comunali (4 gennaio 2021); l’ulteriore ritardo dell’ente nel consentire il concreto svolgimento delle operazioni di estumulazione. A fronte di un termine di trenta giorni previsto per la conclusione del procedimento, in sintesi, l’istanza veniva definitivamente accolta dopo poco meno di seicento giorni.
L’omessa allegazione e prova, da parte dei ricorrenti, dei danni dai medesimi patiti a causa del ritardo dell’amministrazione costituisce l’unico argomento posto espressamente dalla decisione a fondamento della (più che succinta) statuizione di rigetto della domanda risarcitoria[3].
La medesima ragione è, tuttavia, anche il primo pilastro della più articolata motivazione relativa al mancato riconoscimento del diritto all’indennizzo.
Il risarcimento del danno e l’indennizzo, contemplati rispettivamente dai commi 1 e 1 bis dell’art. 2 bis l. proc., secondo il Tar, «dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa»[4].
Il primo aspetto – che, cioè, i diritti contemplati dai due commi dell’art. 2 bis cit. derivino entrambi dal medesimo fatto illecito[5] – è centrale nell’argomentazione del Tar.
Tale rilievo impedirebbe, infatti, l’assimilazione dell’indennizzo a omonimi istituti aventi il fine di riequilibrare «interessi meritevoli di tutela in conflitto fra loro»: non costituendo, al contrario di questi, un «meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime […] per motivi di equità sostanziale»[6], l’indennizzo (come il risarcimento) non potrebbe considerarsi un mero automatismo attivabile a fronte dell’inerzia provvedimentale, ma rappresenterebbe piuttosto una forma di riparazione del sacrificio imposto a «un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento»[7].
In altri termini: l’interesse alla tempestiva conclusione del procedimento non si distinguerebbe, in sé, dall’interesse alla conclusione (senza aggettivi) del procedimento. Esso dovrebbe pertanto ritenersi pienamente soddisfatto dall’emanazione del provvedimento: poco importa che tale risultato sia conseguito dall’istante a distanza di molto tempo dalla scadenza del termine (magari con defatigante e superfluo aggravio degli oneri di partecipazione procedimentale e solo a seguito del vittorioso esperimento di un giudizio avverso il silenzio), salvo che sia data prova dell’esistenza di specifici danni subiti in ragione delle lungaggini procedimentali[8].
La validità di questa interpretazione dell’art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. viene dimostrata in sentenza mediante il ricorso a due distinzioni: da una parte quella tra l’istituto in parola e l’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69 del 2013[9], dall’altra quella tra i diritti contemplati dai due commi dell’art. 2 bis cit.. La novità di questo approccio ne consiglia una più dettagliata descrizione.
2.1. L’indennizzo (o gli indennizzi?) introdotti dall’art. 28 del «decreto del fare»
Il comma 1 bis è stato aggiunto all’art. 2 bis della legge sul procedimento dall’art. 28, c. 9, d.l. n. 69/2013. La norma dispone che, fatto salvo il diritto al risarcimento del danno «e ad esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale sussiste l’obbligo di pronunziarsi, l’istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400. In tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento».
È noto che il comma 1 dell’art. 28 cit. ha altresì disposto, con previsione in parte analoga, che le pubbliche amministrazioni, «in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo iniziato ad istanza di parte, per il quale sussiste l'obbligo di pronunziarsi, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi pubblici, corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2.000 euro». A tal fine l’istante ha l’onere di attivare, entro venti giorni dalla scadenza del termine procedimentale, la procedura contemplata dal comma 9 ter dell’art. 2 l. n. 241/1990, chiedendo all’organo titolare del potere sostitutivo anche il pagamento dell’indennizzo (art. 28, c. 2, d.l. n. 69/2013). Tanto nell’ipotesi di perdurante inerzia provvedimentale, quanto nel caso di mancata liquidazione dell’indennizzo dovuto, può essere proposta domanda giudiziale nelle forme dei riti speciali ex art. 117 o 118 c.p.a. (art. 28 cit., cc. 3 e 4). Le informazioni relative all’indennizzo, alle modalità per ottenerlo, al titolare del potere sostitutivo e ai termini a questi assegnati per la conclusione del procedimento devono essere fornite con la comunicazione di avvio del procedimento e pubblicate in conformità all’art. 35 d.lgs. n. 33 del 2013.
Comprendere quale sia il rapporto tra le disposizioni dettate dai commi 1 e 9 del citato art. 28 – se cioè essi contemplino due diversi diritti all’indennizzo, oppure si riferiscano al medesimo istituto – rileva, ad avviso del Tar, sotto due principali aspetti.
In primo luogo perché, considerando l’indennizzo introdotto dalla novella alla legge sul procedimento distinto da quello di cui all’art. 28 c. 1 cit., la disciplina per quest’ultimo specificamente dettata dovrebbe ritenersi non estensibile al primo: la predeterminazione ex lege dell’ammontare, l’onere di previa attivazione della competenza sostitutiva (nonché, potrebbe aggiungersi, l’espresso assoggettamento della domanda al rito camerale e gli obblighi di comunicazione e di pubblicazione imposti all’amministrazione) riguarderebbero, insomma, soltanto il secondo istituto.
Inoltre (e soprattutto), se si trattasse di due istituti distinti, potrebbe ritenersi riferito soltanto all’indennizzo di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 68/2013 il successivo comma 10, ai sensi del quale «le disposizioni del presente articolo si applicano, in via sperimentale e dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore». Il comma 12 dell’art. 28 prevede inoltre che, al termine del periodo «sperimentale» (della durata minima di diciotto mesi) con regolamento di delegificazione si possano confermare o modificare le condizioni e le modalità stabilite ai commi 1 ss. dell’art. 28, nonché l’ambito di applicazione definito dal citato comma 10: anche questa previsione, secondo il Tar, non sarebbe riferibile all’indennizzo ex art. 2 bis l. proc., qualora quest’ultimo si ritenesse distinto da quello di cui al citato art. 28, c. 1[10].
Per il Tribunale è indubbio che le due norme con cui, nel d.l. del 2013, è stata introdotta una tutela indennitaria per le ipotesi di inerzia provvedimentale non siano tra loro in alcun modo sovrapponibili: questa conclusione è raggiunta attraverso un’analisi sistematica delle disposizioni di cui all’art. 28 cit., dalla quale la sentenza trae una precisa interpretazione della volontà del legislatore.
Quest’ultimo avrebbe inteso apprestare una tutela indennitaria, limitata e uniforme nell’ammontare, in favore delle imprese, «per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela» e rispetto alle quali il «bene tempo» non rappresenterebbe «un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario»[11].
Tale forfettizzazione, ad una con il suo massimale, non sarebbe invece applicabile all’indennizzo previsto dall’art. 2 bisdella legge n. 241/1990: quest’ultimo potrebbe essere dunque liquidato equitativamente e senza necessità di attivare la procedura di cui all’art. 2, c. 9 ter, della legge sul procedimento.
La distinzione che ha più rilievo ai fini del rigetto della domanda, tuttavia, riguarda il profilo dell’automaticità: pacifica con riferimento alla misura indennitaria di cui all’art. 28, c. 1, d.l. n. 69/2013, da escludersi in relazione a quella contemplata dall’art. 2 bis l. proc., che esige invece l’allegazione e la prova del danno subito dall’amministrato.
Ricostruendo a contrario gli argomenti impiegati in motivazione, sembrerebbe dunque che nei confronti delle imprese, a differenza che per ogni altro amministrato, il legislatore attribuisca rilievo giuridico autonomo all’interesse alla tempestiva conclusione del procedimento, distinguendolo da quello all’adozione (in sé) del provvedimento[12].
Benché il Tar non lo dica espressamente, peraltro, è la stessa predeterminazione legale dell’importo a neutralizzare, limitatamente all’indennizzo ex art. 28, c. 1, cit., un altro argomento che la sentenza impiega per escludere che il diritto ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. sorga automaticamente, a fronte del mero spirare del termine procedimentale. Benché, infatti, l’art. 28 c. 1 cit. imponga la liquidazione dell’indennizzo anche in assenza di un effettivo danno subito dall’impresa istante – circostanza che, secondo uno dei motivi che sorreggono la decisione qui annotata, ne dovrebbe attestare la «natura sostanzialmente sanzionatoria» – la norma non solleverebbe dubbi di legittimità costituzionale, poiché la determinazione della «sanzione [non] risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice»[13].
Non v’è dubbio, in sintesi, che l’indennizzo di cui all’art. 2 bis l. n. 241/1990 abbia, secondo il Tar, natura risarcitoria: se esso non funge da corrispettivo per il trasferimento forzoso di un diritto o per la costituzione di un nuovo diritto in capo ad altri, non esprime la corrispettività tra il «prezzo» di un rischio diffuso e il «prezzo» del pregiudizio subito dal titolare del diritto in cui danno quel rischio si è concretato, non mira a mitigare, per ragioni di equità, la responsabilità dell’obbligato, non è soggetto a criteri di liquidazione forfettari, o comunque svincolati dall’entità del danno, allora è evidente come tale misura debba necessariamente ritenersi (puramente e semplicemente) strumentale a reintegrare il patrimonio dell’amministrato a fonte della lesione materiale di un suo bene o interesse. E, così configurato, l’indennizzo da ritardo contemplato dalla legge sul procedimento non potrebbe qualificarsi se non come un risarcimento del danno in senso stretto[14].
2.2. Indennizzo e risarcimento del danno da ritardo nell’art. 2 bis l. n. 241/1990
Veniamo allora alla seconda distinzione, per comprendere in cosa, a opinione del Tar Lazio, il risarcimento del danno previsto dal comma 1 bis dell’art. 2 bis l. n. 241/1990, che il legislatore qualifica «indennizzo», si differenzi dal risarcimento contemplato dal comma 1.
Tale distinzione, si afferma, risiederebbe, da un lato, nella natura dei danni risarcibili e, dall’altro, nella «liquidazione semplificata» ammessa dal legislatore per i pregiudizi alla cui riparazione è destinata la tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc., rispetto a quella (non «semplificata») imposta dal comma 1.
Sotto il primo aspetto, il Tribunale amministrativo ritiene che la misura indennitaria sia volta alla compensazione di pregiudizi a carattere non patrimoniale, mentre il risarcimento ex art. 2 bis, c. 1, mirerebbe alla riparazione di danni patrimoniali[15].
Questa interpretazione dell’art. 2 bis cit. è strettamente collegata al secondo elemento distintivo individuato dal Tar tra le due misure: è, infatti, la natura non patrimoniale dell’interesse leso a spiegare (e a giustificare) la semplificazione prevista dal legislatore con riferimento all’indennizzo, «strumento più agevole e di pronta liquidazione»[16].
Ma in cosa consiste questa semplificazione?
Stando alla motivazione della sentenza – in conformità alla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, la cui tesi ha di recente ricevuto un nuovo avallo dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[17] – la conformazione della responsabilità da ritardo di cui all’art. 2 bis, c. 1, corrisponde in toto allo schema aquiliano: chi pretenda di essere risarcito dovrà dunque dare prova «sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti».
Per ottenere l’indennizzo, invece «il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso»[18].
In realtà, tale astratta e suggestiva contrapposizione tra gli oneri imposti per l’accesso all’una o all’altra tutela risulta molto mitigata se si guarda al quadro complessivo della motivazione, che indica ulteriori profili di concreta sovrapposizione tra la disciplina del risarcimento e quella dell’indennizzo.
Innanzitutto, quanto all’allegazione e alla prova del danno, abbiamo già visto che, a opinione del Tar, esse sono imprescindibili tanto ai sensi del comma 1, quanto per il comma 1 bis dell’art. 2 bis cit..
Né, pare, avrebbe senso sostenere che, mentre ai sensi del primo comma il danneggiato è onerato della quantificazione del pregiudizio subito, ai sensi del comma successivo l’ammontare del danno non debba essere specificamente provato: proprio adottando la prospettiva sposata dalla sentenza, infatti, lungi dall’essere una conseguenza della «semplificazione» apprestata dal legislatore, la cennata differenza deriverebbe piuttosto dal fatto che solo il danno risarcibile è «patrimonialmente valutabile», mentre quello indennizzabile, di natura non patrimoniale, non potrà che essere quantificato per mezzo di una valutazione equitativa[19].
Quanto alla prova del nesso di causalità, sebbene non espressamente richiesta dal c. 1 bis cit., non sembra che, onerato dell’allegazione e della prova del danno, il ricorrente possa prescindere da una dimostrazione (nei limiti fisiologici alla natura non patrimoniale del danno) della riferibilità di quest’ultimo all’inerzia provvedimentale della P.A.: a meno che non si ritenga che qualsiasi stato di afflizione morale, di disagio psicologico e comportamentale patito dall’istante nel periodo di tempo che intercorre tra la scadenza del termine procedimentale e l’effettiva emanazione del provvedimento debba presumersi essere conseguenza dell’inerzia dell’amministrazione, onerando quest’ultima di fornire l’eventuale prova contraria.
Qualche notazione in più richiede, infine, il profilo di distinzione tra risarcimento e indennizzo formalmente ancorato al fatto che solo per il primo è richiesta la prova dell’elemento soggettivo, quando invece, chi domandi una tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, non è tenuto a dimostrare la natura dolosa o colposa del ritardo della P.A..
Analizzando il materiale atteggiarsi di questa astratta distinzione, come tratteggiato dalla motivazione, ci si imbatte infatti nel secondo pilastro su cui si fonda la decisione, pilastro idoneo a sorreggerne le conclusioni «anche a ritenere in re ipsa»[20] il danno in ogni ipotesi di violazione dei termini procedimentali, «anche laddove» (la pronuncia lo ribadisce più d’una volta) «si ritenga che nel ritardo sia insita una lesione intrinseca dell’interesse dei ricorrenti e dunque il provvedimento tardivo non sia stato completamente satisfattivo»[21].
Dalla premessa secondo cui, per ottenere l’indennizzo da ritardo, non è richiesta la prova del dolo o della colpa, a detta del Tar, non può trarsi infatti la conclusione che l’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione sia comunque irrilevante.
Al contrario, qualora il ritardo sia passibile di una «ragionevole “giustificabilità”», esso non può «ricondursi ad una ordinaria forma di cattiva amministrazione o inerzia»: la «giustificabilità» è, pertanto, sufficiente «ad escludere una responsabilità [tanto] risarcitoria [quanto] indennitaria»[22].
