La Corte di Giustizia sceglie tra tutela del consumatore e certezza del diritto
Riflessione sulle sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Camera della CGUE
di Franco De Stefano
1. Si vuole prendere in considerazione, a titolo di riflessione senza pretesa di dignità dogmatica e scientifica ed in attesa degli opportuni approfondimenti in dottrina e giurisprudenza, l’impatto delle quattro sentenze del 17 maggio 2022 della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di rilievo dell’abusività delle clausole in danno del consumatore:
a) causa C-600/19 Ibercaja Banco
b) cause riunite C-693/19 SPV Project 1503, C-831/19 Banco di Desio e della Brianza
c) causa C-725/19 Impuls Leasing România
d) causa C-869/19 Unicaja Banco
Tutte queste, fermo il riconoscimento della valenza del giudicato anche in materia consumeristica (per tutte, vedi punti 57 e 58 di BancoDesio, ma anche i corrispondenti passaggi delle altre; e comunque occorrendo ribadire il punto anche in base ad altre pronunce della stessa CGUE), giungono alla conclusione che il giudicato non si forma sull’assenza di carattere abusivo di una clausola, se, in un procedimento sommario, non vi sia una anche solo sommaria motivazione e manchi l’indicazione della definitività di tale conclusione in caso di mancata contestazione: con la conseguenza, specificamente indicata per l’ordinamento italiano, che il giudice dell’esecuzione (così invadendo l’autonomia processuale del singolo Stato) possa rilevare l’abusività della clausola, non essendogli tanto precluso dalla definitività del decreto ingiuntivo non opposto.
2. Le pronunce della CGUE potrebbero essere sintetizzate nella formula che il giudicato – o l’analoga figura della preclusione pro iudicato pure avanzata in dottrina – derivante da mancata opposizione del decreto ingiuntivo continua a coprire quanto espressamente dedotto ma non copre più anche tutto il deducibile, poiché ne sono escluse, quanto a quest’ultimo, le questioni in tema di tutela del consumatore secondo la disciplina eurounitaria.
La tematica involge la c.d. cedevolezza del giudicato nazionale – non nuova nell’esperienza anche italiana, come dimostra il caso Olimpiclub di qualche anno fa, ma assurta ora ad un’importanza inusitata per l’ampiezza delle ricadute delle ultime affermazioni – dinanzi alla normativa eurounitaria e, stavolta, di quella a tutela del consumatore, qualificata inderogabile dalla CGUE.
Le quattro sentenze del 17 maggio 2022 impattano in modo dirompente su consolidati principi, quali:
- La tradizionale ricostruzione del decreto ingiuntivo (definitivo o meno) in termini di titolo esecutivo giudiziale e non stragiudiziale
- La tradizionale ricostruzione in termini di giudicato formale e sostanziale del decreto ingiuntivo non opposto (o nella in tutto equivalente preclusione pro iudicato)
- La preclusione, ad opera del giudicato, non solo di quanto sia stato dedotto, ma pure di quanto sarebbe stato deducibile
- L’impossibilità radicale, per il giudice dell’esecuzione in sede esecutiva, di sindacare il merito del titolo esecutivo giudiziale
- L’intangibilità assoluta, da parte del giudice dell’esecuzione anche quale giudice dell’opposizione a quest’ultima, del titolo esecutivo giudiziale per fatti anteriori alla sua definitività, da farsi valere solamente davanti al giudice delle impugnazioni del titolo stesso.
L’intera riflessione può suddividersi in due grandi tematiche, cioè sulle ricadute de futuro e su quelle de praeteritu, con la notazione che quelle relative al passato si possono riproporre per il futuro ove nessuna soluzione si adotti dai richiedenti e dai concedenti i decreti ingiuntivi prossimi venturi.
3. Quale premessa ad ogni sforzo ricostruttivo, può anticiparsi che una soluzione può profilarsi de futuro, comunque non senza problemi per il caso in cui essa non fosse in concreto applicata, ma enormi sono le difficoltà de praeteritu, dinanzi ad un numero tendenzialmente indefinito di decreti ingiuntivi mai opposti che potrebbero implicare la relativa questione.