Anche sotto questo profilo, di conseguenza, il discrimine tra risarcimento e indennizzo fissato dal Tar è più sfumato di quanto possa sembrare a un primo esame: l’enfatizzata inversione dell’onere della prova, infatti, si rivela in concreto ben poca cosa.
Se è vero che l’assunzione di dolo e colpa a presupposti dell’azione risarcitoria si traduce, nei fatti, nel mero onere del danneggiato di far menzione di circostanze la cui esistenza è attestata dagli stessi atti del procedimento (indici del lassismo o – all’opposto – dell’iperattività endoprocedimentale della P.A.) e se, per escludere il rilievo giuridico di tali circostanze, l’amministrazione deve invocare, anche nell’ambito della responsabilità risarcitoria, la «giustificabilità» del proprio comportamento[23], non è facile comprendere, anche sotto questo aspetto, quale sia la «semplificazione» che la legge appresta, secondo il Tar, per l’accesso alla tutela indennitaria.
3. Considerazioni sull’impianto motivo della decisione
La motivazione della sentenza in commento presenta diversi profili di contraddittorietà, sia interna, sia esterna.
Sotto quest’ultimo aspetto, è evidente la distonia della pronuncia con gli argomenti che lo stesso giudice aveva posto a fondamento della prima decisione, con cui era stato accolto il ricorso avverso il silenzio.
In quest’ultima si afferma a chiare lettere che gli interessi di cui il Comune aveva inteso farsi portatore (e la cui complessa valutazione aveva costituito la ragione materiale del ritardo procedimentale) non potessero assumere alcun giuridico rilievo ai fini dell’adozione del provvedimento (né, quindi, giustificare l’inerzia provvedimentale): l’accoglimento dell’istanza di traslazione della salma, oggetto di causa, dipendeva infatti «esclusivamente dalla sussistenza delle condizioni previste […] dal Regolamento di Polizia Mortuaria e non anche da valutazioni di opportunità e di merito amministrativo legate alla tutela degli interessi locali, che dunque non possono essere presi in considerazione dall’Amministrazione ai fini del diniego della istanza o per ritardarne l’esito»[24].
In altri termini, quanto all’accertamento dei presupposti, il potere autorizzatorio del Comune doveva ritenersi vincolato e, in ogni caso, pur ammessone un qualche margine di discrezionalità, nessuno spazio avrebbe potuto assumere al suo interno la considerazione dell’interesse della collettività cittadina a mantenere presso il proprio cimitero la sepoltura del noto artista.
La sentenza qui annotata, al contrario, qualifica la valutazione di tale interesse, da parte della P.A., indice della «giustificabilità» del ritardo: la «particolare forma di “pietas” collettiva» che il Comune di Ardea aveva inteso tutelare quale ente esponenziale della collettività locale, non può considerarsi «prevalente sul diritto dei congiunti, ma di certo neppure priva di un proprio rilievo»[25].
Per non rilevare una stridente contraddizione tra i due pronunciamenti, insomma, il «rilievo» della «pietas» della collettività locale, privo di giuridica consistenza, dovrebbe ritenersi di carattere morale, di mero fatto, comunque pre-giuridico: può un tale rilievo giustificare il sacrificio del diritto (al risarcimento e all’indennizzo) dei ricorrenti? Così non pare: sembra anzi che, a fronte di una così palese deviazione dell’agire amministrativo dal suo paradigma normativo (un agire che il Tar qualifica clementemente «solo sviato nei presupposti di fatto»[26]) sarebbe difficile non ritenere pienamente dimostrata la colpa grave della P.A., in un grado tanto elevato da non ammettere «giustificazione» alcuna.
Quanto ai profili di incoerenza interna, deve evidenziarsi, innanzitutto, l’irregolare tracciato della linea di confine posta dalla decisione tra l’indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 69 del 2013, da un lato, e i rimedi contemplati dai due commi dell’art. 2 bis l. proc., dall’altro.
Il Tar sostiene infatti che, con riferimento alla prima tutela (limitata all’ambito di applicazione transitoriamente definito dallo stesso art. 28, c. 10, cit.), la previsione di un onere procedimentale che condiziona l’accesso all’indennizzo (l’attivazione della procedura sostitutiva ex art. 2, c. 9 ter, l. proc.) abbia la funzione di bilanciare l’automaticità di tale rimedio[27]. Tuttavia, poche righe dopo, nella stessa decisione si afferma che, anche per l’accesso alla tutela risarcitoria o indennitaria di cui all’art. 2 bis cit., si impone all’istante insoddisfatto l’esperimento di «una procedura sostitutiva (laddove quest’ultima sia esperibile), o comunque un diverso rimedio sollecitatorio (ma non in applicazione diretta del comma 2 dell’art. 28 del DL 69/2013, che, come indicato, riguarda altra fattispecie, bensì del più generale principio di cui all’art. 1227 cod.civ.)»[28].
Quanto alla mancata prova in giudizio del danno oggetto dell’indennizzo, poi, è la stessa qualificazione «non patrimoniale» a far dubitare della consequenzialità delle conclusioni raggiunte rispetto agli argomenti impiegati in motivazione dal Tar.
Al riguardo, non è peregrino scorgere un parallelo tra il criterio distintivo individuato in sentenza (sia tra le tutele fruibili ex art. 2 bis l. n. 241/1990, sia tra quella contemplata dal comma 1bis di tale norma e l’indennizzo ex art. 28, c. 1 cit.) e il discrimine che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha posto tra i rimedi offerti alle parti di un processo di cui venga accertata l’irragionevole durata, per ottenere l’equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2001: anche in questa materia, infatti, la natura del danno (patrimoniale o non patrimoniale) determina l’applicazione di un differente riparto dell’onere di allegazione e prova. E tuttavia, proprio in materia di equa riparazione, nella giurisprudenza della Suprema Corte è ormai consolidato l’orientamento secondo il quale «il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata detta violazione […] viene normalmente liquidato […] senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva. E ciò a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede invece la prova della sua esistenza»[29]. La natura non patrimoniale del danno, insomma, dovrebbe condurre a conclusioni diametralmente opposte a quelle raggiunte dal Tar Lazio, che al contrario sottolinea una inversa distinzione tra l’indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 96/2013 (automatico e avente funzione di riparazione patrimoniale) e l’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, della legge sul procedimento (volto alla compensazione di danni non patrimoniali, la cui sussistenza sarebbe onere del ricorrente provare).
Sotto altro profilo – e prescindendo dall’analogia suggerita dagli argomenti della sentenza in commento con le tutele ex legge Pinto – l’idea che la violazione di un precipuo obbligo di legge (a fronte della quale la legge stessa prevede espressamente un diritto alla riparazione) non possa dar luogo a una presunzione in ordine all’esistenza del danno sembra anch’essa, in radice, smentita dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che, ove tali presupposti ricorrano, ben può il giudice procedere a una liquidazione equitativa, pur in difetto di un’allegazione di parte in ordine all’entità del pregiudizio patito. Contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, non osta a questa conclusione – e, anzi, ne corrobora la correttezza – il rilievo secondo cui, in questo modo, la norma che dalla violazione dell’obbligo fa derivare una specifica (e diretta) tutela configurerebbe una «misura di natura sanzionatoria»[30].
«Sanzionatoria» è del resto, secondo la ricostruzione di certa dottrina, la funzione di una classe di rimedi che la decisione qui annotata non menziona tra gli esempi di «indennizzo» messi a raffronto con quello previsto dall’art. 2 bis, c. 1 bis, cit., e che tuttavia sembrano assai simili a quest’ultimo sul piano strutturale e su quello teleologico: ci si riferisce agli indennizzi automatici forfettari che, a far data dal 1994, è imposto di prevedere agli erogatori di servizi pubblici per le ipotesi di violazione degli obblighi assunti, nei confronti dell’utenza, mediante le carte del servizio[31]. La novella alla legge sul procedimento è stata, peraltro, apportata da uno dei (sempre più numerosi) provvedimenti normativi orientati a qualificare l’attività amministrativa alla stregua di un servizio al pubblico, passibile di valutazione secondo standard di qualità che non descrivono il grado di soddisfazione dell’utenza sul piano dell’oggetto della prestazione, ma sul metro delle modalità impiegate per l’adempimento di quest’ultima: ciò sembra suggerire che, almeno nelle intenzioni, il legislatore abbia modellato l’indennizzo da ritardata conclusione del procedimento sul topos dell’indennizzo da disservizio[32].
Proprio dando per buona la prima distinzione assunta a fondamento della motivazione (quella tra indennizzo ex art. 28, c. 1, d.l. n. 68/2013 e indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc), insomma, le conclusioni della decisione non sarebbero condivisibili.
I ricorrenti avevano infatti provato, nei limiti del materialmente possibile, sia la patente illegittimità del ritardo (peraltro già accertata dalla precedente sentenza), sia gli indici della colpa ravvisabile nel comportamento del Comune; la fattispecie escludeva inoltre, ipso facto, la possibilità di attivare un intervento sostitutivo o altri rimedi stragiudiziali avverso l’inerzia, poiché il rilascio dell’autorizzazione richiesta all’amministrazione rientrava fra le competenze del suo organo di vertice; che, infine, il tempo di definizione del procedimento avesse assunto, per i ricorrenti, un valore autonomo e distinto dall’interesse all’adozione del provvedimento non sarebbe stato di certo «arbitrario» presumere, sulla scorta delle stesse risultanze istruttorie: il giudice – proprio sulla base del (non condivisibile) inquadramento giuridico offerto alla res litigiosa – avrebbe dunque dovuto riconoscere il diritto all’indennizzo, liquidandone equitativamente l’ammontare.
4. Osservazioni conclusive
Se però, come appena rilevato, il rigetto della domanda di indennizzo appare errato alla luce delle premesse descritte in motivazione, la stessa statuizione sembra, al contrario, corretta ove tali premesse siano sottoposte a critica.
Al riguardo, sembra doversi rilevare come gli argomenti a cui fa ricorso il Collegio, prima ancora che non condivisibili, siano decisamente superflui ai fini del rigetto di una domanda di indennizzo che, in forza della legge vigente, non avrebbe potuto avere altra sorte.
Il Tar, infatti, avrebbe potuto raggiungere la stessa conclusione attraverso un percorso assai più breve e lineare, se solo avesse dato una diversa impostazione al problema relativo al rapporto tra il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013. È dall’erronea interpretazione di tale rapporto che derivano per necessità, a cascata, le altre criticità argomentative supra segnalate.
È evidente, al riguardo, quanto la pessima formulazione della norma del 2013 abbia giocato un ruolo determinante nell’errore in cui è incorso il Tar; ma non v’è dubbio, d’altro canto, che l’esegesi accolta da quest’ultimo finisca col complicare la definizione della portata precettiva dell’art. 28 cit. più di quanto possa fare una interpretazione letterale del suo (scadente) dato testuale.
Prendiamo le mosse da un rilievo elementare, a cui si è già accennato.
L’art. 28, c. 10, del d.l. n. 69/2013 dispone una limitazione transitoria dell’ambito di applicazione per (id est: per tutte) le «disposizioni del presente articolo».
In difetto di un indice letterale o sistematico che impedisca l’inclusione in tale limitazione della novella alla legge sul procedimento introdotta dallo stesso art. 28 (comma 9), anche quest’ultima norma dovrebbe pertanto trovare applicazione, in costanza del periodo «sperimentale», esclusivamente con riferimento ai «procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell’attività di impresa iniziati successivamente alla medesima data di entrata in vigore».
Di siffatti indici, ostativi all’accoglimento di un’interpretazione letterale, la sentenza in commento non fa menzione: si limita a negare – in ciò allineandosi all’opposto indirizzo che considera «fungibili» le due previsioni riferite all’indennizzo da ritardo procedimentale – che l’art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. sia interessato dalla predetta limitazione «sperimentale» e afferma che, di conseguenza, esso debba trovare applicazione generale e immediata, «anche in assenza del regolamento di cui al comma 12»[33].
Tuttavia, pur ammessa (per assurdo) la validità di questa (immotivata) interpretazione del citato comma 10, non potrebbe ignorarsi che la necessità di definire per legge o con un regolamento di delegificazione le «condizioni» e le «modalità» di esercizio del diritto all’indennizzo da ritardo ex l. n. 241/1990 non deriva tanto dal comma 12 dell’art. 28 cit., quanto, piuttosto, direttamente dallo stesso comma 9: anche se l’indennizzo contemplato da tale norma fosse altra cosa rispetto a quello previsto dal comma 1, dunque, la pretesa alla sua corresponsione non sarebbe comunque azionabile, perché mancherebbe a monte una legge che fissi «condizioni» e «modalità» per l’accesso alla tutela[34].
Il Tar Lazio, che non si confronta con questa condizione posta dall’art. 2 bis, c. 1 bis, ritiene necessario valorizzare la suggestiva circostanza che il comma 9 dell’art. 28 cit. abbia innestato la previsione dell’indennizzo in un testo «ben differente». Se, insomma, tra i tanti ‘rattoppi’ del «decreto del fare», una norma esprime la vocazione a integrare stabilmente lo statuto generale dell’amministrato, novellando la legge sul procedimento, allora, per il Tar, occorre dare un senso a tale specialità: «diversamente, l’art. 2 bis della l. 241/90 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, del DL n. 69/2013»[35].
In realtà, è solo considerando unitaria la tutela indennitaria introdotta dall’art. 28 cit. che si perviene a una interpretazione della disciplina priva di sovrapposizioni e più aderente al dato letterale.
Il cuore dell’art. 28 cit., in questa diversa prospettiva, deve identificarsi nel disposto del comma 9 e nella modifica che esso apporta alla legge sul procedimento: alle tutele (di adempimento e risarcitoria) già contemplate in precedenza, la norma del 2013 ha aggiunto una tutela indennitaria. Il concreto funzionamento di questa tutela («modalità» e «condizioni») deve essere tuttavia definito, almeno in prima battuta, «dalla legge»: e l’unica legge che ha assolto (e a tutt’oggi assolve) a tale funzione non può che essere lo stesso d.l. n. 69/2013, che mediante le altre disposizioni contenute all’art. 28 non fa che delineare, appunto, «condizioni» e «modalità» (l’ammontare dell’indennizzo, gli oneri procedimentali che devono assolversi per farne richiesta, le modalità di proposizione e trattazione della domanda giudiziale, l’ambito di applicazione etc.).
In altri termini, allorché il Tar, nel sostenere che il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 siano fonti di due differenti diritti, afferma che «non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo»[36], trascura una differenza di rilievo tra le due disposizioni: una differenza che l’interpretazione letterale non consente, invece, di ignorare e che impedisce di considerare l’una previsione «identica» all’altra. Senza, tuttavia, alcuna necessità di ritenere i citati commi 1 e 9 quali fonti di due differenti diritti all’indennizzo.
Infatti, mentre il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013 ha quale referente il cittadino («[…] l'istante ha diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo […]), la formulazione del comma 1 è strutturalmente differente, poiché essa è rivolta alle amministrazioni («[…] corrispondono all'interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo […]): definendo i contenuti dell’obbligazione indennitaria, tale ultima previsione ha, appunto, lo scopo di dettare (alcune tra le) «condizioni» e «modalità» che permettono la soddisfazione del diritto sancito dall’art. 2 bis, c. 1 bis, l. n. 241/1990.
Se le «condizioni» e le «modalità» stabilite dalla «legge» (a cui rinvia l’art. 2 bis, c. 1 bis, cit.) non fossero quelle fissate dall’art. 28, c. 1 ss., d.l. n. 68/2013, del resto, sarebbe impossibile comprendere perché mai il comma 1bis cit. prefiguri, per la sua applicazione, l’adozione di un regolamento di delegificazione ex art. 27, c. 2, l. n. 400/1988 (analogamente al comma 12 dell’art. 28 cit.), anziché di un regolamento di esecuzione, di attuazione o integrazione, ovvero indipendente (art. 27, c. 1, lett. a, b, e c l. n. 400/1988).
Gli indennizzi a cui si riferiscono, da prospettive differenti, il comma 1 e il comma 9 dell’art. 28 d.l. n. 96/2013 sono, insomma, nient’altro che lo stesso istituto. Mentre il comma 9 sancisce il diritto alla tutela, gli altri commi ne definiscono, in conformità a ciò che il comma 9 esige, le «condizioni» e le «modalità» di soddisfazione[37].
Tra queste «condizioni» e «modalità» rientra, si ripete, anche quella individuata dal comma 10: di modo che, a tutt’oggi, l’accesso all’indennizzo ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. deve ritenersi limitato esclusivamente «ai procedimenti amministrativi relativi all'avvio e all'esercizio dell'attività di impresa».
La fonte «ben differente» rappresentata, per il Tar, dalla legge sul procedimento non funge, insomma, che da manifesto per la proclamazione di un diritto dei cittadini che, ormai da otto anni è, in realtà, solo un diritto delle imprese[38].
Può certo dubitarsi della ragionevolezza di questa discriminazione operata dal legislatore: non sembra così scontato, come invece pare ritenere il Tar, che il «bene tempo» costituisca oggetto di un interesse autonomo per un’impresa più di quanto non lo sia per un lavoratore subordinato costretto a richiedere un permesso non retribuito per recarsi presso un ufficio comunale (o per un cittadino privo di impiego, che quel tempo potrebbe destinare alla ricerca di un’occupazione). Né convince l’idea che il «bene tempo» sia per il cittadino comune un valore «fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario»[39], o almeno che sia più «soggettivo» di quanto possa esserlo per una pizzeria o un’industria petrolchimica. Se questa irragionevolezza abbia rilievo in punto di legittimità costituzionale dell’art. 28, c. 10, d.l. n. 69 del 2013 è però un problema differente, che esula dall’oggetto di queste brevi notazioni.
Piuttosto, è opportuno evidenziare che la conclusione qui raggiunta (secondo la quale, semplicemente, non esiste a tutt’oggi una tutela indennitaria fruibile dal quisve de populo a fronte del ritardo provvedimentale) non deve portare a un eccessivo sconforto, a ritenere insomma preferibile, malgrado la sua dubbia coerenza, la tesi sostenuta in sentenza: le modalità di accesso all’indennizzo descritte da quest’ultima, infatti, non sembrano più onerose – né sul piano sostanziale (allegazione e prova del danno), né sul piano processuale (soggezione della domanda al rito ordinario) – rispetto a quelle richieste dalla legge vigente per il risarcimento del danno ex art. 2 bis, c. 1, l. proc.. E non è azzardato ritenere che, correttamente ricostruitane la disciplina, la pronuncia in commento avrebbe potuto accordare ai ricorrenti l’altra tutela richiesta. Almeno stando alla descrizione dei fatti di causa contenuta in motivazione, infatti, sembrerebbero ricorrere nella fattispecie tutti gli elementi della responsabilità della P.A.: elementi a fronte dei quali il giudice avrebbe potuto ben procedere a una liquidazione equitativa (non dell’indennizzo, ma) del danno risarcibile.
[1] È doveroso segnalare che il dispositivo della pronuncia in commento «manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare i ricorrenti ed i loro genitori». Nella copia consultabile della decisione risultano tuttavia oscurati anche il nome del Comune resistente e quelli degli altri enti e luoghi a vario titolo coinvolti nella vicenda che ha dato origine al giudizio. Tale modalità di oscuramento renderebbe, in alcuni passi, pressoché incomprensibile la motivazione. Basti dire che i nomi dei tre Comuni sono, come di consueto accade, tutti sostituiti dallo stesso « -OMISSIS-»: di modo che, dove in motivazione si fa riferimento a uno dei tre enti, talora non si riesce a comprendere quale tra essi sia il Comune richiamato (quello di sepoltura, quello in cui provvedere alla cremazione o quello destinato a custodire in futuro le ceneri?). Non è stata – fortunatamente – oscurata l’indicazione del numero e dell’anno della precedente sentenza pronunciata inter partes (infra, nota 2), per la cui pubblicazione la Segreteria, pur avendo ricevuto dal Tar identico mandato, ha quantomeno sottratto all’oscuramento i dati relativi alle amministrazioni coinvolte: con l’ausilio di tale decisione, quella qui annotata diviene (non chiara ma almeno) comprensibile. Il paradosso è che se taluno, per mera curiosità, volesse indagare sull’identità del personaggio celebre (alle cui vicende post mortem si riferiscono i fatti narrati dalla motivazione della pronuncia in commento) o su quella dei suoi eredi, potrebbe agevolmente risalirvi, senza essere dotato di particolari abilità di detection, limitandosi (anche senza l’ausilio della pronuncia richiamata) a digitare su un motore di ricerca qualche lemma identificativo del caso («cremazione», «estumulazione», «artista celebre») e soffermandosi sui risultati relativi a notizie della stampa locale (di cui la competenza per territorio del Tar dà un’indicazione univoca). È un paradosso perché la tecnica dell’oscuramento per ragioni di privacy, così applicata, mentre non impedisce l’accesso al fatto che ‘appartiene solo alle parti’ (il dato, appunto, personale), è spesso in grado di celare quella parte del fatto che ‘appartiene a tutti’ e che è la ragione che giustifica la qualità pubblica di ogni pronuncia giurisdizionale (per una chiara distinzione tra «aspetto individuale» e «aspetto collettivo» del «fatto» nel processo, v. F. Mazzarella, Analisi del giudizio civile di cassazione, Padova, 2003, 83 ss.). Sull’«improvvido “oscuramento”, operato arbitrariamente e privo di qualsivoglia fondamento normativo nella vigente disciplina della protezione dei dati personali» (dal quale troppo spesso le sentenze restano intaccate), v. in questa Rivista le osservazioni di F. Francario, Una giusta revocazione “oscurata” dalla privacy. A proposito dei rapporti tra giudicato penale e amministrativo (nota a CGARS 1 10 2020 n. 866),
[2] Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 30 luglio 2020, n. 8895.
[3] V. il par. II) della decisione.
[4] Così la motivazione, al punto III).
[5] In giurisprudenza, per la qualificazione della responsabilità ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. come responsabilità da attività lecita v. Tar Sicilia, Catania, sez. III, 16 aprile 2021, n. 1201.
[6] Così la sentenza annotata al par. III). Le fattispecie di indennizzo richiamate in motivazione sono quella di cui all’art. 2045 c.c., relativa al danno causato in stato di necessità, la revoca del provvedimento ex art. 21 quinquies l. proc., l’equo indennizzo per invalidità o decesso derivanti da causa di servizio, l’indennità da espropriazione per pubblica utilità e la promessa del fatto del terzo (art. 1381 c.c.).
[7] Ibidem, par. III.3).
[8] Difficile ritenere compatibile un siffatto approccio con l’idea (pure, in astratto, spesso condivisa dal giudice amministrativo) che con la previsione del risarcimento del danno per il ritardo o il mancato esercizio del potere, «e poi di un indennizzo forfettario per il “mero ritardo”, il tempo procedimentale è stato qualificato alla stregua di un bene della vita, costituendo il ritardo un costo sia “economico”, poiché si traduce in un rischio amministrativo in caso di “investimenti”; sia in termini di violazione dell’affidamento degli interessati, che costituisce il versante soggettivo, psicologico, del valore oggettivo del principio di certezza del diritto (Cons. St. sez. V, n. 675/2015)»: per questa formulazione v. CGARS, sez. giur., 10 settembre 2018, n. 490.
[9] Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98.
[10] Ai sensi dell’art. 28, c. 12, d.l. n. 69 del 2013 cit., «Decorsi diciotto mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e sulla base del monitoraggio relativo alla sua applicazione, con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sono stabiliti la conferma, la rimodulazione, anche con riguardo ai procedimenti amministrativi esclusi, o la cessazione delle disposizioni del presente articolo, nonché eventualmente il termine a decorrere dal quale le disposizioni ivi contenute sono applicate, anche gradualmente, ai procedimenti amministrativi diversi da quelli individuati al comma 10 del presente articolo».
[11] Così la motivazione al par. III.6).
[12] La sentenza, al par. III.4.), riconosce a chiare lettere che, fuori dall’ipotesi del danno ulteriore di cui sia offerta prova, il provvedimento «tardivo», sia «pienamente satisfattivo».
[13] Ibid: «laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis della l. 241/90 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa)».
[14] R. Scognamiglio, Indennità, in Novissimo Digesto Italiano, VIII, 1962, ad vocem, 595 ss.
[15] Cfr. il par. III.7) della motivazione.
[16] Ibid.
[17] Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7. Sull’originale (e discutibile) tesi proposta dall’ordinanza di rimessione (CGARS, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136), disattesa dall’Adunanza plenaria, v. in questa Rivista M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria.
[18] Così la motivazione, al par. III.7, dal quale è tratta anche la precedente citazione nel testo.
[19] Ibid., par. III.6).
[20] Ibid., par. VI).
[21] Ibid., par. IV).
[22] Ibid. par. V).
[23] V. ad es. Consiglio di Stato, sez. II, 24 luglio 2019, n. 5219: « La sola riscontrata ingiustificata o illegittima inerzia dell'amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa non integra la colpa dell'Amministrazione, dovendo anche accertarsi se l'adozione o la mancata o ritardata adozione del provvedimento amministrativo lesivo sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, alle quali deve essere costantemente ispirato l'esercizio della funzione, e si sia verificata in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l'imperizia degli uffici o degli organi dell'amministrazione, ovvero se per converso la predetta violazione sia ascrivibile all'ipotesi dell’errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto. In sostanza, quella configurata dall'art. 2-bis, comma 1, l. n. 241/1990 viene ricondotta ad una responsabilità per un comportamento scorretto dell'Amministrazione e contrastante con i canoni del buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa». Per l’esclusione del danno risarcibile a fronte della complessità oggettiva del procedimento cfr., fra tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712.
[24] Così Tar Lazio, Roma, n. 8895/2020 cit.
[25] Cfr. la sentenza in commento al par. V).
[26] Ibid.
[27] Ibid., par. III.6).
[28] Ibid., par. IV). Il concorso colposo del creditore nella causazione del danno sembrerebbe dunque assumere a mente del Tar, anche nell’ambito della tutela indennitaria, l’ampio ruolo a esso consuetamente riconosciuto in giurisprudenza con riferimento alla tutela risarcitoria: in questo senso cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16 dicembre 2016, n. 5339 (par. 4.1., lett. b), con particolare riferimento alla mancata cooperazione dell’istante in sede istruttoria. Lascia intendere la necessità dell’attivazione dei poteri sostitutivi ex art. 2, c. 9 ter l. proc. anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo Consiglio di Stato, sez. V, 2 aprile 2020, n. 2210 (par. 3.3.1).
[29] Questo l’indirizzo costante, intrapreso a partire da Cassazione civile, sez. un., 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339 e n. 1340.
[30] Cfr. ad esempio Cassazione civile, sez. lav., 4 maggio 2015, n. 8882.
[31] Al di là della dottrina che ne ha assimilato la natura a quella di una sanzione amministrativa sui generis (G. Tulumello, Privatizzazione dei servizi pubblici e problemi di tutela giurisdizionale, in Contratto e impresa. Europa, 1999, 386 ss.), è generalmente accolta l’opinione che gli indennizzi automatici forfettari (alla stregua degli obblighi dalla cui violazione sorge il diritto alla loro corresponsione) si pongano su un piano del rapporto di utenza distinto e parallelo al principale sinallagma contrattuale. Sugli indennizzi automatici forfettari (e, più in generale, sulle carte dei servizi, competenti alla loro definizione, v. G. Napolitano, Gli indennizzi automatici agli utenti di servizi pubblici, in Danno e resp., 1996, 15 ss.; G. Sbisà, Natura e funzione delle «carte dei servizi». La carta del servizio elettrico, in Rass. giur. en. el., 2/1997, 346 ss.; P. Schlesinger, La pluralità delle fonti nella somministrazione di energia elettrica, ibid., 307 ss.; M. Ramajoli, La tutela degli utenti nei servizi pubblici a carattere imprenditoriale, in Dir. amm., 3-4/2000, 383 ss.. Per una illustrazione dei profili di inefficienza di tali strumenti v. più di recente M. Calabrò, Carta dei servizi, rapporto di utenza e qualità della vita, Ibid., 1-2/2014, 373 ss.