Prima di illustrare l’una e le altre, occorre però valutare quali reazioni potrebbero trovare luogo; e pare possibile individuare questi sviluppi:
a) La norma eurounitaria scardina principi processuali da qualificarsi di ordine pubblico o perfino connotanti la tradizione giuridica nazionale, quanto meno con riferimento alla certezza del diritto e al giudicato da provvedimento giurisdizionale definitivo, idonei a contrapporsi come tali al diritto eurounitario: sarebbe ipotizzabile investire la Corte costituzionale per invocare, se non l’attivazione dei controlimiti (ciò che finora è successo per situazioni obiettivamente eclatanti), quanto meno la verifica della tenuta della norma processuale così ridisegnata ai principi fondamentali dell’ordinamento nazionale;
b) La norma eurounitaria scardina principi processuali da qualificarsi di ordine pubblico o perfino connotanti la tradizione giuridica nazionale, idonei a contrapporsi come tali al diritto eurounitario: sarebbe necessario investire nuovamente la Corte di giustizia, chiedendole di puntualizzare la sua pronuncia in considerazione del valore irrinunciabile del giudicato (quanto meno quello implicito “consapevole”, cioè seguito ad una informata inerzia dell’interessato, la cui tutela non è incondizionata ed illimitata) per il nostro ordinamento;
c) La norma eurounitaria introduce un nuovo concetto di giudicato e di titolo esecutivo giudiziale, escludendo il giudicato implicito e l’estensione dell’esecutività del titolo quando si tratta di clausole abusive per il consumatore non sottoposte al suo contraddittorio: ed impone un adeguamento, per quanto complesso ed articolato, del nostro sistema processuale; e tuttavia questo sarebbe impossibile senza un intervento da parte della Consulta (ad esempio, intervenendo in via additiva sugli strumenti già a disposizione, di cui al punto successivo: artt. 650 o 654 o 656-395 cpc);
d) La norma eurounitaria introduce un nuovo concetto di giudicato e di titolo esecutivo giudiziale, escludendo il giudicato implicito e l’estensione dell’esecutività del titolo quando si tratta di clausole abusive per il consumatore non sottoposte al suo contraddittorio: ed impone un adeguamento, per quanto complesso, del nostro sistema processuale, possibile anche in via interpretativa da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, con intervento in via manipolativa – e lato sensu creativa – degli strumenti esistenti o, in ultima analisi, con la devoluzione ad un’ordinaria azione di accertamento.
Le prime tre opzioni hanno notevoli implicazioni sistematiche e ciascuna offre aspetti positivi e negativi, tuttavia tutti che trascendono l’aspetto tecnico-giuridico.
4. Ove si desse per scontata l’ineluttabilità di un adeguamento in via di interpretazione del sistema esistente (in accettazione – che, de iure condito ed allo stato attuale, appare doverosa – dei penetranti dicta della Corte di Giustizia), si dovrebbe poi operare un’altra scelta di principio sui valori da preservare, tra cui, soprattutto, i consolidati principi, che ben potrebbero dirsi di ordine pubblico processuale: quello dell’intangibilità del titolo esecutivo giudiziale definitivo e del giudicato, cui è funzionale la separazione tra cognizione (e titolo esecutivo giudiziale) ed esecuzione.
E deve poi ammettersi che nessuna delle opzioni ricavabili in via ermeneutica, se non altro di quelle su cui finora ci si è potuti soffermare, per l’adeguamento del sistema risulta appagante, pienamente compatibile con la lettera delle norme nazionali vigenti o perfino accettabile per le ricadute sul sistema attuale e di prossima evoluzione.
5. L’adeguamento puntuale alle pronunce del Kirchberg de futuro può forse risolversi con l’obbligo – derivante direttamente dalla normativa eurounitaria – per il giudice del monitorio dell’inserimento di una duplice clausola nel decreto ingiuntivo (che non risultano elementi in base ai quali reputare violata la normativa eurounitaria in materia di tutela del consumatore; che quest’ultimo sia espressamente avvisato che, in difetto di opposizione tempestiva, sarà definitivamente acquisito che non vi è stata violazione di tale normativa), se del caso mediante rinvio alle allegazioni che sul punto il creditore ingiungente è tecnicamente onerato di fare, o, in mancanza, su impulso del giudice ex art. 640 cpc anche a produrre la documentazione necessaria. Ove manchino tali menzioni, si potrebbe pensare ad un’opposizione ordinaria da parte del debitore, ma pure ad un’azione del creditore per integrare – soprattutto se era stata chiesta ed è mancata in concreto – l’ingiunzione con tale indagine specifica; in mancanza dell’una o dell’altra, si riproporrà anche per il futuro la problematica per il passato di cui appresso.
Le questioni della violazione della normativa a tutela del consumatore, pertanto, se non risulti che ve ne sia stata una delibazione anche sommaria o la loro sottoposizione al contraddittorio anche del consumatore mediante il chiaro avviso all’ingiunto che in mancanza di opposizione esse non potrebbero rimettersi in discussione, non solo NON sono coperte dal giudicato, ma neppure si estende ad esse l’accertamento del titolo esecutivo giudiziale. Anzi, il titolo esecutivo giudiziale costituito dal decreto ingiuntivo non opposto non copre tale questione, che quindi resta aperta e rilevabile anche successivamente.