[32] La previsione di «forme di indennizzo automatico e forfettario» a fronte «di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata adozione del provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione» era stata prefigurata dall’art. 17, c. 1, lett. f) della legge Bassanini (l. 15 marzo 1997, n. 59), mediante una delega, però, mai attuata dal Governo. La circostanza è ricordata da Consiglio di Stato, sez. IV, 5 aprile 2018, n. 2108, per dare supporto, con un argomento a contrario, alla tesi secondo cui l’accesso alla tutela risarcitoria presuppone un giudizio prognostico sulla fausta conclusione del procedimento (posizione assunta dal Consiglio di Stato – Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7 – già anteriormente all’introduzione dell’art. 2 bis l. proc ad opera dell’articolo 7, c. 1, lettera c), l. 18 giugno 2009, n. 69; da ultimo cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1448, ove però, ribadita la necessità di un giudizio sulla fondatezza dell’istanza con riguardo al risarcimento del danno da ritardo, la si esclude con riferimento all’indennizzo). Sulla rilevanza della fondatezza dell’istanza anche si fini della liquidazione dell’indennizzo ex art. 2 bis l. proc. v. Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 22 marzo 2021, n. 277.
[33] Così la motivazione, al par. III.5). Nel senso della non necessità di una disciplina attuativa anche le pronunce ivi richiamate (Tar Lazio, Roma, 3 ottobre 2019, n. 11517 e Tar Campania, Napoli, sez. V, 12 aprile 2021, n. 2346) che tuttavia non ritengono i commi 1 e 9 dell’art. 28 d.l. n. 69/2013 come fonti di due autonomi diritti all’indennizzo. In entrambe le pronunce il diritto all’indennizzo è escluso non risultando prova del previo esperimento della procedura sostitutiva ai sensi del comma 2 dell’art. 28 cit., a cui anche la tutela ex art. 2 bis, c. 1 bis, l. proc. è ritenuta subordinata.
[34] In questo senso Consiglio di Stato, sez. IV, 21 settembre 2020, n. 5541. V. anche Tar Puglia, Bari, sez. II, 24 marzo 2021, n. 499.
[35] Così la sentenza in commento, par. III.5).
[36] Ibid., loc. cit.
[37] Questa, del resto, è l’interpretazione offerta dalla Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 gennaio 2014, n. 73817 – Linee guida per l’applicazione «dell’indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte» (in Gazz. Uff. 12 marzo 2014, n. 59).
[38] Non è dunque, forse, un mero lapsus calami quello contenuto nella motivazione di CGARS 24 marzo 2021, n. 243, che in un obiter dictum afferma che il legislatore avrebbe proceduto alla «abrogazione» dell’art. 2 bis, c. 1 bis l. proc., avendone ritenuto «impraticabile» l’applicazione.
[39] Così la sentenza al già citato par. III.6).
Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c.
di Giovanna Chiappetta
Sommario: 1. Premessa - 2. La “nuova categoria” di figli non riconoscibili al vaglio delle Corti europee - 3. Lo statuto unico di figlio ex art. 30, co. 1, Cost. e l’interpretazione dell’art. 279 c.c. - 4. Natura meramente processuale delle sentenze nn. 32 e 33 del 2021 e la c.d. interpretazione adeguatrice dei giudici di merito per colmare il vuoto normativo.
1. Premessa
I nati in Italia mediante il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita eterologa (d’ora in avanti PMA) da parte di coppie di donne, o a seguito della surrogazione di maternità, per i quali non sia possibile il ricorso all’adozione in casi particolari del genitore d'intenzione, costituiscono la “nuova categoria” di bambini non riconoscibili[1]. Pur se sia accertato giudizialmente il loro interesse alla continuità affettiva con il genitore di intenzione (non anche biologico) che abbia in concreto svolto la funzione genitoriale[2], non possono far valere la relativa responsabilità (ex art. 30, co.1, Cost.).
La Consulta ed i giudici di legittimità[3] hanno ritenuto non potersi applicare gli artt. 8 e 9 l. 40/2004 sullo status filiationis dei nati da PMA, trattandosi di pratiche vietate (ex art. 5 e/o 12, comma 6, l. 40/2004, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita). Pertanto, i diritti al mantenimento, all’educazione, all’istruzione e i diritti successori spettano ai nati nei confronti del genitore d’intenzione/biologico e non anche nei confronti del genitore intenzionale e di cura.
In siffatto scenario si collocano le sentenze nn. 32 e 33 del 2021 nelle quali la Consulta ha esaminato questioni che riguardano il diritto alla continuazione della relazione genitoriale di fatto dei figli “irriconoscibili" nati mediante il ricorso alle procedure di PMA vietate[4].
La “nuova categoria” di figli irriconoscibili si trova “in una condizione diversa e deteriore rispetto a quella di tutti gli altri nati (compresi i nati da rapporto incestuoso)”[5]. La disciplina del rapporto di filiazione del codice civile, ritenuta saldamente ancorata al rapporto biologico tra il nato ed i genitori, ammette in ogni caso il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità o, l’attribuzione dei diritti al mantenimento, all’istruzione e all’educazione senza l’attribuzione formale dello status filiationis[6]. Anche il nato da relazioni incestuose può acquisire lo status previa autorizzazione giudiziale (artt. 251 e 278 c.c.)[7]. In astratto, quindi, la disciplina codicistica rende sempre possibile l’acquisizione dello status filiationis. La privazione di esso può rendersi necessaria “in concreto” per garantire il migliore interesse del minore. Nelle ipotesi di irriconoscibilità, i bambini sono tutelati nei confronti del genitore biologico mediante gli artt. 279, 580 e 594 c.c.
Diversamente, la nuova categoria di irriconoscibili è privata dello status nei confronti del genitore d'intenzione e di cura (non applicandosi gli artt. 8 e 9, l. 40 del 2004) e non godrebbe di altra tutela congrua. Tali relazioni di genitorialità di fatto svincolate dal rapporto biologico sarebbero prive di riconoscimento giuridico con lesione dei diritti fondamentali alla vita privata e familiare dei nati.
Giova ricordare che per giurisprudenza costante della Consulta l'oggetto del giudizio di legittimità in via incidentale è circoscritto alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione[8]. Di conseguenza non essendo indicato l'art. 279 c.c. (e le altre che la richiamano artt. 580 e 594 c.c.) non è stato preso in considerazione. La Consulta quindi non ha potuto esprimersi sull'utilizzabilità delle azioni esistenti per tutelare l'interesse dei minori non riconoscibili.
I bambini privati dello status filiationis nei confronti del genitore effettivo potrebbero trovare tutela nell'art. 279 c.c. (e negli artt. 580 e 594 c.c. che ne completano la disciplina con disposizioni successorie) del quale si propone una lettura conforme alla Costituzione e alle Convenzioni internazionali che ne permette l'applicazione al di là della filiazione biologica[9]. La disposizione, superando la tradizionale impostazione restrittiva limitata alla filiazione biologica, potrebbe garantire anche alla nuova generazione di figli "irriconoscibili" e "non dichiarabili" il diritto alla vita familiare affettiva ed effettiva con il genitore di intenzione e di cura.
2. La “nuova categoria” di figli non riconoscibili al vaglio delle Corti europee.
La tutela dello status di cittadino europeo e delle situazioni ad esso connesse sono oggetto di valutazione della Corte di giustizia, così come le misure interne in violazione dei diritti umani fondamentali sono state vagliate dalla Corte di Strasburgo.
In ragione della mobilità dilagante delle famiglie da un Paese all’altro, nuove problematiche sorgono nell’ambito della filiazione. Si parla di «internazionalizzazione fittizia» di status familiari mediante il ricorso alle soluzioni offerte da ordinamenti giuridici stranieri al fine di legittimare la genitorialità creata da una coppia o da un single in violazione di disposizioni di diritto nazionale.
La cittadinanza europea e i diritti ad essi connessi hanno favorito il fenomeno di internazionalizzazione di situazioni in Paesi dell'UE. Infatti, i diritti di libera circolazione e di libero soggiorno nel territorio degli Stati membri hanno consentito la scelta della legge applicabile allo status filiationis ed il meccanismo del riconoscimento di atti di nascita formati all'estero, amplificando il fenomeno del forum o system shopping anche ai cittadini europei ‘statici’ coniugati, uniti, conviventi o single. La condizione del cross border element, un tempo considerata un dogma, con l’interpretazione giurisprudenziale della cittadinanza europea è assimilata alla purely internal situation[10]. L’approccio dell’UE valorizza l’autonomia internazionalprivatistica ammettendo una limitata opzione fra più leggi potenzialmente applicabili ad una situazione familiare ed ai relativi status[11]. Conseguentemente si hanno manifestazioni di volontà che non concernono una situazione giuridica che presenta ab origine legami e implicazioni in più Stati (o in più ordinamenti giuridici), ma situazioni costituite volontariamente in un ordinamento ‘terzo’. La scelta del luogo di nascita di un bambino[12] diviene elemento ‘di estraneità’ che internazionalizza[13] una situazione familiare puramente interna. Il fenomeno ha incentivato il turismo normativo per ottenere la trascrizione della dichiarazione di nascita di bambini all’estero in violazione di leggi nazionali[14]. Di qui i noti fenomeni di birth shopping verso quegli Stati che riconoscono la genitorialità ‘d’intenzione’ (in Spagna) anche in assenza di legami biologici con il figlio. Così, i nati all'estero da PMA di tipo eterologo da due donne (anche italiane) possono ottenere entrambe il riconoscimento del rapporto di filiazione mediante la trascrizione nei registri di stato civile italiano dell'atto di nascita validamente formato in un altro Paese[15].
La Corte di Strasburgo e quella del Lussemburgo sono state investite di questioni riguardanti la “nuova categoria” di figli irriconoscibili. Come nelle sentenze della Consulta summenzionate, i giudici europei si trovano ad esaminare casi di nati mediante il ricorso alla PMA eterologa da parte di due donne o a seguito di surrogazione di maternità. In particolare, è stata posta loro la domanda se sia consentito il rifiuto di uno Stato membro di riconoscere il rapporto di filiazione di fatto tra il nato ed il genitore (o i genitori) d'intenzione, risultante dall'atto di nascita redatto all'estero. Non sussistendo consenso europeo sulle pratiche di PMA, taluni Stati vietano per contrarietà all'ordine pubblico nazionale l'omogenitorialità e la surrogazione di maternità. L'identità costituzionale degli Stati membri e l'ampio margine di apprezzamento di cui essi dispongono nella materia familiare e nell'accertamento della filiazione possono giustificare il rifiuto del rapporto genitoriale di fatto.
La Corte di Strasburgo non ha ravvisato la violazione dell'art. 8 della CEDU per il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita stranieri nelle ipotesi di surrogazione di maternità nelle quali nessuno dei genitori di intenzione era al contempo genitore biologico[16]. La Grande Camera ha altresì emanato il primo parere consultivo non vincolante su richiesta della Cassazione francese[17] sulle questioni di principio relative all'interpretazione e all'applicazione dell'art. 8 CEDU (come sancito dall'art. 1, par. 1 del Protocollo n. 16). Come richiesto dall'art. 1, par. 2, del Protocollo n. 16 addizionale alla CEDU, le questioni interpretative poste dalla Cassazione francese si inseriscono nel contesto della procedura pendente riguardante i coniugi Mennesson[18]. In questo caso di surrogazione di maternità il padre di intenzione era anche padre biologico. I quesiti hanno riguardato il rifiuto del riconoscimento del legame di filiazione di fatto tra il nato da surrogazione di maternità e la sig.ra Mennesson, designata nell'atto di nascita straniero come madre "legale", e la sua compatibilità con l'art. 8 CEDU a tutela del diritto al rispetto della vita privata del bambino[19]. La Corte si è espressa considerando l'interesse superiore in concreto del bambino nell'affaire Mennesson e l'estensione del margine di apprezzamento degli Stati membri.
Relativamente al primo aspetto, ha affermato che l'art. 8 della Convenzione non impone un'obbligazione generale per gli Stati di riconoscere ab initio un legame di filiazione tra il bambino ed il genitore d'intenzione. L'interesse superiore del bambino deve essere apprezzato in concreto e sulla base del legame affettivo ed effettivo che si è instaurato. Le autorità nazionali devono, quindi, valutare, alla luce delle circostanze particolari del caso "si et quand ce lien s’est concrétisé"[20]. È pertanto necessario esaminare la qualità dei legami, il ruolo rivestito dai genitori nei confronti del minore e la durata della convivenza tra loro ed il minore. I giudici di Strasburgo non definiscono una durata minima della convivenza necessaria per costituire una vita familiare de facto, visto che la valutazione di ogni situazione deve tenere conto della “qualità” del legame e delle circostanze di ciascun caso[21].
In breve, gli Stati sono obbligati ad offrire una possibilità "d'un lien de filiation"[22] qualora, come nell'affaire Mennesson, si configuri un rapporto effettivo che richieda un riconoscimento nell'interesse del bambino. Sempre nell'interesse del bambino e stante il margine di apprezzamento in questa materia "sensibile" e sulla quale manca il consenso europeo[23], lo Stato può scegliere lo strumento adeguato. Sarà il governo ad individuarlo e potrà essere la trascrizione dell'atto di nascita, l'adozione da parte del genitore d'intenzione o altra misura prevista dal diritto interno idonea a garantire l'interesse concreto del bambino con efficacia e rapidità di attuazione. La Corte di Strasburgo ha, quindi, riconosciuto le relazioni «familiari» de facto tra uno o più adulti ed un minore in assenza di legami biologici (ex art. 8 CEDU).
Anche la Corte di Giustizia è stata investita di domande pregiudiziali aventi ad oggetto l'atto di nascita rilasciato da uno Stato membro che designa due donne quali madri del minore[24]. I giudici del rinvio hanno chiesto se le autorità statali possano rifiutare di trascrivere l'atto di nascita spagnolo, invocando il rispetto dell'identità nazionale ex art. 4, par. 2, TUE[25]. Il rifiuto di trascrizione è motivato dalla non previsione nel diritto bulgaro e polacco della genitorialità di coppie dello stesso sesso. I casi sono ancora pendenti, ma nelle conclusioni dell'Avvocato Generale nella causa proposta dalla Bulgaria[26], si è sostenuto che la definizione in senso giuridico di famiglia o di uno dei suoi componenti rientra nell'identità nazionale e spetta a ciascuno degli Stati membri. Pertanto, il rifiuto del riconoscimento del rapporto di filiazione, pur di ostacolo ai diritti del cittadino europeo (artt. 20 e 21 TFUE e artt. 7, 24 e 45 della CDFUE), può essere giustificato dal diritto al rispetto all'identità costituzionale degli Stati membri garantito dall'art. 4, par. 2, TUE. L'avvocato Generale Kokott nelle conclusioni nella Causa C-490/20 dopo aver messo in luce che "è pacifico che le due donne non solo hanno validamente acquisito lo status di genitori in forza del diritto spagnolo, ma conducono anche una vita familiare effettiva con la loro figlia in Spagna" (par. 113), conclude: "La Repubblica di Bulgaria non può rifiutare il riconoscimento del rapporto di filiazione tra la minore da un lato, e la ricorrente e sua moglie, dall'altro, ai soli fini dell'applicazione del diritto derivato dell'Unione relativo alla libera circolazione dei cittadini per il motivo che il diritto bulgaro non prevede né l’istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso, né la maternità della moglie della madre biologica di una minore" (par. 115). Nel punto 3 delle conclusioni, l'Avvocato Generale chiarisce che: "L’invocazione dell’identità nazionale ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE può giustificare il rifiuto di riconoscere il rapporto di filiazione tra un minore e una coppia sposata formata da due donne, quale stabilito nell’atto di nascita rilasciato dallo Stato membro di residenza del minore, ai fini della redazione di un atto di nascita del suo Stato membro d’origine o di quello di una delle due donne, che determina la filiazione di tale minore ai sensi del diritto di famiglia di quest’ultimo Stato membro". Se la Corte di giustizia condividerà le conclusioni suindicate, la legittimità del rifiuto del riconoscimento del rapporto di vita familiare effettiva non potrà limitare i diritti connessi alla cittadinanza europea.
La giurisprudenza delle Corti europee, invocando ragioni differenti, precisa i contorni del diritto alla continuità transfrontaliera delle situazioni familiari costituite all’estero[27].
L'interpretazione convenzionale indica quale momento imprescindibile del riconoscimento di una relazione a tutela dei bambini, l'instaurazione della vita familiare effettiva. Lo strumento nazionale dovrà garantire al bambino il diritto alla cittadinanza della madre, i diritti successori e tutti gli altri "contre un refus ou une renonciation de la mère d'intention de le prende en charge"[28].
Le questioni giuridiche sottese ai fatti esaminati dalla Consulta e dalle Corti europee sono ancora aperte.
Nella sentenza n. 32 del 2021 non hanno trovato soluzioni negli strumenti di tutela indicati nell'ordinanza di rimessione gli interessi delle due bambine accertati giudizialmente alla continuità affettiva con la madre d'intenzione e a un riconoscimento del rapporto effettivo con la medesima. Analogamente, nella sentenza n. 33 del 2021 la Consulta ha evidenziato che lo strumento dell'adozione in casi particolari ex art. 44, co. 2, lett. d), l. 184 del 1983 ritenuto esperibile a garanzia del l'interesse in concreto del bambino al riconoscimento di giuridicità di un legame di genitorialità intenzionale e di cura è una forma di tutela significativa ma non ancora del tutto adeguata. Esigenza di tutela del minore nato da maternità surrogata che è da bilanciare con gli altri contrapposti interessi.
In questa riflessione e per quanto messo in luce appare possibile o meglio necessario, per prevenire o limitare i danni derivanti dalla negata tutela delle relazioni genitoriali di fatto effettive, cambiare la prospettiva tradizionale di analisi e muovere dai fatti che vedono coinvolti minori particolarmente vulnerabili anche per la loro tenera età[29]. La concreta situazione di tutela dei minori ha fatto emergere la necessità di un riconoscimento giuridico del loro rapporto con il genitore intenzionale effettivo. In attesa dell'auspicato intervento del legislatore ci si propone di esaminare le analoghe esigenze di figli "naturali" non riconoscibili e gli strumenti giuridici a loro tutela non ancora vagliati.
La disciplina codicistica dettata dall'art. 279 c.c. (e le altre disposizioni che lo richiamano) per i figli irriconoscibili è adeguata a garantire i parametri costituzionali e convenzionali alla nuova categoria di fanciulli irriconoscibili?
La soluzione all'interrogativo richiede, in primis, l’esame dell’art. 279 c.c. alla luce dei principi costituzionali.
3. Lo statuto unico di figlio ex art. 30, co. 1, Cost. e l’interpretazione dell’art. 279 c.c.
L’attuale formulazione dell’art. 279 c.c., in attuazione dell'art. 30, co. 1, Cost., riconosce, nell’impossibilità dell’accertamento formale dello status filiationis, ai minori i diritti al mantenimento, all’istruzione e all’educazione (fino al raggiungimento dell'autosufficienza economica) o, se maggiorenni ed in stato di bisogno, gli alimenti (art. 279, primo comma, del codice civile). Ai figli irriconoscibili la tutela successoria è garantita dagli artt. 580 e 594 c.c.
L'art. 279 c.c. contempla l'azione per l'accertamento in via incidentale del rapporto di filiazione finalizzata ad attribuire la responsabilità genitoriale senza la costituzione formale del relativo status[30]. Non è richiesto il consenso del genitore giuridico per la promozione o la prosecuzione dell'azione. Pertanto, l'attribuzione della genitorialità "sostanziale" ex art. 279 c.c. non può essere impedita dalla volontà contraria del genitore giuridico (diversamente dall'art. 46, l. 184 del 1983 per l'adozione in casi particolari). Legittimato attivo è il figlio o, nel suo interesse se minore, il genitore che esercita la responsabilità genitoriale o un curatore speciale nominato dal giudice su richiesta del pubblico ministero. La disciplina si applica "In ogni caso" di impossibilità di proporre l'azione per la dichiarazione di paternità o di maternità e richiede l'autorizzazione giudiziale al fine di verificare l'interesse del figlio[31]. La richiesta autorizzazione è collegata al sorgere in capo al genitore della responsabilità non soltanto patrimoniale ma anche di natura esistenziale[32]. I diritti all'istruzione e all'educazione non sono necessariamente riducibili alla prestazione dei corrispondenti mezzi economici. Il giudice, previa autorizzazione ed ascolto del minore ex art. 315-bis, co. 3, c.c. adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento al loro interesse che valuta caso per caso. Si applica la disciplina sancita dall'art. 337-bis e ss. c.c., che regolamenta altresì i procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio (art. 337-bis c.c.). Relativamente alla conservazione dei rapporti del figlio con la famiglia del genitore d'intenzione e di cura, l'art. 337-ter, co. 1, c.c. sancisce la continuità dei rapporti "significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale". Le modalità dell'esercizio della responsabilità genitoriale ex art. 279 c.c. contemplate nel provvedimento per la prole (ex art. 337-ter c.c.) sono garantite anche dall'art. 709-ter c.p.c. contro le controversie insorte tra i genitori nell'esercizio della responsabilità genitoriale e in tutte le inadempienze o atti che rechino pregiudizio al minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento[33]. Il trattamento successorio, confermato dal legislatore della riforma della filiazione avviata nel 2012 con la l. 219, era già ritenuto “differenziato” rispetto a quello spettante agli altri figli dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 494 del 2002[34]. L'intervento auspicato dalla Consulta potrà intervenire su tale aspetto della disciplina a tutela del principio di non discriminazione dei figli in base alla condizione di nascita[35].
L’interpretazione evolutiva del testo normativo in esame non conforta quella restrittiva tradizionalmente limitata alla filiazione "naturale". L'art. 279 c.c. novellato dalla Riforma del 1975, indicava quale beneficiario della tutela il figlio "naturale" sulla base di un accertamento incidenter tantum della procreazione[36].
La formulazione dell’articolo 279 c.c. è stata successivamente modificata dal decreto lg. 28 dicembre 2013 n. 154 attuativo della Riforma del diritto della filiazione avviata dalla l. 219 del 2012. Il testo in vigore indica quali beneficiari i figli nati "fuori del matrimonio" e si apre con una locuzione che può qualificarsi come clausola generale poiché dotata di un peculiare coefficiente di vaghezza o indeterminatezza "In ogni caso" di impossibilità di proporre l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità. Il modo per impostare il problema dell'attuale portata applicativa della clausola generale in esame consiste nel ricondurla alla sua dimensione costituzionalistica e, in particolare, ai parametri dettati dagli artt. 2, 30 e 31 cost.[37].
L'attuale interpretazione dell'art. 30, co. 1, cost. quale parametro fondamentale dello statuto unico di figlio ha portato al riconoscimento della concezione funzionale della “filiazione” che ha messo in luce che i diritti del figlio possono fondarsi anche sulla solidarietà e sull’affetto consolidato con il genitore di fatto[38].
Già in epoca antecedente alla introduzione della l. 40 del 2004 in relazione alla tutela dello status filiationis del concepito mediante PMA eterologa ancora non disciplinata, la Consulta[39] ha riconosciuto al nato nei confronti "di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità" "non solo i diritti e doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima - in base all'art. 2 della Costituzione...".
Nelle sentenze successive, la Consulta segna l'evoluzione dell'ordinamento dando rilevanza giuridica alla genitorialità d'intenzione anche ove non coincidente con quella biologica poiché "il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa" (così sentenza n. 162 del 2014[40] che ha dichiarato l'illegittimità delle disposizioni sul divieto di PMA eterologa).
I giudici delle leggi affermano ancora la tutela "in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l'interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito"[41].
La responsabilità genitoriale ex art. 279 c.c. al mantenimento, all’educazione e all’istruzione della prole, grava su tutti genitori siano essi biologici o d'intenzione e di cura.
L’art. 279 c.c., mediante l’interpretazione evolutiva degli artt. 2, 30 e 31 Cost., consente di superare il vulnus di tutela dell’interesse dei bambini a conservare il rapporto di genitorialità intenzionale ed effettiva[42]. Impossibilità della conservazione del legame di filiazione de facto confermata dalla Consulta con le sentenze di inammissibilità della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021. Le sentenze di inammissibilità hanno altresì messo in luce l'insufficienza del ricorso all'adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1, lett. d), l. 184 del 1983 per supplire alla mancanza di tutela del preminente interesse del minore alla continuità affettiva (rectius rapporto di filiazione de facto).
Infatti, tale genitorialità adottiva può essere impedita dalla contraria volontà del genitore biologico/legale (art. 46, l. 184 del 1983) e parrebbe non conferire al minore uno status "pieno" in quanto si considera incerta la creazione di un rapporto di parentela tra l'adottato e la famiglia dell'adottante pur non interrompendo i rapporti con la famiglia d'origine.
I nati in Italia da PMA eterologa praticata da due donne e quelli da surrogazione di maternità possono acquisire il rapporto di responsabilità legale con il solo genitore biologico genetico.
Diversamente, i nati all'estero da PMA di tipo eterologo da due donne anche di cittadinanza italiana possono ottenere entrambe il riconoscimento del rapporto di filiazione mediante la trascrizione nei registri di stato civile italiano dell'atto di nascita validamente formato in un altro Paese[43].
Non vi è dubbio, che anche per i figli nati dalle tecniche di PMA vietate dalla l. 40 del 2004 sussiste la necessità di riconoscere i diritti sanciti dall'art. 30, co. 1, cost. che gli derivano dalla genitorialità d'intenzione e di cura come nelle suindicate sentenze di inammissibilità nn. 32 e 33 del 2021. Diritti, questi ultimi, che risultano garantiti dall’applicazione delle azioni dell’art. 279 c.c. che non richiedono il consenso del genitore biologico e garantiscono la conservazione dei rapporti affettivi nei confronti del genitore affettivo e di cura e degli ascendenti e parenti del medesimo.
4. Natura meramente processuale delle sentenze nn. 32 e 33 del 2021 e la c.d. interpretazione adeguatrice dei giudici di merito per colmare il vuoto normativo.
Sulla base della natura meramente processuale della sentenza di inammissibilità[44] n. 32/2021, taluni giudici di merito, discostandosi dal monito della Consulta, hanno proceduto ad una lettura costituzionalmente orientata della normativa vigente[45] ed alla loro applicazione per il riconoscimento giuridico della genitorialità di intenzione.
I giudici di merito hanno affermato la scissione tra l'illiceità della tecnica di PMA di tipo eterologo praticata da due donne e la tutela del nato. Tale illiceità, non contrastando con l'ordine pubblico interno[46], ha consentito il riconoscimento al nato della tutela di cui agli artt. 8 e 9, l. 40/2004[47].
Nella sentenza n. 32/2021 la Corte costituzionale dà atto dell'esistenza della divergenza di interpretazione tra i giudici di merito, pur non potendo prendere posizione sulla loro correttezza. In tal modo ed in relazione a casi analoghi, viene violata la fondamentale esigenza di eguaglianza che impone di mettere tutti i figli nella medesima condizione.
A contrario, nel caso esaminato dalla pronuncia di inammissibilità n. 33/2021 avente ad oggetto la tutela dei nati mediante il ricorso alla surrogazione di maternità, la scissione tra i due aspetti, illegittimità della pratica e la tutela del nato, non consente l'applicazione degli artt. 8 e 9 l. 40/2004. Il "diritto vivente" risultante dalla sentenza delle SS. UU. della Cassazione n. 12193 del 2019[48] ha escluso il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento giurisdizionale straniero con il quale era stato dichiarato il rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” cittadino italiano. Esclusione di tale riconoscimento per il divieto penale di surrogazione di maternità stabilito dall'art. 12, comma 6, l. 40/2004 e, quindi, qualificabile secondo le Sezioni unite come principio di ordine pubblico.
Come nella precedente sentenza n. 32 del 2021, la Consulta ritiene indifferibile l’individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore.