Tanto significa che, se la questione è anche solo sommariamente motivata e vi è stato un monito sulla irretrattabilità della conclusione sul punto in mancanza di opposizione nel termine (sentenza Ibercaja, punti 51[1] e 56 e prima massima), non vi è più spazio per successive contestazioni.
6. E tuttavia, in mancanza di tanto, o comunque de praeteritu, il vero problema nasce dal fatto che la C-693/19 (SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza e a.) conclude espressamente nel senso che su di un decreto ingiuntivo che non abbia affrontato la questione dell’abusività delle clausole in danno del consumatore il giudice dell’esecuzione debba potere valutare, anche per la prima volta, il carattere abusivo, ove – deve ritenersi coordinando i principi espressi – ne sia mancato un anche solo sommario esame nel giudizio del merito con menzione dell’onere di tempestiva opposizione sull’esclusione dell’abusività; e tanto col solo limite che il bene sia stato già trasferito a terzi, nel qual caso deve residuare una tutela risarcitoria in altra sede (vedi C-600/19 Ibercaja, punto 59[2]).
L’applicazione pedissequa e non elusiva del principio devolverebbe al giudice dell’esecuzione la potestà (e quindi il potere-dovere) di esaminare per la prima volta l’abusività delle clausole; le sentenze parlano di giudice dell’esecuzione, ma al tempo stesso il principio di autonomia processuale (Banco di Desio, punto 55[3]) autorizza il mantenimento della linea del Piave della necessaria separazione tra esecuzione e cognizione e, quindi, consente una articolazione dei rimedi processuali all’ordinamento del singolo Stato membro.
Per raggiungere tale risultato dovrebbero coordinarsi:
- la necessità imprescindibile di mantenere la ferma distinzione tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione dinanzi ad un titolo esecutivo giudiziale, che può dirsi di ordine pubblico processuale;
- i principi generali di scissione tra allegazione, rilievo ed avvio dell’azione di cognizione indispensabile per vanificare il titolo esecutivo giudiziale.
7. Si potrebbe allora ipotizzare, fermo il limite preclusivo del già avvenuto trasferimento del bene (Unicaja punto 59, sicché in tali casi residuerebbe soltanto una tutela risarcitoria), un rilievo, da parte del g.e. in sede esecutiva, d’ufficio o su sollecitazione anche non formale (semplice ricorso, non necessariamente opposizione) del debitore, del mancato esame dell’abusività delle clausole.
Si apre, però, in tal modo uno scenario diversificato, essendosi pensato via via:
- Ad un’ipotesi di 656 c.p.c. e quindi di 395 extra ordinem: qui le perplessità derivano dalla conclamata necessità, ai fini dell’ampliamento di quel catalogo, di interventi legislativi (si veda la riforma ex lege 206/21 sulla nuova ipotesi di revocazione per contrarietà a sentenza CEDU) o almeno della Consulta (sentenze nn. 17/86, 36/91, 51/95, 558/99);
- Ad un’ipotesi di 650 c.p.c. del pari extra ordinem, in cui il termine decorra quanto meno dal rilievo da parte del g.e. e non sia ostacolato dalla preclusione dell’inizio dell’esecuzione da oltre dieci giorni; e qui le perplessità sono nel superamento dei detti termini, conseguibile con la creativa configurazione - quale causa di forza maggiore! - del rilievo del giudice;
- Ad un’ipotesi di 654 c.p.c. pure questa extra ordinem, in cui si onera di fatto il creditore di munirsi di un ulteriore accertamento per fare conseguire, definitivamente, l’esecutorietà al d.i., avverso il quale sarebbe però poi almeno riattivata la possibilità per l’ingiunto di dispiegare opposizione, stavolta ordinaria; e qui le perplessità derivano dalla natura meramente formale del controllo in genere esercitato in quella sede e dalla sua non azionabilità nei casi in cui il provvedimento sia già stato reso;
- Ad un’ipotesi di opposizione esecutiva (ai sensi dell’art. 615 cpc), in cui il debitore può rimettere in gioco un titolo esecutivo giudiziale definitivo, ma che sarebbe essa stessa extra ordinem: infatti, tanto è normalmente riservato al giudice della cognizione sul titolo stesso (a differenza del titolo esecutivo stragiudiziale, che può essere rimesso in discussione, proprio perché manca un preventivo accertamento giudiziale, appunto in sede di opposizione ad esecuzione), a meno di non volere stravolgere anche i principi in tema di decreto ingiuntivo e degradarlo, per questo, a titolo esecutivo stragiudiziale (come pare avere dato per presupposto la stessa CGUE, non appieno informata delle caratteristiche di quell’istituto processuale) o di ritenere che il controllo ufficioso del giudice dell’esecuzione sull’esistenza stessa del titolo possa spingersi al merito del medesimo ed al riscontro dei suoi vizi anteriori alla sua formazione, che, com’è noto, sono sempre stati rimessi al giudice della cognizione che avrebbe potuto o dovuto pronunciarsi sulla sua validità;
- infine, un’ordinaria azione di accertamento, che inizi dal primo grado e davanti al giudice ordinariamente competente per territorio, materia e valore, nel cui corso si accerti, siccome non coperto dal giudicato, il carattere abusivo di una o più clausole a danno del consumatore (la buona vecchia querela o actio nullitatis, ammessa per ossequio al dictum della CGUE): e nella quale la sospensione (esterna) del titolo giudiziale può conseguirsi almeno ex art. 700 c.p.c. con provvedimento vincolante per il singolo processo esecutivo ed il coordinamento con il quale potrebbe avvenire con un rinvio tecnico per consentire il dispiegamento di tale azione.