La Corte costituzionale focalizza le questioni sugli interessi dei bambini che devono essere valuti caso per caso[49]. Non sempre e necessariamente l’interesse del minore coincide con il riconoscimento del legame con il genitore “d’intenzione” o con i genitori d'intenzione in quelle ipotesi nelle quali non sussiste alcun legame genetico tra il minore ed i genitori d'intenzione. Nel noto caso Paradiso Campanelli c. Italia, la Grande camera della Corte di Strasburgo, non ha ritenuto lesiva dell'art. 8 CEDU la irriconoscibilità del rapporto di filiazione del nato da surrogazione di maternità con i genitori d'intenzione, nessuno dei due biologici. La Corte europea dei diritti dell’uomo è ritornata di recente sulla nascita da maternità surrogata nell'ipotesi di insussistenza di legame biologico tra i genitori d'intenzione ed il nato[50]. Non condannando l'operato delle autorità islandesi che hanno rifiutato il riconoscimento a una coppia di sue cittadine, della genitorialità sul bambino nato in California con la maternità surrogata senza alcun legame genetico con la coppia. Le due donne, rientrate in Islanda con il neonato, tre settimane dopo la nascita, avevano chiesto la cittadinanza islandese per il minore e il riconoscimento del rapporto di filiazione della coppia. Il bambino, essendo nato da madre americana e vigendo in Islanda il divieto di ricorrere alla maternità surrogata, è stato considerato minore non accompagnato e dato in affidamento alle due donne. Il bambino è cresciuto con le due donne, che nel frattempo avevano entrambe un nuovo legame. Secondo la Corte europea, la sentenza della Corte suprema islandese, avendo riconosciuto l’affidamento del minore alla coppia, ha adottato le misure necessarie “per salvaguardare la vita familiare delle ricorrenti”. Secondo la Corte, lo Stato quindi ha “agito a sua discrezione in questa materia, con l’obiettivo di proteggere il suo divieto di maternità surrogata”.
La Consulta nella sentenza n. 33 del 2021 mette in luce nel caso di surrogazione di maternità che l'interesse del bambino "non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro contro interesse in gioco". Interesse che, in ogni caso, non può essere sacrificato per condannare il comportamento dei genitori. L'interesse del minore va valutato in concreto e può attuarsi in diversi modi, con la riconoscibilità del rapporto di filiazione d'intenzione, o, con l'irriconoscibilità di tale rapporto e la conseguente dichiarazione dello stato di abbandono e l'apertura della procedura di adozione. L'interesse del bambino potrà altresì essere tutelato con la responsabilità genitoriale ex art. 279 c.c. In ogni caso dovrà essere al bambino garantito il diritto a conoscere le proprie origini genetiche[51].
La soluzione adeguata a ciascun caso concreto richiede la valutazione del rapporto genitoriale di fatto, la condizione di ciascun bambino e degli altri interessi contrapposti.
È quanto la Consulta ha accertato nella sentenza n. 32 del 2021: "2.4.1.3. –... La condizione di nati a seguito di PMA eterologa praticata in un altro paese, in conformità alla legge dello stesso, da una donna, che aveva intenzionalmente condiviso il progetto genitoriale con un’altra donna e, per un lasso di tempo sufficientemente ampio, esercitato le funzioni genitoriali congiuntamente, dando vita con le figlie minori a una comunità di affetti e di cure. La circostanza che ha indotto la madre biologica a recidere un tale legame nei confronti della madre intenzionale, coincidente con il manifestarsi di situazioni conflittuali all’interno della coppia, ha reso affatto evidente un vuoto di tutela." e ha rilevato che pur "in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi nella pratica della vita quotidiana con la medesima madre intenzionale, nessuno strumento [di quelli indicati nell’ordinanza di remissione] può essere utilmente adoperato per far valere i diritti delle minori: il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise".
Analogamente, nella sentenza n. 33 del 2021, la Consulta ha rilevato l'esistenza del rapporto affettivo consolidato del bambino con la persona del genitore d'intenzione: "...che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita", e ha affermato che è necessario "far valere i diritti delle minori: il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise".
Le condizioni di applicabilità dell'art. 279 c.c. sussistono nei fatti oggetto di esame della Consulta, così come i diritti da garantire ai minori coinvolti nelle vicende di incostituzionalità sono quelli sanciti dall’art. 279 c.c. (e dagli artt. 580 e 594 c.c.). Infatti, ricorre sia il requisito della nascita fuori del matrimonio, sia quello della non esperibilità dell'azione giudiziale per la dichiarazione giudiziale di genitorialità. La previsione in esame richiede l’impossibilità per il figlio di ottenere il riconoscimento o di agire per l'accertamento giudiziale della genitorialità. Impossibilità messa in luce dalla Consulta nelle sentenze nn. 32 e 33 del 2021.
Il ricorso ai diritti ex art. 30 cost. sanciti nell'art. 279 c.c. senza l'attribuzione dello status filiationis può ritenersi adeguato a tutelare l'interesse concreto dei bambini e a garantire l'effettività e la celerità della sua messa in opera, in presenza di un rapporto di filiazione effettivo, consolidatosi nella pratica della vita quotidiana con il genitore intenzionale. Essa potrebbe garantire il diritto alla continuità affettiva, anche in attesa di una disciplina organica della materia dell'attribuzione dello status filiationis formale e/o sostanziale.
I diritti indicati dalla Consulta da garantire ai minori coinvolti nelle vicende di incostituzionalità sono, infatti, il mantenimento, la cura, l’educazione, l’istruzione, la successione e, più semplicemente, la continuità e il conforto di abitudini condivise.
L’azione ex art. 279 c.c. e le altre connesse per la garanzia dei diritti successori (artt. 580 e 594 c.c.) potrebbero realizzare nei casi in esame l’interesse dei minori. Tuttavia, in sede dell’auspicato intervento legislativo della Consulta, si potrà estendere la disciplina successoria applicabile ai figli che abbiano lo status formale anche ai figli che non hanno acquisito tale status, superando il “regime differenziato” previsto dagli artt. 580 e 594 c.c.[52].
Non rileva in alcun modo distinguere in base al diverso dato dell’impossibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di genitorialità o in base alla ratio della irriconoscibilità o della non dichiarabilità del rapporto di filiazione.
La responsabilità ex art. 279 c.c. attua i parametri costituzionali (art. 30 cost.). L’autorizzazione giudiziale (ex art. 251 c.c.) e, in taluni casi, anche il consenso del figlio, esprimono la necessità della valutazione del migliore interesse concreto del minore in base alle circostanze particolari non solo per quanto concerne l’accertamento diretto della filiazione, ma anche per promuovere l’azione incidentale per la responsabilità senza genitorialità giuridica e per i provvedimenti relativi alla prole.
L'art. 279 c.c. mediante la lettura sistematica, evolutiva ed assiologica proposta, da rimedio puramente succedaneo, può rappresentare l'attuale strumento applicabile alle ipotesi di non riconoscibilità o di non dichiarabilità esaminate e garantire a tutti i figli le tutele dall'art. 30, co. 1, Cost.
[1] La "nuova categoria di nati non riconoscibili" così definita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 9 marzo 2021 ed oggetto di esame anche nella pronuncia della Corte costituzionale n. 33 del 10 marzo 2021.
[2] Definita "vita familiare di fatto" dalla Corte di Strasburgo a far data dalla sentenza del 27 aprile 2010, nel caso Moretti e Benedetti c. Italia, Ricorso n. 16318/07. La Corte accoglie il ricorso presentato da due cittadini italiani per la tutela del legame instaurato con una bambina a seguito di un affidamento temporaneo. La Corte, considerando il forte legame stabilitosi tra i ricorrenti e la bambina, ha statuito, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, che esso potesse rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell'articolo 8 CEDU. Nel caso di specie i giudici rilevano in concreto la stabilità dei legami, tenendo conto del tempo vissuto dai ricorrenti con il bambino, la qualità delle relazioni affettive instaurate ed il ruolo da loro assunto nei confronti del minore.
[3] Così, sull'inapplicabilità degli artt. 8 e 9 l. 40 del 2004 ai nati in Italia da PMA praticata da una coppia di donne: Corte cost. 2017 n. 272, id. 23 ottobre 2019 n. 221, 4 novembre 2020, n. 230; 9 marzo 2021, n. 32; e Cass. 3 aprile 2020, n. 7668, Id. 22 aprile 2020, n. 8029. Sull'inapplicabilità degli artt. 8 e 9 l. 40 del 2004 ai nati da surrogazione di maternità, Corte cost. 10 marzo 2021 n. 33., Cass. sez. un. 8 maggio 2019 n. 12193.
[4] Sulla ricostruzione dei casi e dei problemi sollevati si rinvia a G. Ferrando, Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021, in Giustizia Insieme, 2021; A. M. Pinelli, La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33, in Giustizia Insieme, 2021.
[5] Corte cost. n. 32 del 2021, cit.
[6] Sul mantenimento del microsistema della fecondazione eterologa dopo la riforma della filiazione del codice civile del 2012/2013, M. Bianca, L'unicità dello stato di figlio, in La riforma della filiazione, a cura di C. M. Bianca, Padova, 2015, p. 18 e ss. Sul rapporto di specialità ed alternatività sull'attribuzione dello status filiationis tra disciplina codicistisca e l. 40 del 2004, Cass. 15 maggio 2019 n. 13000, nella sentenza avente ad oggetto la nascita in Italia di un bambino mediante inseminazione post mortem praticata in Spagna dalla madre con il seme del marito premorto. La Cass. ha affrontato il problema interpretativo dei rapporti tra la normativa del codice civile e quella contenuta nella l. 40 del 2004 sullo status di figlio. Il giudice di legittimità nell'ipotesi esaminata preferisce l'interpretazione "secondo la quale la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configura un sistema alternativo, speciale, e non possono applicarsi i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale" (punto 7.8.7 delle ragioni della decisione).
[7] Per i figli nati da relazione incestuosa, è stata introdotta l'autorizzazione giudiziale per il riconoscimento e per la promozione dell'azione giudiziale di maternità e paternità a tutela del concreto interesse del bambino (artt. 251 e 278 c.c.) e l'art. 273, co. 2, c.c. richiede, altresì, il consenso del figlio di 14 anni per la proposizione o la prosecuzione dell'azione per la dichiarazione giudiziale. Nell'ipotesi di negato consenso o mancata autorizzazione giudiziale si può applicare la responsabilità per il mantenimento e l'educazione ex art. 279 c.c., sempre previa autorizzazione giudiziale nell'interesse del minore e del suo consenso se quattordicenne e capace di discernimento. Vi è chi reputi che la previa autorizzazione giudiziale limiti e rendere incerta, pur nella certezza del dato biologico, per il figlio la possibilità di vedere riconosciuti i diritti a lui attribuiti dall'art. 30 Cost. cfr., L. Bardaro, La filiazione non riconoscibile tra istanze di tutela e valori giuridici, Napoli, 2015, pp. 158 e ss. In precedenza, l’azione per la dichiarazione giudiziale di maternità o di paternità naturale era ammessa previa autorizzazione giudiziale ex art. 274 c.c. infine dichiarato totalmente incostituzionale dalla Consulta con la sentenza del 10 febbraio 2006, n. 50. In ragione dell’abrogazione di tale disposizione, il vigente art. 279 c.c., al secondo comma, richiede l’autorizzazione giudiziale prevista dall’art. 251 c.c. per l’ammissione dell’azione.
[8] V. tra le tante, Corte cost. 23 ottobre 2019 n. 221 e le altre in essa richiamate e 9 aprile del 2014.
[9] Sulla necessità di un’interpretazione sistematica ed assiologica della disciplina della filiazione, alla luce della Costituzione e delle convenzioni internazionali, sia essa contemplata nel codice civile o nella legislazione speciale che ha condotto all'applicazione dell'art. 279 c.c. alla filiazione adottiva e da PMA, sia consentito il rinvio a G. Chiappetta, La filiazione del figlio nato nel matrimonio, in La riforma della filiazione, a cura di C. M. Bianca, cit. p. 450 e ss.
[10] La Corte di giustizia ha esaminato il rigetto di domande di soggiorno presentate da genitori per il ricongiungimento familiare con i propri figli cittadini europei ‘statici’. Corte giust. 5 maggio 2011, C-434/09, MC’ Carthy; Cort. giust. 15 novembre 2011, C-256/11, Dereci; Corte giust 8 novembre 2012, C-40/11, Iida; Corte giust. 6 dicembre 2012, C-356/11 e 357/11, O. e S.; Corte giust. 8 maggio 2013, C-87/12, Ymeraga; Corte giust. 8 ottobre 2013, C-86/12, Alokpa; Corte giust. 13 settembre 2016 rispettivamente causa C-165/14, Redòn Marìn, punto 81, causa C-304/14, caso CS, punto 36.
[11] S. Marino, Il diritto all’identità personale, in Riv dir. internazionale, 2016, p. 816.
[12] Cass. sez. un., 8 maggio 2019, n. 12193 cit. sul divieto di surrogazione di maternità quale principio di ordine pubblico che impedisce la trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero dal quale risultavano due padri in virtù della pratica di surrogazione effettuata in base alla lex loci. V. contra, Corte appello sez. III, Venezia, ordinanza 16 luglio 2018, in Banca dati De Jure, i ricorrenti cittadini italiani, coniugati in Canada, residenti in Italia con matrimonio trascritto in Italia nel registro delle unioni civili, hanno ottenuto il riconoscimento ex art. 67 della legge 218/1995 della sentenza dell’autorità giurisdizionale canadese dalla quale risultava il rapporto di filiazione con il bambino nato con modalità gestazionali di maternità surrogata. La Corte non ritiene sussistente il limite dell’ordine pubblico: «Né può ricondursi all’ordine pubblico la previsione che il minore debba avere genitori di sesso diverso, posto che nel nostro ordinamento è contemplata la possibilità che il minore abbia due figure genitoriali dello stesso sesso nel caso in cui uno dei genitori abbia ottenuto la rettificazione dell’attribuzione di sesso con gli effetti di cui all’art. 4 della legge 164 del 1982. …diversa infatti è la valutazione del best interest del minore concepito con tali tecniche, che non può essere privato della continuità dello status filiatonis legittimamente acquisito all’estero in base alla legge nazionale».
[13] S. Clavel, La place de la fraude en droit international privé contemporain, Travaux comité fr. DIP, 2010-2012, p. 255 e 262.
[14] La registrazione dell’evento nascita pone nuovamente la questione dell’autorità competente e, di conseguenza, della legge applicabile per l’attribuzione del nome, della cittadinanza. Sul punto si v. Corte giust. 14 ottobre 2008 C353/06, caso Grunkil-Paul. Corte giust. 19 ottobre 2014, C-200/02, caso Zhu Chen.
[15] Cass. 30 settembre 2016 n. 19599; id. 15 giugno 2017 n. 14878.