8. Deve dirsi preferibile, nonostante le aporie ma in considerazione di quelle più gravi delle altre soluzioni, la devoluzione ad altra sede della rimessione in discussione del titolo stesso con l’adduzione dei fatti impeditivi lasciati impregiudicati dalla CGUE in tema di abusività, ma davanti allo stesso giudice che lo ha pronunciato, che sarebbe pur sempre uno ed uno solo, come in ogni ipotesi eccezionale di rimessione in discussione di titoli esecutivi giudiziali; e tanto per salvaguardare la sottrazione al giudice dell’esecuzione di ogni ingerenza, anche a titolo di giudice di opposizione ad esecuzione, sul titolo giudiziale, a garanzia del giudicato su titolo esecutivo giudiziale e del resto in un sistema che altrimenti vedrebbe devoluto ad una pletora indefinita di potenziali giudizi – dinanzi a ciascuno dei giudici dei processi esecutivi potenzialmente avviabili in forza di quel titolo giudiziale e con esponenziale incremento del loro carico di lavoro – il rischio di interventi caotici e diversificati.
9. La provvisoria conclusione di tali modeste riflessioni è che, forse, in un caso come questo, sarebbe davvero inevitabile l’intervento del legislatore (introducendo un’ipotesi di revocazione straordinaria o di opposizione tardiva altrettanto straordinaria, semmai proprio con la prima legge europea a disposizione, a rimarcare la conseguenzialità della scelta rispetto alle pronunce europee), a disciplinare – non dissimilmente dalle iniziative in tal senso adottate da altri Paesi Membri dell’Unione – le ricadute di così ampia portata sull’ordinamento nazionale di queste importantissime pronunce del Kirchberg; ma, in attesa o in mancanza di questo, un importantissimo ruolo gioca la riflessione che l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura, in ogni sua articolazione, potrà sviluppare sul punto, a difesa di valori comuni, quali la certezza del diritto, che costituiscono la ragione stessa della giurisdizione e la prima garanzia offerta all’ordinata convivenza dei consociati.
[1] Per contro, si deve ritenere che tale tutela sarebbe garantita se, nell’ipotesi di cui ai punti 49 e 50 della presente sentenza, il giudice nazionale indicasse esplicitamente, nella sua decisione di autorizzazione dell’esecuzione ipotecaria, di aver proceduto a un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole del titolo all’origine del procedimento di esecuzione ipotecaria, che detto esame, motivato almeno sommariamente, non ha rivelato la sussistenza di nessuna clausola abusiva e che, in assenza di opposizione entro il termine stabilito dal diritto nazionale, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di siffatte clausole.
[2] Di conseguenza, si deve rispondere alla quarta questione dichiarando che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13 devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che non autorizza un organo giurisdizionale nazionale, che agisce d’ufficio o su domanda del consumatore, a esaminare l’eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali quando la garanzia ipotecaria sia stata escussa, il bene ipotecato sia stato venduto e i diritti di proprietà relativi a tale bene siano stati trasferiti a un terzo, purché il consumatore il cui bene è stato oggetto di un procedimento di esecuzione ipotecaria possa far valere i suoi diritti in un procedimento successivo al fine di ottenere il risarcimento, ai sensi della direttiva in parola, delle conseguenze economiche risultanti dall’applicazione di clausole abusive.
[3] Se è vero che la Corte ha pertanto già inquadrato, in più occasioni e tenendo conto dei requisiti di cui all’articolo 6, paragrafo 1, e dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il modo in cui il giudice nazionale deve assicurare la tutela dei diritti che i consumatori traggono dalla direttiva in parola, ciò non toglie che, in linea di principio, il diritto dell’Unione non armonizza le procedure applicabili all’esame del carattere asseritamente abusivo di una clausola contrattuale, e che tali procedure rientrano dunque nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in forza del principio dell’autonomia processuale di questi ultimi, a condizione, tuttavia, che esse non siano meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C 407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46 nonché giurisprudenza ivi citata).