[16] Corte Strasburgo Valdis Fjölnisdottir e altri c. Islanda, sentenza del 18 maggio 2021. Sentenza (Grande Camera) del 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli c. Italia, n. 25358/12, § 215. Si tratta del noto caso esaminato dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo avente ad oggetto il mancato riconoscimento, in Italia, del legame di filiazione certificato nell'atto di nascita redatto all'estero tra il minore nato da surrogazione di maternità e i genitori di intenzione, in assenza di legame biologico tra la coppia di nazionalità italiana ed il bambino. La Corte europea dei diritti dell’uomo, proteggendo l’autorità della legge n. 40/2004 sul divieto di surrogazione di maternità, ha ritenuto in linea con l'art. 8 CEDU il provvedimento giurisdizionale italiano che ha negato la genitorialità risultante dall'atto di nascita perfezionato all'estero.
[17] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif demandé par la Cour de cassation françaises (Demande n. P16-2018-001).
[18] La questione dei coniugi Mennesson era già stata oggetto di esame da parte della Corte di Strasburgo con la sentenza del 26 giugno 2014, Mennesson c. Francia, ricorso n. 65192/11.
[19] V. giurisprudenza citata nelle note nn. 14 e 15.
[20] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif, cit., par. 52.
[21] La Corte E.D.U. (Grande Camera) nella sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017 ha, difatti, affermato che: «140. […] Il concetto di “famiglia” di cui all’articolo 8 riguarda le relazioni basate sul matrimonio ed anche altri legami “familiari” de facto […]. 148. La Corte deve accertare se, nelle circostanze di causa, la relazione tra i ricorrenti ed il minore rientri nella sfera della vita familiare ai sensi dell’articolo 8. La Corte accetta, in determinate situazioni, l’esistenza di una vita familiare de facto tra un adulto o degli adulti ed un minore in assenza di legami biologici o di un legame riconosciuto giuridicamente, a condizione che vi siano legami personali effettivi. .151. È pertanto necessario, nel caso di specie, esaminare la qualità dei legami, il ruolo rivestito dai ricorrenti nei confronti del minore e la durata della convivenza tra loro ed il minore […]. 153. Sarebbe certamente poco opportuno definire una durata minima della convivenza necessaria per costituire una vita familiare de facto, visto che la valutazione di ogni situazione deve tenere conto della “qualità” del legame e delle circostanze di ciascun caso. […]». V. anche giurisprudenza citata nella nota n. 2.
[22] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif, cit., par. 46.
[23] V. G. Chiappetta, Il principio di proporzionalità strumento per ‘misurare’ il margine di apprezzamento statale nelle interferenze al rispetto della vita familiare, in G. Perlingieri e A. Fachechi (a cura di), Ragionevolezza e proporzionalità nel diritto contemporaneo, t. I, Napoli, 2017, pp. 201 e ss.
[24] Domanda di pronuncia pregiudiziale del 2 ottobre 2020, Causa C‑490/20, proposta dall’Administrativen sad Sofia‑grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria - V.М.А.) contro Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo» (Comune di Sofia, distretto di Pancharevo, Bulgaria); Domanda di pronuncia pregiudiziale del 4 gennaio 2021, causa C‑2/21, Rzecznik Praw Obywatelskich.
[25] S. Gambino, Metodo comparativo e tradizioni costituzionali comuni, in questa rivista.
[26] Conclusione dell’Avvocato Generale Juliane Kokott il 15 aprile 2021 Causa C‑490/20 V.М.А. contro Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo» (Comune di Sofia, distretto di Pancharevo, Bulgaria).
[27] Per una sintesi delle decisioni si rinvia a, C. Bidaud-Garon e A. Panet, Les domaines orphelins de l’autonomie de la volonté : quels ersatz, in L’autonomie, cit., p. 100. Il riconoscimento dello statuto giuridico ottenuto all’estero si fonda per la Corte di Strasburgo sulla necessità di tutelare i diritti garantiti dalla Convenzione. Diversamente, centrale nel diritto UE e nella giurisprudenza della Corte di giustizia è l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione. Il fondamento ultimo della giurisprudenza della Corte del Lussemburgo è la libertà degli individui di scegliere, tra leggi di differenti Stati, il loro statuto giuridico. Parla di «emancipation’s last stage would bring about the personne sans loi», T. Marzal Yetano, The costitutionalisation of party in European private international law, in J. PrivInt’l, vol. 6, 2010, p. 191, citato da P. Kinsch, Les fondaments, cit., p. 28 nota 45. Spiega l’estraneità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nella discussione sull’autonomia negoziale in materia di diritto internazionale privato della famiglia, P. Kinsch, Les fondaments, cit., p. 28 e s. L’A. esamina la giurisprudenza dei diritti dell’uomo mettendo in luce che il riconoscimento ‘imposto’ di situazioni non è animato dal ruolo attribuito all’autodeterminazione dell’individuo. Nella valutazione della Corte di Strasburgo vi è un elemento supplementare. Ad esempio, nei casi di maternità surrogata è il preminente interesse del bambino (sentenze Mennesson e Labassée c. Francia del 26 giugno 2014 n. 65192/11 e 65041/11).
[28] Grande Chambre, 10 avril 2019, Avis consultatif, cit., par. 40.
[29] Prospettiva di analisi indicata nel saggio di A. Gorassini, Cambio vita …. con morte, in corso di pubblicazione nella rivista La nuova giurisprudenza commentata che ho avuto il grande privilegio di leggere.
[30] Sulla qualificazione in termini di azioni di stato quelle contemplate negli att. 279 e 580 c.c., A. Palazzo, La filiazione fuori del matrimonio, Milano, 1965, p. 355; S. Stefanelli, Attribuzione di status e diritti del figlio non riconosciuto nell’ordinamento italiano, in Diritto e giustizia (Annuario giuridico dell’Università di Perugia), 2013, p. 375.
[31] Il secondo comma dell'art. 279 c.c. richiama l'autorizzazione prevista dall'art. 251 c.c. per il riconoscimento dei figli nati da relazioni parentali.
[32] Così, G. Lisella, "I diritti dei figli privi di stato": a proposito di un recente contributo, in Rass dir. civ., 1993, p. 376; F. Ruscello, La potestà dei genitori. Rapporti personali, in Comm. cc. Schlesinger, 2° ed., Milano, 2006, p, 278 e ss.
[33] F. Scia, Responsabilità civile e doveri genitoriali: le persistenti problematiche dell’art. 709-ter c.p.c., in Persona e Mercato, 4, 2020, p. 414 e ss. che esamina la Sentenza della Corte costituzionale 10 luglio 2020, n. 145.
[34] Punto 4 della più volte citata sentenza della Consulta n. 494 del 2002: “I figli nati fuori del matrimonio indicati nell’art. 251, primo comma, del codice civile, salvi i limitati casi ora menzionati, sono perciò privati della possibilità di assumere uno status filiationis. Essi non mancano totalmente di una tutela, essendo loro riconosciuta l’azione nei confronti dei genitori naturali per ottenere il mantenimento, l’istruzione e l’educazione o, se maggiorenni in stato di bisogno, per ottenere gli alimenti (art. 279, primo comma, del codice civile). In conseguenza del divieto di riconoscimento e di dichiarazione, però, nei loro confronti non possono operare infine le disposizioni relative alla successione dei figli naturali, che si applicano loro solo quando la filiazione sia stata riconosciuta o giudizialmente dichiarata (art. 573 del codice civile), essendo previsto invece che ai figli naturali aventi diritto al mantenimento, all’istruzione e alla educazione, a norma del ricordato art. 279 del codice civile, spetti un assegno vitalizio (artt. 580 e 594 cod. civ.)”.
[35] Sul punto si rinvia a V. Barba, La successione mortis causa, cit., p. 667.
[36] La disposizione accertava il fatto della procreazione quale mero presupposto dell’attribuzione di diritti di natura patrimoniale ed esistenziale del figlio nei confronti dei genitori, Cass. 24 gennaio 1986 n. 467 ed anche Cass. 2004 n. 6365, cit., nella quale ha sostenuto: "Il fatto materiale della procreazione naturale (accettabile anche incidenter tantum e svincolato dal riconoscimento formale del relativo status) costituisce l'antecedente giuridico immediato delle azioni attribuite al figlio naturale dall'art. 279 c.c., primo comma, e se questo dato è direttamente collegabile con l'art. 30 Cost., primo comma".
[37] La S.c. ha affermato che l'art. 279 c.c. va interpretato in base all'art. 30 Cost.: "Considerata ammissibile l'azione ex art. 279 c.c. anche nei casi in cui la paternità o la maternità del figlio fossero giudizialmente dichiarabili ma, in concreto, non dichiarate... in coerenza con la c.d. responsabilità da procreazione, sussistente verso ogni figlio in base all'art. 30 Cost., alla stregua del quale lo stesso art. 279 c.c. andrebbe interpretato". Così, Cass. 1° aprile 2004, n. 6365, cit.
[38] Sull’evoluzione che muove dalla famiglia-istituzione (atto-status-effetti) alle famiglie funzionali (affetto-rapporti-effetti), v. G. Chiappetta, La “semplificazione” della crisi familiare: dall’autorità all’autonomia, in P. Perlingieri e S. Giova (a cura di), Comunioni di vita e familiari tra libertà sussidiarietà e inderogabilità. Atti del 13° Convegno nazionale, Napoli, 2019. V. anche note nn. 2, 19 e 21.
[39] Corte cost. 26 settembre 1998, n. 347. Si tratta di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita eterologa, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali: “[…] è interesse del minore non vedersi privato del nome, dell'identità personale e della stessa possibilità di avere un padre; risponde a fondamentali principi costituzionali che ogni figlio abbia diritto ad essere mantenuto, istruito ed educato dai propri genitori, tali dovendosi considerare quelli che hanno preso la decisione della sua procreazione (di intenzione); mentre nessun rapporto di paternità potrebbe essere instaurato col padre biologico”.
[40] Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162.
[41] Corte cost. 25 giugno 2020, n. 127. La corrispondenza tra lo stato di figlio e la verità biologica, pur auspicabile, non è elemento indispensabile dello status filiationis: “Sul rilievo che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, siffatta evoluzione ha portato a negare l’assoluta preminenza del favor veritatis e ad affermare la necessità della sua ragionevole comparazione con altri valori costituzionali. In più occasioni, infatti, il legislatore, cui l’art. 30, quarto comma, Cost. demanda il potere di fissare limiti e condizioni per far valere la genitorialità biologica nei confronti di quella legale, ha attribuito prevalenza al consenso alla genitorialità e all’assunzione della conseguente responsabilità rispetto al favor veritatis”. Nell’apprezzamento giudiziale rientra il diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia.
[42] Cass. 3 aprile 2020, n. 7668, id. 22 aprile 2020, n. 8029; sulla surrogazione di maternità sul rifiuto di trascrizione dell'atto di nascita all'estero per il co-padre d'intenzione, Cass. SS.UU. 8 maggio 2019, n. 12193.
[43] Cass. 30 settembre 2016 n. 19599; id. 15 giugno 2017 n. 14878.
[44] Sentenza di inammissibilità che "non ha natura obbligante per il Giudice ordinario, offrendo solo una proposta metodologica", Cass. 17 maggio 2018 n. 12108.
[45] App. Cagliari, sez. prima, decreto di rigetto del 28 aprile 2021, inedita; Trib. Genova, decreto 4 novembre 2020. Sono richiamate nella sentenza della Consulta n. 32 del 2021, al punto 2.3.1, tra gli altri, Trib. di Brescia, decreto 11 novembre 2020, Trib. di Cagliari, sentenza n. 1146 del 28 aprile 2020, App. di Roma, decreto 27 aprile 2020.
[46] Sulla distinzione tra ordine pubblico interno ed internazionale, v. per tutti G. Perlingieri e G. Zarra, Ordine pubblico interno e internazionale tra caso concreto e sistema ordinamentale, Napoli, 2019. Sul punto v. anche M. C. Baruffi, Gli effetti della maternità surrogata al vaglio della Corte di cassazione italiana e di altre corti, in Riv. dir. intern. priv. e proc., 2, 2020, pp. 290 e ss., in particolare p. 294 e ivi ulteriore bibliografia.
[47] In totale contrasto con quanto affermato dalla Consulta che ritiene impraticabile la possibilità di applicazione degli artt. 8 e 9 l. 40/2004 per violazione dell’art. 5 della l. 40/2004 che tra i requisiti soggettivi ritiene l’eterosessualità dei genitori. Corte cost. n. 32 del 2021 punto n. 2.3.1. V. anche Cass. 22 aprile 2020 n. 8029 e Cass. 3 aprile 2020, n. 7668 che confermano tale interpretazione.
[48] Tra i tantissimi commenti, si v. per tutti M. C. Baruffi, Gli effetti della maternità surrogata, cit., passim; V. Barba, Ordine pubblico e gestazione per sostituzione. Nota a Cass. Sez. Un. 12193/2019, in GenIUS, 2019-2, p. 15 e ss.
[49] Corte cost. del 23 gennaio 2013 n. 7, sentenza del 23 febbraio 2012 n. 31 e sentenza del 28 novembre 2002 n. 494.
[50] Corte Strasburgo Valdis Fjölnisdottir e altri c. Islanda, sentenza del 18 maggio 2021, cit.
[51] Corte cost. del 22 novembre 2013 n. 278 e del 10 giugno 2014 n. 162. Sia consentito il rinvio a G. Chiappetta, I rapporti familiari nel dibattito costituzionale e nel pensiero di Fausto Gullo, in Fausto Gullo fra costituente e governo, Napoli, 1997, pp. 47 e ss.; Id, Anonimato e procreazione medicalmente assistita, in M. Comporti e S. Monticelli (a cura di), Studi in onore di Ugo Mejello, vol. I, 2005, pp. 383 e ss.; Id., Diritto a conoscere le origini, in E. Sgreccia e A. Tarantino (direzione di), Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, vol. IX, 2015; Id., Favor veritatis ed attribuzione dello status filiationis, Actualidad Jurica Ibroamericana, num. 4 ter, 2016.
[52] Regime differenziato messo in luce nel punto 4 della sentenza n. 494 del 2002 della Consulta.
L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006)
di Stefania Stefanelli
Sommario: 1.Fatti di causa - 2. Precedenti e ragioni della decisione - 3.Il convitato di pietra: la nascita attraverso gestazione per altri o altre.
1. Fatti di causa
Due uomini, cittadini statunitensi e residenti da oltre dieci anni negli USA, ottengono dalla Surrogate’s Court dello Stato di New York l’adozione piena di un bambino di pochi mesi, a seguito di indagine sull’idoneità degli adottanti ed avendo acquisito il consenso dei genitori biologici.
Uno degli adottanti è altresì cittadino italiano, e si vede negata dall’ufficiale dello stato civile di una cittadina milanese la trascrizione dell’atto di nascita del bambino. Il rifiuto è motivato dalla ritenuta competenza del Tribunale per i minorenni, trattandosi di adozione internazionale, ex art. 36, comma 4, l. adozione. Adita la Corte d’Appello di Milano ex art. 67 l. n. 218/1995, ritenendo che si trattasse invece di riconoscere il provvedimento straniero, in quanto produttivo di effetti non incompatibili con l’ordine pubblico, la Corte meneghina conferma la propria competenza ex art. 41, comma 1, l. 218/1995, rispetto al provvedimento di adozione di minore straniero, pronunciato in favore di cittadini stranieri, stabilmente residenti all’estero. Nel merito, verificate l’integrità del contraddittorio con i genitori biologici e la pronuncia nell’interesse del minore, la Corte ritiene che l’adozione non confligga coi principi di ordine pubblico internazionale, desumibili dalla Costituzione, dai Trattati fondativi dell’UE, dalla Convenzione Europea dei diritti umani e dalle altre Convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito. Desunta da tali fonti la clausola generale di preminente interesse del minore, ne disegna il contenuto nell’interesse a conservare in Italia lo status acquisito negli USA, in relazione al diritto alla continuità di cui agli artt. 13, comma 3, e 33, commi 1 e 2, l. 218/1995, ma anche al diritto alla vita privata e familiare, all’acquisto della cittadinanza italiana e delle tutele in cui si sostanzia la responsabilità genitoriale. A tanto non osta l’identità di sesso degli adottanti, né il difetto di un vincolo coniugale tra gli stessi.
Ricorre per cassazione il Sindaco, quale ufficiale di Governo, e la prima sezione civile rimette alle S.U., come questioni di massima importanza, due quesiti, attinenti: 1) alla esatta definizione, in materia di adozione legittimante, del limite di ordine pubblico, con riguardo al disfavore all’accesso per le coppie omosessuali, espresso dalle disposizioni che lo limitano alle coppie eterosessuali coniugate (art. 6 l. 184/1983 e art. 1, comma 20, l. 76/2016) e dalla giurisprudenza che limita la genitorialità sociale della coppia maschile alla sola adozione in casi particolari (Cass. S.U. 12193/2019, in fattispecie di nascita attraverso surrogazione materna); 2) alla necessità di sottoporre a vaglio, secondo il criterio di ordine pubblico, la valutazione estera di adottabilità del minore, con particolare riguardo al consenso espresso dai genitori biologici.
2.Precedenti e ragioni della decisione
Decidendo sull’eccezione di incompetenza, le S.U. aderiscono all’orientamento della Consulta (Corte Cost. n. 76/2016), escludendo la competenza del Tribunale per i minorenni quando il provvedimento straniero di adozione non venga richiesto da cittadini italiani che, trasferendo fittiziamente la residenza all’estero, mirano ad eludere la disciplina nazionale sull’adozione di minori in stato di abbandono. Per tale ragione, il riconoscimento in Italia degli effetti della pronunciata adozione è regolato dall’art. 41, comma 1, della l. d.i.p. (e non dal secondo comma, sull’applicazione della l. adozione) che rinvia agli artt. 64, 65 e 66 della stessa l., in materia di efficacia di sentenze e provvedimenti stranieri, imponendo il controllo del rispetto delle garanzie processuali del contraddittorio, della conformità alla lex loci, e del limite di ordine pubblico.
Tornando di conseguenza sulla nozione di ordine pubblico internazionale dopo appena due anni, sollecitate dal Procuratore generale a riflettere se ne costituisca parte il modello di unione matrimoniale disegnato dall’art. 29 Cost., esattamente delimitando l’ambito della valutazione agli effetti del provvedimento da riconoscere (rimanendo esterna al sindacato la conformità della legge straniera a quella nazionale, cfr. art. 18 D.P.R. 396/2000 e art. 64, lett. g, l. 218/1995, come avevano statuito con sent. 11601/2017), le S.U. ne definiscono «i limiti non oltrepassabili, costituiti dai principi fondanti l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori (…); dal principio del preminente interesse del minore (…); dal principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico nonché relazionale sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; dal principio solidaristico che è alla base della genitorialità sociale» (par. 17.3).
È, dunque, rispetto a tale cornice che la decisione in commento afferma la compatibilità degli effetti del provvedimento straniero di adozione parentale, id est la costituzione dello stato di figlio degli adottanti, nella sua pienezza e non, invece, nella forma più limitata che deriverebbe – secondo l’opinione prevalente[1] – da una adozione in casi particolari, che abbiamo già definito genitoriale[2], in ragione del richiamo contenuto nell’art. 55 l. 184/1983 all’art. 330 c.c., e dell’equivoco testo del novellato art. 74 c.c.
Ancora una volta l’ordine pubblico è inteso come limite all’applicazione della legge straniera, ma anche nella sua funzione di promozione e tutela dei diritti fondamentali della persona attraverso i principi di diritto dell’UE, delle Convenzioni internazionali a cui l’Italia ha aderito, come interpretati dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, da sintetizzarsi con il quadro assiologico dettato dalla Costituzione e innervato dalla legislazione nazionale.
Al pari del caso deciso da Cass. 14007/2018 – adozione incrociata pronunciata in Francia dei figli di due cittadine francesi residenti in Italia – l’adozione non consegue a un contratto di surrogacy, e quindi la realizzazione dell’interesse del minore a vedersi riconosciuto lo status filiationis, che realizza il suo diritto all’identità, alla continuità delle relazioni familiari e alla protezione dell’affettività consolidata, non trova ostacolo alcuno.
3.Il convitato di pietra: la nascita attraverso gestazione per altri o altre
Aderendo esplicitamente a S.U. 12193/2019, la pronuncia in commento ribadisce dunque che «il limite, dovuto alla contrarietà ai principi di ordine pubblico internazionale, al riconoscimento di status genitoriali contenuti in provvedimenti esteri, richiesti da componenti di coppie omoaffettive, è stato individuato esclusivamente nel ricorso alla gestazione per altri, limite peraltro comune anche alle coppie eterosessuali» (par. 17.3), «pur essendo espressamente previsto che il preminente interesse del minore possa essere garantito, anche in questa ipotesi, mediante l’adozione in casi particolari. Ma il modello adottivo gradato è esclusivamente conseguenza del grave disvalore ricondotto, dalle S.U., alla scelta della gestazione per altri e alla necessità di trovare un bilanciamento che tenga conto di questa valutazione» (par. 17).
In ragione di questo orientamento, può essere trascritto l’atto di nascita formato all’estero nei confronti del genitore che abbia un legame genetico col bambino nato da gestazione per altri, mentre all’altro o all’altra componente della coppia, che a pari titolo ha aggirato all’estero il divieto di surrogazione di maternità sanzionato dall’art. 12, comma 6, l. 40/2004, scelta che l’ordinamento intende disincentivare proprio impedendo agli adulti di ottenere, attraverso la trascrizione immediata, la realizzazione del proprio progetto di genitorialità.
Del «difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori» … «al riconoscimento giuridico del rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale» la Consulta ha recentemente fatto carico «in prima battuta» al legislatore, perché individui una soluzione «nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore»[3].
L’adozione in casi particolari, infatti, costituisce uno status sui generis, non solo per il dubbio se sia idonea o meno a costituire legami di parentela, ma soprattutto in quanto richiede l’impulso di parte e l’assenso del genitore con cui esiste un legame biologico (e che, perciò, è anche genitore legale), dipende dall’apprezzamento giudiziale della realizzazione degli interessi del minore e dunque soggiace ai tempi del processo, ed in ogni caso è revocabile per gravi motivi (art. 51 l. 184/1983).
Nella prospettiva paidocentrica presa in considerazione dalla Corte costituzionale (quella del minore, estraneo e in alcun modo responsabile del comportamento degli adulti grazie al quale ha visto la luce), è indiscutibile l’interesse a che sia affermata la titolarità giuridica dei doveri di cui agli art. 30 Cost. e 24 Carta di Nizza in capo a coloro che, con la propria libera decisione, si sono impegnati ad accoglierlo, assumendone le relative responsabilità (cfr. Corte Cost. n. 347/1998, in cui si legge l’antecedente logico degli artt 7 e 8 l. 40/2004).
Se, dunque, la novella auspicata dovesse incidere sull’adozione, non è dubbio che «essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame», a partire dalla previsione di uno strumento alternativo al ricorso di parte, che consenta al curatore del minore di legare il genitore di intenzione alle proprie responsabilità.
Lo nota anche l’opinione concorrente del giudice Lemmens rispetto alla decisione con cui la Corte Europea dei diritti dell’uomo, esaminando il rifiuto islandese di trascrivere l’atto di nascita da gestazione per altri in difetto di legame genetico con entrambe le madri intenzionali, ha ritenuto che la decisione rientrasse nella discrezionalità riconosciuta agli Stati dall’art. 8, rispetto alle limitazioni del diritto alla vita familiare che realizzano, secondo i criteri di necessità e proporzionalità, un concorrente scopo legittimamente perseguito dal legislatore, come quello di disincentivare il ricorso alla g.p.a., vietata anche in Islanda[4].
Sussisteva, nel caso di specie e a differenza del caso Paradiso e Campanelli c. Italia[5], una vita familiare in atto, ma non era stata lesa la posizione del bambino in quanto, attraverso dei provvedimenti sull’affidamento, era stata assicurata la stabilità delle relazioni sociali con le sue madri intenzionali, sebbene non fosse stato riconosciuto il suo legame di filiazione con loro, a dispetto dell’atto di nascita californiano.
La Corte di Strasburgo liquida in poche battute la censura riguardante il distinto diritto del bambino alla vita privata, affermandone la coincidenza con quanto lamentato rispetto alla lesione della vita familiare, ma si tratta di pretese diverse, in accordo con l’opinione ricordata, sebbene trovino entrambe garanzia nell’art. 8 CEDU, ed è il rispetto della vita privata ad imporre il riconoscimento di un legame giuridico con i genitori intenzionali.
Il rispetto della vita privata del bambino impone infatti, come statuiva l’Avis consultatif reso dalla Grande Chambre il 10 aprile 2019 a definizione del caso Mennesson c. Francia, ma anche nel caso D. contro Francia[6], di ripensare il limite del legame biologico quale discrimine rispetto alla trascrivibilità dell’atto di nascita da g.p.a. formato all’estero.
Non vi è chi non veda, con il giudice Lemmens, che «l’impatto sulla posizione del bambino o della bambina è il medesimo, a prescindere dal fatto che uno o entrambi i genitori intenzionali abbiano o meno un legame biologico con lui o con lei»[7].
Ed è altrettanto evidente, alla luce dei fatti esaminati dalla Corte di Strasburgo e dalla Corte costituzionale, che «l’adozione non è sempre una soluzione per tutte le difficoltà che il bambino o la bambina possono sperimentare».
Per altro verso, è difficile comprendere come l’esclusione della trascrizione dell’atto di nascita verso il genitore che non sia anche genetico possa tutelare la gestante, o almeno avere effetti disincentivanti rispetto al ricorso alla gestazione per altri, quando si osserva che la costituzione di uno status di genitore può essere raggiunta comunque attraverso la sentenza di adozione in casi particolari, a meno di ammettere – in contrasto con l’art. 3 Cost. – che attivarsi in questo senso richiede anche significative disponibilità finanziarie.
Infine, si consideri che un atto di nascita da surrogazione di maternità della cui trascrizione si potrebbe in futuro discutere potrebbe in ipotesi essere formato nei Paesi dell’Unione Europea nei quali la pratica è ammessa, come il Belgio, e che in tal caso rileverebbe non solo l’art. 8 della Convenzione di New York rispetto al diritto del fanciullo a vedere preservate le proprie relazioni familiari, ma anche il principio di circolazione dei provvedimenti nell’Unione Europea. Non sarebbe esclusa, dunque, la scelta di chiamare a pronunciarsi, per interpello, la Corte di Giustizia.
[1] Cfr. anche Corte Cost. n. 32/2021, che definisce quantomeno controversa l’applicazione dell’art. 74 c.c., sulla parentela adottiva.
[2] A. Sassi, F. Scaglione, S. Stefanelli, La filiazione e i minori, in Tratt. dir. div. Sacco, II ed., 2018, 21 ss.; 279 ss., cui si rinvia per approfondimenti, anche bibliografici.
[3] Corte Cost. 9 marzo 2021, n. 33, in Famiglia e diritto, 2021, 684 ss., con note di M. Dogliotti e G. Ferrando; in questa Rivista, con note di A. Morace Pinelli https://www.giustiziainsieme.it/it/news/129-main/minori-e-famiglia/1703-la-corte-costituzionale-interviene-sui-diritti-del-minore-nato-attraverso-una-pratica-di-maternita-surrogata-brevi-note-a-corte-cost-9-marzo-2021-n-33 e G. Ferrando https://www.giustiziainsieme.it/it/news/129-main/minori-e-famiglia/1667-il-diritto-dei-figli-di-due-mamme-o-di-due-papa-ad-avere-due-genitori-un-primo-commento-alle-sentenze-della-corte-costituzionale-n-32-e-33-del-2021.
[4] Corte EDU, 18 maggio 2021, Valdís Fjölnisdóttir and others V. Iceland, Application no. 71552/1.
[5] Corte EDU, Grande Chambre, 24 gennaio 2017, Application no. 25358/12.
[6] Corte EDU, 16 luglio 2020, Application no. 11288/18, § 54: «lorsqu’un enfant est né à l’étranger par gestation pour autrui et est issu des gamètes du père d’intention, le droit au respect de la vie privée de l’enfant requiert que le droit interne offre une possibilité de reconnaissance d’un lien de filiation entre l’enfant et le père d’intention et entre l’enfant et la mère d’intention, qu’elle soit ou non sa mère génétique».
[7] In continuità con B.G.H., 12ª Sez. civ., 10 dicembre 2014, in personaedanno.it, su cui M. MASI, Coppie omosessuali e ricorso alla surrogacy in uno stato estero: apertura dalla Germania, in GenIus, 2015, 2, 214 ss.; cfr. anche S. Stefanelli, Procreazione medicalmente assistita e maternità surrogata, Milano, 2021, 155 ss.
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